2009

Ex parte populi. Per una teoria impura dei diritti (*)

Luca Baccelli

Nonostante gli innumerevoli tentativi di analisi definitoria, il linguaggio dei diritti resta molto ambiguo, poco rigoroso e spesso usato retoricamente (Norberto Bobbio, L'età dei diritti).

Tecla Mazzarese è intervenuta nella discussione sulla teoria dei diritti soggettivi (1) prendendo spunto dalle Tanner Lectures di Michael Ignatieff. Il suo obiettivo polemico è la "dilagante retorica dell'antiretorica dei diritti", che individua l' "inflazione dei diritti" come principale ragione della "crisi dell'età dei diritti" (2). In questo contributo cercherò di sostenere tesi vicine a quelle di Mazzarese, ma a partire da argomenti differenti. Per arrivare più o meno allo stesso punto seguirò per così dire un percorso diverso dal suo, utilizzando altri mezzi di trasporto. Cercherò di mostrare che per rivendicare il valore storico dell' età dei diritti, per difendere l'inclusione dei diritti di seconda generazione - i diritti economici e sociali - fra i diritti fondamentali, per argomentare l'universalizzazione dei diritti umani al di là della loro origine culturale, non si può fare a meno della retorica e comunque occorre rinunciare alle istanze di "purezza" teorica.

1. Antiretorica: purezza metodologica e sobrietà concettuale

L'antiretorica ha segnato gran parte del dibattito novecentesco sui diritti in ambito teorico-giuridico e metaetico. Un dibattito orientato dalla ricerca della chiarezza concettuale e dall'istanza della purificazione del linguaggio.

1.1. Kelsen: l'esigenza di "purezza" teorica

Un'istanza antiretorica è evidente nella "teoria pura del diritto" di Hans Kelsen. Per Kelsen la contrapposizione fra diritto pubblico e diritto privato, individuo e comunità, diritto e Stato è l'espressione di un "dualismo ideologico" che trova le sue origini nella tradizione giusnaturalistica (3). Caso esemplare di questo dualismo è per Kelsen la giustapposizione del diritto soggettivo al diritto oggettivo. Ancor più estranea all'approccio della dottrina pura è l'idea che il diritto soggettivo sia antecedente e prioritario rispetto al dovere; per Kelsen si tratta di una dottrina errata, per quanto costituisca una ideologia "del massimo significato politico" (4): "nessuno può attribuirsi da solo i propri diritti, perché il diritto dell'uno esiste solo presupponendo il dovere dell'altro" (5). Il diritto soggettivo, infatti, "è necessariamente un diritto al comportamento di qualcun altro" (6).

Fin tanto che un diritto soggettivo non è stato "garantito" dall'ordinamento giuridico [...] esso non è ancora un diritto vero e proprio. Esso viene trasformato in un diritto vero e proprio dalla garanzia dell'ordinamento giuridico. Ciò significa che il diritto oggettivo precede quelli soggettivi o è loro concomitante (7).

Per Kelsen la libertà giuridica di un soggetto è il vincolo di un altro, il diritto di un soggetto il dovere di un altro. Il diritto soggettivo è insomma costituito dal riconoscimento e dalla garanzia da parte dell'ordinamento. L'idea di una priorità dei diritti soggettivi è pertanto insostenibile. Infatti, "Il carattere giuridico di un fenomeno non è percepibile dai sensi". Ad esempio, il giudizio di valore sulla titolarità del diritto a possedere una cosa è possibile solo se vi è una norma valida sul possesso: "senza presupporre un norma generale regolante il comportamento umano, non è possibile nessuna proposizione relativa all'esistenza o meno di diritti soggettivi" (8).

Per Kelsen la stessa definizione del diritto come "interesse protetto" è scorretta. Ciò che rende tale il diritto non è la presunzione che un soggetto abbia un determinato interesse, ma il fatto che esso sia giuridicamente protetto, cioè il fatto che l'ordinamento preveda una sanzione in determinati casi che configurano la violazione del diritto.

Il diritto soggettivo si identifica dunque per Kelsen con la possibilità giuridica di mettere in moto la sanzione; l'elemento del dovere è necessariamente connesso alla norma giuridica: la norma definisce sempre un dovere e in certi casi può anche statuire un diritto, "mettendosi a disposizione" del soggetto, cioè individualizzandosi in rapporto alla parte lesa. Si parla sensatamente di diritto soggettivo quando l'esecuzione della sanzione dipende da una espressione di volontà.

Il diritto soggettivo come attribuzione di diritti sta di fronte al diritto oggettivo non come qualcosa da esso indipendente, poiché qualcosa di simile al diritto soggettivo esiste solo e in quanto sia prescritta dal diritto oggettivo. Il diritto soggettivo è solo una possibile e niente affatto necessaria conformazione di contenuto del diritto oggettivo, una tecnica particolare, della quale il diritto può servirsi ma non è affatto necessario che si serva (9).

Per Kelsen l'idea di una priorità del diritto soggettivo sul dovere è priva di senso. Ma questo finisce per configurare, se non una priorità del dovere sul diritto, una sorta di assorbimento del diritto soggettivo nel diritto oggettivo: "il diritto soggettivo, non è, in breve, che il diritto oggettivo" (10). Si tratta di una posizione del tutto coerente con la logica della teoria pura kelseniana; una teoria che "deve trarre i suoi concetti esclusivamente dal contenuto delle norme giuridiche positive" (11). Con tutta evidenza una priorità del diritto sul dovere esprimerebbe per Kelsen l'idea che vi è qualcosa di giuridicamente rilevante che "precede" la norma giuridica (che notoriamente nella nomostatica kelseniana consiste nella previsione di una sanzione per una determinata fattispecie qualificata come illecito); l'ordinamento finirebbe per rimandare al di là dei suoi confini, agli infidi territori attraversati della politica, dall'etica e dalla sociologia.

1.2. Il dibattito inaugurato da Hohfeld: l'esigenza di chiarezza linguistica

A conclusioni analoghe - anche se non identiche - arrivano una serie di autori ascrivibili alla jurisprudence angloamericana, impegnati in un dibattito sullo status dei diritti soggettivi che si è dipanato per buona parte del Novecento. Il punto di partenza comunemente riconosciuto è un saggio molto noto, pubblicato nel 1913 dal giurista statunitense Wesley N. Hohfeld, il quale parte dall'idea che "l'uso del termine 'diritto' è stato finora troppo ampio e indiscriminato" e si pone alla ricerca di "un significato definito ed appropriato del vocabolo in questione".

Nel perseguire questa istanza di chiarezza concettuale la base di partenza solida è per Hohfeld la correlazione fra "diritto" e "dovere": "poiché è certo che anche coloro che usano la parola ed il concetto di 'diritto' nel modo più ampio possibile sono abituati a pensare il 'dovere' come suo invariabile correlativo. [...] se X ha il diritto che Y stia fuori dalla sua terra, il correlativo (ed equivalente) è che Y è soggetto ad un dovere verso X di starne fuori" (12).

Hohfeld non cerca definire le differenti accezioni di diritto ma di indagarne il significato (o meglio, di proporne un significato) attraverso l'individuazione dei loro "correlativi" e la ricerca di sinonimi. Nel caso del diritto, il correlativo è dovere. Ma è opportuna una precisazione: si deve parlare qui di diritto in senso stretto, come sinonimo di "pretesa" (claim) (13). In altri termini, la correlazione diritto-dovere vale per il diritto nell'accezione di pretesa. Ma in senso ampio, e nell'uso corrente, diritto non significa solo pretesa, ma anche "privilegio" (privilege, che alcuni propongono di tradurre "facoltà" o "libertà"), "potere", "immunità", i cui correlativi sono, rispettivamente, "non-diritto", "soggezione", "incapacità". Si definiscono così quattro coppie di correlativi che costituiscono per Hohfeld i quattro rapporti giuridici fondamentali. Hohfeld, considera l'uso comune di diritto "nebuloso", e considera unfortunate che ci sia un uso ampio del termine.

Su questa base si è proposto di ridurre i quattro rapporti giuridici alle tre modalità deontiche fondamentali individuate dalla logica deontica: obbligatorio, vietato, permesso. Il vocabolario dei diritti risulterebbe così traducibile, senza residui, nel vocabolario delle modalità deontiche di base. Ciò significherebbe "che quanto può essere espresso in termini di diritti (pretese) può, senza perdita di significato, essere espresso in termini di obblighi (positivi e negativi, ossia divieti)" (14), e dunque che il vocabolario dei diritti è ridondante: i " 'diritti' nel loro complesso [...] non sono che riflessi di obblighi (divieti, permessi): non sono che parvenze, la cui sostanza è resa dall'imposizione (ad altri) di doveri" (15). È evidente che tale conclusione, che i logici deontici, nella loro professione di avalutatività, presentano come puramente analitica, può essere utilizzata in senso normativo o valutativo.

2. La priorità dei diritti e l'irriducibile retorica

La storia non finisce qui. Nello sviluppo del dibattito angloamericano si registra, come nota Bruno Celano, "il passaggio da una concezione statica a una concezione dinamica dei diritti". E cioè "da una concezione del diritto soggettivo come insieme, o aggregato, di posizioni normative soggettive basilari, al diritto soggettivo come ragione che giustifica, o potrebbe giustificare, l'attribuzione o il riconoscimento, a individui che soddisfano certe condizioni, di insiemi mutevoli, suscettibili di articolazione progressiva, di posizioni normative soggettive basilari" (16).

2.1. Diritti attivi

David Lyons ha introdotto la distinzione fra diritti "passivi" e diritti "attivi". Per Lyons "è nella migliore delle ipotesi fuorviante che diritti in generale 'si correlino' con i doveri" (17). Il caso paradigmatico di correlazione diritti/doveri è quello in cui un soggetto deve una somma di denaro ad un altro soggetto. Ma questo modello non è estensibile a tutti i casi di diritti e doveri. La conceptual correlativity sì dà solo per "diritti avanzati 'contro' e doveri od obblighi 'dovuti' a specifiche persone". Ma non solo (e qui Lyons introduce la sua fondamentale partizione):

La nozione è anche limitata ai diritti "passivi" ed agli obblighi "attivi"; e ci si può chiedere se anche alcuni diritti "attivi" non si correlino con obblighi. Non cercherò di rispondere a questa domanda, ma sosterò che alcuni diritti "attivi" (diritti a fare cose) non corrispondono allo schema delineato (18).

Un esempio del diritto "a fare" qualche cosa è costituito dalla libertà di parola (Lyons propone l'immagine di un tizio che sale su uno scatolone per arringare la folla contro la guerra in Vietnam, e poi viene violentemente ridotto al silenzio). Tale diritto non è riducibile, secondo la concezione comune, a "un'area di libera scelta protetta da proibizioni contro interferenze", e "equivalente all'attribuzione di obblighi correlativi in capo ad altri". Nel caso di questi diritti "attivi" si ha a che fare con un comportamento "almeno prima facie ammissibile o ineccepibile". La situazione è insomma molto differente rispetto a quanto avviene con diritti come quello di A a ricevere una somma in pagamento da B; diritti che non dicono niente sul comportamento di A (19). Nel caso dei diritti attivi, più che di claims si tratta piuttosto di immunities il cui correlativo sono le disabilities. E soprattutto "dal fatto che ad altri è proibito di agire in modi che costituiscono un'interferenza con il fare X da parte di A non segue che A ha il diritto a fare X" (20). Dunque l'analogia fra i diritti attivi e i diritti tipicamente correlativi di doveri, come il diritto del creditore ad essere pagato, non regge (21).

2.2. Doveri, libertà, poteri

Herbert Hart, sulla base di una ricostruzione della teoria dei diritti di Jeremy Bentham, distingue tre tipi principali di diritti: i diritti-libertà, i diritti-potere e i diritti correlativi di obblighi (22). Hart precisa che i diritti-libertà possono trovare un "perimetro protettitivo" di disposizioni legali "even if there is non strictly correlative obligation upon others not to interfere with it" (23). Hart considera di estremo interesse la teoria benthamiana, ma ne coglie il limite essenziale nell'identificazione dell'essere titolare di un diritto con l'essere beneficiario di un correlativo dovere. In questo modo la benefit theory si espone al rischio di rendere ridondante il concetto di diritto soggettivo. Se l'essere titolari di un diritto non significa altro che essere il beneficiario di un dovere giuridico, perché utilizzare la terminologia dei diritti? Cosa si guadagna se si traduce l'asserzione che X ha il dovere giuridico di non uccidere altri individui con l'asserzione che gli individui hanno diritto a non essere uccisi? (24). Ma se le cose stanno così nel diritto penale, la benefit theory non riesce a rendere conto del modo in cui il diritto civile considera gli individui: "it recognizes or give them a place or locus standi in relation to the law quite different from that given by the criminal law" (25).

The idea is that of one individual being given by the law exclusive control, more or less extensive, over another person's duty so that in the area of conduct covered by that duty the individual who has the right is a small-scale sovereign to whom the duty is owed. The fullest measure of control comprises three distinguishable elements: (i) the right holder may waive or extinguish the duty or leave it in existence; (ii) after breach or threatened breach of a duty he may leave "unenforced" or may "enforce" it by suing for compensation or, in certain cases, for an injunction or mandatory order to restrain the continued or further breach of duty; and (iii) he may waive or extinguish the obligation to pay compensation to which the breach gives rise. It is obvious that not all who benefit or are intended to benefit by another's legal obligation are in this unique sovereign position in relation to the duty. A person protected only by the criminal law has no power to release anyone from its duties [...] (26).

Nel diritto civile l'infrazione al dovere è considerata "not only as wrong, or detrimental to the person who has the correlative right, but as a wrong to him ad a breach of an obligation owed to him; we also speak of the person who has the correlative right as possessing or even owning it" (27). Tutto questo non significa che solo i doveri del diritto civile trovino diritti correlativi. Hart, significativamente, fa riferimento ai doveri imposti ai funzionari delle pubbliche amministrazioni dall'estensione delle welfare functions dello Stato. I beneficiari dei doveri vengono considerati come titolari di diritti e anche in questo caso si configura uno speciale locus standi per il beneficiario dei doveri, a differenza di quando avviene nel caso del diritto penale (28). D'altra parte l'identificazione del titolare del diritto con il beneficiario del dovere dà un'immagine inadeguata anche del diritto dei contratti, evidente nei contratti stipulati per il beneficio di terzi (29).

Per i diritti correlativi agli obblighi, insomma, l'essere beneficiari dell'obbligo non è né condizione necessaria né condizione sufficiente per essere titolare di un diritto; la condizione necessaria è l'avere "at least some measure of the control, described above, over the correlative obligation". Hart propone così di superare la tesi utilitaristica secondo la quale caratteristica definitoria del diritto correlativo all'obbligo è il benefit, in favore dell'idea che questa caratteristica consista negli "individual's legal powers of control, full or partial, over that obligation" (30). In questo modo è possibile ricondurre ad uno schema unitario fenomeni legali che appaiono disparati: l'idea di una bilateral liberty è presente in tutti e tre i tipi di diritto soggettivo individuati da Bentham: nel caso dei diritti-libertà e dei diritti-potere ma anche nei diritti correlativi di doveri, dato che il titolare ha appunto la libertà di esigere l'adempimento del dovere e di rinunciarvi. Dunque, "in each of these three types of case one who has a right has a choice respected by the law". In questo modo il giurista è portato a "to talk in terms of rights only where is something of importance to the lawyer to talk about which cannot be equally well said in terms of obligation or duty". Ciò non significa che in determinati casi occorra mantenere la nozione di individual benefit per integrare quella di scelta individuale. Hart fa riferimento a "certain freedoms and benefits" considerati fondamentali "for the maintenance of the life, the security, the development, and the dignity of the individual" (31) e inclusi in molte carte costituzionali, e alla critica del diritto dal punto di vista di determinati bisogni essenziali. Insomma, ammette Hart, la sua proposta teorica riguarda gli usi di rights nella pratica dell' "ordinary" law.

Neil MacCormick si rivolge al diritto statuito ed alla giurisprudenza per individuare situazioni in cui l'attribuzione dei diritti è temporalmente precedente e logicamente prioritaria rispetto all'imposizione di doveri (32). La titolarità di un determinato diritto, conferita dalla legge, implica una vasta gamma di relazioni "atomiche" del tipo individuato da Hohfeld. Tali relazioni possono essere derivate dall'esistenza del diritto; ma dall'insieme delle relazioni non si può derivare l'esistenza del diritto, e il legislatore non istituisce il diritto stabilendo l'insieme delle relazioni atomiche (33). Pertanto i diritti, afferma MacCormick, non possono essere ridotti a "atomic relations between paired individuals" (34), come nel modello di Hohfeld. Si tratta di complessi concetti "istituzionali": l'attribuzione di un diritto può rimandare per la sua protezione a più di uno dei correlativi hohfeldiani, e in alcuni casi anche a tutti e quattro. Ne deriva l'impossibilità di ridurre la terminologia dei diritti a quella dei doveri o ad altre modalità giuridiche. Con il linguaggio dei diritti si possono "ottenere con poche semplici parole complesse tutele legali per numerosi membri di una data classe", e si indirizza l' "attenzione al fine che ci si prefigge, la protezione di queste persone in relazione ad una condizione di cose che si suppone vantaggiosa" (35).

Se Hart aveva elaborato una choice theory, queste critiche del riduzionismo hohfeldiano ripropongono una versione dalla benefit (o interest) theory a versioni più o meno sofisticate. In questa prospettiva sono i diritti a permettere di riconoscere e giustificare i doveri, le soggezioni, le incapacità e le altre posizioni normative; dunque i diritti sono prioritari rispetto ai doveri (36):

sussiste, fra diritto e obblighi (e altre posizioni hohfeldiane), una relazione di priorità concettuale (logica), e assiologica. Ridotto all'osso, l'argomento è questo: i diritti sono le ragioni atte a giustificare doveri (è perché abbiamo diritti, che altri hanno doveri); dunque, diritti e doveri non sono (almeno, non in generale, e non necessariamente) correlativi (non vale la tesi della correlatività; a fortiori, i diritti non sono il mero riflesso, l'epifenomeno, di doveri): i diritti sono concettualmente anteriori rispetto ai doveri (37).

Per inciso, questo sviluppo della teoria significa anche l'apertura al riconoscimento della "seconda generazione" dei diritti economici e sociali come diritti in senso proprio, contro le opzioni minimaliste che propugnano un catalogo breve dei diritti. E questa discussione, che muove dall'analisi sui concetti giuridici fondamentali, ha via via investito anche i moral rights, espressione assai più diffusa nel lessico della filosofia morale di lingua inglese di quanto sia stato a lungo nella tradizione filosofica del continente europeo.

Ma a questo punto ci si potrebbe chiedere: un passaggio di questo tipo è legittimo se si accettano i presupposti di partenza? Cosa ci autorizza a dire "è perché abbiamo diritti che abbiamo doveri"?Questa asserzione avrebbe senso in una teoria pura del diritto? Da questo punto di vista, una teoria del diritto ispirata dall'idea della correlatività fra diritti e doveri, o dell'identificazione del diritto soggettivo con il diritto oggettivo non risulta più elegante, se non più rigorosa? Non si conforma meglio ai severi standard della filosofia analitica (38)?

2.3. Padri e figli

Norberto Bobbio sembra aderire alla tesi della correlatività, sostenendo che diritti e obblighi sono "concetti conversi": "dire che Tizio ha un obbligo nei riguardi di Caio equivale a dire che Caio ha un diritto nei confronti di Tizio" (39); infatti "non c'è diritto senza obbligo, e non c'è né diritto né obbligo senza una norma di condotta" (40). Ancora più chiaramente: "La figura del diritto ha per correlativo la figura dell'obbligo e viceversa. Come non esiste padre senza figlio e viceversa, così non esiste diritto senza obbligo e viceversa" (41). Bobbio ha tuttavia enfatizzato il significato storico dell'affermazione del linguaggio dei diritti. La moderna prevalenza della figura deontica del diritto rispetto a quella del dovere configura una "rivoluzione copernicana": i fenomeni politici sono valutati non più ex parte principis ma ex parte populi, e questo configura un "rovesciamento radicale di prospettiva" (42). L'ampliamento a tutti i popoli della terra e l'intensificazione del dibattito sui diritti dell'uomo è tanto rilevante da poter "essere interpretato come un segno premonitore (signum prognosticum) del progresso morale dell'umanità" (43). Quando parliamo di età dei diritti ci riferiamo a questa sorta di conversione gestaltica, a questo mutamento di paradigma. Ma allora ci si potrebbe chiedere in che rapporto sta questa valutazione con la tesi della correlatività diritti/doveri; in particolare, se la correlatività è interpretata nei termini della completa traducibilità del linguaggio dei diritti nel linguaggio dei doveri, la diffusione del linguaggio dei diritti come può comportare un "radicale rovesciamento"?

Si potrebbe sostenere che queste ultime considerazioni di Bobbio sono estranee alla teoria giuridica in senso proprio: sono considerazioni sociologiche, politiche o etiche. Ma sono considerazioni insignificanti? Cosa guadagna la teoria giuridica se rinuncia ad occuparsi di questi problemi? In particolare, si ottiene una comprensione più accurata o meno accurata, più fedele o meno fedele, più perspicua o meno perspicua, degli usi di "diritto soggettivo"? Ho l'impressione che se si vuol dare conto di questa cambio di paradigma, e più in generale se si vuole proporre una interpretazione della nozione di diritto soggettivo, dei suoi usi e dei suoi plurali significati, sia necessario rinunciare alla ricerca - di impronta neopositivistica - dell'assoluto rigore analitico, di un linguaggio formalizzato, della riduzione dei concetti giuridici a modalità elementari, e a quella - kelseniana della "purezza" metodologica. In altri termini, non si può fare a meno della retorica.

2.4. Dal claim al claiming, dal formalismo all'impressionismo

Nell'affrontare la questione della correlatività fra diritti e doveri, Joel Feinberg dichiara che il suo - lo sottolineo - "is more a descriptive or impressionistic study than a formalistic one" (44). Feinberg passa in rassegna i possibili sensi di "dovere", mostrando che alcuni di essi non sono necessariamente correlati con diritti altrui. In ogni caso, la descrizione delle correlazioni fra diritti e doveri non dice tutto sul concetto di diritto. Feinberg nota che una definizione dei diritti come claims finisce per essere circolare, "perché l'idea di diritto è già inclusa in quella di pretesa". Occorre poi ricordare che non sempre le pretese sono contro qualcuno: questo vale in particolare per le preteseconnesse ai bisogni. Tuttavia, nota ancora Feinberg, non ogni bisogno o desiderio si identifica con una pretesa. Sono alcune importanti pretese che cry out per essere soddisfatte (Feinberg evidenzia la connessione etimologica fra claim e clamor) (45). "Rivendicare che qualcuno ha un diritto è affermare (assert) in maniera tale da richiedere o insistere che ciò che è affermato deve venire riconosciuto" (46). Ci sono, infatti, forme di interazione di tipo morale come "doni, servizi e favori motivati dall'amore o dalla pietà e per le quali la gratitudine è la sola risposta adeguata". Ma ci sono anche "azioni ed omissioni doverose richieste (called for) in relazione ai diritti di altre persone. Queste possono essere pretese, rivendicate, si può insistere su di esse senza imbarazzo o vergogna". Se tali azioni non si verificano la risposta adeguata è l'indignazione, mentre se si verificano non c'è spazio per la gratitudine. "Un mondo senza favori amorevoli sarebbe freddo e pericoloso; ma in un mondo pieno di gentilezza, tuttavia senza diritti universali, il self-respect costituirebbe una risorsa scarsa e difficile da ottenere" (47).

Per Feinberg, insomma, "c'è perlomeno un modo di parlare dei diritti-come-pretese che non è né riducibile a, né si trova in nessuna chiara relazione logica con, il parlare dei doveri" (48).

Se l'analytical jurisprudence si identifica con la ricerca di un linguaggio scevro da ambiguità, riducibile a definizioni chiare e distinte, è chiaro che ne abbiamo varcato i confini. Feinberg tenta di dare ragione di determinati usi del linguaggio giuridico (e morale, e - potremmo aggiungere - politico) facendo riferimento a bisogni, desideri, sentimenti. Ma sostiene che a questo scopo occorre abbandonare la "purezza" della teoria, accettare la retorica, passare dal formalismo all'impressionismo.

Il tema viene approfondito in quello che probabilmente è il più noto saggio di Feinberg sui diritti (49). In esso egli utilizza la figura retorica dell'esperimento mentale, più precisamente dell'utopia negativa o distopia. Feinberg immagina Nowheresville, un mondo in cui sono molto diffuse le virtù della benevolenza, della compassione e della simpatia, e che riconosce il principio deontico del dovere e l'idea del merito, ma che ignora completamente la nozione di diritto soggettivo. Cosa manca a Nowheresville? Precisamente "the activity of claiming", l'attività di rivendicare. Infatti, la correlazione hohfeldiana diritti-pretesa / doveri

non rende conto del modo in cui i diritti-pretesa sono qualcosa di prioritario, e di più fondamentale, dei doveri. Se Nip ha un diritto-pretesa verso Tuck, è in conseguenza di questo fatto che Tuck ha un dovere verso Nip. È solo perché qualcosa è dovuto da Tuck a Nip (elemento direzionale) che c'è qualcosa che Tuck deve fare (elemento modale). Inoltre, questa è una relazione nella quale Tuck è vincolato e Nip è libero. Nip non solo ha un diritto, ma può scegliere se esercitarlo o meno, se rivendicarlo, se sporgere querela per la sua usurpazione, persino se sollevare Tuck dal suo dovere (50).

Feinberg evidenzia qui i limiti delle usuali "definizioni formali" filosofiche; in esse si arriva a dire che il concetto di diritto è indefinibile o primitivo, e the game is over. Ma è possibile tentare un "chiarimento informale sull'idea di diritto". Occorre riconoscere che "il claiming è una forma elaborata di attività regolata da norme". Dunque "a claim is that which is claimed, the object of the act of claiming" (51). Dopo tutto, nota Feinberg, "esiste un verbo 'to claim' non un verbo 'to right'". Feinberg focalizza dunque l'attenzione sull'attività del claiming, il che evita la tentazione di considerare il claim come una "cosa". Anzi, afferma "la priorità delle forme verbali su quelle nominali" (52). Dunque l' "uso caratteristico" dei diritti, "e ciò per cui sono specificamente adatti è l'essere pretesi [claimed], richiesti, affermati, rivendicati":

Avere diritti, naturalmente, rende possibile la rivendicazione; ma è l'atto di rivendicare che conferisce ai diritti il loro specifico significato morale. Questa caratteristica dei diritti si ricollega in qualche modo alla consueta retorica su cosa significa essere umani [corsivo mio]. Avere diritti ci rende capaci di "alzarci in piedi da uomini", di guardare gli altri negli occhi e di sentirci fondamentalmente eguali a ciascun altro. Pensarsi come titolari di diritti significa sentirsi orgogliosi - legittimamente, non indebitamente -, significa avere quel minimo rispetto di se stessi che è necessario per meritarsi l'amore e la stima degli altri [...] e ciò che viene definita "dignità umana" può essere semplicemente la capacità riconoscibile di avanzare pretese [to assert claims]. Dunque, rispettare una persona, o pensarlo come titolare della (possessed of) dignità umana semplicemente è pensarlo come potenziale attore di rivendicazioni (maker of claims). Non tutto questo può essere compreso (packed) in una definizione di "diritti"; ma questi sono fatti riguardo la titolarità (possession) di diritti che argomentano bene la loro suprema importanza morale (53).

Credo si debba riconoscere che Feinberg riesce a cogliere un qualcosa di tipico nel linguaggio dei diritti, un quid che lo differenzia da altri idiomi normativi. Ma l'argomento di Feinberg consiste in un "chiarimento informale" nell'ambito di un approccio "impressionistico": non potrebbe essere formalizzato, né probabilmente reggerebbe senza riferimenti alla "retorica su cosa significa essere umani".

Questa retorica ha profonde radici storiche. Qualche traccia di esse potrebbe essere ricercata nel pensiero politico-giuridico della prima modernità, ad esempio nell'ambito dell'Illuminismo scozzese, con la sua attenzione rivolta più ai sentimenti morali che agli assiomi della ragione. In particolare, nell'Essay on the History of Civil Society di Adam Ferguson i diritti esprimono un sentimento di autoaffermazione e di dignità: un "sentimento primario", una "forma originaria della mente" non suscettibile di chiarimento formale (54). Inoltre il linguaggio dei diritti si ricollega all'apologia del conflitto sociale, ricondotto da Ferguson ad una delle caratteristiche salienti della natura umana: proprio il "sostenere fermamente i propri diritti" è condizione del mantenimento della libertà (55). D'altra parte, secondo la nota tesi di Norberto Bobbio, la stessa origine storica dei diritti può essere ricollegata alla rivendicazione e al conflitto sociale (56). Dunque non solo l'idea dei diritti soggettivi rimanda all'attività del rivendicare, ma anche l'origine storica dei diritti e l'avvento dell'età dei diritti si originano dalle rivendicazioni di movimenti sociali e politici. Le successive generazioni dei diritti esprimono le vicende dei processi conflittuali che hanno attraversato la società moderna.

3. Il catalogo è questo?

L'istanza della purezza concettuale e la tesi della correlatività rimandano alla questione della possibile estensione del catalogo dei diritti fondamentali. Quali norme, politiche, principi possono venire qualificati come "diritti"? È legittimo definire come "diritti" in senso proprio, giuridico, i diritti della seconda generazione e oltre, i diritti sociali, economici, culturali, ambientali, biologici e così via? Secondo alcuni interpreti gli stessi diritti sociali identificherebbero in realtà "opportunità condizionali", la cui soddisfazione è legata alle disponibilità di risorse ed alle scelte politiche contingenti. In base a questa tesi ai diritti sociali non corrispondono "prestazioni proceduralmente definite, stabili e uniformi per tutti i cittadini" (57). Essi configurano aspettative a prestazioni pubbliche che consumano ingenti quantità di risorse e la definizione del loro contenuto dipende dalla disponibilità di un budget adeguato, dagli equilibri di forze risultanti dai conflitti sociali, dalle scelte discrezionali dell'amministrazione. D'altra parte, se venissero garantiti oltre una soglia "minima", se venissero "presi sul serio", i diritti sociali diventerebbero incompatibili con l'economia di mercato e le sue regole (58). E, in ultima analisi, i diritti sociali non sono azionabili in giudizio: un disoccupato non si può rivolgere ad un giudice perché è stato negato il suo diritto al lavoro, come lo potrebbe fare un titolare di determinate libertà civili o di specifici diritti politici.

A ben vedere, la tesi della correlatività fra diritti e doveri rafforza posizioni di questo tipo. Se non si dà diritto senza dovere correlativo (a fortiori, se è l'esistenza di norme che stabiliscono determinati doveri a conferire diritti), ci si deve chiedere quali sono i doveri correlativi del diritto al lavoro o del diritto alla salute, quali sono i soggetti cui questi doveri sono attribuiti e così via.

Qui ci si può ricollegare alla strategia deflattiva di Ignatieff. Egli conduce una critica efficace delle "pretese fondative" tipiche della "idolatria" dei diritti umani. L'universalità dei diritti per Ignatieff non risiede in un consenso universale ma nel fatto che definiscono gli interessi universali di chi è deprivato di potere, assicurano il rispetto dell'autonomia individuale: "I diritti umani sono universali non in quanto vernacolo della prescrizione culturale ma come linguaggio del conferimento di potere morale" (59). Dunque: per quanto faccia riferimento ad argomenti storico-pragmatici, Ignatieff non rinuncia a definire precisamente la funzione, se non la natura, dei diritti. Da questa definizione derivano indicazioni prescrittive riguardo al contenuto ed alla lunghezza del catalogo dei diritti: dal carattere dei diritti come principi che conferisconopotere derivano i loro limiti, che non si estendono al di là della libertà negativa:

I diritti umani sono importanti perché aiutano la gente ad aiutarsi. Ne proteggono la capacità di azione. Con capacità di azione, intendo più o meno quello che Isaiah Berlin intende con "libertà negativa": la capacità di ogni individuo di perseguire scopi razionali senza ostacolo o intralcio. [...] Quello dei diritti umani è un discorso che riguarda il conferimento di potere (empowerment) individuale [...] desiderabile perché quando gli individui hanno capacità di azione sono in grado di difendere se stessi dall'ingiustizia (60).

Alcune delle controargomentazioni a queste tesi minimaliste mi sembrano condivisibili. In primo luogo, come sostiene Luigi Ferrajoli, non è affatto impossibile individuare e praticare forme di tutela giurisdizionale dei diritti sociali, che infatti si sono andate sviluppando nel recente passato (61). In secondo luogo, è stato mostrato come l'effettività di ogni categoria di diritti richiede un investimento in termini di risorse economiche, di prestazioni organizzative, ed anche la mobilitazione dei soggetti interessati: basta pensare al colossale apparato che tutela il più classico dei diritti liberali, l'habeas corpus (62). In terzo luogo, ci si potrebbe chiedere: perché arretrare? Se nelle costituzioni di molti Stati europei e non solo i diritti sociali sono riconosciuti come diritti fondamentali, e se nella retorica politica questo è un uso linguistico assodato, derubricare i diritti sociali a "servizi sociali" non comporterebbe importanti effetti negativi, non soltanto simbolici?

D'altra parte, una concezione dei diritti che prenda sul serio la retorica del claiming rimanda a una sorta di primato dei diritti politici, intesi non solo come diritto all'elettorato attivo e passivo, ma come garanzie della possibilità di intraprendere attività sociali e politiche, di avanzare rivendicazioni nello spazio pubblico, di ottenere altri diritti (per questo motivo sono stati definiti da Habermas diritti "riflessivi"). Ma ciò non significa attribuire un ruolo meno importante ai diritti civili e sociali. Per impegnarsi nel processo rivendicativo sono necessarie una serie di precondizioni, fra cui quelle garantite dai diritti sociali: si pensi, ad esempio, a un certo livello di istruzione.

Per contro, i classici diritti di libertà possono essere reinterpretati, ponendo in una luce diversa l'"autonomia privata" da essi garantita. L'autonomia privata può essere intesa come una riserva di identità e una risorsa morale, fondamentale per "entrare" nello spazio pubblico e avanzare le proprie rivendicazioni. D'altra parte, in questa ottica i diritti politici e sociali costituiscono a loro volta la condizione per l'affermazione dei diritti di libertà. Se i diritti costituiscono uno strumento di affermazione del soggetto entro un determinato quadro giuridicamente definito, l'intervento dello Stato per renderne effettiva la titolarità non è qualcosa di aggiuntivo o di secondario.

Detto questo contro la strategia deflattiva, è opportuno scongiurare anche l'eccessiva inflazione del linguaggio dei diritti. Elisabeth Wolgast (63), nel suo noto saggio sui "diritti sbagliati", probabilmente eccede nel limitare l'ambito di applicazione del linguaggio dei diritti, ma segnala opportunamente una serie di campi (in particolare, inerenti alla cura di persone deboli, che coinvolge rapporti per loro natura asimmetrici) in cui esso si rivela inadatto (64); e d'altra parte è evidente che sarebbe arduo ricollegare la retorica del claiming a soggetti che pure vengono spesso indicati come titolari di diritti: gli animali non umani, per non parlare dei vegetali o della natura in generale. Considerazioni analoghe valgono per l'introduzione di nuovi soggetti di diritti, quali il feto, l'embrione o addirittura l'ovulo fecondato. Ciò non significa, beninteso, che il linguaggio dei diritti sia inutilizzabile nell'ambito dell'etica ambientale o della bioetica, del diritto ambientale o del biodiritto. Tanto meno ciò esclude che si debba proteggere l'ambiente o che si abbiano responsabilità verso le generazioni future, o che sia legittimo il dibattito sull'aborto e sulla fecondazione assistita. Si tratta piuttosto di vedere se un'eccessiva proliferazione dei diritti sia qui utile e se in determinati ambiti non siano più adatti altri linguaggi: quelli dell'etica della cura, del principio responsabilità, dei doveri giuridici. Un'inflazione incontrollata dei diritti ed un'eccessiva proliferazione dei loro titolari (che includa soggetti neppure potenzialmente in grado di rivendicare) espone il linguaggio dei diritti al rischio della perdita di senso, o quantomeno dello smarrimento di quella specifica connotazione "retorica" di cui abbiamo parlato.

4. Minimalismo dei diritti e confronto interculturale

4.1. Universalismo minimalista e guerre umanitarie

Alla questione della "lunghezza" del catalogo dei diritti si ricollega quello del confronto interculturale. La strategia minimalista procede più o meno in questo modo: i diritti umani (nell'estensione definita dalla Dichiarazione universale) non sono fondati; non vanno percepiti come "un linguaggio per emanare e proclamare verità eterne, ma come un discorso per la soluzione dei conflitti". Ma "i principi stessi dei diritti umani sono in conflitto" e dunque la nota tesi di Ronald Dworkin che vede i diritti come trump cards è insostenibile. Occorre allora individuarne un nucleo ridotto (in buona sostanza le libertà negative) su cui tutti convergano in modo che sia possibile la loro tutela. "L'inflazione dei diritti [...] finisce per erodere la legittimità di un nucleo difendibile di diritti" (65).

Una volta che i diritti siano stati ricondotti all'idea chiave dell'empowerment individuale ed a quella sorta di nucleo duro delle libertà negative (che, curiosamente, coincide con il più tradizionale catalogo dei diritti civili individuali tipici della tradizione liberale) è possibile per Ignatieff la loro universalizzazione. Infatti il contenuto dei diritti esprime la difesa degli individui che entrano in conflitto con il gruppo di appartenenza. Quello dei diritti "è l'unico linguaggio che permette a persone in posizione di dipendenza di percepirsi come agenti morali e di agire contro pratiche [...] che sono ratificate dalla pressione e dall'autorità delle loro culture" (66), e questo ne spiega la forza di attrazione al di là dell'Occidente. L'"universalismo [...] consapevolmente minimalista" e la "teoria leggera (thin) del giusto" (67) di Ignatieff sono così presentati come il terreno solido su cui basare la tutela globale dei diritti umani. È come se attraverso la riduzione a un comune denominatore fosse possibile individuare la chiave di volta su cui si regga l'intero progetto di universalizzazione.

Ignatieff delinea poi un passaggio ulteriore: se i diritti umani così ridotti al nucleo minimo possono essere universalizzati, ciò permette di costruire un punto di riferimento per la politica dei diritti umani. Una politica che richiede la mobilitazione attiva dei movimenti sociale e delle ONG, interventi legislativi ed amministrativi da parte dei governi, ma non solo. In alcuni casi i diritti umani vanno difesi con la forza. L'universalismo minimalista assume così la funzione di legittimare l'intervento militare per la tutela dei diritti umani. Nelle Tanner Lectures Ignatieff introduce qualche considerazione cautelativa e prudenziale: la decisione di intervenire con la forza è ammissibile solo laddove gli abusi dei diritti umani siano "gravi, sistematici e dilaganti" e costituiscano una minaccia alla pace, sul piano locale e su quello internazionale. E non sempre l'intervento militare ha "una reale probabilità di mettere fine agli abusi" (68). Ma in certe situazioni - quando uno Stato si disintegra o viceversa esercita una violenza molto grave contro i cittadini propri o di altri paesi - l'intervento militare è per Ignatieff l'unico mezzo efficace per proteggere i diritti umani. Da questo punto di vista, se è vero che i diritti umani sono "una forma di politica",

la politica, tuttavia, non è fatta solo di dibattiti. Il linguaggio dei diritti umani serve anche a ricordarci che ci sono abusi decisamente intollerabili e giustificazioni di questi abusi che sono inaccettabili. [...] Di conseguenza, questo linguaggio è usato, a volte, per raccogliere le ragioni e i consensi necessari all'uso della forza (69).

Dopo le Tanner Lectures, Ignatieff ha abbandonato questa cautela: è divenuto un sostenitore militante della War on Terror e degli interventi di "legittima difesa preventiva" degli Stati Uniti (anche se recentemente ha proposto un'ambigua autocritica sull'opportunità di intervenire in Iraq, dichiarando che la sua posizione era viziata da un eccessivo idealismo (70)).

Per ritornare al nucleo della proposta teorica di Ignatieff, ci si potrebbe chiedere - come ha fatto Danilo Zolo nell'intervento a commento dell'edizione italiana delle Tanner Lectures - se aver "filtrato la quintessenza occidentale della teoria dei diritti dell'uomo" (71) sia il passo opportuno in direzione della sua universalizzazione e del confronto interculturale. Ignatieff sostiene, come abbiamo visto, che l'individualismo della tradizione liberale occidentale, lungi dall'ostacolare il confronto interculturale, è esattamente ciò che i partner non occidentali del confronto ricercano, apprezzano e valorizzano nel linguaggio dei diritti. Ma ci si può chiedere se davvero l'empowerment degli individui coincida con, e si limiti a, i diritti di libertà negativa o se non richieda piuttosto l'effettivo godimento di garanzie politiche e sociali. Un autore non tacciabile di relativismo culturale come Amartya Sen propone una visione assai più ampia della funzione dei diritti nella tutela degli individui. Sen riconosce un ruolo centrale alla libertà individuale, alla possibilità di scelta, ma la ricollega ad un insieme di capabilities che rimandano ben al di là dei diritti civili. E un approccio complesso ai diritti - un goal-rights system che bilanci i diritti individuali con i fondamentali scopi sociali - rende più probabile l'"accettabilità politica e sociale" dei diritti umani (72). Un tale approccio mostra che i diritti civili e politici rimandano a quelli sociali, e d'altra parte in molte situazioni i diritti civili e politici costituiscono la condizione dell'effettivo godimento dei diritti sociali, e più in generale del superamento dell'indigenza, fino nelle sue forme più estreme (73).

Le delucidazioni informali e le argomentazioni retoriche a cui ho alluso potrebbero suggerire ulteriori argomenti. Se il linguaggio dei diritti non è riducibile al vocabolario degli obblighi, ma dimostra una sua eccedenza semantica; se questo ha a che fare - almeno per alcuni fondamentali usi del termine "diritto soggettivo" - con l'attività della rivendicazione, del claming; se vi è un nesso simbolico fra claiming e sentimenti quali la dignità; se infine l'origine storica dei diritti soggettivi e dell'affermazione diffusa del linguaggio dei diritti è in gran parte il risultato di processi sociali, e in particolare dell'attività rivendicativa espressa entro conflitti sociali; tutto ciò potrebbe suggerire di affrontare da un diverso punto di vista il problema dell'universalità dei diritti umani.

Tale problema presenta un duplice profilo. In primo luogo, (i.) c'è la questione se il contenuto normativo espresso nei diritti soggettivi abbia validità universale, sia accettato e/o fondabile entro contesti culturali diversi da quelli in cui si è originato, e se sia riformulabile in differenti linguaggi normativi. Ad esempio: il diritto di parola dP sancito dalla costituzione dello Stato occidentale F e accettato nella sua cultura liberaldemocratica di (assumiamo) radici ebraico-cristiane può essere riformulato nel principio sP espresso nel linguaggio normativo utilizzato nello repubblica islamica I ed accettato nella sua cultura politica, e/o nel principio cP espresso nel linguaggio normativo utilizzato nel paese asiatico S ed accettato nella sua cultura politica di radice confuciana? Mi sembra che quando, ad esempio, Raimon Panikkar propone la ricerca di "equivalenti omeomorfi" in cui tradurre i principi normativi espressi nel linguaggio occidentale dei diritti (74), o quando Ottfried Höffe parla di "scambio trascendentale" (75), abbiano in mente problemi di questo tipo. Ma anche Ignatieff mi sembra fare riferimento essenzialmente al contenuto dei diritti. La strategia deflazionistica è presentata come un'opportunità per realizzare "l'universalità della condivisione" e dunque configura una sorta di universalismo politico dei fondamenti, che sopperisca all'irrealizzabilità di un fondamento filosofico, o ai gravi rischi che sarebbero connessi all'affidare alla filosofia - alle dottrine "comprensive" - ciò che non si ottiene con il confronto politico. Ma questa condivisione può essere ottenuta più facilmente accorciando il catalogo dei diritti? Non sembra che al di là della tradizione giuridica occidentale ci si concentri maggiormente sulle libertà negative che sui diritti economici e sociali. I testi ufficiali di organizzazioni sovranazionali non Occidentali - ad esempio l'Organizzazione per l'Unità Africana o la Conferenza Islamica - non escludono, ma anzi sembrano porre un'enfasi particolare sui diritti sociali e su determinati diritti collettivi (76). A contrario, il Patto del 1966 sui diritti economici, sociali e culturali non è stato ratificato dagli Stati Uniti.

(ii.) In secondo luogo, c'è la questione dell'accettazione del linguaggio dei diritti e della forma deontica del diritto soggettivo in contesti culturali diversi da quelli in cui si è elaborato quel linguaggio. Una questione che apre altri problemi, ma dischiude anche differenti prospettive. "Alzarsi in piedi", rivendicazione, conflitto: l'enfasi sul claiming, la retorica della dignità umana sembrano esprimere un atteggiamento tipico della modernità occidentale; le ricostruzioni di sistemi normativi "non occidentali" e/o "tradizionali" insistono, in maniera fin troppo generalizzata, sulla diffusa presenza di un approccio conciliativo, sulla ricerca di procedure che evitino contrapposizioni considerate patologiche. E non c'è dubbio che la valorizzazione del sentimento di dignità, dell'insofferenza per la sottomissione, della capacità di sollevarsi e reagire ai soprusi che il linguaggio dei diritti esprime fa parte di un patrimonio che si è consolidato in maniera tutta particolare nella storia dell'Occidente.

Tuttavia non è inverosimile che si produca una possibile "fusione di orizzonti" su questo piano, che si sia avviato un processo di apprendimento reciproco. Forse ciò che vi è di attraente nei diritti umani è (anche) che essi siano codificati nel linguaggio dei diritti, attraverso una modalità deontica che permette di esprimere le rivendicazioni in modo tale da prefigurarne la tutela giuridica. Si tratta senza dubbio di un'eredità della tradizione giuridica occidentale, che tuttavia è probabilmente attraente anche nelle culture "altre". Per esprimersi più correttamente, cercando di non assumere le culture come dati omogenei e immodificabili: attraente per i soggetti deboli, oppressi, esposti al dominio arbitrario ed alla violenza nei diversi contesti culturali.

Ma anche da questo punto di vista la strategia deflattiva del minimalismo sembra insoddisfacente. Se ciò che vi è attraente nel linguaggio occidentale dei diritti è l'espressione della rivendicazione, la possibilità di concettualizzare bisogni e interessi, e la correlata possibilità di individuare tecniche giuridiche per proteggerli, sembra riduttivo cristallizzare tutto questo in un catalogo minimo, predefinito, di diritti. Predefinito in un determinato contesto, che individua fra l'altro un determinato soggetto dei diritti (tradizionalmente maschio, bianco e borghese). In altri termini, se è rilevante la questione (ii.), ciò non significa che venga risolta più facilmente accorciando il catalogo dei diritti umani, riducendolo al "nucleo duro" di libertà civili, il cui valore viene ricondotto alla difesa dell'individuo dalla collettività. Più che nell'individualismo, l'appeal dei diritti potrebbe risiedere nel claiming.

4.2. La retorica del franco etnocentrismo

Insomma, se Ignatieff ha il grande merito di avanzare argomenti efficaci contro le pretese fondative, sembra ritornare sui suoi passi quando fonda la politica dei diritti umani su quel nucleo duro di libertà negative che garantiscono (la sua visione del)l'empowerment. Da questo punto di vista può essere opportuno richiamare qualche pagina di Richard Rorty. Per Rorty definire alcuni diritti come diritti umani non è risolutivo: coloro che violano i diritti umani considerano "non umani" le loro vittime, si tratti di neri o donne, di omosessuali o stranieri. Sarebbe d'altra parte illusorio ritenere che la soluzione del problema risieda nell'individuazione di un'essenza propria o di un attributo peculiare dell'uomo. È solo il cambiamento dei sentimenti morali a rendere possibile una migliore tutela dei diritti. E perché questo cambiamento avvenga l'aumento della sicurezza del gruppo e il superamento dell'indigenza sono condizioni di grande importanza (77).

In ogni caso, per Rorty non c'è atteggiamento meno adeguato che presentarsi come "razionali" rispetto a culture considerate "irrazionali" perché non hanno sviluppato una concezione liberaldemocratica dei diritti.

Usare la parola "razionale" per rendere encomio alle proprie scelte di fronte a tali dilemmi è un vacuo complimentarsi con se stessi [...]. La retorica [corsivo mio] che noi occidentali usiamo per tentare di persuadere tutti quanti ad assomigliarci di più migliorerebbe, se noi fossimo più onestamente etnocentrici, e smettessimo di professare universalismo. Sarebbe meglio dire: noi siamo divenuti ciò che siamo, perché abbiamo smesso di esercitare la schiavitù, abbiamo mandato le donne a scuola, abbiamo separato Stato e Chiesa, ecc. ecc.; ecco che cosa è accaduto quando abbiamo cominciato a considerare arbitrarie certe distinzioni. Cercate di fare le stesse cose e potreste scoprire che vi si addicono. Dire tali cose è preferibile a dire: guarda quanto siamo più bravi noi a distinguere quali differenze fra le persone sono arbitrarie e quali non lo sono; quanto siamo più morali noi rispetto a voi (78).

Ciò non significa svalutare "relativisticamente" la tradizione culturale in cui si è inseriti. Si entra nel confronto interculturale facendo forza sulle convinzioni e sui principi cui si attribuisce maggior valore. Ma ciò di cui la "recente cultura liberale" può andare orgogliosa è proprio l'apertura all'incontro con le altre culture. Noialtri occidentali dobbiamo insomma concepirci come "un ethnos che va fiero della sua punta di etnocentrismo, che si vanta non tanto del possesso della verità, quanto della sua capacità di accrescere la libertà e l'apertura degli incontri" (79). Rorty allude ad un processo di fertilizzazione incrociata, nel quale "le credenze suggerite da un'altra cultura devono essere controllate cercando di tesserle assieme alle credenze che già possediamo" (80). Insomma, una retorica controllata, piuttosto che la ricerca di una purezza metodologica e lessicale, sembra la via più adeguata per il confronto interculturale.

Nell'affrontare il problema del confronto interculturale sul linguaggio dei diritti occorrerebbe allora essere più radicali di Ignatieff nel rinunciare alle pretese fondative e nel criticare l'universalismo. Riconoscere la connotazione storica e culturale dei diritti umani e soprattutto ammettere l'indisponibilità di un fondamento universalistico toglie ai diritti - a tutti i diritti umani - lo status di principio primo assoluto, di istanza superiore non discutibile. L'universalizzazione dei diritti umani è piuttosto ciò che è in questione e che richiede un'opera difficile, paziente, responsabile di confronto e accurati tentativi di traduzione. In quest'ottica i diritti umani esprimono principi - a cominciare da quello della dignità umana - cui si attribuisce un valore fondamentale, ma che devono essere ponderati e bilanciati con altri principi. Fra questi assume un ruolo eminente la tutela della pace. Ci sono molti buoni motivi per criticare la tutela dei diritti umani di determinate popolazioni attraverso interventi militari che mettono a repentaglio il diritto alla vita di chi si dovrebbe proteggere, ma qui suggerisco un ulteriore argomento: se si riconosce la non fondabilità assoluta dei diritti è ovviamente insostenibile una posizione del tipo fiant iura, pereat mundus; e il riconoscimento del legame - genetico e concettuale - dei diritti con l'attività di rivendicarli, il conflitto, l'affermazione delle libertà individuali e collettive dalle forme di dominio pubblico e privato esclude anche che si possano imporre i diritti. La diffusione dei diritti umani e la traduzione del linguaggio dei diritti non può appunto prescindere da un processo, difficile e conflittuale, di apprendimento collettivo.

Anche Alessandro Ferrara, pur qualificando le tesi di Ignatieff come "chiare e coraggiose", le accusa a sua volta di non essere abbastanza radicali; egli scrive:

Proprio il sospetto che accettando i diritti umani si accoglie quel cavallo di Troia dal cui ventre a un certo punto usciranno insubordinazione alle gerarchie, parità fra i sessi, relativizzazione delle tradizioni, materialismo, consumismo, primato del mercato e dei suoi valori, accelerazione del mutamento, rivendicazioni egualitarie, proprio questo sospetto alimenta sia la voce sia la popolarità di quanti chiedono di chiudere le porte al cavallo di Troia. L'arma dell'insinuare che si comincia con i diritti umani e poi inevitabilmente l'ordine sociale finisce per assomigliare al modello propagandato dai media occidentali va tolta dalle mani dei fondamentalisti (81).

Nella sua proposta di una seconda - minimalista - dichiarazione universale dei diritti umani Ferrara aggiunge che "un radicamento della cultura dei diritti umani è possibile solo staccandoli dall'idea di 'diritto soggettivo individuale'". Non ho alcuna intenzione di difendere l'individualismo, e non credo che il linguaggio dei diritti sia necessariamente un linguaggio individualista (anche, e soprattutto, i soggetti collettivi rivendicano, e rivendicare un diritto fondamentale significa in qualche misura assumere un punto di vista collettivo). Ma quando Ferrara esclude dal nucleo duro dei diritti umani la parità di genere, le "rivendicazioni egualitarie" e la possibilità di mettere in questione l'ordine stabilito, mi sembra che rischi di gettare via proprio ciò che connota il linguaggio dei diritti. Nell'idea di "diritto soggettivo individuale" si può forse lasciar cadere l' "individuale", se non altro in una certa accezione "individualistica". Ma non il "soggettivo" e tanto meno il "diritto", nel senso in cui "diritto soggettivo" presenta quella specificità deontica che abbiamo cercato di ricostruire.

Peraltro ho l'impressione che con un'operazione di questo tipo non si ottenga molto in termini di condivisione interculturale e di fusione degli orizzonti. L'impostazione di Ferrara sembra piuttosto proporre una "radicalizzazione" di Ignatieff attraverso lo schema elaborato da Rawls in The Law of Peoples: una struttura a cerchi concentrici delle relazioni globali, con al centro le "società liberali", in una sfera più allargata le "società gerarchiche decenti" - che rispettano i diritti umani - ed ai margini gli "Stati fuorilegge". Il problema è che quello di Rawls, così come quello di Ignatieff e quello di Michael Walzer, è un modello regressivo delle relazioni internazionali, che ignora il ripudio della guerra previsto dalla Carta delle Nazioni Unite e dalle costituzioni postbelliche.

Per Rawls uno Stato che viola i diritti umani si colloca al di fuori del diritto dei popoli, nell'ambito degli "Stati fuorilegge". Ma, in virtù dell'universalità dei diritti umani, è comunque tenuto a rispettarli: "la forza politica (morale) di questi diritti si estende a tutte le società, ed essi sono vincolanti per tutti i popoli e tutte le società, compresi gli stati fuorilegge" (82). Ne consegue, secondo Rawls, che i popoli liberali ed i popoli decenti sono tenuti a non tollerare gli Stati fuorilegge. La guerra contro gli Stati fuorilegge allo scopo di tutelare i diritti umani è pertanto una guerra giusta. Ciò vale senz'altro nel caso in cui gli Stati fuorilegge rappresentino una minaccia per i popoli liberali e per i popoli decenti, ma può valere anche nel caso in cui gli Stati fuorilegge non siano particolarmente aggressivi o pericolosi: "Se i crimini contro i diritti umani sono di rilievo eccezionale e la società resta insensibile all'imposizione di sanzioni, un intervento di forza a difesa dei diritti umani risulterebbe accettabile e sarebbe all'ordine del giorno" (83). Se Ignatieff sembra prescindere completamene dal diritto internazionale, Rawls sembra regredire ai primi stadi della sua elaborazione, ben al di qua dell'affermazione novecentesca dello ius contra bellum.

Ho citato queste tesi di Rawls per ritornare su un punto cui ho solo accennato: la nozione di diritto soggettivo è una nozione, in primo luogo, giuridica, e il linguaggio dei diritti è un linguaggio eminentemente giuridico. Esistono certamente teorie morali rights-based, e non si può negare che l'idea che gli individui godano di determinati diritti è ampiamente diffusa nell'ethos delle moderne società liberaldemocratiche. Ciò nonostante, il concetto di diritto soggettivo ha un'origine giuridica ed è uno dei concetti fondamentali utilizzati nel moderno linguaggio giuridico. Tale concetto può rimandare all'ambito della morale, e in particolare è ovvio che alcuni diritti fondamentali hanno anche un contenuto morale. Ma la loro specificità di diritti consiste nel fatto che tali contenuti morali sono giuridicizzati, o che potenzialmente possano divenirlo. Connotare una facoltà, un potere e una rivendicazione in termini di diritto soggettivo dischiude la possibilità di individuare delle tecniche giuridiche attraverso le quali renderne effettivo il godimento.

Ritengo che questo valga a fortiori nell'ambito del confronto interculturale. Il diritto può contribuire a questo confronto con maggiori chances della morale. Forse, più che ricercare, come molti propongono, un overlapping consensus (che nell'impostazione di Rawls è una forma di consenso morale) sul contenuto dei diritti umani o ipotizzare "equivalenti omeomorfi", si dovrebbe partire dalla considerazione dei diritti umani come principi giuridici, parte integrante del diritto internazionale. E si dovrebbe in questo senso valorizzare la funzione del diritto come medium nel quale è possibile compensare le differenze culturali, trasferendo su un altro piano conflitti che rimangono insolubili a livello etico. Negli anni novanta Jürgen Habermas ha sostenuto che i diritti umani "possono essere fondati soltanto da una prospettiva morale" (84), ma anche che non si identificano con norme morali: "una moralizzazione immediata del diritto e della politica" (85) condurrebbe ad un Menschenrechtfundamentalismus. Se a livello globale fosse realizzata una condizione di effettiva giuridicità, le violazioni dei diritti umani verrebbero "perseguite come si perseguono le azioni criminali nel quadro di un ordinamento giuridico statale: vale a dire attraverso procedimenti giuridici istituzionalizzati" (86).

Queste argomentazioni si sono perse per strada quando Habermas si è impegnato a legittimare l'intervento militare della Nato in Kosovo come basato su "buone motivazioni etiche" (87), ma sono riemerse più di recente. Contro il vulnus al diritto internazionale rappresentato dall'invasione dell'Iraq, Habermas ha sostenuto che anche i principi universali devono essere contestualizzati: "I 'valori' - anche quelli che possono contare sul riconoscimento universale - non sono sospesi nel vuoto, bensì acquistano carattere vincolante solo nelle pratiche e negli ordinamenti normativi di determinate forme culturali di vita" (88). Emerge una visione del diritto come spazio del confronto e del compromesso, nel quale i diritti umani trovano concretezza. È l'irriducibile pluralità delle interpretazioni a rendere necessario il diritto. Una politica che "sostituisce le proprie motivazioni normative alle prescritte procedure giuridiche" (89) incontra "insuperabili difficoltà cognitive". Un governo egemone "non potrà mai essere sicuro di distinguere i propri interessi nazionali da quegli interessi generalizzabili che potrebbero essere condivisi anche da altre nazioni. Questa impossibilità è una questione di logica dei discorsi pratici, non di buona volontà" (90). Non intendo suggerire di assumere integralmente la prospettiva di Habermas, ancora profondamente debitrice dell'approccio cosmopolitico kantiano (91). Tuttavia credo che sia significativo che anche un universalista a tutto tondo come Habermas riconosca l'irriducibilità dei conflitti di interpretazione e la necessità di contestualizzare i principi, e colga nella risposta a questi problemi lo spazio del diritto e dei diritti soggettivi.


Note

*. Ho presentato una prima versione di questo testo nel seminario di Ragion pratica tenuto nel Dipartimento di Scienze giuridiche dell'Università di Ferrara il 22-23 giugno 2007. Una versione successiva è stata pubblicata su Ragion Pratica, 28 (2008), pp. 337-364. Ringrazio i partecipanti e gli organizzatori - a cominciare da Baldassare Pastore ed Enrico Diciotti - per l'invito e le osservazioni critiche. Ringrazio il Direttore della rivista e l'Editore per aver consentito la ripubblicazione in formato elettronico. Vorrei anche precisare che questo testo è stato scritto prima di intraprendere la lettura dei Principia Iuris di Luigi Ferrajoli (Roma-Bari, Laterza, 2007).

1. Utilizzo il termine "diritti soggettivi" in senso ampio, come sinonimo di rights, per evitare ambiguità con l'uso oggettivo del termine italiano "diritto". Non particolarmente tecnico è anche il mio uso di "diritti fondamentali": allude a quei diritti che sono considerati di particolare rilievo in uno o più determinati ordinamenti, tanto da costituirne, per così dire, le fondamenta. L'espressione "diritti umani" si riferisce a quei diritti fondamentali di cui sono titolari tutti gli appartenenti alla specie homo sapiens sapiens.

2. T. Mazzarese, "Minimalismo dei diritti: pragmatismo antiretorico o liberalismo individualista?", Ragion Pratica, 26 (2006), pp. 179-208.

3. H. Kelsen, La teoria generale del diritto e il materialismo storico (1931), Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1979, p. 117.

4. H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato (1945), Milano, Etaslibri, 1994, p. 80

5. H. Kelsen, La teoria generale del diritto e il materialismo storico, cit., p. 122. Cfr. anche H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, cit., p. lii

6. H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, cit., p. 75

7. Ivi, p. 80.

8. Ivi, p. 79.

9. H. Kelsen, La teoria generale del diritto e il materialismo storico, cit., p. 122. Cfr. anche H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, cit., p. 128

10. H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, cit., p. 81

11. Ivi, p. xlix.

12. W.N. Hohfeld, "Alcuni concetti giuridici fondamentali nella loro applicazione al ragionamento giudiziario. I" (1913), in W.N. Hohfeld, Concetti giuridici fondamentali, Torino, Einaudi, 1969, pp. 18-19.

13. "Se, come sembra auspicabile, cercassimo un sinonimo del termine 'diritto' in questo significato limitato ed appropriato, forse il vocabolo inglese 'claim' (pretesa) risulterebbe il migliore" (ivi, p. 19).

14. B. Celano, "I diritti nella jurisprudence anglosassone contemporanea. Da Hart a Raz", inP. Comanducci, R. Guastini (a cura di), Analisi e diritto 2001. Ricerche di giurisprudenza analitica, Torino, Giappichelli, 2002, p. 16.

15. Ivi, p. 17.

16. "Per "concezione statica" (dei diritti) intendo, in prima approssimazione, una concezione che vede un diritto come una posizione normativa soggettiva elementare (atomica), compiutamente determinata, o come un insieme finito, compiutamente determinato (un aggregato, una molecola), di posizioni siffatte. Per "concezione dinamica" intendo invece una concezione che vede un diritto soggettivo come il nucleo germinale di (come una ragione atta a giustificare l'attribuzione o il riconoscimento di) posizioni normative determinate, o insiemi determinati di posizioni siffatte (come la ratio che spiega, giustificandola, l'attribuzione o il riconoscimento di posizioni normative determinate). L'insieme delle posizioni di volta in volta giustificate, o spiegate (razionalizzate), dal diritto medesimo è concepito come suscettibile di mutamento, sviluppo, o articolazione progressiva (non, dunque, come già dato, nella sua interezza, con il diritto rilevante)" (ivi, p. 6).

17. D. Lyons, "The Correlativity of Rights and Duties", Noûs, 4 (1970), 1, pp. 45-57.

18. Ivi, p. 47.

19. Ivi, pp. 49-50.

20. Ivi, p. 52.

21. Ivi, p. 53.

22. H.L.A. Hart, "Bentham on Legal Rights" (1973), ora in C. Wellman (ed.), Rights and Duties, vol. 1, Conceptual Analyses of Rights and Duties, New York-London, Routledge, 2002, pp. 94-95; cfr. anche Id., Il concetto di diritto (1962), Torino, Einaudi, 1965, p. 35.

23. H.L.A. Hart, "Bentham on Legal Rights", cit., p. 100.

24. "[...] if to say that an individual has such a right means no more than that he is the intended beneficiary of a duty, then 'a right' in this sense may be an unnecessary, and perhaps confusing, term in the description of the law, since all that can be said in the terminology of such rights can be and indeed is best said in the indispensable terminology of duty. So the benefit theory appears to make nothing more of rights than an alternative formulation of duties. Yet nothing seems to be gained in significance or clarity by translating, e. g. the statement that men are under a legal duty non to murder, assault, or steal from others into the statement that individuals have a rights not to be murdered, assaulted, or stolen from, or by saying, when a man has been murdered, that his right not to be killed has been violated" (ivi, p. 110).

25. Ivi, p. 111.

26. Ivi, p. 112.

27. Ivi, p. 113.

28. Cfr. ivi, pp. 113-15.

29. "Where there is a contract between two people, not all those who benefit and are intended to benefit by the performance of its obligation have a legal right correlative to them. In many jurisdictions contracts expressly made for the benefit of third parties, e. g. the contract between two people to pay a third party a sum of money, is not enforceable by the third party and he cannot waive or release the obligation. In such a case although the third party is a direct beneficiary since breach of the contracts constitutes a direct detriment to him, he has no legal control over the duty and so no legal right. On the other hand the contracting party having the appropriate control has the legal rights, though he is not the person intended to benefit by the performance of the contract" (ivi, p. 115).

30. Ivi, p.116.

31. Ivi, p.117.

32. N. MacCormick, "Rights in Legislation", in P.M.S. Hacker, J. Raz (a cura di), Law, Morality and Society. Essays in Honour of H.L.A. Hart, Oxford, Clarendon Press, 1977, pp. 199-204.

33. Cfr. ivi, p. 206; cfr. anche N. MacCormick, "Laws, Claims, and Remedies", Law and Philosophy, 1 (1982), pp. 348-49.

34. D.N. MacCormick, "Rights in Legislation", cit., p. 205.

35. Ivi, p. 206.

36. "Un diritto è, tipicamente, una ragione per l'imposizione o il riconoscimento di un dovere (o di doveri, o in generale di ulteriori posizioni normative: soggezioni, incapacità, poteri, ecc.) ad esso riconducibili (il diritto è, cioè, un criterio di individuazione, e un principio di giustificazione, di doveri, o ulteriori posizioni soggettive; è questo, precisamente, l'elemento unificatore del vocabolario dei diritti); dunque i diritti stanno in una relazione di priorità (concettuale, logica, assiologica, e talvolta cronologica) rispetto ai doveri (o, in generale, le posizioni normative soggettive) da essi giustificati o giustificabili" (B. Celano, op. cit., pp. 41-42). Uno sguardo a questo dibattito potrebbe essere di qualche utilità per gli autori che, ricorrentemente, riaffermano che la correlatività diritti/doveri è un dato "vero" (magari per aggiungere che i diritti "separano" gli esseri umani mentre i doveri li uniscono). Cfr., da ultimo, T. Greco, "Prima il dovere. Una critica alla filosofia dei diritti", in S. Mattarelli (a cura di), Il senso della repubblica. Doveri, Milano, FrancoAngeli, 2007, pp. 15-30.

37. B. Celano, op. cit., p. 44; cfr. C.S. Nino, The Ethics of Human Rights, Clarendon, Oxford, 1991, pp. 25-34; P. Comanducci, "Diritti vecchi e nuovi: un tentativo di analisi", Materiali per una storia della cultura giuridica, 17 (1987), pp. 106-07.

38. In questo senso cfr. L. Milazzo, "Diritto, dovere, potere o dei 'fantasmi giuridici'", in S. Matterelli (a cura di), op. cit., pp. 31-42.

39. N. Bobbio, Contributi ad un dizionario giuridico, Torino, Giappichelli, 1994, p. 199.

40. N. Bobbio, L'età dei diritti (1990), Torino, Einaudi, 1997, p. xviii.

41. Ivi, p. 81. La metafora di Bobbio potrebbe essere utilizzata per rimandare alle tesi di Hart e MacCormick: se non esiste figlio senza padre, l'esistenza del figlio rimanda sempre anche a quella di una madre; e il padre non potrebbe essere tale senza una partner.

42. Ivi, p. xi, cfr. pp. 54-57, 112-14.

43. Ivi, p. 49.

44. J. Feinberg, "Duties, Rights, and Claims", American Philosophical Quarterly, 3 (1966), 2, p. 137.

45. Ivi, p. 142.

46. Ivi, p. 143.

47. Ivi, pp. 143-44.

48. Ivi, p. 137.

49. J. Feinberg, "The Nature and Value of Rights", in J. Feinberg, Rights, Justice, and the Bonds of Liberty: Essays in Social Philosophy, Princeton, Princeton University Press, 1980, pp. 143-58.

50. J. Feinberg, "The Nature and Value of Rights", cit., p. 149.

51. Ibid.

52. Ivi, p. 152.

53. Ivi, p. 151.

54. "Ogni contadino ci dirà che un uomo ha i suoi diritti e che violare questi diritti costituisce una ingiustizia. Se ancora gli chiediamo che cosa intenda con il termine diritto, probabilmente lo obblighiamo a sostituire questo termine con un termine meno significativo e appropriato, o lo costringiamo a spiegare qualcosa che è una forma originaria della sua mente e un sentimento primario a cui egli si riferisce quando vuole chiarirsi su un particolare uso del suo linguaggio [...]. Non è nostro compito sviluppare qui la nozione di diritto nelle sue diverse applicazioni, ma è nostro compito ragionare sul sentimento favorevole con cui quella nozione viene intesa dalla mente" (A. Ferguson, Saggio sulla storia della società civile [1767], Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 115).

55. Cfr. ivi, pp. 184, 205-06. "Per concedere alla comunità qualche grado di libertà politica è forse sufficiente che i suoi membri, sia in quanto singoli, sia in quanto componenti i loro diversi ceti, sostengano fermamente i loro diritti [...]. In mezzo ai conflitti di parte gli interessi pubblici e anche le massime della giustizia e della lealtà sono a volte dimenticate, e tuttavia non ne seguono inevitabilmente quelle fatali conseguenze che un tale grado di corruzione sembra far presagire. L'interesse pubblico è spesso assicurato non perché gli individui sono disposti a considerarlo come il fine della loro condotta, ma perché ciascuno nella sua posizione è deciso a salvaguardare il proprio interesse. La libertà è sostenuta dalle continue divergenze e opposizioni tra i diversi gruppi, non dal concorso del loro zelo a favore di un governo giusto" (ivi, pp. 120-21). "La libertà è un diritto che ogni individuo deve essere pronto a rivendicare per se stesso, e colui che pretenda di concederla come un favore con quest'atto l'ha in realtà negata. Neanche sulle istituzioni politiche si può fare affidamento per la salvaguardia della libertà, anche se esse sembrano indipendenti dalla volontà e dall'arbitrio degli uomini. Possono nutrire, ma non possono sostituire quello spirito fermo e risoluto con cui una mente liberale è sempre pronta a opporsi ai torti e ad assumere su di sé la propria sicurezza" (ivi, pp. 300-1).

56. Per Bobbio "i diritti naturali sono diritti storici" (N. Bobbio, L'età dei diritti, cit., p. VIII), e cioè "sono nati in certe circostanze, contrassegnate da lotte per la difesa di nuove libertà contro vecchi poteri, gradualmente, non tutti in una volta e non una volta per sempre. [...] la libertà religiosa è un effetto delle guerre di religione, le libertà civili, delle lotte dei parlamenti contro i sovrani assoluti, la libertà politiche e quelle sociali, della nascita, crescita e maturità del movimento dei lavoratori salariati, dei contadini con poca terra o nullatenenti, dei poveri che chiedono ai pubblici poteri non solo il riconoscimento della libertà personale e delle libertà negative, ma anche la protezione del lavoro contro la disoccupazione, e i primi rudimenti d'istruzione contro l'analfabetismo, e via via l'assistenza per l'invalidità e la vecchiaia [...] i diritti non nascono tutti in una volta. Nascono quando devono o possono nascere. Nascono quando l'aumento del potere dell'uomo sull'uomo, che segue inevitabilmente al progresso tecnico, cioè al progresso della capacità dell'uomo di dominare la natura e gli altri uomini, crea o nuove minacce alla libertà dell'individuo oppure consente nuovi rimedi alla sua indigenza" (ivi, pp. XIII-XV).

57. D. Zolo, "La strategia della cittadinanza", in D. Zolo (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 30.

58. Cfr. ivi, pp. 29-35.

59. M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani (2001), Milano, Feltrinelli, 2003, p. 75.

60. Ivi, p. 79.

61. Cfr. L. Ferrajoli et al., Diritti fondamentali, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 31-33; A. Sen, "Elements of a Theory of Human Rights", Philosophy and Public Affairs, 32 (2004), 4, pp. 345-48.

62. S. Holmes, C.S. Sunstein, Il costo dei diritti. Perché la libertà dipende dalle tasse (1999), Bologna, Il Mulino, 2000 per una critica specifica di Ignatieff su questo punto cfr. T. Casadei, "I 'diritti assenti': diritti umani ed esclusione della socialità nel pensiero di Ignatieff", in L. Marchettoni (a cura di), Forum di discussione su Una ragionevole apologia dei diritti umani, "Jura Gentium", 2003; E. Diciotti, "I diritti umani come politica e come ideale", in L. Marchettoni (a cura di), Forum di discussione su Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit.

63. Cfr. E. Wolgast, La grammatica della giustizia (1987), Roma, Editori Riuniti, 1991.

64. Non intendo seguire Wolgast fino in fondo: il linguaggio dei diritti trova molte opportune applicazioni nell'ambito dell'assistenza, della salute, delle relazioni familiari e così via. E sarebbe ovviamente una grave regressione non considerare il malato terminale o la bambina oggetto di violenza sessuale fra le mura domestiche come soggetti di diritti. Tuttavia mi sembra che il saggio in questione segnali un problema reale, rispetto al quale la tesi della correlatività non offre a mio avviso strumenti particolarmente adeguati.

65. M. Ignatieff, op. cit., p. 92.

66. Ivi, p. 70

67. Ivi, p. 58.

68. Ivi, p. 45.

69. Ivi, pp. 26-27.

70. Cfr. M. Ignatieff, "The Burden", New York Times Magazine, January 5, 2003; Id., "Getting Iraq Wrong", The New York Times, August 5, 2007 (versione italiana "Sull'Iraq ho sbagliato, anche Bush si ricreda", in La Repubblica, 6 agosto 2007).

71. D. Zolo, "Fondamentalismo umanitario", in M. Ignatieff, Una ragionevole apologia, cit., p.154.

72. Cfr. A. Sen, "Rights and Agency", Philosophy and Public Affairs, 11 (1982), 1, pp. 3-39 ; Id., "Legal Rights and Moral Rights. Old Questions and New Problems", Ratio Juris, 9, (1966), 2.

73. Cfr. A Sen, "Elements of a Theory of Human Rights", cit. Per Sen "i diritti politici e civili conferiscono al popolo l'autorità necessaria per richiamare l'attenzione sui propri bisogni generali e per esigere un adeguato intervento da parte dello Stato" (Id., La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un'invenzione dell'Occidente [1999-2003], Milano, Mondadori, 2004, p. 55). In questo senso la democrazia sconfigge le carestie: non si danno evidenze empiriche di gravi carestie in regimi democratici, ma solo in colonie imperiali, dittature militari, regimi a partito unico.

74. Cfr. R. Panikkar, "La notion des droits de l'homme est-elle un concept occidental? ", Diogéne, 120 (1982), pp. 87-115.

75. Cfr. O. Höffe, "Déterminer le droits de l'homme à travers une discussion interculturelle", in Revue de métaphisique et de morale, 4 (1998).

76. Nella Dichiarazione del Cairo sui diritti umani nell'Islam, adottata con Risoluzione 49/19-P dalla Conferenza Islamica dei ministri degli esteri nel 1990 si citano il diritto al lavoro (art. 13), e quello all'assistenza medica (art. 17), mentre si enfatizza da un lato l'illegittimità della schiavitù ("non esiste soggezione se non a Dio l'Altissimo") e dall'altro lato del colonialismo ed il diritto alla libertà ed all'autoderminazione dei popoli (art. 11). Peraltro i diritti fondamentali sono dichiarati "parte integrante della religione islamica", "soggetti alla Shari'ah Islamica" (art. 24), che ne costituisce "la sola fonte di riferimento per l'interpretazione" (art. 25).

77. "Al di fuori della cerchia europea della cultura postilluministica, una cerchia di persone relativamente tranquille per quanto riguarda la loro sicurezza personale e fisica, e abituate da duecento anni a manipolare i loro reciproci sentimenti, la grande maggioranza degli uomini è semplicemente incapace di comprendere il motivo per cui l'appartenenza a una specie biologica dovrebbe essere sufficiente a garantire l'appartenenza a una comunità morale. Se accade ciò, la causa non è da ricercare in un difetto di razionalità; causa tipica ne è semmai il fatto che queste persone vivono in un mondo dove sarebbe troppo rischioso, se non addirittura una pericolosa pazzia, lasciare che il proprio senso della comunità morale si estenda al di là della famiglia, del clan o della tribù di appartenenza" (R. Rorty, "Diritti umani, razionalità e sentimento", in S. Shute, S.Hurley (a cura di), I diritti umani (1993), Milano, Garzanti, 1994, pp. 141-42).

78. R. Rorty, "Giustizia come lealtà più ampia", Filosofia e questioni pubbliche, 2 (1996), 1, pp. 63-64.

79. Ivi, p. 4; cfr. pp. 32-39.

80. R. Rorty, Scritti Filosofici (1991), Roma-Bari, Laterza, 1994, vol. i, p. 35.

81. A. Ferrara, "Fondare senza fondamentalizzare i diritti umani. Il ruolo si una Seconda Dichiarazione", in L. Marchettoni (a cura di), Forum di discussione su Una ragionevole apologia dei diritti umani, cit.

82. J. Rawls, Il diritto dei popoli (1999), Torino, Edizioni di Comunità, 2001, p. 106.

83. Ivi, p. 125n.

84. J. Habermas, L'inclusione dell'altro (1996), Milano, Feltrinelli, 1998, p. 204.

85. Ivi, p. 212.

86. Ivi, p. 206.

87. J. Habermas, "Humanität, Bestialität", Die Zeit, 29 aprile 1999 (trad. it. in G. Bosetti (a cura di), L'ultima crociata, Roma, Reset, 1999).

88. J. Habermas, L'Occidente diviso (2004), Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 15.

89. Ivi, p. 94.

90. Ivi, p. 187.

91. Anche se Habermas sembra aver abbandonato uno schema monistico, cosmopolitico in senso stretto, delle relazioni internazionali. Habermas, come è noto, delinea un'articolazione pluralistica, su diversi livelli, delle istituzioni globali, internazionali e regionali: una "politica interna mondiale senza governo del mondo".