2005

Verso una globalizzazione-arcipelago?
Economie regionali, comunità locali, soggetti specifici (*)

Nicolò Bellanca

Ciò che viene chiamato "globalizzazione" è un intrico di processi economici, politici e culturali che cambia la qualità e la quantità delle reti d'interdipendenza planetaria. Ciascun soggetto, ciascun luogo, ciascuna attività non può che mutare, già soltanto perché partecipa a reti che mutano. Talvolta però l'attore sociale si modifica subendo forze che lo dominano e lo plasmano, mentre talvolta cambia cogliendo, a partire da proprie caratteristiche peculiari, le nuove occasioni che quelle stesse forze comportano. Un compito cruciale dell'analisi - anche considerandone le implicazioni politiche - sta nel riuscire a distinguere gli scenari passivi da quelli attivi: quando gli attori sono, o si sentono, vincolati all'irrompere "naturale" della globalizzazione, e quando invece una maggiore e più rapida interdipendenza viene da loro tradotta in risorsa per esplorare ulteriori possibilità.

In questo articolo cercheremo molto sommariamente di discutere alcune ragioni che incentivano i principali attori della globalizzazione - mercati locali o internazionali, imprese domestiche o transnazionali, comunità identitarie o cosmopolitiche, stati-nazione o stati-impero, organizzazioni per fini limitati o universalistici, unioni particolaristiche o sovranazionali - ad adottare comportamenti attivi e spesso conflittuali. Sotto il profilo dei processi politici, evocheremo il proliferare di identità culturali territorialmente situate (etniche, nei casi più forti), mostrando come questo fenomeno contribuisca, assieme al rilievo assunto dai beni pubblici globali, alla divaricazione tra stato e nazionalità. Sotto il profilo dei processi economici, ne metteremo a fuoco due tra loro complementari: l'importanza della cultura e della geografia nell'orientare le maggiori decisioni - quali l'uso del denaro, il consumo delle merci e l'ubicazione degli investimenti produttivi - e la configurazione ad "isole" - sia macro che microregionali - dell'economia mondiale. Sosterremo infine che le due tendenze appena menzionate - quella soprattutto politica, e quella in prevalenza economica - contribuiscono entrambe alla formazione di un "arcipelago": un sistema planetario pluralistico, policentrico e quindi poliarchico. Affinché un simile sistema diventi un "ordine", ovvero una società, non pare realistico né auspicabile puntare ad un governo unitario, bensì ad una forma rinnovata e adeguata dell'equilibrio di potenza.

1. La separazione tra stato e nazione

Un sistema singolo e un mondo frammentato: così possiamo connotare questi nostri anni (1). Siamo in un sistema unificato, poiché l'insieme dei processi economici, politici e culturali sono sempre più interdipendenti, e a velocità sempre maggiore. Eppure abitiamo un pianeta spezzettato, poiché «ovunque si rafforzano e si moltiplicano i gruppi identitari, le associazioni basate su una comune appartenenza, le sette, i culti, i nazionalismi. [...] Dalle rovine delle società moderne e delle loro istituzioni escono, da un lato, circuiti globali di produzione, consumo e comunicazione e, dall'altro, un ritorno alla comunità» (2). Che la nostra sia un'epoca in cui un unico modello di vita pervade e livella tutti i luoghi, è un'ideologia o un progetto politico, non certo un risultato spontaneo dei processi globali:

«come amavano dire i positivisti, gli uomini "per natura" costruiscono opposizioni e tracciano linee divisorie. Perché, indipendentemente dall'epoca e dallo scopo, si sentono francesi e non inglesi, induisti e non buddhisti, hutu e non tutsi, ispanici e non indiani, sciiti e non sunniti, hopi e non navajo, bianchi e non neri, arancioni e non verdi. Quale che sia la delucidazione che auspichiamo o quale che sia il significato che attribuiamo a questo termine, la molteplicità delle culture è un dato certo, anzi in aumento. Sfida le potenti forze della moderna produzione industriale, del denaro, della mobilità e del commercio, tese a creare una rete di interconnessioni. Quanto più le cose si avvicinano le une alle altre, tanto più rimangono separate. Il mondo dell'interconnessione globale rappresenta una realtà tanto remota quanto lo è la società senza classi» (3).

I percorsi della mondializzazione, dunque, generano differenze e moltiplicano appartenenze, mobilitando pluralità di movimenti collettivi territorialmente situati. Come osservava già più di vent'anni fa Alberto Melucci, «i nuovi sentimenti di appartenenza etnica non sono solo l'eredità di una tradizione che affonda le sue radici nella storia dello stato-nazione, ma sono un prodotto specifico dei mutamenti delle società complesse. Oggi la solidarietà etnica riemerge nella sua autonomia: mentre si allentano o si dissolvono altre appartenenze, essa [...] fornisce un orizzonte simbolico entro il quale dar voce a spinte conflittuali che vanno ben oltre la specifica condizione del gruppo etnico» (4). Secondo un'indagine condotta con criteri perfino troppo restrittivi, nel periodo 1986-1998 sono stati attivi nel mondo 275 gruppi etnici coinvolti in rilevanti episodi di violenza collettiva (5). «Nel corso del XX secolo, i conflitti che hanno prodotto il cuore della violenza collettiva su larga scala sul pianeta come una totalità, sono stati centrati su domande di autonomia politica nel nome di nazioni ingiustamente subordinate, su analoghe domande per il controllo di governi esistenti da parte di popolazioni escluse o soggiogate, oppure (più raramente) su domande che autocrati hanno accolto cooptando minoranze di opposizione che parlavano in nome di gruppi più ampi» (6).

Le "liste della spesa" sono noiose, ma talvolta aiutano a percepire ampiezza e diffusione di un fenomeno. Nel 2003 (7), in rigoroso ordine alfabetico, vi sono guerre in corso in Aceh (una provincia autonoma dell'Indonesia, situata nell'estremità settentrionale dell'isola di Sumatra), Afghanistan, Algeria, Burundi, Cecenia, Colombia, Repubblica Democratica del Congo (sul cui territorio si combattono gli eserciti regolari di ben sei paesi), Costa d'Avorio, Eritrea-Etiopia, Filippine, Haiti, Iraq, Israele-Palestina, Kashmir, Liberia, Nepal, Nigeria, Repubblica Centrafricana, Somalia, Sri Lanka, Sudan e Uganda. Ricordando che sono diciannove i paesi che hanno subito un intervento armato negli anni '90, si intende meglio come quasi sempre queste guerre siano guerre indipendentiste, e come ad esse si affianchino rivolte regionaliste violente. Queste ultime sono ben presenti anche in Europa (baschi, corsi, irlandesi, ciprioti, minoranza albanese in Macedonia, minoranza greca in Albania), oltre alle rivendicazioni non violente (padani, scozzesi, gallesi, bretoni, catalani, slovacchi, minoranze ungheresi in Romania e Ucraina, minoranza russa in Estonia e Lituania, minoranza polacca e russa in Lituania, sami nel nord della Scandinavia, Fiandra e Vallonia). Aree di crisi e di tensione sono inoltre individuabili in Messico/Chiapas, Guatemala, Bolivia, Venezuela, Perù, Bosnia, Serbia-Montenegro/Kosovo, Moldova/Transdnistria, Georgia (al proprio interno e nelle sue repubbliche autonome, Abkhazia e Adjaristan), Armenia-Azerbaijan, Turchia/Kurdistan, Iran, Pakistan, Myanmar, Indonesia/Molucche, Indonesia/Sulawesi, Indonesia/Papua, Cina/Sinkiang-Uygur, Cina/Tibet, Laos, Thailandia, Marocco/Saharawi, Senegal/Casamance, Guinea Bissau, Sierra Leone, Ciad, Congo Brazzaville, Angola, Zimbabwe, Comore, Ruanda, Repubblica Centrafricana. L'etnicità giunge a creare fenomeni di tensione fin nelle pieghe più riposte della società, come nei casi degli "esclusi degli esclusi" (8). Una tra le maggiori implicazioni, diretta e indiretta, di questi conflitti sono gli oltre 50 milioni di rifugiati: «decine di popolazioni nei cinque continenti sono coinvolte in questo fenomeno, tra cui afgani, bosniaci, indiani, irakeni, kosovari, liberiani, nepalesi, nicaraguensi, palestinesi, serbi, somali, sudanesi, yemeniti» (9).

La conflittualità identitaria ed etnica è la ragione maggiore, sebbene non l'unica, del continuo tormentato movimento di composizione e scomposizione degli stati. Per fermarci su un caso paradigmatico, la complessità geopolitica del pianeta raggiunge il culmine nel cuore dell'Eurasia, «quell'ovale caotico e ad alta concentrazione di conflitti e di violenze che si estende tra l'Adriatico, i Balcani e la provincia cinese di Sinkiang e che comprende il Golfo Persico, parte del Medio Oriente, l'Iran, il Pakistan, l'Afganistan, l'Asia centrale lungo la frontiera tra Russia e Kazakistan e tra Russia e Ucraina, i territori meridionali dell'ex Unione Sovietica e parte dell'Europa sud-orientale» (10). Entro quell'ovale o ai suoi bordi, la Turchia è in egual misura balcanica, mediterranea, pontica, caucasica e mediorientale; in Cina vi sono 55 minoranze ufficialmente riconosciute dalla Costituzione, con conflitti ricorrenti soprattutto nello Xinjiang e in Tibet; la fine dell'Urss genera 15 nuovi stati, ma nella stessa federazione russa, composta da 21 repubbliche, la Cecenia e il Tatarstan reclamano l'indipendenza; la disgregazione della Jugoslavia vede battersi tra loro serbi, croati, musulmani, sloveni, albanesi, macedoni, montenegrini, ungheresi e bulgari, mentre la Repubblica Ceca si è separata dalla Slovacchia.

In breve, assistiamo a stati invasi, rifusi e smembrati; a territori secessionisti; a rivendicazioni identitarie di ogni ordine e grado. Questi scenari di frammentazione geopolitica spiazzano alla radice il nesso tra nazione e stato. Mentre durante la modernità stato e nazioni hanno proceduto di pari passo, adesso lo stato si svincola dalle nazionalità: la circostanza che entro uno stato emergano sia micro-identità locali, sia macro-identità regionali che ne ridiscutono i confini, costituisce una spinta formidabile a prescindere dalle nazioni. Gli stati coesi possono così progettare fusioni reciprocamente vantaggiose, senza alcun effettivo coinvolgimento dal basso delle tante identità comunitarie coinvolte, come è accaduto finora nel caso dell'Unione Europea. Possono utilizzare il formicolare di movimenti etnici per smembrare e riplasmare gli stati rivali, come illustra l'odierno tentativo Usa in Iraq. Possono infine rendere effettuali elementi di un governo mondiale, grazie a poche istituzioni internazionali «che non sono mai state elette, non possono essere sostituite e non rispondono in alcun modo a coloro che subiscono gli effetti delle loro decisioni» (11). Sotto ciascuno di questi tre versanti, è il rinnovato pullulare delle identità locali e delle etnie che sollecita l'autonomizzazione degli stati dalle nazioni.

Non basta. Lo scollamento degli stati dal fondamento nazionale scaturisce anche da precisi processi economici, riassumibili con una citatissima frase di Daniel Bell: «lo stato è diventato troppo piccolo per le grandi cose, e troppo grande per le piccole» (12). In effetti molti problemi sono al di fuori dell'autonoma giurisdizione statale: «la decisione di alzare il tasso d'interesse presa dalla Federal Reserve statunitense può provocare un aumento sostanziale della disoccupazione in Messico; lo scoppio di una centrale nucleare in Ucraina determina disastri ambientali in tutta Europa, una mancata tempestiva informazione sulla diffusione dell'Aids in Nigeria può comportare un'epidemia in molte parti del mondo. In tutte queste circostanze, la sovranità all'interno degli stati non viene messa in discussione da eserciti, missili e carri armati, bensì da elementi che sfuggono in maniera spontanea al controllo dei governi» (13). Il funzionamento economico dello stato moderno si basa sul principio dell'equivalenza fiscale, secondo cui, in sostanza, coloro sui quali un bene pubblico esercita un effetto, dovrebbero decidere sulla sua fornitura, di modo che l'area dei benefici e dei costi verrebbe a combaciare coi confini politici entro cui i cittadini fruiscono e pagano le attività statali. Un bene pubblico nazionale dovrebbe dunque esser offerto e finanziato al livello nazionale. Ciò che chiamiamo "globalizzazione" comporta invece la creazione di un numero crescente di cruciali "beni pubblici globali", i cui effetti attraversano i confini (e le generazioni) (14). Mentre i tradizionali stati nazionali si valgono di un misto di coercizione e consenso per ottenere dai propri cittadini il pagamento di imposte e tasse, la fornitura dei beni pubblici globali deriva quasi sempre da contribuzioni negoziate tra soggetti operanti in unità spaziali diverse dalla nazione. Questo fenomeno, affievolendo stabilmente il rapporto di cittadinanza su cui poggia lo stato nazionale moderno, costituisce esso stesso una delle chiavi per comprendere le spinte conflittuali dal basso: le tante identità locali ed etniche non si sentono riconosciute adeguatamente da un governo accentrato, non solo in quanto portatrici di esigenza specifiche, ma pure in quanto i beni pubblici offribili da quel governo si riducono in numero e ancor più in rilevanza.

2. Culture situate, territori culturali, economie regionali

Nessuno come il lettore de Il Ponte giudicherà familiare la tesi secondo cui le differenze localmente situate - rappresentando, tra l'altro, risorse per meglio consumare, per meglio produrre e per meglio investire - sono necessarie alla mondializzazione della formazione sociale capitalistica. Possiamo quindi limitarci a schizzare un disegno incompleto e intuitivo delle radici socialmente specifiche delle attività di consumo, di produzione e di mobilitazione imprenditoriale. Prendiamo rispettivamente i casi dei significati culturali attivi del denaro e del consumo di merci, della specificità locale delle conoscenze economiche e del riemergere ambivalente del localismo.

Molti importanti scienziati sociali - tra i quali forse, per la loro consequenzialità, spiccano Marx e Simmel - hanno sostenuto la tesi secondo cui la varietà e lo spessore dei nessi umani verrebbero uniformati dal modello omologante degli scambi mercantili, desertificando la vita comunitaria. Il denaro sarebbe il simbolo di questo processo, essendo un medium intercambiabile e mobile, qualitativamente neutrale, in grado di connettere individui lontani nello spazio e nel tempo, infinitamente divisibile e socialmente anonimo. Questa concezione è stata però messa persuasivamente in discussione, documentando come «le persone impegnano una quantità di sforzi nel creare monete dedicate a gestire relazioni sociali complesse che esprimono intimità ma pure ineguaglianza, amore ma pure potere, dedizione ma pure controllo, solidarietà ma pure conflitto. Il punto non è che queste aree della vita sociale resistono valorosamente alla mercificazione. Al contrario, esse assorbono volentieri la monetizzazione e la trasformano per adattarla ad una varietà di valori e relazioni sociali». Dal nome della studiosa che lo ha meglio indagato, è stato chiamato "paradosso di Zelizer" l'idea secondo cui «quanto più le forme fisiche e lo status legale del denaro diventano standardizzate, tanto più l'uso della cartamoneta in molte sfere di vita si trasforma in un più delicato processo sociale, rendendo la differenziazione culturale e sociale crescentemente elaborata» (15). Avviene così che, mentre sul mercato ogni unità di denaro è uguale ad un'altra, quando Tommaso, Francesca e Luca l'impiegano in famiglia o in un gruppo, per acquistare un biglietto teatrale o per comprare cibo, per speculare in borsa o per cautelarsi nella vecchiaia, una "stessa" moneta può ricoprirsi per ciascuno di loro di significati e valutazioni assai differenti. Essa ridiventa dunque, almeno in qualche grado, un bene legato a circostanze specifiche: a quel soggetto in rapporto ad altri, a un luogo, a un momento. Ma ciò accade per l'intera attività di consumo. In un noto studio sulla diffusione della Vespa in Inghilterra, ad esempio, si documenta

«che essa seguì percorsi non immaginati e non controllabili dai pubblicitari che avevano il compito di promuoverla. Pubblicizzata come un veicolo femminile, comodo ed elegante, la Vespa divenne un oggetto di culto tra la sottocultura giovanile Mod, che raccoglieva giovani uomini i quali, anche attraverso la Vespa, poterono opporre la propria mascolinità raffinata ed esteticizzante a quella più tradizionale dei motociclisti rockettari. Lo studio di Hedbige dimostra non solo che le industrie debbono leggere il mercato per differenziare gli oggetti in base a divisioni sociali già esistenti, ma anche che la trasformazione di questi oggetti e dei loro significati nelle pratiche di consumo, nei diversi mercati nazionali o locali, può dare impulso alla creazione di nuovi gruppi sociali che creano se stessi mediante gli usi, a volte originali, di certi oggetti. In quest'ottica, il consumo è una pratica di riassorbimento della cultura che si realizza secondo una varietà di logiche non pienamente svincolate ma neppure direttamente riportabili a quelle che hanno governato la produzione e la distribuzione delle merci; anziché promuovere omogeneizzazione, le pratiche di consumo generano diversità, perché beni che sono identici al momento dell'acquisto possono essere ricontestualizzati da diversi gruppi sociali in un'infinita varietà di modi» (16).

Il mondo delle merci non sta diventando come un McDonald's identico a sé stesso ovunque. Non soltanto molte importanti catene commerciali rinnovano l'attenzione per la qualità, la differenza e la varietà del consumo; ma anche nei casi delle catene concentrate su prezzi bassi e uniformizzazione, si constata che le merci globali vengono recepite, negoziate e reinterpretate dai consumatori rispetto alla cultura locale, così come le culture locali sono ridiscusse e modificate rispetto all'irruzione delle merci globali. In Asia orientale, ad esempio, «non solo i menù dei McDonald's sono stati alterati per venire incontro ai gusti dei giovani di Taiwan, Seoul e Taipei, ma inoltre questi giovani usano gli spazi in modo diverso dai loro coetanei americani, connotandoli meno come fast-food e più come luoghi d'incontro dove passare interi pomeriggi» (17).

In secondo luogo, la produzione post-fordista non è più centrata soltanto sui beni standardizzati, fabbricati da imprese il cui vantaggio competitivo è assicurato da investimento e progresso tecnico. Accanto a tali beni, divengono strategici i beni capaci di corrispondere a bisogni specifici di gruppi specifici di consumatori: l'importanza del logo nasce principalmente da questo fenomeno. I beni peculiari spesso sono tali in quanto prodotti in certi luoghi con certe competenze: i vini del Chianti, così come il software della Silicon Valley, hanno radici territoriali precise; è in quei luoghi che, partendo da condizioni ambientali e sociali favorevoli, si è creata una rete di conoscenze codificate e di saperi personali che rendono competitivi quei vini o quei prodotti informatici. Ne segue che spesso siamo davanti non già ad una concorrenza tra generiche macroaree, tra nazioni o tra grandi imprese in grado di spostarsi ovunque; bensì assistiamo a scambi interlocali:

«Anche le imprese "globali", il cui esemplare idealtipico è rappresentato dalle multinazionali di grande o grandissima dimensione, attingono, per la loro riproduzione e il loro sviluppo, a valori, conoscenze e istituzioni formatisi nei diversi luoghi in cui sono insediate le loro unità produttive, direttive, o di vendita. [...] Se lo sradicamento dagli ambiti locali di produzione o di collocamento dei prodotti comporta ridotta capacità di comprendere e utilizzare le specificità locali, i vantaggi di un'assoluta e completa mobilità territoriale, tecnologica e merceologica possono tradursi, per l'impresa globale, in un fattore di debolezza. Non è un caso che le strategie delle multinazionali abbiano subito, negli ultimi vent'anni, una inversione rispetto ai modelli prevalenti fino agli anni sessanta. Oggi è diventato importante non tanto imporre un modello aziendale di successo in tutti i contesti in cui si è presenti, quanto trovare adeguati canali di collegamento con gli (e di utilizzo degli) ambienti in cui si opera, dando alla propria azione forma flessibile e usando le competenze di partners e managers locali» (18).

Le annotazioni sul denaro, sulle attività di consumo e sulle scelte d'investimento - riprese da Zelizer, Sassatelli e Becattini-Rullani - rimandano tutte, in definitiva, alla feconda e ineliminabile tensione tra cosmopolitismo e localismo nei comportamenti individuali e collettivi. È fuor di dubbio che oggi esista, data l'immensa rete di interdipendenze informative e formative, una cultura mondiale. Ma per essa «non si intende una replica uniforme di modelli unici, bensì un'organizzazione della diversità, un'interconnessione crescente di culture locali differenti, così come lo sviluppo di culture senza un netto ancoraggio in un particolare territorio» (19). Quest'organizzazione della diversità è una risorsa economica strategica, che qualifica e distingue una moneta dall'altra, un bene dall'altro, un'impresa dall'altra.

Ma, con intensità crescente in questi anni iniziali del XXI secolo, l'organizzazione della diversità si riscontra anche nella mappatura del sistema economico globale, il quale appare, con un nitore che riscuote ormai ampi consensi tra gli studiosi, suddiviso in blocchi commerciali e finanziari regionali: il Nord America, l'Unione Europea, l'area dell'Asia Orientale e del Pacifico, l'America meridionale. Gli investimenti esteri, le esportazioni intraregionali e l'integrazione produttiva aumentano tra i paesi membri di ognuna di queste aree molto più di quanto non avvenga tra le aree o con il resto del mondo (20). Questi processi strutturali hanno ricevuto espressione in varie unioni sovranazionali e multiculturali, che spesso esordiscono come unioni commerciali: l'Asean (Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico), la Comunità degli stati indipendenti postsovietici, il Consiglio di Cooperazione del Golfo degli Stati della penisola arabica, l'Ecowas (Comunità economica degli Stati dell'Africa Occidentale), la Lega Araba, la North America Free Trade Association, il Mercosur (Mercato Comune dell'America del Sud), il Patto Andino, la Sadc (Comunità di sviluppo dell'Africa meridionale), l'Unione doganale dell'Africa australe, l'Unione Europea. Se poi si scende di livello, anche all'interno delle varie macroregioni, «lungi dal presentarsi come un insieme di flussi che si incrociano in modo più o meno aleatorio, l'economia mondiale si organizza ormai come "economia d'arcipelago" che collega orizzontalmente tra loro delle zone di attività estremamente concentrate. Le grandi metropoli mondiali, in particolare, attirano a sé una parte sempre più importante dei flussi e delle attività. [...] Inoltre, la vitalità di molte città europee medie e piccole, e il dinamismo di alcune società locali a volte mal dotate di risorse "geografiche", ma che possiedono un grande potenziale di cooperazione interna, mostrano in modo evidente che il territorio come attore socioeconomico non è una realtà in via di estinzione» (21). In definitiva, tuttavia, le linee di demarcazione territoriale che appaiono decisive nella globalizzazione sono alcuni territori microregionali, che rappresentano il cuore pulsante delle macroregioni:

«l'Italia settentrionale; il Baden-Würtenberg; il Galles; San Diego/Tijuana; Hong Kong/Cina meridionale; Silicon Valley/Bay Area; Pusan (all'estremo sud della penisola coreana) e le città di Fukuoka e Kitakyushu nel nord dell'isola giapponese di Kyushu. A queste zone si aggiungono il cosiddetto Growth Triangle di Singapore, Johor (lo stato più meridionale della Malaysia) e le vicine isole Riau appartenenti all'Indonesia; il Research Triangle Park nel North Carolina; la regione francese del Rodano-Alpi, che gravita su Lione; la regione della Linguadoca-Rossiglione, attorno a Tolosa, città strettamente collegata alla Catalogna; Tokyo e le zone circostanti; Osaka e la regione di Kansai; l'isola di Penang in Malaysia; e anche l'emergente Greater Growth Triangle, che attraverso lo Stretto di Malacca congiunge Penang, Medan e Phuket in Thailandia» (22).

Ovviamente, la globalizzazione-arcipelago può realizzarsi lungo due diverse prospettive. L'una vede le aggregazioni regionali o "isole" comunicare tra loro mediante regole condivise e flussi economico-informativo-culturali. L'altra, in modo antitetico, immagina ciascuna "isola" circondata da oceani di anarchia (23). Tra queste figure estreme si collocano parecchie modalità miste. In quale direzione spingono effettivamente le forze in campo?

3. Verso un ordine poliarchico?

Alcuni processi già in atto sospingono verso una governance multipolare e multilivello. Fin dal secolo XIX esiste un'ampia gamma di accordi volontari e convenzioni (i "regimi internazionali"), negoziati da governi nazionali e da rappresentanti degli interessi organizzati: abbiamo patti multilaterali, impliciti o espliciti, per regolare risorse comuni (commons) che appartengono a tutti e a nessuno in particolare, come gli accordi sulla pesca d'alto bordo e le orbite satellitari, oppure per coordinare attività la cui promozione interessa tutti e non danneggia alcuno, come i trasporti, la posta o i requisiti di funzionamento delle banche internazionali (gli accordi di Basilea), oppure per eleggere "arbitri" in grado di fornire informazioni super partes a tutti, come le agenzie di valutazione Moody's e Standard and Poor. Anche qualora i "regimi internazionali" siano imposti dagli stati più potenti, come accadde nel negoziato che diede forma ai regimi commerciali e monetari postbellici di Bretton Woods o come è successo nel 1994 per la nascita del WTO (l'organizzazione mondiale del commercio), può risultare che il regime sia benefico per tutti: infatti «è improbabile che i regimi che governano un'economia internazionale liberale rappresentino gli interessi della potenza dominante e nient'altro; essi devono soddisfare almeno in qualche misura gli interessi di tutte le importanti potenze economiche, in caso contrario non funzionerebbero né sopravviverebbero a lungo. I principali partner commerciali degli Stati Uniti erano soddisfatti del regime commerciale postbellico e, in effetti, ne trassero giovamento più degli stessi Stati Uniti» (24). Un secondo processo è individuabile nel reticolo, già esistente e prima ricordato, di unioni sovranazionali, tra cui oggi l'Unione Europea è la più importante. Nell'ambito di queste unioni si tende a trasferire porzioni della sovranità degli stati membri mediante la cessione di singole funzioni (come quando la politica monetaria viene passata ad una Banca centrale dell'unione, o come quando si riconosce un'autorità giuridica unificata). Per entrambi questi processi, il principale meccanismo sanzionatorio verso i membri defezionatori risiede nella semplice loro esclusione dall'accordo o dall'unione: a misura che chi sta dentro trae guadagni, l'exit costituisce una minaccia credibile, adeguata e non violenta. Un terzo processo consiste nelle difficoltà, da parte dello stato-nazione più forte, a mantenere una strategia egemonica:

«I costi di mantenimento dell'ordine mondiale tendono a crescere per la potenza egemone più rapidamente dei benefici e della connessa capacità di finanziarli. In fasi di espansione del ciclo economico l'economia americana è in grado di attrarre ingenti investimenti esteri che finanziano il grande debito del bilancio federale e di conservare a un dollaro forte lo status di moneta sovrana, ma in fasi come quella attuale di crescita economica modesta, ingenti spese militari e debolezza del dollaro, si verifica un certo ridimensionamento del potere americano a favore dell'Unione Europea e della Cina. Ancor più rilevanti dei limiti economico-finanziari della potenza americana sono i limiti politico-culturali; il rovescio della medaglia della capacità di attrazione degli Stati Uniti per i suoi successi è rappresentato dai sospetti e dalla ostilità che suscita in larga parte del mondo, fino alla opposizione radicale che incontra fra i fondamentalisti islamici» (25).

Che dunque gli Usa vengano affiancati da stati come Unione Europea, Russia, Cina, India, Brasile, Sud Africa e qualche altro, capaci, nell'ambito della regione in cui sono centrali, di svolgere funzioni egemoniche non subalterne, è un esito di medio periodo che non sembra privo di realismo. Probabilmente, proprio l'evoluzione della guerra in Iraq ed in Medio Oriente saranno fra i fattori cruciali nell'orientare i vari attori in gioco, a favore delle tentazioni unilateralistiche o di più ampie forme di collaborazione e di bilanciamento dei poteri. I tre processi appena menzionati sono ovviamente tendenziali, reversibili e dal segno indeterminato. Possono cioè affermarsi troppo debolmente, regredire o addirittura invertirsi. È importante sottolineare che si tratta in ogni caso di forze storiche endogene effettive, non di pii desideri o di nobili idealità. A misura che tali forze dovessero rivelarsi adeguatamente sistematiche e persistenti, la natura dell'"oceano" che circonda le "isole" dell'arcipelago-globalizzazione sarebbe non puramente conflittuale: una pluralità di aggregazioni - per ipotesi non subalterne l'una all'altra, altrimenti ricadremmo in una configurazione "imperiale" - alimenterebbe il mutuo interesse a limitare la discrezionalità di ciascuno e ad accettare alcune istituzioni condivise. In questa direzione, osserva Sandler, non occorrerebbe puntare ad un governo mondiale, bensì ad un'infrastruttura sovranazionale che faciliti il coordinamento. Alcuni degli ingredienti essenziali di questa infrastruttura già esistono: l'ONU provvede una sede per gli incontri tra le parti, mentre INTELSAT e altri networks uniscono il mondo sotto il profilo della comunicazione. Andrebbero aggiunte una forza transnazionale permanente di peacekeeping; un'autorità fiscale che provveda, direttamente o meno, al finanziamento e all'offerta di beni pubblici globali (poiché ogni stato tende a salvaguardare la sua sovranità fiscale, questa è un'istituzione non facile da edificare. Nondimeno, proprio l'esplicita specificità dei suoi compiti può renderla attuabile); un Tribunale internazionale dei diritti umani (che giudicherà casi reputati importanti dalla maggioranza della comunità internazionale. Il verdetto sarebbe reso obbligatorio anche mediante la forza militare prima considerata. Più adeguata sarà tale forza, minori saranno le occasioni in cui utilizzarla: rappresenterà infatti una minaccia credibile); un istituto di ricerca multidisciplinare, incaricato di monitorare con continuità i problemi ambientali, della salute e della sicurezza (i fondi di finanziamento di tale istituto sarebbero indipendenti dalle pressioni politiche particolari) (26).

Insomma, «messa da parte l'idea semplicistica secondo la quale una forte autorità sovranazionale sarebbe la soluzione di tutti i problemi dell'umanità, si tratterebbe di recuperare figure istituzionali e principi normativi meno forti e cioè meno ispirati ad una concezione giacobina e centralista dell'ordinamento internazionale. Preso atto dell'impotenza delle istituzioni universali, occorrerebbe rivalutare la negoziazione bilaterale e multilaterale fra gli stati, nel contesto di nuove forme di equilibrio internazionale che si fondino su una pluralità di aggregazioni macro-regionali» (27). Questa prospettiva appare realistica: gli stati per un verso cederebbero soltanto il minimo delle proprie funzioni, mentre per l'altro coltiverebbero un bilanciamento reciproco, fondato a sua volta sulla forza relativa delle "isole" dell'arcipelago. Essa riprende una saggezza antica ancora attuale: «Le alternative all'equilibrio di potenza (balance of power) sono l'anarchia universale o il dominio universale. Una breve riflessione mostra che l'equilibrio di potenza è preferibile alla prima; e non siamo ancora convinti che il secondo sia così preferibile da sottometterci ad esso» (28).


Note

*. Da "Il Ponte", giugno 2004.

1. Alberto Martinelli, "Markets, Governments, Communities and Global Governance", International Sociology, giugno 2003, vol.18, n.2, p.293.

2. Alain Touraine, Libertà, uguaglianza, diversità. Si può vivere insieme?, Il Saggiatore, Milano, 1998, p.12.

3. Clifford Geertz, Mondo globale, mondi locali, Il Mulino, Bologna, 1999, p.59, corsivo aggiunto. Un'ampia rassegna delle spiegazioni dei nessi tra globalizzazione, identità e conflitti etnici è nelle prime tre parti di Vittorio Cotesta, Sociologia dei conflitti etnici, Bari, Laterza, 1999.

4. Alberto Melucci, L'invenzione del presente. Movimenti, identità, bisogni collettivi, Il Mulino, Bologna, 1982, p.187.

5. Ted R. Gurr, Peoples versus States. Minorities at Risk in the New Century, United States Institute of Peace Press, Washington, DC, 2000. Si veda anche il Minorities at Risk project dell'Università del Maryland.

6. Charles Tilly, Politics of Collective Violence, Cambridge University Press, Cambridge, 2003, p.67.

7. I dati riportati sono puramente indicativi di tendenze che andrebbero esaminate in modo più dettagliato e complessivo. Essi sono ripresi dal Rapporto sullo sviluppo umano del 2002 e del 2003 (tradotto in italiano da Rosenberg & Sellier, Torino), e dall'Atlante di Le Monde diplomatique (tradotto in italiano da Il Manifesto). Per informazioni aggiornate sulle guerre si consulti inoltre, in lingua italiana, il sito War News.

8. «Sia all'interno dei paesi centrali che in aree marginali, sono emerse forme di mobilitazione che vedono coinvolte minoranze soprattutto indigene che rappresentano gli esclusi degli esclusi. Questi gruppi hanno spesso come controparte non lo stato centrale ma l'etnia maggioritaria, che si trova a sua volta in situazione di sfruttamento o di deprivazione relativa. È il caso per esempio delle popolazioni indigene del Quebec che hanno come loro controparte la maggioranza francofona, che ha a sua volta come controparte il governo federale canadese controllato dagli anglofoni». Alberto Melucci, "Multiculturalismo", in Id., a cura di, Parole chiave, Carocci, Roma, 2000, p.153.

9. Luciano Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, Bari, 2000, p.75.

10. Francesco Tuccari, "Dopo il 1989. Scenari della politica mondiale", in Angelo d'Orsi, a cura di, Guerre globali. Capire i conflitti del XXI secolo, Carocci, Roma, 2003, p.36.

11. Mario Pianta, Globalizzazione dal basso, Roma, Manifestolibri, 2001, p.57.

12. Riportata in Arnaldo Bagnasco, Società fuori squadra, Bologna, Il Mulino, 2003, p.95.

13. Daniele Archibugi, La democrazia cosmopolitica, Asterios, Trieste, 2000, p.11.

14. Si veda Inge Kaul - Pedro Conceicao - Katell Le Goulvel - Ronald U. Mendoza (eds.), Providing Global Public Goods: Managing Globalization, New York: Oxford University Press, 2003.

15. Viviana Zelizer, The social meaning of money, Princeton University Press, Princeton, 1994, pp.204 e 205.

16. Roberta Sassatelli, "L'ambiguità dell'autonomia", in Istituzioni e sviluppo economico, I, 3, 2003, pp.44-45.

17. Roberta Sassatelli, Consumo, cultura e società, Bologna, Il Mulino, 2004, p.213.

18. Giacomo Becattini - Enzo Rullani, "Sistema locale e mercato globale" (1993), ora in G.Becattini, Il distretto industriale, Rosenberg & Sellier, Torino, 2000, pp.103-104. Per un'analisi approfondita ed aggiornata di questi fenomeni, si rimanda a E.Rullani, Economia della conoscenza, Carocci, Roma, 2004.

19. Ulf Hannerz, La diversità culturale, Bologna, Il Mulino, 2001, p.129.

20. I dati salienti e aggiornati figurano in Mario Deaglio, Postglobal, Bari, Laterza, 2004, pp.121-126.

21. Pierre Veltz, "Economia e territori: dal mondiale al locale", in Paolo Perulli, a cura di, Neoregionalismo. L'economia-arcipelago, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, pp.128-129 e 135.

22. Kenichi Ohmae, La fine dello Stato-nazione. L'emergere delle economie regionali, Milano, Baldini&Castoldi, 1996, pp.129-130.

23. È la tesi originariamente illustrata da Robert Kaplan, "The coming anarchy", The Atlantic Monthly, febbraio 1994; Id., The ends of the earth. A journey at the dawn of the twenty first century, London, Papermac, 1997.

24. Robert Gilpin, Economia politica globale. Le relazioni economiche internazionali nel XXI secolo, Milano, Università Bocconi Editore, 2003, p.91.

25. Alberto Martinelli, La democrazia globale, Milano, Università Bocconi Editore, 2004, pp.178-179.

26. Todd Sandler, Global Challenges, Cambridge, Cambridge University Press, 1997, capitolo 5.

27. Danilo Zolo, "Le correnti di decomposizione della società internazionale".

28. Martin Wight, Power Politics (1946), London, Royal Institute of International Affairs, 1978, pp.184-185.