2005

I "diritti assenti"
Diritti umani ed esclusione della socialità nella riflessione di Ignatieff

Thomas Casadei

Quella dei diritti umani è una categoria divenuta centrale nel lessico filosofico-giuridico e filosofico-politico e nell'ambito della discussione in materia di relazioni internazionali, a tal punto da essere considerata come una sorta di codice etico e giuridico universale; tuttavia a questa espansione e pervasività è venuta associandosi anche una rilevante - e a volte disorientante - imprecisione e confusione concettuale. Se, come è stato osservato (1), è certamente vero che quello dei diritti umani si configura come un linguaggio, è altrettanto vero che in ogni linguaggio si verificano deformazioni e abusi, modulazioni diverse degli stessi elementi, fino ad arrivare all'accantonamento o all'esclusione di certi lemmi o ambiti lessicali, e quest'ultimo processo in molti casi avviene per addivenire ad una maggiore (e presunta) chiarezza (2). Nel provare, appunto, a fare chiarezza a proposito del linguaggio dei diritti umani, e anche con l'intento di consentire ad essi di tradursi in concreta prassi, Michael Ignatieff pare procedere nella sua trattazione attraverso una doppia strategia.

Da un punto di vista storico, egli si richiama direttamente al secondo dopoguerra, alla Dichiarazione universale dei diritti umani che rappresenta "un ritorno da parte della tradizione europea al diritto naturale, che è la sua eredità, un ritorno con lo scopo di ristabilire la capacità di azione, di dare agli individui il coraggio civico per resistere a uno stato che ordinasse loro azioni ingiuste" (p. 9). La Dichiarazione è dunque parte di una "riorganizzazione più ampia dell'ordine normativo delle relazioni internazionali del dopoguerra", nell'ambito della quale - fa notare Ignatieff - rientrano anche la Carta delle Nazioni Unite del 1945, la Convenzione sui genocidi, la revisione delle convenzioni di Ginevra, la Convenzione internazionale sul diritto d'asilo.

Da un punto di vista concettuale, la nozione di diritti umani è inserita, per così dire, all'interno di una sistematica "logica dell'e", ovvero, essa è di volta in volta posta in relazione - quasi a voler tratteggiare una mappa dettagliata - ad altre categorie: progresso morale, nazionalismo, autodeterminazione, democrazia, costituzionalismo, intervento militare, imperialismo, individualismo, universalismo (3). Emergono così alcune connessioni strutturali che segnano in profondità, per la loro frequenza e 'ricorsività', il linguaggio dei diritti umani.

La congiunzione tra i due profili, storico e concettuale, si manifesta in un esplicito e perentorio rilancio della prospettiva sottesa alla "Dichiarazione Universale del diritti dell'uomo", ovvero della costitutiva connessione tra diritti umani e individualismo: "il discorso dei diritti è individualistico" costituisce l'icastica e paradigmatica espressione utilizzata da Ignatieff (p. 77). Un individualismo morale che giustifica, in via esclusiva, un'idea della libertà meramente negativa (in ossequio alla teorizzazione del maestro di Ignatieff, Isaiah Berlin (4)) e che, nell'ottica dell'autore, va difeso a oltranza - anche con l'intervento umanitario se necessario - per quanto in maniera laica e non idolatrica.

L'impianto della teorizzazione di Ignatieff se, da un lato, mostra una affascinante propensione a generare un linguaggio coerente e potenzialmente meno soggetto a fraintendimenti, dall'altro, pare non tener conto di due questioni, a nostro avviso, centrali per una riflessione politica sui diritti umani: da un punto di vista storico, l'esistenza di Patti internazionali che si accompagnano alla Dichiarazione; da un punto di vista più strettamente teorico-concettuale, al rilievo che la socialità può avere nel configurare l'architettura dei diritti. Pare si possa, pertanto, individuare una doppia "omissione" che si cela dietro la strategia argomentativa contenuta nella riflessione di Ignatieff.

Sotto il profilo storico, come è noto, alla Dichiarazione universale del 1948 sono seguiti il "Patto internazionale sui diritti economici, sociali, culturali", il "Patto internazionale sui diritti civili e politici", e il Protocollo facoltativo elaborati dalla Commissione dei diritti dell'uomo, dalla terza Commissione dell'Assemblea generale e adottati, infine, da quest'ultima il 16 dicembre 1966 (5), segnando un passaggio rilevante dal carattere assoluto e perentorio della Dichiarazione al duttile realismo della pratica effettiva dei diritti, che è volta a sfruttare al massimo le disponibilità reali dei singoli stati sulla base della contingente situazione internazionale. Il non tener conto di questa proiezione pattizia della Dichiarazione - e di quello che è stato interpretato come International Bill of Rights (6)- significa espungere dalla sfera (e dal linguaggio) dei diritti umani un'ampia gamma di diritti: da quelli economici (diritto al lavoro, ad eque condizioni di lavoro, di associazione sindacale e di sciopero) a quelli sociali (diritto alla sicurezza sociale, protezione della famiglia, della madre e del bambino, diritto ad un livello di vita sufficiente, diritto alla tutela della salute) a quelli culturali (all'educazione, a partecipare attivamente alla vita culturale) (7), per i quali un peso rilevante giocano anche l'esperienza di istituzioni specializzate quali l'Organizzazione internazionale del lavoro, l'Organizzazione internazionale della Sanità, l'Unesco.

Tale omissione in chiave storica evidenzia, dunque, una chiara manifestazione della non giustificabilità dei diritti sociali (del tutto conseguente con l'idea di una libertà solamente negativa) nella proposta politica dell'autore relativa ai diritti umani, ma rinvia anche ad una questione che, appunto, non viene fatta rientrare nella "mappa di Ignatieff", disegnata dalla "logica dell'e": quella della socialità. In altri termini, la mancanza di profondità storica del ragionamento di Ignatieff si lega ad una deliberata esclusione dei diritti sociali (e dunque della loro radice, la dimensione sociale) dal novero dei diritti umani.

"Una ragionevole apologia dei diritti umani", quale quella di Ignatieff si propone di essere - esplicitando costitutivamente la sua valenza pragmatica - ci pare oggi difficilmente sostenibile, prescindendo dalla sfera della socialità e dei diritti sociali. Il rischio è quello di un linguaggio che esclude dalla "comunità dei parlanti" ampi settori di potenziali soggetti e che comunque esclude alcune capacità anche per coloro che hanno la possibilità di esprimersi.

Da un'angolazione al tempo stesso storica e concettuale, già alla fine del Settecento Thomas Paine, uno dei primissimi teorici dei diritti umani (8), parlava dei welfare rights e della necessità di un intervento positivo delle istituzioni o della comunità politica (9). Dei diritti di socialità o di solidarietà c'è dunque già traccia agli inizi della storia costituzionale dei diritti e agli inizi della riflessione sui diritti umani come diritti fondamentali (10). Anzi, potremmo dire che la protezione dei diritti di libertà - che rappresentano il cuore della riflessione di Ignatieff - di fatto si è giovata delle forme di implementazione dei diritti sociali (11).

Riepilogando, a quasi sessant'anni dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo ci pare difficile, e politicamente non molto produttivo (seguendo l'intenzione pragmatica di Ignatieff), restringere la sfera dei diritti umani ai diritti di libertà negativa per un triplice motivo: a) a fronte degli squilibri ancor più evidenti nello scenario globale, risulta sempre più urgente configurare un diritto alla libertà dalla fame e un diritto ad un livello di vita adeguato (peraltro sanciti dal Patto sui diritti economici); b) un diritto alla sopravvivenza di livello internazionale è un diritto fondamentale legato strettamente al diritto alla vita e quest'ultimo è insieme negativo e positivo, prova emblematica dell'interdipendenza fra tutti i tipi di diritti (12); c) contrariamente a quanto sostiene Ignatieff (pp. 91-92) (13), i diritti sociali non possono essere concepiti come meri diritti collettivi che possono addirittura condurre alla tirannia: essi rinviano alla concreta posizione individuale in seno alla società (14).

Il linguaggio dei diritti umani parrebbe allora, seguendo un'altra prospettiva, doversi allargare fino a ricomprendere i diritti sociali internazionali, cioè i diritti della terza generazione (diritti di solidarietà, allo sviluppo (15), alla pace internazionale, ad un ambiente protetto, alla comunicazione) e della quarta generazione (diritti delle generazioni future, diritti a un patrimonio genetico non manipolato). Sotto questo profilo, può allora tornare di grande utilità e pregnanza la configurazione della "Dichiarazione dei diritti sociali" proposta da Georges Gurvitch (16) e apparire feconda l'etica dello sviluppo generata dal capability approach di Martha Nussbaum e Amartya Sen (17). Entro tali coordinate, è possibile rimodulare la tensione tra individuo e collettività, ampliando il discorso individualistico dei diritti ad una dimensione sociale, e quindi mettere a fuoco anche la correlazione tra diritti e doveri, tra poteri dell'essere umano e suoi limiti (18); nonché articolare un'altra forma di individualismo che si affianca, anche nella modalità di una tensione oppositiva, alle forme più ricorrenti presenti pure sullo sfondo del testo di Ignatieff (individualismo 'ontologico', 'morale', 'metodologico'): l'individualismo sociale, ovvero una forma di individualismo che possa far fiorire anche la propensione cooperativa dei soggetti individuali, ponendoli di fronte ai loro limiti oltre che alle loro possibilità d'azione (19).

A questo punto, si può svolgere un'ultima considerazione suggerita dal volume di Ignatieff, relativa alla portata universalistica dei diritti umani. Criticando Dworkin, Ignatieff sostiene che occorra smettere di pensare ai diritti umani come delle specie di briscole (trumps card) e cominciare a considerarli come un linguaggio che crea le basi per la deliberazione (p. 96), essi possono costituire il vocabolario comune dal quale dovrebbero cominciare le nostre argomentazioni, e il quid minimo umano nel quale possono attecchire idee diverse dello sviluppo (entro un'ottica che prevede una pluralità dei modelli di vita buona). Sulla base del ragionamento svolto in precedenza, ci pare allora che entro questo vocabolario comune non possano non rientrare la socialità e l'idea di sviluppo: ovvero l'idea di capacità personale intesa nel suo senso più ampio.

Se davvero si vuole pensare ai diritti dell'uomo come diritti dell'uomo nella sua globalità, occorre certamente un «tessuto comune della diversità», una cornice, un linguaggio comune, ma da questo linguaggio non possono essere esclusi a priori il diritto alla salute, ad un ambiente salubre, alle risorse idriche, a quei beni comuni - non meramente individualistici - che vanno ben oltre la sfera privata e che presuppongono che l'individuo si specchi nella dimensione sociale coniugando nella sua azione diritti e doveri. Occorre, dunque, tematizzare come 'umani' quei diritti che sono del tutto assenti nella prospettiva di Ignatieff.

L'universalismo debole (thin), che Ignatieff riprende dalla teorizzazione di Michael Walzer, non riesce a ricomprendere nella sua grammatica alcuni settori essenziali per gli individui (salute, grado di istruzione, partecipazione alla vita sociale) e, perciò, non può andare oltre la netta distinzione tra diritti di libertà e diritti sociali (20). Che i diritti umani possano essere fatti valere attraverso interventi militari cosiddetti "umanitari" è questione assai controversa, forse è meno controverso che i diritti umani debbano essere fatti valere attraverso interventi di altro tipo che limitino la sfera di azione e trasformazione sull'ambiente (attenendosi per esempio agli accordi di Kyoto) o vadano incontro alla soddisfazione dei concreti bisogni essenziali degli individui. Si apre, così, la possibilità di individuare, sulla scia della dimensione della socialità, un'altra fondamentale correlazione: quella tra diritti umani e bisogni (21).

Prendere le mosse dai bisogni, e argomentare in difesa dei diritti umani a partire da questi e dalla sfera della socialità, implica il recupero di un'altra idea di universalismo (anch'essa elaborata da Walzer): l'universalismo reiterativo (22).

Le lotte per la sopravvivenza e per il "riconoscimento", generate a partire dai contesti particolari e dalla pluralità e differenziazione dei bisogni, consentono di individuare la reiterazione delle rivendicazioni, e pertanto di vedere non solo le proprie sofferenze personali, quelle dei gruppi cui si appartiene, ma anche quelle altrui, entro una logica che può procedere dal particolare all'universale, generando quello che potrebbe definirsi come una sorta di "universalismo della sofferenza".

A partire da una semantica complessa dei bisogni (particolari, situati, differenziati) è possibile, secondo il principio di rilevanza (23), articolare principi che 'emergendo' dal contesto, e facendo leva sul "potenziale di situazione", possano essere utilizzati per criticare le istituzioni e le situazioni di dipendenza date, nonché universalizzati onde poter incidere in diversi contesti. Tali principi necessitano di articolazioni e specificazioni che solo negli spazi pubblici e sociali possono trovare concreta manifestazione.

Partire da questa impostazione significa attribuire una diversa valenza all'universalismo: anziché porre l'accento su codici normativi trascendentali «si valorizza l'idea della rivendicazione, della richiesta di riconoscimento, dell'opposizione alle forme di oppressione. L'elemento tendenzialmente universalistico dei diritti umani si manifesta allora nell'impegno di affermarli, rivendicarli, mobilitarsi per ottenerli entro un processo difficile e conflittuale di apprendimento collettivo» (24). Tale processo porta al di là di una giustificazione dei diritti umani unicamente basata sul principio individualistico e su un universalismo minimale, mettendo al centro la dimensione dei diversi bisogni e l'acquisizione di capacità fondamentali per la realizzazione degli individui stessi. Implica, in altri termini, una presenza delle persone in carne ed ossa che non può essere disgiunta dalle pratiche sociali.

Imboccare questa strada significa - in maniera evidente - articolare una ragionevole aspirazione, certo mossa più da un "pregiudizio a favore della speranza", che non dalla messa a fuoco, in una prospettiva filosofica, della priorità del male (e quindi della paura) nella giustificazione di una tesi plausibile sui diritti umani (25).


Note

1. Questa osservazione è contenuta nell'incipit del contributo di E. Diciotti, I diritti umani come politica e come ideale, a questo Forum. Cfr. L. Baccelli, Translating Human Rights: Universalism versus Inter-cultural Dialogue (di prossima pubblicazione).

2. Non solo: come mi è stato fatto giustamente notare da Tommaso Greco, già parlare di 'linguaggio' vuol dire ammettere che quello dei diritti umani è un ambito debole, elastico e fluido, che non ha la 'durezza' tradizionale del diritto.

3. Nel corso della trattazione si individuano chiaramente, anche attraverso le titolazioni dei paragrafi, le connessioni cui di volta in volta la categoria dei diritti umani è collegata ad altre rilevanti nozioni: Diritti umani e progresso morale (pp. 7-9); Diritti umani e nazionalismo (pp. 19-22); Diritti umani e autodeterminazione (pp. 27-34); Diritti umani, democrazia, costituzionalismo (pp. 34-41); Diritti umani e intervento militare (pp. 42-48); Diritti umani e imperialismo (pp. 50-53); Diritti umani e individualismo (pp. 65-79); Diritti umani e universalismo (pp. 58-60).

4. Per una specifica trattazione di questo aspetto rinvio al contributo di Ilario Belloni, Da Ignatieff a Winston Smith: l'insufficienza della libertà negativa.

5. A questi "documenti basilari" vanno poi aggiunte - come suggerisce Francesco Viola - «le iniziative sviluppatesi prevalentemente in ambito regionale» come la Dichiarazione interamericana (1948) e la successiva Convenzione (1969), la Convenzione europea (1953) con i successivi protocolli, la Carta sociale europea (1961), la Carta Africana (1986), la Carta araba dei diritti dell'uomo (1994) (F. Viola, Dalla dichiarazione universale ai Patti internazionali, in Id., Etica e metaetica dei diritti umani, Torino, Giappichelli, 2000, p. 35). E occorrerebbe aggiungere - come invita a fare Danilo Zolo nel suo intervento (Fondamentalismo umanitario, pp. 147-148) - anche «la lunga serie di documenti internazionali che "specificano" le tavole dei diritti individuali e collettivi: la Convenzione sui diritti politici della donna (1952), la Convenzione per la prevenzione e repressione del genocidio (1958), la Dichiarazione dei diritti del fanciullo (1959), la Dichiarazione della concessione dell'indipendenza ai paesi e ai popoli coloniali (1960), la Convenzione contro la discriminazione razziale e l'apartheid (1963)».

6. Sull'Internationl Bill of Rights inteso come insieme della Dichiarazione del 1948 e dei Patti del 1966 si vedano H.J. Steiner e P. Alston, International Human Rights in Context. Law, Politics, Morals, Oxford, Oxford University Press, 1996, e E. Vitta-V. Grementieri, Codice degli atti internazionali sui diritti dell'uomo, Milano, Giuffrè, 1981. Per quanto riguarda il Patto sui diritti economici, sociali e culturali, cfr. M. Craven, The International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights. A Perspective on its Development, Oxford, Clarendon, 1995. Sulla questione si sofferma anche F. Biondo, Benessere, giustizia e diritti umani nel pensiero di Amartya Sen, Torino, Giappichelli, 2003, pp. 117-118.

7. Su questo insiste in maniera analitica Danilo Zolo nel suo commento al volume, Fondamentalismo umanitario, in part. pp. 142-148.

8. Cfr. F. Viola, Dalla natura ai diritti. I luoghi dell'etica contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 1997, il quale efficacemente definisce Paine «un teorico dei diritti che si trova al confine fra la tradizione dei diritti naturali e quella dei diritti dell'uomo» (p. 283).

9. Può essere interessante notare, a questo riguardo, come Paine, sostenitore di una idea della libertà che coniughi non impedimento (libertà da) e piena autonomia (libertà di) - come dimostra chiaramente la sua seminale teorizzazione di un reddito di cittadinanza (basic income) - sia invece inserito a pieno titolo, da Isaiah Berlin, nella filiera dei teorici della libertà negativa (I. Berlin, Due concetti di libertà, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 18); questo prescindendo completamente dall'evoluzione del suo pensiero che da un'idea "minima" dello Stato (che emerge da alcuni passaggi di Common Sense) alla prefigurazione degli assetti dello Stato "sociale" (questo già nella Prima Parte dei Rights of Man, ma in maniera ancor più netta nella Seconda Parte di quest'opera e nel suo scritto meno studiato Agrarian Justice).

Per una trattazione della libertà che supera la dicotomia tra libertà positiva e libertà negativa, cfr. M. La Torre, Libertà, in M. La Torre-Gf. Zanetti, Seminari di filosofia del diritto. Categorie dal dibattito contemporaneo, Soveria Mannelli (CZ), Rubbettino, 2001, pp. 31-80.

10. Cfr. G. Peces Barba, Teoria dei diritti fondamentali, a cura di V. Ferrari, Milano, Giuffrè, 1993, che si sofferma sulla socialità (intesa come solidarietà) come fondamento dei diritti, richiamando tra i "teorici della solidarietà dei moderni" proprio Thomas Paine (insieme a Condorcet).

11. Su questo punto si sofferma F. Viola, Etica e metaetica dei diritti umani, Torino, Giappichelli, 2000, il quale nota: "la solidarietà è necessaria non solo per fondare i diritti sociali, ma anche per rendere effettivi i diritti di libertà" p. 54. Cfr. anche E. Diciotti nella parte conclusiva del suo I diritti umani come politica e come ideale.

12. G. Pontara, Interdipendenza e indivisibilità dei diritti economici, sociali, culturali, civili e politici, in I diritti umani a 40 anni dalla Dichiarazione universale, Padova, Cedam, 1989, pp. 75-92; cfr. F. Viola, Etica e metaetica dei diritti umani, cit., pp. 45-46.

13. Ignatieff coglie una contrapposizione netta tra diritti individuale e diritti sociali intesi come collettivi e dunque assegna ai primi un assoluto primato rispetto ai secondi come è attestato dal seguente passaggio: "Il punto qui potrebbe essere che le libertà civili e politiche sono condizioni necessarie per conseguire in seguito la sicurezza sociale ed economica. Senza la libertà di costruire ed esprimere opinioni politiche, senza la libertà di parola e di riunione, insieme alla libertà di proprietà, gli attori non possono organizzarsi allo scopo di lottare per la sicurezza sociale ed economica" (p. 92).

14. Sul carattere individualistico dei diritti sociali restano assai puntuali le osservazioni di M. Mazziotti, Diritti sociali, Enciclopedia del diritto, XII, Milano, 1962, pp. 804-805. Sulla questione mi sia consentito rinviare a Th. Casadei, "Diritti in bilico": i diritti sociali tra 'oscuramento' e promozione, in C. Del Bo' e M. Ricciardi (a cura di), Pluralismo e libertà fondamentali, Milano, Giuffrè, 2004 (di prossima pubblicazione).

15. Cfr. F. Viola, L'etica dello sviluppo tra diritti di libertà e diritti sociali, in Id., Etica e metaetica dei diritti umani, cit., pp. 71-86.

16. G. Gurvitch, La Dichiarazione dei diritti sociali, Milano, Comunità, 1949.

17. Tra i vari riferimenti possibili per questa teorizzazione, che i due filosofi hanno elaborato insieme, si rinvia a M. Nussbaum, Capacità personale e democrazia sociale, a cura di Gf. Zanetti, Reggio Emilia, Diabasis, 2003.

18. In tal senso il capability approach necessita, come osserva Francesco Biondo, "di tutte e due le concezioni di diritto soggettivo, sia come insieme di pretese correlate alla tutela della volontà del soggetto agente, sia come garanzia della soddisfazione di bisogni, di interessi fondamentali" (F. Biondo, Benessere, giustizia e diritti umani nel pensiero di Amartya Sen, Torino, Giappichelli, 2003, p. 185). La correlazione tra diritti e doveri è un altro aspetto spesso trascurato nelle teorizzazioni sui diritti umani. Una significativa eccezione - non priva comunque di difficoltà - è costituita da Hotfried Höffe: Déterminer les droits de l'homme à travers une discussion interculturelle, "Revue de Mètaphisique et de morale", 4, 1997, pp. 482-483.

19. In questa prospettiva si muove il lavoro di G. Jervis, Individualismo e cooperazione. Psicologia della politica, Roma-Bari, Laterza, 2002.

20. Aspetti questi ricompresi nel capability approach di Sen e Nussbaum e in particolare nella lista che quest'ultima arriva a stilare a proposito delle "capacità umane fondamentali" (cfr. Capacità personale e democrazia sociale, cit., pp. 141-142). Sulla possibilità di superare questa netta distinzione si vedano le argomentazioni contenute nella parte conclusiva del contributo di Enrico Diciotti.

21. J. A. White e J. Tronto, Political Practices of Care: Needs and Rights, paper presentato all'Annual Meeting of the American Political Science Association (Boston, Massachusetts, August 29-September 1, 2002) di prossima pubblicazione su "Ratio Juris". Sulle prospettive aperte da questa impostazione, che si incardina sulla concezione dell'etica della cura, per la sfera dei diritti si sofferma Gf. Zanetti, L'Etica della cura e i diritti, saggio in corso di pubblicazione su "Ragion Pratica".

22. Per un'analisi delle diverse forme di universalismo presenti nell'opera di Walzer mi sia consentito rinviare a Th. Casadei, "Senso del luogo" e tensione universalistica: pluralità delle morali e diritti umani in Michael Walzer, "Fenomenologia e società", 1, 2001, pp. 36-51.

23. Segunedo l'interpretazione che di esso fornisce Gf. Zanetti, Introduzione al pensiero normativo, Reggio Emilia, Diabasis, 2004, pp. 48-53.

24. L. Baccelli, Translating Human Rights, cit.; Id., Il particolarismo dei diritti. Poteri degli individui e paradossi dell'universalismo, Roma, Carocci, 1999.

25. Esercizio quest'ultimo svolto invece, in maniera analitica, da Salvatore Veca nel suo intervento posto di seguito al saggio di Ignatieff. La sua riflessione- cosiddetta "dell'anti-anti-illuminismo" - è "basata sulla testimonianza della paura, piuttosto che sulle aspettative della speranza. Diremo, in questa prospettiva, che i diritti umani sorgono originariamente in risposta alla priorità del male, grazie a un'euristica della paura e ai criteri della prudenza" (I diritti umani e la priorità del male, p. 104). Cfr. M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, p. 82.