2005

Le correnti di decomposizione della società internazionale

Danilo Zolo

1. C'è chi attende che dal cappello a cilindro di Lakhdar Brahimi esca fuori magicamente la democratizzazione dell'Iraq. In poche settimane l'inviato speciale delle Nazioni Unite dovrebbe riuscire a trovare la formula che restituisca sovranità e dignità al popolo iracheno. L'istituzione di un nuovo governo dovrebbe attribuire i crismi della legalità e della legittimità politica al processo di ricostruzione del paese. Nello stesso tempo, però, le potenze occupanti continueranno ad essere tali, come l'amministrazione statunitense ha più volte precisato. Lo ha confermato nel modo più esplicito, il 23 aprile, il sottosegretario di Stato Marc Grossman. Parlando di fronte al Foreign Relation Committee del Senato, Grossman ha detto che in Iraq "le Nazioni Unite avranno un ruolo piuttosto importante ma limitato".

Sarà un ruolo "limitato" perché non ci sarà alcun ritiro delle forze militari delle potenze occupanti, e perché gli Stati Uniti non sospenderanno la costruzione delle loro basi militari, necessarie per garantire la "sicurezza" del paese. Il nuovo governo non potrà emanare nuove leggi senza il consenso del comando americano e non potrà abrogare le decisioni che il Governing Council ha già preso, eseguendo gli ordini del proconsole Paul Bremer. Né potrà essere revocato tutto ciò che è stato deciso per contrastare la prospettiva di un repubblica islamica, voluta dalla maggioranza sciita del paese, sotto la guida dell'ayatollah Ali al-Sistani.

2. A che cosa dovrebbe dunque servire il coinvolgimento delle Nazioni Unite? Le potenze occupanti pensano che una partecipazione delle Nazioni Unite alla gestione del dopoguerra potrebbe cancellare con un colpo di spugna il peccato originale dell'aggressione bellica. Potrebbe sanare la gravissima violazione del diritto internazionale, dissolvere lo spettro delle migliaia di vittime della guerra e rimuovere le distruzioni provocate dai bombardamenti a tappeto di interi quartieri, a Baghdad come a Bassora, a Najaf e a Falluja. La benedizione delle Nazioni Unite potrebbe far dimenticare anche l'infamia delle torture inflitte dai soldati americani ai detenuti iracheni nel carcere di Abu Ghreib.

Dunque, chi parla di una 'svolta' che l'intervento delle Nazioni Unite potrà imprimere alla vicenda irachena sembra non capire o non voler capire. Non capisce o non vuol capire che le Nazioni Unite hanno da tempo smarrito ogni capacità di disciplinare e limitare l'uso della forza internazionale. Esse non hanno il minimo potere di restaurare la sovranità del popolo iracheno, come non hanno il potere di intervenire a protezione del popolo palestinese o di quello ceceno.

Chi parla di 'svolta' non ha capito o si rifiuta di capire che la sola funzione che il diritto e le istituzioni internazionali oggi sono in grado di svolgere è di carattere adattivo e legittimante. In presenza di una concentrazione del potere che assume sempre più la forma di una costituzione imperiale del mondo, le istituzioni internazionali mostrano ancora una volta la propria incapacità di entrare in conflitto, invece di assecondarli, con gli assetti esistenti del potere. In una condizione storica come la presente, nella quale la distribuzione del potere e della ricchezza è la più diseguale possibile, persino i princìpi fondamentali della società internazionale - la sovranità degli Stati, la loro eguaglianza giuridica, la non-ingerenza nella giurisdizione interna, il bando della guerra - tendono a cadere nelle mani del più forte.

Da questo punto di vista, come ha scritto Alessandro Colombo, la conclusione della Guerra fredda appare non tanto come la fonte del nuovo disordine internazionale, quanto come il suo "fattore permissivo'. La fine del bipolarismo ha dato via libera alle correnti di decomposizione della società internazionale che si erano manifestate già a partire dai primi decenni del Novecento: a partire, cioè, dalla perdita di centralità dell'Europa e dello jus publicum europaeum, dal tramonto del sistema degli Stati sovrani e dall'affermarsi della vocazione universalistica ed egemonica - imperiale - degli Stati Uniti d'America.

3. Il riemergere di una visione cosmopolitica dell'ordine mondiale, sostenuta dalle potenze anglosassoni, ha coinciso con quello che può essere inteso come il riflesso, come l'immagine capovolta del globalismo occidentale: "la rivolta contro l'Occidente", per usare l'espressione di Hedley Bull. Il global terrorism che oggi insanguina il pianeta non è che una replica vendicativa alla sfida del cosmopolitismo occidentale che nega la diversità e la complessità del mondo, che distrugge la sua bellezza. Il terrorismo è la risposta nichilista al nichilismo di potenze che dominano e devastano il mondo con le loro armi di distruzione di massa. Che pretendono di costruire un new world order non favorendo un confronto pacifico fra le diverse culture e civiltà del pianeta, ma imponendo con la forza i valori e gli interessi occidentali: la libertà negativa, l'individualismo, l'economia di mercato, le convenienze delle corporations transnazionali. Questa pretesa è incompatibile con qualsiasi funzione normativa che possa essere esercitata da istituzioni internazionali.

E' perciò poco ragionevole riferirsi alle Nazioni Unite come a una sorta di baluardo per la creazione di un ordine universale e pacifico, e magari attardarsi nell'accademico esercizio delle proposte di una loro riforma democratica. Messa da parte l'idea semplicistica secondo la quale una forte autorità sovranazionale sarebbe la soluzione di tutti i problemi dell'umanità, si tratterebbe di recuperare figure istituzionali e principi normativi meno forti e cioè meno ispirati ad una concezione giacobina e centralista dell'ordinamento internazionale.

Preso atto dell'impotenza delle istituzioni universalistiche, occorrerebbe rivalutare la negoziazione bilaterale e multilaterale fra gli Stati, nel contesto di nuove forme di equilibrio internazionale che si fondino su una pluralità di aggregazioni macro-regionali. Entro questa cornice strategica assumerebbe un ruolo decisivo il recupero di centralità da parte di una grande Europa, dotata di una forte identità culturale e politica, e affrancata dalla sudditanza atlantica. Questo sembra aver intuito José Zapatero. E questa potrebbe essere la condizione per la rinascita di una sfera pubblica internazionale che non sia vanificata nelle sue potenzialità equilibratrici e moderatrici dallo strapotere di una potenza imperiale legibus soluta. E potrebbe essere anche la condizione perché in Iraq si apra uno spiraglio di pace e cessino in Palestina e in Cecenia gli etnocidi che le Nazioni Unite non sono minimamente in grado di fermare.