2006

Verso una globalizzazione illuminata?

Nicolò Bellanca

Il settimanale Time ha nominato "Persons of the Year" 2005 il cantante Bono degli U2, assieme al fondatore della Microsoft Bill Gates e alla moglie Melinda (1). Con concerti, discorsi e visite ai maggiori capi di Stato, Bono è stato instancabile ambasciatore dei bisogni dei poveri della terra, mentre la Fondazione dei coniugi Gates ha destinato a progetti di beneficenza, in questi ultimi anni, quasi 29 miliardi di dollari: l'equivalente del Pnl di due Stati come il Libano e la Giordania. L'idea di Time è che questi moderni "santi laici" siano, con il loro afflato benevolente e la loro generosità caritativa, l'espressione più nobile di una globalizzazione illuminata e dal volto umano. Nelle brevi note che seguono, prendiamo spunto dalla più autorevole giustificazione intellettuale di questa prospettiva, per metterla in discussione.

Jeffrey Sachs, uno tra i maggiori economisti dello sviluppo odierni, dirige lo Earth Institute della Columbia University ed è consigliere speciale di Kofi Annan. Il suo ultimo volume s'intitola La fine della povertà (2) e inizia presentando alcuni fatti noti. Circa il 40% della popolazione del pianeta è povero. Entro questo gruppo un miliardo di individui è estremamente povero. Ciò significa che il nucleo familiare al quale ciascuno di costoro appartiene non riesce a esaudire esigenze basilari come sfamarsi, disporre di vestiti e ricovero non troppo inadeguati, avere accesso a sanità, acqua potabile, servizi igienici e istruzione per i bambini. Il 93% di questo sesto dell'umanità - entro cui ogni anno otto milioni di persone muoiono per cause direttamente riconducibili alla miseria - vive in Asia orientale, Asia meridionale e in Africa subsahariana. Mentre tuttavia nelle due ragioni asiatiche la povertà estrema è in declino, essa sta crescendo, in termini sia assoluti sia relativi, in Africa.

Sachs s'impegna quindi a documentare alcune tesi meno assodate. I paesi più ricchi si sono formalmente impegnati - fin da un voto dell'Assemblea generale dell'Onu di 35 anni fa, riaffermato in particolare con l'Agenda 21 nel 1992 e con la Petizione di Monterrey del 2002 - ad aiutare i paesi più poveri con lo 0,7% del Pnl, ossia con 7 centesimi per ogni 10 dollari guadagnati. D'altra parte, il differenziale negativo pro capite tra il reddito minimo occorrente alla sopravvivenza (1,08 dollari al giorno per persona, misurati in dollari 1993) e il reddito medio effettivo dei poveri estremi (0,77 dollari) è di 113 dollari l'anno. A livello globale, moltiplicando 113 per 1,1 miliardi di persone in miseria, si ottiene un fabbisogno di 124 miliardi di dollari l'anno. Questa cifra - oltre a rappresentare appena il 27% della spesa militare 2004 dei soli Stati Uniti - equivale allo 0,6% del reddito dei paesi più ricchi, ed è pertanto inferiore all'impegno assunto. Invece nel 2002 il totale degli aiuti lordi verso l'insieme dei paesi in via di sviluppo è stato di 76 miliardi. Di questi, appena 12 miliardi sono considerabili sostegno finanziario rivolto ai bisogni fondamentali dei più poveri. E tuttavia le risorse necessarie sarebbero accumulabili con facilità: affinché ad esempio gli Stati Uniti rispondessero agli impegni assunti, anziché dedicare all'assistenza finanziaria lo 0,14% del Pnl, basterebbero un modestissimo aumento dell'aliquota fiscale ed una sovratassa del 5% per i redditi superiori a 200.000 dollari.

Queste cifre vanno interpretate alla luce di una teoria. Lo "sviluppo" è da Sachs inteso come un processo di modernizzazione (3). Esso si è originato in Gran Bretagna per un concerto di condizioni favorevoli: ordine sociale relativamente aperto; istituzioni di garanzia per l'iniziativa individuale; esplosione di scoperte scientifiche e tecnologiche; possibilità di scambi commerciali a basso costo. Pur rifuggendo dal determinismo, secondo Sachs è in definitiva la geografia fisica e la localizzazione spaziale delle attività economiche a esercitare l'influenza più profonda sulle possibilità di sviluppo di un paese. In questa chiave egli esamina come lo sviluppo si è diffuso lungo tre direzioni principali. Una è andata dalla Gran Bretagna alle sue colonie in Nord America, Australia e Nuova Zelanda: clima temperato e cultura comune hanno permesso di replicare e talvolta migliorare l'esperienza iniziale. Una seconda direttrice si è realizzata in Europa, favorendo anzitutto l'area nordoccidentale perché, affacciata sull'Atlantico, in grado di instaurare traffici marittimi con America e Asia; e inoltre perché meglio provvista di risorse naturali e di condizioni politiche postfeudali. L'ultima direzione di sviluppo procede verso America Latina, Asia e Africa. Essa presenta tuttavia maggiori difficoltà perché oppressa da «un brutale sfruttamento coloniale» (p.53), da scelte politiche sbagliate (protezionismo, statalismo), da classi dirigenti corrotte, ma soprattutto da barriere geografiche (problemi derivanti dal clima, dalla produzione alimentare, dalle malattie, dalle risorse energetiche, dalla topografia e dalla lontananza dai mercati mondiali). Un'appropriata convergenza di elementi politici, sociali e geografici in queste aree viene ottenuta talvolta con ritardi e elevati oneri; talvolta, come per gran parte dell'Africa, rimane irraggiungibile.

La tragica eccezione africana, suggerisce Sachs, si spiega ampiamente guardando all'isolamento geografico, alle malattie e alla vulnerabilità di fronte agli shock climatici. In effetti il clima tropicale genera carestie ed epidemie, rendendo difficile accumulare e reinvestire il sovrappiù. Si aggiunga che, oltre a non avere fiumi navigabili, l'Africa è il continente che, pur secondo per grandezza, ha il minore perimetro costiero e pochi punti adatti alla creazione di porti, inibendo la diffusione dei commerci. Queste condizioni disagiate si perpetuano mediante qualche forma di "trappola della povertà". «L'idea è piuttosto semplice: chi è sottoalimentato non produce abbastanza per permettersi un'alimentazione sufficiente, perciò resta sottoalimentato, e non produce abbastanza ... e così via, creando un equilibrio stabile. [...] In questa concezione, le trappole di povertà non dipendono da un solo meccanismo (per esempio dalla scarsità di credito) ma da più cause che si rinforzano a vicenda. [...] La teoria riconosce circostanze in cui l'alta fertilità, la povertà e la malnutrizione, l'analfabetismo e il degrado della base locale di risorse naturali si alimentano a vicenda, cumulativamente, per lunghi periodi di tempo. Nessuno di questi fattori è considerato la causa prima degli altri: nel tempo, ciascuno influenza gli altri e ne è influenzato. [...] La morale chiave da ricavare è che liberare le persone dalle trappole di povertà richiede un aiuto esterno; infatti, non tutte le vittime hanno l'indispensabile per uscirne da sole. L'espansione del commercio internazionale - più in generale, le politiche economiche che accelerano la crescita del Pnl pro capite - non è qualcosa su cui si possa contare per estrarre dalle sabbie mobili i più poveri tra i poveri delle zone rurali» (4). È questa la principale giustificazione teorica della tesi centrale del libro di Sachs: se si vuole che i più poveri tra i poveri abbiano una via d'uscita, occorre l'intervento dei donatori; senza un flusso consistente e persistente di finanziamenti, le trappole della povertà non si apriranno. La miseria non è eliminabile introducendo buone prassi di governo, politiche di sacrifici sociali o ulteriori riforme liberiste. Le soluzioni di natura interna debbono essere affiancate e spesso precedute dall'assistenza ufficiale internazionale: i paesi più poveri - quelli in cui la percentuale dei poveri estremi supera il 25% della popolazione - dovrebbero ricevere aiuti con continuità nella misura di circa 60 dollari pro capite l'anno per un decennio o per due: un flusso che costituirebbe tra il 20 e il 30% del loro Pil (5). «Quasi tutte le nazioni, a un certo punto della loro storia, hanno ricevuto un aiuto: gli Stati Uniti hanno ricevuto aiuto dalla Francia durante la guerra d'indipendenza; Europa e Giappone hanno goduto di massicci aiuti americani dopo la seconda guerra mondiale; lo stesso è accaduto alla Corea del Sud, dieci anni dopo; Israele ha ricevuto ingenti aiuti economici dagli Stati Uniti; la Germania e la Polonia hanno vista cancellata una parte del loro debito. Dovremmo guardarci dai nostri estremi di moralismo ed evitare di ripetere ai paesi poveri, alle società in crisi, alle popolazioni più vulnerabili di risolvere da soli i propri problemi» (p.139) (6).

La strategia degli aiuti deve a sua volta ispirarsi ad una metodologia rigorosa, che è analitica (individuazione dei bisogni fondamentali non soddisfatti e calcolo dei costi dell'intervento), valutativa (stima del differenziale finanziario che va coperto dai donatori, e del contributo di ciascun donatore), sistemica (coinvolgendo congiuntamente i sei tipi di capitale: umano, produttivo, infrastrutturale, naturale, istituzionale e intellettuale) e capace di stabilire le priorità (le quali riguardano cinque grandi interventi in agricoltura, sanità e istruzione, elettricità, trasporti e comunicazioni, acqua potabile). Quando, afferma Sachs, l'assistenza ufficiale allo sviluppo applica questo approccio è destinata a funzionare, nonostante le attendibili pecche che potrà incontrare.

La tesi della necessità degli aiuti esterni per sconfiggere la povertà estrema si aggancia ad un'altra, che le è complementare: una volta adeguatamente avviato, lo sviluppo procederà per proprio conto; basta dunque far salire stabilmente un paese sui primi gradini della modernizzazione, per confidare che esso procederà autonomamente. Qui l'impostazione di Sachs esprime un sapore dichiaratamente neoilluministico, immaginando possibile «una globalizzazione della democrazia, del multilateralismo, della scienza e della tecnologia, e un sistema economico globale pensato per soddisfare i bisogni di tutti gli uomini» (p.377).

Riassumiamo. Malgrado Sachs sottolinei che i percorsi di sviluppo sono legati a molteplicità di fattori, ritiene che sia possibile e opportuno selezionare un unico strumento (l'assistenza internazionale allo sviluppo), per affrontare in via definitiva un unico problema (la povertà estrema e, in subordine, il blocco dello sviluppo). Questa univocità dell'approccio rende le sue pagine altamente eloquenti. Egli si prodiga per persuadere le menti e toccare i cuori (7). Saranno pochi a chiudere il libro senza chiedersi: e se avesse davvero ragione? Se i paesi ricchi, con poche mosse realistiche e un po' di lungimiranza, eliminassero la miseria dei dannati della terra, e magari assicurassero qualche chances di miglioramento ai "penultimi", non avremmo raggiunto l'essenziale? Non saremmo, come generazione, riusciti a compiere un autentico passo in avanti sulla strada dell'incivilimento universale? Non si tratterebbe di un progresso tanto indiscutibile quanto lo è la scoperta del vaccino in grado di sconfiggere una malattia epidemica?

Si tratta di quesiti scottanti. È però dubbio che la risposta alla povertà sia quella di Sachs. Limitiamoci a una coppia di osservazioni. In primo luogo Sachs - pur dichiarando che «un cambiamento efficace richiede una combinazione di conoscenza tecnocratica, leadership politica determinata e vasta partecipazione sociale» (p.112) - rimane arroccato dentro un orizzonte da tecnocrate illuminato. Lungo le 400 pagine del libro non impiega un rigo per discutere le critiche "dal basso" agli aiuti allo sviluppo, le quali rilevano che gli aiuti creano dipendenza e inibiscono la dinamica politica dei paesi beneficiari; che una loro quota consistente serve a ingrassare gli apparati burocratici ed un'altra va incontro a furti e sperperi; che in grande parte sono "aiuti legati", ossia implicano la fornitura di beni o servizi da parte del paese donatore; che in larga prevalenza si dirigono verso i meno poveri tra i poveri, essendo lì meno oneroso raggiungere esiti di successo e più facile ottenere contraccambi. Si aggiunga che Sachs non esamina gli attori e i meccanismi politici effettuali che dovrebbero condurre alla scomparsa della povertà. Nella sua veste di famoso consulente di governi e organismi internazionali, stila accurate pagelle sui singoli leader (8), ma evita di pronunciarsi su chi detiene il potere in un certo paese, nel sistema delle relazioni internazionali, nelle agenzie delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Fmi, Banca mondiale, Fao, Ifad, Psnu, Unep, Un-Habitat, Unfpa, Unicef, Wfp e Oms) e nell'Onu come tale.

La seconda notazione concerne piuttosto le premesse teoriche del libro. Una lunga tradizione di studi, in economia dello sviluppo, ha sostenuto che: a) l'unico fattore economico che i paesi poveri non riescono a produrre è il capitale, poiché nulla manca loro sul fronte dell'operosità e dello spirito di iniziativa; b) «perfino nei paesi più poveri, i poveri risparmiano. Il valore del risparmio tra i poveri è, di fatto, immenso: quaranta volte tutto l'aiuto internazionale ricevuto a livello mondiale a partire dal 1945» (9); c) la vera difficoltà, per generare capitale, risiede «nel suscitare e nel mobilitare per lo sviluppo risorse e capacità nascoste, disperse o malamente utilizzate» (10); d) ciò, a sua volta, dipende dall'assetto delle istituzioni ivi presenti, poiché, in definitiva, prosperity depends on dynamism, dynamism on institutions (11). Secondo questo paradigma teorico, un enorme flusso di denaro - pari anche, lo abbiamo ricordato, al 30% del Pnl - non costituisce la leva prioritaria per lo sviluppo. Le più accurate stime econometriche oggi esistenti documentano che non è accertata alcuna relazione diretta tra flussi di aiuti esteri e crescita, perfino nei casi in cui il paese beneficiario è dotato di un "buon governo": «come ottenere un impatto aggregato favorevole degli aiuti esteri rimane un enigma. Le agenzie di aiuti dovrebbero porsi obiettivi più modesti che non "alimentare una stabile crescita economica"» (12). L'assistenza internazionale può tamponare per vent'anni la miseria, ma rischia di lasciare molte rovine, vecchie e nuove (13).

Un'alternativa costruttiva esiste ed è già praticata in molti luoghi di povertà estrema: una partnership paritaria tra specifici donatori e specifici beneficiati. Chi eroga l'aiuto è, poniamo, il territorio pistoiese, nel quale si colloca il distretto mobiliero di Quarrata; mentre chi riceve l'aiuto è il settore delle botteghe artigianali del legno di Accra e Kumasi, in Ghana. A rigore, non si tratta nemmeno di "aiuto", essendo il flusso bidirezionale: Quarrata offre assistenza tecnica, macchinari obsoleti ma ben funzionanti e sbocchi di commercializzazione; i ghanesi ricambiano esportando in Toscana mobilio semilavorato, oltre ad assicurare maggiori diritti per i ragazzi che, nelle botteghe, fanno apprendistato (14). La stessa logica della collaborazione paritaria può venire attuata in casi "macro". Ricordiamo, anche qui come mera esemplificazione, lo African peer review mechanism, con cui gli Stati membri del Nepad (New partnership for Africa's development) effettuano una sorveglianza orizzontale multilaterale: essi si impegnano, su base volontaria, a controllarsi vicendevolmente rispetto alla convergenza verso obiettivi da tutti condivisi (15). La peer review, traducibile come "esame ad opera dei pari grado", costituisce un'innovazione istituzionale importante. Nella gestione dell'assistenza internazionale essa indica un percorso di verifica qualitativa che è essenzialmente endogeno. Essa rientra, inoltre, in un percorso più complesso di negoziazione bilaterale e multilaterale fra gli stati, nel contesto di nuove forme di equilibrio internazionale che si fondino su una pluralità di aggregazioni macro-regionali (16): un percorso che, se continuerà ad affermarsi, potrà ridisegnare anche i complessivi rapporti tra donatori e beneficiari.


Note

1. Time, vol.166, n.26, 26 dicembre 2005. La sezione speciale è intitolata The good samaritans.

2. Jeffrey D. Sachs, La fine della povertà: come i paesi ricchi potrebbero eliminare definitivamente la miseria dal pianeta, trad. Paolo Canton, prefazione di Bono, Mondadori, Milano, 2005, pp.xii-419. Per ragioni di spazio trascuriamo interi capitoli del libro, tutti di grande interesse, dedicati alla cura dell'iperinflazione boliviana, alla transizione della Polonia verso l'economia di mercato, alla Cina, all'India, alla Russia e ai dibattiti intorno agli Obiettivi di Sviluppo del Millennio. Inoltre, in un capitolo più strettamente teorico, Sachs propone un brillante e convincente stile di analisi chiamato "economia clinica": di fronte alla crisi di un paese bisognerebbe comportarsi come i medici che, nell'avviare una cura, pensano alle conseguenze, elaborano una diagnosi differenziata, verificano prima le condizioni più probabili, poi quelle più complesse. Questo stile di analisi consente all'autore di avanzare critiche serrate ai programmi di aggiustamento strutturale imposti nell'ambito del cosiddetto Washington Consensus.

3. Ossia «come il progressivo passaggio da un'agricoltura di sussistenza a un'industrializzazione leggera e all'urbanizzazione, e poi ai servizi ad alta tecnologia» (p.20).

4. Partha Dasgupta, Benessere umano e ambiente naturale (2001), Vita e Pensiero, Milano, 2004, pp.103-105. Sachs non cita Dasgupta, ma l'affinità tra questi due autorevoli studiosi è al riguardo considerevole.

5. «Gli aiuti stranieri alimentano tre canali: una parte va direttamente alle famiglie, soprattutto per emergenze umanitarie come gli aiuti alimentari in caso di siccità; una parte, maggiore, entra direttamente nel processo di finanziamento dell'investimento pubblico; e un'altra parte, più modesta, va direttamente alle imprese private (per esempio, agli agricoltori), attraverso programmi di microcredito e iniziative analoghe che finanziano lo sviluppo di piccole attività produttive e il miglioramento delle tecniche di coltivazione» (p.262).

6. Commentando il libro di Sachs, Vandana Shiva ("Due miti che mantengono povero il mondo", Ode Magazine, 28.11.2005) ha scritto: «I poveri non sono coloro che sono stati "lasciati indietro", sono coloro che sono stati derubati. La ricchezza accumulata dall'Europa e dal Nord America è largamente basata sulle ricchezze prese all'Asia, all'Africa ed all'America Latina. Senza la distruzione della ricca industria tessile dell'India, senza il controllo del commercio di spezie, senza il genocidio delle tribù native americane, senza la schiavitù africana, la rivoluzione industriale non avrebbe dato gli stessi risultati di benessere per l'Europa ed il Nord America. È stata questa appropriazione violente delle risorse e dei mercati del Terzo Mondo che ha creato ricchezza al Nord e povertà al Sud». Si tratta di una critica ingiusta perché anche Sachs, pur rifiutandosi di ritenere che sia la causa maggiore della povertà di quell'area, rileva come sembri «difficile immaginare qualcosa di più crudele e predatorio del modo in cui i paesi occidentali hanno dominato l'Africa per lunghi periodi» (p.202). Ed è inoltre una critica debole, in quanto non smonta l'argomento teorico delle trappole di povertà e l'esigenza conseguente di spezzare dall'esterno una condizione di miseria estrema.

7. Ad essere "toccato" da questa prospettiva è stato il settimanale Time, che ha nominato "Person of the Year" 2005 il cantante Bono degli U2, prefatore del libro di Sachs, e il fondatore della Microsoft Bill Gates con la moglie Melinda. La Fondazione Gates ha destinato a progetti di beneficenza, in questi ultimi anni, quasi 29 miliardi di dollari: l'equivalente del Pnl di due Stati come il Libano e la Giordania.

8. Kofi Annan è «uno dei più fini politici al mondo» (p.219) e la sua «ferma determinazione ha evitato più volte, negli ultimi anni, che il mondo precipitasse nel baratro» (p.410). Agli antipodi Sachs colloca la Casa Bianca, che, perseguendo «i propri folli sogni imperiali e unilaterali» (p.378), con la guerra all'Iraq ha determinato «una totale distruzione della credibilità degli Stati Uniti in tutto il mondo» (p.235). Tra i leader africani, egli promuove i presidenti di Kenya, Ghana, Nigeria, Botswana e Senegal, l'ex presidente del Mozambico e il primo ministro dell'Etiopia. Siamo ovviamente davanti a giudizi molto personali, che talvolta appaiono non slegati dalle attività di consulenza dell'autore.

9. Hernando de Soto, Il mistero del capitale. Perché il capitalismo ha trionfato in Occidente e ha fallito nel resto del mondo, Garzanti, Milano, 2001, p.13.

10. Albert O. Hirschman, La strategia dello sviluppo economico, La Nuova Italia, Firenze, 1968, p.6.

11. Edmund S. Phelps, "The economic performance of nations: prosperity depends on dynamism, dynamism on institutions", CCS working paper, 2/2005. Phelps, come del resto Joseph Stiglitz, è collega di Sachs alla Columbia University: tuttavia le idee di entrambi sullo sviluppo differiscono notevolmente da quelle dall'autore che qui consideriamo. Per una critica neoistituzionalista alla teoria del "sottosviluppo tropicale" di Sachs, si veda William Easterly - Ross Levine, "Tropics, germs, and crops: the role of endowments in economic development", Journal of monetary economics, 50(1), 2003.

12. William Easterly, "Can foreign aid buy growth?", Journal of Economic Perspectives, 17(3), 2003.

13. «È meritorio effettuare qualche tipo di trasferimento dalle persone ad alto reddito verso le persone molto povere, malgrado i cattivi risultati del passato. Ma l'esito effettivo degli aiuti esteri non consiste nel muovere tutto il denaro che è politicamente possibile, né nel promuovere ampie trasformazioni sociali dalla povertà alla ricchezza. L'esito sta semplicemente nel beneficiare alcuni poveri per un po' di tempo». Easterly, op.cit.. Si veda anche William Easterly, "The cartel of good intentions: the problem of bureaucracy in foreign aid", Journal of policy reform, 2003.

14. L'esempio è tratto da un progetto che la Fondazione Un Raggio di Luce di Pistoia (http://www.unraggiodiluce.org/) sta avviando assieme al Dipartimento di scienze economiche dell'Università di Firenze.

15. Ravi Kanbur, "The African peer review mechanism: an assessment of concept and design", Politikon, novembre 2004.

16. Si rinvia a Nicolò Bellanca, "Verso una globalizzazione-arcipelago?", Il Ponte, LX, 7-8, 2004.