2005

Fondamentalismo umanitario (*)

Danilo Zolo

1. Un contesto drammatico

Le Tanner Lectures sui diritti dell'uomo sono state tenute da Michael Ignatieff presso la Princeton University nel corso del 2000: e cioè un anno dopo la conclusione della 'guerra umanitaria' della Nato contro la Repubblica Federale Jugoslava e un anno prima dell'attentato terroristico dell'11 settembre che ha aperto la serie delle guerre preventive degli Stati Uniti contro 'l'asse del male'. Fra l'altro, l'attentato alle due torri si è verificato a poca distanza geografica dalla prestigiosa sede universitaria del New Jersey che ospita le Tanner Lectures. Un intellettuale di cultura anglosassone dell'autorità di Michael Ignatieff ha dunque preso posizione su questioni cruciali per l'ordine mondiale in un contesto altamente drammatico, che è bene richiamare per cogliere il rilievo politico oltre che teorico delle sue tesi. È sullo sfondo di questo contesto che nelle pagine che seguono mi propongo di discutere le tesi che Ignatieff ha sostenuto su temi come il confronto fra i valori della civiltà occidentale e quelli delle altre civiltà, l'universalità della dottrina dei diritti dell'uomo, la legittimità dell'intervento militare per la protezione internazionale di tali diritti.

Nelle sue Lectures Ignatieff sostiene essenzialmente le seguenti tesi:

  1. La dottrina occidentale dei diritti dell'uomo sta riscuotendo un eccezionale successo in tutto il mondo, ma non per questo essa può pretendere ad una sicura 'fondazione' o 'giustificazione' etico-filosofica. La validità dei diritti dell'uomo può essere affermata solo in termini storico-politici e pragmatici e non in termini metafisici o addirittura teologici.
  2. Una concezione sobria e rigorosa dei diritti dell'uomo riconosce che essi riguardano non ogni legittima aspettativa dei soggetti umani, ma soltanto l'aspettativa della 'libertà negativa'. La tutela dei diritti garantisce a ciascun individuo la capacità di agire liberamente per la realizzazione di obiettivi razionali. Il presupposto della dottrina dei diritti dell'uomo è l'individualismo politico e il connesso primato dei diritti individuali non solo rispetto ai legami di solidarietà sociale e ai doveri di lealtà politica, ma anche rispetto ai cosiddetti 'diritti collettivi'.
  3. La dottrina dei diritti dell'uomo, liberata da ogni enfasi metafisica e selettivamente identificata con la tutela della 'libertà negativa', gode di una sicura universalità umanitaria. Ciò le consente di 'valere' oltre l'ambito culturale dell'Occidente e di proporsi legittimamente a tutte le civiltà e culture del pianeta. I diritti dell'uomo sono perfettamente compatibili con il 'pluralismo morale' che caratterizza il mondo moderno.
  4. All'universalità dei diritti dell'uomo non corrisponde oggi l'universalità della loro protezione internazionale, poiché vi si oppone il particolarismo degli Stati nazionali e il principio della inviolabilità delle loro frontiere. La sovranità degli Stati, per quanto in linea di principio irrinunciabile, non può impedire che in determinati casi - come è legittimamente accaduto per l'Iraq, per la Bosnia-Erzegovina e per il Kosovo - la forza delle armi venga usata per imporre ad uno Stato di rispettare al suo interno i diritti dell'uomo.

I paragrafi che seguono sono dedicati ad un commento critico di queste quattro tesi.

2. Diritti senza fondamento

Che la dottrina dei diritti dell'uomo non disponga di un solido impianto epistemologico e deontologico è una tesi raramente sostenuta in Occidente. Questa tesi è senza dubbio uno degli aspetti più interessanti delle Lectures di Ignatieff. I documenti internazionali più autorevoli e solenni - si pensi alla recente Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea - danno normalmente per scontato che i cosidetti 'diritti fondamentali' godono delle prerogative della 'indivisibilità e della universalità' (1). Questa formula, coniata alla Conferenza delle Nazioni Unite sui diritti dell'uomo tenutasi a Vienna nel 1993, è stata da allora polemicamente usata contro i rappresentanti delle culture non occidentali, in particolare quelle islamica, induista e cinese-confuciana (2). Dal punto di vista di queste culture i diritti dell'uomo sono strettamente intrecciati con gli standard di razionalità della cultura occidentale, oltre che con il formalismo giuridico, l'individualismo e il liberalismo occidentali.

Sul piano teorico ci sono autori, come Jürgen Habermas e John Rawls ad esempio, che nella scia dell'insegnamento kantiano sostengono che i diritti dell'uomo sono suscettibili di una rigorosa fondazione cognitiva e normativa, cosicché è del tutto ovvio che sia possibile proporli all'umanità intera senza incorrere in alcuna forma di imperialismo culturale. Per Habermas la teoria dei diritti dell'uomo può essere interpretata come un nucleo di intuizioni morali verso il quale convergono le religioni universalistiche e le grandi filosofie metafisiche che si sono affermate nella storia umana: è un nucleo normativo che gode quindi di una universalità trascendentale, ben oltre le vicende storiche e culturali dell'Occidente (3).

Ignatieff si oppone risolutamente a questa 'religione secolare', a questa vera e propria idolatry autoreferenziale nella quale, egli scrive, l'umanesimo finisce per venerare se stesso. Egli riconosce senza esitazione che la dottrina dei diritti dell'uomo ha radici nella tradizione occidentale e che è emersa in un determinato periodo storico a conclusione di violenti conflitti sociali e politici. I diritti dell'uomo non si sono affermati, come invece sembrano pensare i neokantiani, grazie alla ecumenica convergenza di filosofie irenistiche o a processi di sublimazione etica del conflitto politico e dello scontro fra gli interessi sociali. Per Ignatieff non ci sono argomenti razionali che provino l'universalità della dottrina dei diritti dell'uomo se la si intenda come una teoria generale della giustizia e della good life: categorie come il diritto naturale, o i teleologismi della creazione, o la stessa idea della intrinseca qualità morale (o addirittura 'sacralità') della persona umana sono assunzioni 'idolatriche' prive di ogni fondamento razionale (4).

Per di più, secondo Ignatieff è un'illusione pensare al catalogo dei diritti dell'uomo come ad un sistema unitario e coerente di principi normativi: i fervidi attivisti dei diritti dell'uomo che hanno fatto della Dichiarazione universale del '48 la loro bandiera ideologica non si rendono conto delle profonde tensioni che lacerano le carte dei 'diritti fondamentali'. I diritti di libertà e i diritti patrimoniali, ad esempio, sono in contrasto con i diritti sociali, ispirati al valore dell'uguaglianza, mentre il diritto alla sicurezza minaccia sempre di più il diritto alla privacy. E si potrebbe aggiungere che i diritti economici contrastano con la tutela dell'ambiente, mentre la proprietà privata dei mezzi di comunicazione di massa minaccia l'integrità cognitiva dei cittadini, in particolare dei minori. L'idea che i diritti possano operare, come pensa Ronald Dworkin, come trumps, come 'assi nella manica' per risolvere i conflitti politici, è ingenua e falsa perché il riferimento ai diritti spesso irrigidisce e accentua i contrasti, anziché risolverli, in particolare quando i diritti stessi si trovano in un rapporto di reciproca antinomia (5).

Ignatieff ripropone dunque alcune delle tesi che Norberto Bobbio ha per decenni autorevolmente, anche se solitariamente, sostenuto in Italia. Per Bobbio la teoria dei diritti dell'uomo manca sia di rigore analitico che di fondamento filosofico (6). I diritti elencati nei Bill of Rights occidentali sono storicamente esposti a continue revisioni, sono formulati in termini imprecisi e semanticamente ambigui, hanno natura eterogenea e soprattutto sono solcati da antinomie deontiche che frustano qualsiasi tentativo di dar loro una fondazione coerente e unitaria: "diritti fondamentali ma antinomici non possono avere, gli uni e gli altri, un fondamento assoluto, un fondamento che renda un diritto e il suo opposto entrambi inconfutabili e irresistibili" (7).

A conferma e a ulteriore sostegno sia delle tesi di Ignatieff che di quelle di Bobbio si potrebbe aggiungere che la dottrina dei diritti dell'uomo sembra priva di criteri, per usare un lessico sistemico, di autoregolazione e autoprogrammazione cognitiva. Essa non dispone di griglie concettuali capaci di una precisa individuazione, definizione e catalogazione dei diritti. Anche la celebre tassonomia proposta da Thomas H. Marshall - diritti civili, diritti politici, diritti sociali - per quanto utile, è di natura storico-sociologica, ed è per di più strettamente modellata sugli ultimi tre secoli della storia inglese (8).

Accade perciò che il 'catalogo dei diritti' sia incline ad espandersi cumulativamente per successive 'generazioni' o per interpolazioni normative legate a pure circostanze di fatto (9). E non sono mancati filosofi e giuristi occidentali che hanno proposto un'estensione della teoria dei diritti fondamentali anche agli embrioni umani, agli esseri viventi diversi dall'uomo e persino agli oggetti inanimati. Ma è chiaro che l'espansione anomica del repertorio dei diritti fondamentali solleva un'incontestabile aporia: se tutto è fondamentale, niente è fondamentale. D'altra parte è intuitivo che i diritti fondamentali non possono essere tutti uguali - di eguale peso normativo -, tanto più quando si trovino in tensione gli uni con gli altri. Alain Laquièze ha giustamente sostenuto che più il predicato 'fondamentale' si estende, includendo una quantità crescente di diritti diversi, più aumentano i rischi di una collisione fra il carattere fondamentale dei diritti e la necessità di relativizzarli e condizionarli ad altri diritti concorrenti (10).

La tesi del fondamento filosofico e della universalità normativa dei diritti dell'uomo è dunque un postulato dogmatico del giusnaturalismo e del razionalismo etico che manca di conferme sul piano teorico, e che viene contestato con buoni argomenti sia dalle filosofie occidentali di orientamento storicistico e realistico, sia dalle culture non occidentali. Da questa conclusione Bobbio ha inferito un importante corollario pratico: ciò che è rilevante per l'attuazione concreta dei diritti dell'uomo non è la prova della loro fondatezza e validità universale (11). Anzi, questa dimostrazione rischia di rendere intollerante e aggressivo il linguaggio stesso dei diritti. Ciò che realmente conta è che i diritti soggettivi godano di un ampio consenso politico e che si diffonda il 'linguaggio dei diritti' come espressione di aspettative e di rivendicazioni sociali. Ma il consenso - Bobbio sembra esserne ben consapevole - è un dato puramente empirico e storicamente contingente, oltre che difficilmente accertabile in termini rigorosi: esso non giustifica alcuna pretesa universalistica e alcuna intrusività missionaria. E, per di più, al consenso e alla moltiplicazione dei Bills of rights non corrisponde, se non molto parzialmente e ambiguamente, l'attuazione concreta dei diritti, anche da parte dei paesi occidentali. Una cosa è la loro rivendicazione, ammonisce Bobbio, altra cosa è la loro effettiva tutela (12).

Il punto di vista di Ignatieff è assai meno netto di quello di Bobbio e non manca, nonostante la professione di laicità, di inflessioni moralistiche e paternalistiche. Per Ignatieff la dottrina dei diritti dell'uomo nasce dall'idea dell'unità della specie umana e dall'intuizione morale che ogni membro della specie merita una eguale considerazione morale (an equal moral consideration), e non deve perciò essere umiliato o sottoposto a sofferenze ingiustificate (13). Il successo storico di questa idea è il vettore del progresso morale dell'umanità ed è questo progresso a conferire plausibilità e forza alla dottrina occidentale dei diritti dell'uomo. Secondo Ignatieff è infatti empiricamente accertabile, sul piano storico e pragmatico, che là dove gli individui sono titolari di diritti fondamentali è meno probabile che essi vengano discriminati, oppressi, fatti oggetto di violenza. Il linguaggio dei diritti, nato in Occidente, si è diffuso in tutto il mondo perché i diritti soccorrono gli individui più deboli contro i regimi ingiusti e oppressivi (14). È questa, secondo Ignatieff, la ragione profonda del loro universalismo di fatto, della loro diffusione universale che non a caso investe soprattutto i regimi teocratici, tradizionalisti e patriarcali che proliferano nel mondo non occidentale, in modo tutto particolare nell'Islam.

A mio parere sta qui, in queste ambiguità moralistiche e paternalistiche, il germe di quel 'fondamentalismo umanitario' che, come vedremo, finisce per avvicinare l'universalismo pragmatico e secolarizzato di Ignatieff all'universalimo religioso e aggressivo dei neo-conservatives statunitensi.

3. Libertà negativa, libertà di adesione, diritti collettivi

La tutela dei diritti dell'uomo, secondo Ignatieff, garantisce a ciascun individuo la libera "capacità di agire" (agency) per la realizzazione di scopi razionali (15). Il presupposto filosofico-politico della dottrina dei diritti dell'uomo, sostiene Ignatieff, è l'individualismo politico, e il suo contenuto essenziale è la tutela della 'libertà negativa', nel significato che Isaiah Berlin ha attribuito a questa nozione in contrapposizione a quella di 'libertà positiva'.

Non c'è dubbio che l'individualismo, come è stato ancora una volta Bobbio a sottolineare, è la premessa filosofico-politica generale della dottrina dei diritti dell'uomo (16). Agli albori del Rinascimento l'antropologia individualista ha promosso in Europa - e, è bene ricordarlo, soltanto in Europa - un vero e proprio 'rovesciamento' del rapporto fra gli individui e l'autorità politica. Superata la concezione organicistica della vita sociale - il modello aristotelico e aristotelico-tomista - che faceva dell'integrazione dell'individuo nel gruppo politico la condizione stessa della sua umanità e razionalità, è emersa la prospettiva giusnaturalistica (17). Dalla priorità dei doveri dei sudditi nei confronti dell'autorità politica (e religiosa) si è passati alla priorità dei diritti del cittadino e al dovere dell'autorità pubblica di riconoscerli, di tutelarli e, alla fine, anche di promuoverli.

Entro lo Stato moderno europeo (sovrano, nazionale, laico) la figura deontica originaria - il dovere - ha lasciato così il campo ad una nuova, in larga parte opposta, figura deontica, quella della aspettativa o pretesa individuale collettivamente riconosciuta e tutelata nella forma del 'diritto soggettivo'. È un diritto inteso come jus in opposizione alla lex, in opposizione cioè al comando del sovrano e al 'diritto oggettivo' di cui la potestas sovrana è espressione e garanzia.

Decade l'idea armonistica e nomologica dell'ordine naturale e della sua strutturazione gerarchica e si consolida il primato metafisico e sociale del soggetto umano e della sua 'coscienza' individuale come luogo dell'autonomia morale e della libertà politica, sia pure entro un contesto sociale che si vuole ordinato dalla ragione, dalla morale e dal diritto (18).

Ignatieff va molto oltre questa che potrebbe essere considerata la koiné filosofico-politica dell'Europa moderna, alla quale solo il marxismo, nelle sue espressioni più 'eretiche' e radicali, ha cercato vanamente di opporsi negli ultimi due secoli. Seguendo Berlin, Ignatieff non solo sposa la versione classicamente liberale dell'individualismo politico europeo, ma, come vedremo, pensa di poter costringere l'intero ventaglio dei diritti soggettivi entro lo spazio normativo della 'libertà negativa'.

Nella tradizione liberale classica, ispirata al primato della libertà individuale e della proprietà privata, la libertà politica è stata intesa essenzialmente come 'assenza di costrizione' e come sfera di non interferenza politica. Nel Secondo Trattato sul governo civile, di John Locke, come nelle altrettanto celebri pagine del Saggio sulla libertà di Stuart Mill, la libertà si identifica con un complesso di diritti a 'non essere impediti' da comportamenti altrui. In questa linea, nel suo celebre contributo, Two Concepts of Liberty, Berlin non solo distingue la 'libertà liberale' dall'idea premoderna di libertà come cittadinanza politica, ma la contrappone alla 'libertà positiva', nelle varie accezioni che questa nozione è andata assumendo negli ultimi due secoli entro il pensiero liberaldemocratico e democratico-socialista (19).

Il senso positivo della parola 'libertà' deriva dall'aspirazione dell'individuo ad essere 'padrone di se stesso': in altre parole è la volontà non solo di essere libero, ma di essere 'autonomo' e cioè dotato di una propria personale identità e di una capacità di progettare la propria vita e di giocare il proprio destino. La 'libertà positiva', in questo senso, implica la libertà dal bisogno come condizione della 'libertà di adesione', e cioè di ricca e intensa partecipazione all'interazione e alla comunicazione sociale. E ciò richiede che il soggetto disponga anche di un certo grado di riflessività cognitiva che gli consenta di analizzare criticamente gli inputs del suo processo di acculturazione e di controllare le spinte verso il conformismo che gli vengono dall'ambiente sociale.

È chiaro che il complesso delle istanze normative coperte dall'espressione 'libertà positiva' comporta che il soggetto sia titolare non solo di diritti di libertà, ma anche di diritti politici e di diritti sociali, per non parlare dei cosiddetti 'nuovi diritti' (l'eguaglianza fra i generi, l'ambiente, i diritti degli stranieri e dei migranti, etc.). La garanzia giuridica dei fondamentali diritti di libertà a favore di cittadini che siano dotati di identità incerta e di scarsa autonomia rischia di essere un guscio vuoto: questo è vero in particolare entro le moderne società tecnologico-informatiche. In esse l'esercizio dei diritti fondamentali rinvia necessariamente a quello che potremmo chiamare il fondamentale 'nuovo diritto' dal quale dipende sempre più l'effettività di tutti gli altri diritti: l'habeas mentem, e cioè la capacità del soggetto di controllare, filtrare e interpretare razionalmente il flusso crescente delle comunicazioni multimediali che lo investe.

Ma la 'libertà positiva' richiede anche, come ha sostenuto con grande efficacia Will Kymlicka (20), che l'individuo sia tutelato non in quanto astratta monade esistenziale, ma in quanto appartenente ad una comunità culturale, nell'interazione critica con la quale la sua identità si costituisce e la sua capacità di auto-progettazione si alimenta. Ne nasce quella delicata e cruciale dialettica fra i diritti individuali e i 'diritti collettivi' - Ignatieff la risolve in poche battute, subordinando meccanicamente i 'diritti collettivi' a quelli individuali (21) - che nessuna teoria liberale classica (nessuna teoria della 'libertà negativa') è in grado di impostare e di risolvere, se non in senso oligarchico e discriminatorio. E non è un caso che l'intera teoria dei 'diritti collettivi' o 'diritti di gruppo' - si pensi in particolare al diritto di parlare la propria lingua o il diritto di praticare la propria religione - sia ancora oggi gravemente carente all'interno della riflessione giuridica occidentale. E non mancano autori - Jürgen Habermas, fra gli altri - che sostengono l'impossibilità o l'inopportunità di una elaborazione di questi interessi collettivi nella forma positivizzata di diritti azionabili da soggetti individuali e/o collettivi entro giurisdizioni nazionali o internazionali (22).

Il riconoscimento e la protezione dei 'diritti collettivi' - come autori non occidentali vanno ripetendo da decenni, con buona pace di Amartya Sen (23) - restano una condizione essenziale dell'affermazione dei diritti individuali e nello stesso tempo sono in tensione con essi: si pensi alla protezione dell'identità e dell'autonomia politica dei gruppi linguistici e culturali minoritari e dei popoli più deboli - la 'nazioni senza Stato' -, alla battaglia contro la discriminazione economico-sociale di intere categorie di lavoratori-migranti all'interno delle società nazionali, alla lotta contro la povertà e le malattie epidemiche di estese aree continentali, alla liberazione dei paesi economicamente arretrati dall'indebitamento estero (24).

Per il liberale Berlin - e per il liberale Ignatieff che ne ripete le tesi - questi problemi non hanno connessioni rilevanti né con la libertà delle persone, né con il corredo dei loro diritti. Per loro la 'libertà negativa' è invece il solo ideale politico compatibile con una concezione autentica del pluralismo etico e filosofico, e con il riconoscimento del fallibilismo insuperabile delle nostre convinzioni metafisiche e religiose. È sostanzialmente per queste ragioni che contro le metafisiche razionalistiche, fautrici di una 'libertà positiva' per tutti gli uomini, Ignatieff propone di contenere l'intera gamma dei diritti individuali (e sostanzialmente anche di quelli collettivi) nell'area della libertà di non essere ostacolati da poteri oppressivi nella sfera dell'integrità personale, dell'attività economica e della privacy. Ma, come è stato puntualmente osservato da Amy Gutmann (25), per un verso questa proposta trascura, se non addirittura respinge, le aspettative di una larghissima parte degli abitanti del pianeta, per un altro verso disconosce un dato empirico difficilmente contestabile. Disconosce che il linguaggio dei diritti e le rivendicazioni dei diritti oggi vanno molto al di là della sfera della semplice libertà di non essere impediti od oppressi.

Per quanto riguarda il linguaggio dei diritti, si pensi, per citare solo i più recenti, a documenti come il 'Patto sui diritti civili e politici', del 1996, il 'Patto sui diritti economici, sociali e culturali', anch'esso del 1966, la 'Carta africana sui diritti umani e dei popoli', del 1981, la 'Dichiarazione islamica di Tunisi', del 1992, e, buon ultima, la 'Carta europea dei diritti fondamentali', del dicembre 2000. E occorrerebbe aggiungere la lunga serie di documenti internazionali che 'specificano' le tavole dei diritti individuali e collettivi: la 'Convenzione sui diritti politici della donna' (1952), la 'Convenzione per la prevenzione e la repressione del genocidio' (1958), 'La dichiarazione dei diritti del fanciullo' (1959), la 'Dichiarazione della concessione dell'indipendenza ai paesi e ai popoli coloniali' (1960), la 'Convenzione contro la discriminazione razziale e l'apartheid' (1963) (26). Sostenere che il linguaggio normativo di questi documenti riguarda soltanto, o anche prevalentemente, i diritti di libertà e di resistenza all'oppressione e non comprende invece l'intera gamma dei diritti civili, politici, sociali, culturali, economici, relativi alla bioetica, all'ambiente, alla protezione dei dati personali, non esclusi i cosidetti 'diritti collettivi', sarebbe puramente insensato.

Quanto alle rivendicazioni dei diritti, basti ricordare, in merito ai diritti individuali, l'intera epopea della lotta per l'eguaglianza fra i generi condotta dai movimenti femministi, per tacere dei movimenti pacifisti e ambientalisti, le cui rivendicazioni vanno ben oltre la logica normativa della 'libertà da impedimento'. E per quanto riguarda i 'diritti collettivi', emblematica è la resistenza del popolo palestinese contro l'etnocidio che lo Stato di Israele gli sta da decenni infliggendo con la complicità del mondo occidentale e di parte di quello arabo. In Palestina l'identità e la dignità di un popolo non viene barattata - si pensi alla tragica figura dell'attentatore suicida, ma non soltanto ad essa - con la più agevole soddisfazione di istanze individuali di integrità personale e di benessere privato.

4. Universalità minimale

In chiave berliniana Ignatieff ha spogliato la dottrina dei diritti dell'uomo di ogni proiezione metafisico-religiosa e ne ha contratto la portata normativa nell'ambito della 'libertà negativa': è questa duplice operazione che a suo parere soddisfa le condizioni perché i diritti dell'uomo godano di quel minimalist universalism che li può rendere compatibili con un'ampia varietà di civiltà, culture e religioni. I diritti dell'uomo possono riscuotere un consenso universale in quanto 'teoria debole' (thin theory) che riguarda solo ciò che è giuridicamente valido (right), non ciò che è giusto (good) in assoluto. Una teoria che si limiti a definire le condizioni minime perché la vita sia degna di essere vissuta può essere accolta e praticata con fervore in ogni angolo della terra (27).

In questo modo, pensa Ignatieff, i diritti dell'uomo cesseranno di essere percepiti dalle altre civiltà come una intrusione neo-imperialista, come una imposizione dello stile di vita, dei valori, della visione del mondo occidentali. I diritti diventeranno ovunque una forza 'locale', la forza delle persone deboli, delle vittime in lotta contro regimi dispotici e contro pratiche sociali oppressive. Saranno gli oppressi a impugnare con entusiasmo la bandiera dei diritti, non saranno gli occidentali a doverla imporre con una qualche forma di costrizione. Il linguaggio dei diritti offrirà a tutti buoni argomenti e strumenti efficaci per "aiutarsi da se stessi", per proteggersi come individui dall'ingiustizia, per rendersi, in quanto individui, titolari del diritto di "scegliersi la vita che si ritiene preferibile per se stessi" (28).

Ignatieff respinge esplicitamente la critica che può essere rivolta al suo approccio individualistico: quella di voler imporre a tutte le culture del pianeta la concezione occidentale dell'individuo. Ignatieff replica rovesciando tout court la critica: è esattamente l'individualismo morale il primo alleato della diversità culturale perché una filosofia individualistica non può che schierarsi a difesa dei modi diversi con cui ciascun individuo sceglie di vivere la sua vita. È dunque esattamente un rigoroso approccio individualistico che può conciliare l'universalismo dei diritti dell'uomo con il pluralismo delle culture e delle morali. In questo senso l'individualismo è secondo Ignatieff la sola replica vincente alle sfide che oggi vengono lanciate all'universalismo dei diritti da parte del mondo islamico e della cultura cinese-confuciana, oltre che da parte di correnti culturali occidentali di orientamento post-modernista e quindi pericolosamente inclini al relativismo etico (29).

La linea di difesa che Ignatieff si è scelta è a mio parere molto debole. Ha il solo merito di affrontare apertamente le critiche che il mondo non occidentale rivolge, soprattutto a partire dalla celebre 'Dichiarazione di Bangkok' del 1993, alle pretese universalistiche dei valori etico-politici occidentali. Ma le scarne pagine che Ignatieff dedica sia alla cultura politica islamica, sia alla questione degli Asian values provano ancora una volta il pregiudizio etnocentrico dell'universalismo e del globalismo occidentale. Mentre si producono in proposte di unificazione normativa del mondo i Western globalists danno prova immancabilmente del loro limitato interesse - e della loro scarsa informazione - circa le tradizioni culturali, politiche e giuridiche con le quali vorrebbero (o dovrebbero) entrare in dialogo.

La critica dell'universalismo occidentale, come è noto, aveva già trovato espressioni molto energiche sia nel mondo islamico - in particolare entro l'esperienza della rivoluzione komeinista -, sia nelle culture africane sub-sahariane. Oggi è l'Asia del Sud-Est e del Nord-Est l'area di più forte resistenza ideologica alla pressione della strutture giuridiche e politiche occidentali. In paesi come Singapore, la Malesia e la Cina la contrapposizione degli Asian values ai valori occidentali ha acquistato particolare vigore e prestigio grazie a figure di leaders carismatici come il re-filosofo singaporese Lee Kuan Yew e il premier malese Mohammed Mahathir (30).

Questi autori hanno dichiarato apertamente che i valori politici della modernità occidentale non possono essere accolti dalle culture asiatiche. Il rifiuto riguarda in particolare la tradizione liberaldemocratica e la dottrina dei diritti dell'uomo. Con la sua idea organica della famiglia e della società la tradizione confuciana offre a circa un miliardo e mezzo di persone il quadro ideologico più adatto per contenere gli effetti anomici dell'economia di mercato e per attenuare le spinte disgregatrici dell'individualismo e del liberalismo occidentale (31). La tutela dei diritti dell'uomo e il principio dell'uguaglianza giuridica dei cittadini hanno d'altra parte scarso interesse per popolazioni che sono ancora il larga parte oppresse dalla miseria e che fino a poco tempo fa subivano inermi lo strapotere del colonialismo occidentale.

Altri autori hanno sottolineato che la stessa idea occidentale di diritto soggettivo è estranea all'ethos confuciano. Il giurista cinese Chung-Schu Lo ha ricordato che nella lingua cinese non è mai esistito alcun lemma che corrisponda alla nozione occidentale di 'diritto soggettivo' (32). I primi traduttori cinesi di opere politiche e giuridiche occidentali, apparse in Asia nella seconda metà dell'Ottocento, hanno dovuto coniare un vocabolo nuovo, chuan-li (potere-interesse), per tentarne una traduzione concettuale in qualche modo sensata. Nella tradizione confuciano-menciana a dominare non è l'idea di diritto individuale ma lo è, al suo posto, quella di 'relazione sociale fondamentale' (sovrano-suddito, genitori-figli, marito-moglie, primogenito-secondogenito, amico-amico).

Lo stesso comportamento di sfida fra le parti di una controversia giudiziaria è lontano dalla cultura confuciana (33). All'esasperata competizione fra individui nel tentativo di 'ottenere ragione' e di vincere la causa prevalendo sull'avversario - atteggiamento caratteristico del formalismo giuridico occidentale - la finalità del 'procedimento' nella tradizione confuciana è la conciliazione, attraverso pratiche di compromesso e di mediazione. François Jullien ha addirittura sostenuto che nella cultura cinese tra le esigenze della morale e l'imperativo del potere non c'è una mediazione del diritto che sia basata su regole generali ed astratte e segua procedure burocratiche prestabilite (34). La soluzione transattiva delle controversie si fonda sulla personalizzazione del singolo caso, non sulla sua spersonalizzazione formalistica.

Oggi questa cultura giuridica profondamente anti-individualistica e antiformalista si rafforza, anziché estinguersi, in una vasta area di paesi asiatici che sono impegnati a riscattare la propria identità politica mettendo al primo posto l'armonia sociale, la famiglia, il rispetto dell'autorità, il senso di responsabilità dei funzionari pubblici. E un discorso convergente, anche se in termini molto differenziati, potrebbe farsi per una larga parte del mondo islamico e della culture autoctone africane e americane. In questa prospettiva l'Occidente viene percepito come il luogo dove i valori comunitari decadono sotto la spinta di un individualismo sfrenato e di una concezione politica che impone allo Stato il riconoscimento di un numero crescente di diritti individuali cui non corrisponde alcun dovere, né alcun legame di solidarietà.

Per neutralizzare queste critiche Jgnatieff ha a mio parere imboccato una strada senza uscite. Ha anzitutto trascurato le connessioni che la teoria dei diritti dell'uomo presenta con l'intero contesto della visione occidentale del mondo che oggi i processi di globalizzazione tendono a pantografare e a diffondere nel mondo intero sotto l'egida della 'modernizzazione': l'economia di mercato, la volontà di dominio sulla natura, la fede nello sviluppo tecnologico, l'efficientismo produttivo, la deriva acquisitiva e consumista, il culto della velocità. Ha poco senso supporre che la dottrina occidentale dei diritti dell'uomo possa essere accolta universalmente al di fuori del contesto dei processi di occidentalizzazione del mondo con i quali la globalizzazione in larga parte coincide. In secondo luogo Ignatieff ha trascurato l'intera problematica relativa alle modalità interculturali - non unilaterali o 'umanitarie' - di una possibile 'traduzione' del linguaggio occidentale dei diritti nei linguaggi delle diverse civiltà e culture. Si pensi ad esempio ai tentativi di Panikkar (e in qualche modo anche di Höffe) di individuare nelle culture non occidentali degli 'equivalenti omeomorfi' al linguaggio dei diritti e di tentare su questa base un 'dialogo trascendentale' (35).

In realtà Ignatieff ha tentato di aprire una via 'pragmatica' al fondamentalismo umanitario: ha tentato applicare dei filtri epistemologici e politici ad un tipico prodotto della cultura occidentale per farne una merce di più facile esportazione 'umanitaria'. Ha ritenuto che, ridotti alla individualistica 'libertà negativa', i diritti dell'uomo possano essere offerti (consigliati, raccomandati, imposti) al mondo intero come un pacchetto sterilizzato, ormai disponibile a qualsiasi uso, perché senza più stigmate occidentali, perché perfettamente fungibile e avalutativo. Paradossalmente il risultato ottenuto è di segno opposto. Senza avvedersene - e qui sta la sua ingenuità etnocentrica - Ignatieff ha in realtà filtrato la quintessenza occidentale della dottrina dei diritti dell'uomo: la sua costitutiva, indelebile impronta individualistica e il suo nucleo più strettamente liberale, costituito dai diritti di 'libertà negativa'. Si potrebbe aggiungere che, sul piano epistemologico, è altrettanto ingenua la pretesa di Ignatieff che una teoria normativa dei diritti dell'uomo possa essere costituita di proposizioni prescrittive cosi povere di implicazioni assiologiche e valutative da poter essere accolte entro qualsiasi possibile contesto etico-religioso.

5. L'uso della forza

Nelle sue Lectures Ignatieff dedica molte pagine al tema della tutela coercitiva dei diritti dell'uomo, con riferimento in particolare all'uso della forza militare a fini umanitari, la cosiddetta humanitarian intervention (36). La posizione di Ignatieff su questo punto cruciale - decisivo per cogliere il senso politico generale della sua proposta teorica - è in contraddizione con l'intero impianto della sua thin theory in tema di diritti dell'uomo. Per quanto 'debole', per quanto concentrato sul tema della libertà e della integrità di tutti gli esseri umani, nessuno escluso, per quanto retoricamente impegnato a condannare ogni comportamento ostile nei confronti dei singoli individui da parte di poteri autoritari (non occidentali), l'universalismo debole di Ignatieff si allinea sine glossa con le 'guerre umanitarie' che gli Stati Uniti e i loro alleati europei hanno condotto in questi anni in nome dei diritti dell'uomo, in particolare nei Balcani (37).

Per Ignatieff è ovvio che quando uno Stato (non occidentale) mette a repentaglio la vita dei suoi cittadini, violandone i diritti fondamentali, la sua sovranità non può essere rispettata. La comunità internazionale ha il dovere di intervenire applicando sanzioni e, nei casi più gravi, usando lo strumento militare: "quando si ha a che fare con personaggi come Hitler, Stalin, Saddam Hussein o Pol Pot - scrive perentoriamente Ignatieff - nessuna pacifica soluzione diplomatica è possibile" (38). La guerra dunque - anche la "guerra umanitaria" decisa unilateralmente e illegalmente dalla Nato contro la Repubblica Federale Serba - è una guerra legittima, eticamente irreprensibile, se ha come obbiettivo la tutela dei diritti dell'uomo. È per antonomasia una "guerra giusta" perché non ha finalità di conquista territoriale, né di definitiva soppressione della sovranità di uno Stato: i paesi occidentali impegnati in interventi umanitari in un determinato paese hanno sempre usato la forza delle armi per portare pace, democrazia e stabilità e poi si sono prontamente ritirati (39).

Sorprende che Ignatieff, che pure ha dedicato pagine lucide e, talora, penetranti in tema di protezione dei diritti dell'uomo, trascuri di dedicare una sola riga al tema della compatibilità dell'uso della armi di sterminio con la finalità della protezione dei diritti fondamentali degli individui umani. Ignatieff non sfiora neppure il problema se, in nome della (pretesa) tutela dei diritti fondamentali di alcuni individui sia lecito sacrificare la vita, l'integrità fisica, i beni, gli affetti, i valori di (migliaia di) persone innocenti, come è avvenuto in particolare nella guerra per il Kosovo. Né si domanda quale possa essere l'autorità neutrale e imparziale - l'autorità universalistica, come universalistici egli pretende che siano i diritti dell'uomo - investita dell'autorità morale, prima ancora che politica, di decidere il sacrifico di persone innocenti.

Ignatieff dimentica - ed è una dimenticanza imperdonabile in un fervido teorico della 'libertà negativa' - che la guerra moderna è la più radicale negazione dei diritti degli individui, a cominciare dal diritto alla vita. La guerra moderna, condotta con armi di distruzione di massa sempre più sofisticate e micidiali, è un evento incommensurabile con le categorie dell'etica e del diritto. Essa ha per sua natura la funzione di distruggere - senza proporzioni, senza discriminazione e senza misura - la vita, i beni e i diritti delle persone, prescindendo da una considerazione dei loro comportamenti responsabili. Essa è in sostanza l'esecuzione di una pena capitale collettiva sulla base di una presunzione di responsabilità penale di tutti i cittadini di uno Stato. Dal punto di vista delle sue conseguenze la guerra moderna non è dunque facilmente distinguibile dal terrorismo. Ed è chiaro che questi argomenti sono tanto più stringenti se vengono opposti ai fautori dell'universalità dei diritti dell'uomo.

Paradossalmente la sola preoccupazione di Ignatieff è che l'uso umanitario della guerra sia tempestivo, efficace, coerente e non tardivo e parziale, come - egli sostiene - è accaduto in Rwanda, in Bosnia e nel Kosovo. È necessario quindi che l'uso umanitario della forza militare non sia condizionato dagli interessi politico-strategici delle grandi potenze, che non sia neppure subordinato alla tutela della pace internazionale. A questo scopo occorre a suo parere che le Nazioni Unite vengano riformate in modo che il Consiglio di Sicurezza sia autorizzato ad usare sistematicamente la forza per fini umanitari, e non solo per la tutela della pace e dell'ordine internazionale. In questo modo la coincidenza fra l'universalità dei diritti e l'universalità degli interventi armati per la loro protezione renderebbe del tutto legittime, e altrettanto successful, le 'guerre umanitarie'. E si eviterebbe così che 'coalizioni di volenterosi' decidano comunque, giustamente, di usare la forza senza tener conto dell'autorità delle Nazioni Unite e quindi screditandole.

Si può dunque concludere che per quanto thin, l'universalismo etico-giuridico di Ignatieff tende, come ogni universalismo, verso l'intolleranza, l'aggressività, la negazione della diversità culturale e della complessità del mondo. L'intera operazione di 'secolarizzazione' pragmatica della dottrina dei diritti dell'uomo proposta da Ignatieff finisce contradditoriamente in una ennesima esaltazione dell'uso della forza internazionale da parte delle potenze occidentali. È una conclusione in linea con il 'fondamentalismo umanitario' che oggi motiva le strategie egemoniche degli Stati Uniti e dei loro alleati europei, e che provoca in tutto il mondo la replica sanguinosa del global terrorism, incluso il terrorismo suicida. Nulla è più idolatrico e monoteistico (e ingenuo) dell'idea di una guerra condotta in nome dei diritti dell'uomo.


Note

*. Tratto da M. Ignatieff, Una ragionevole apologia dei diritti umani, Milano, Feltrinelli, 2003.

1. Per una valutazione critica della 'Carta di Nizza' mi permetto di rinviare al mio Una 'pietra miliare'?, "Diritto pubblico", (2001), 3, pp. 1011-1030.

2. A Vienna la tesi della indivisibilità e universalità dei diritti è stata usata come un'arma polemica contro un folto gruppo di paesi dell'Asia e dell'America latina. Questi paesi rivendicavano la priorità dei 'diritti collettivi' rispetto ai diritti individuali.

3. Dichiarandosi in sintonia con John Rawls per il quale esiste un overlapping consensus sul quale l'umanità può fondare la sua convivenza pacifica, Habermas dichiara di ritenere che "il contenuto essenziale dei principi morali incarnati nel diritto internazionale è conforme alla sostanza normativa delle grandi dottrine profetiche e delle interpretazioni metafisiche affermatesi nella storia universale" (J. Habermas, Vergangenheit als Zukunft, Zürich, Pendo Verlag, 1990, trad. it. Dopo l'utopia, Venezia, Marsilio, p. 20). Cfr. anche J. Habermas, Kants Idee des Ewigen Friedens - aus dem historischen Abstand von 200 Jahren, "Kritische Justiz", 28 (1995), pp. 293-319 (ora anche in J. Habermas, Die Einbeziehung des Anderen, Frankfurt a.M., Suhrkamp Verlag, 1996), p. 307. Per posizioni analoghe a quelle di Habermas si veda la teoria degli 'assoluti morali' di J.M., Finnis Natural Law and Natural Rights, Clarendon, Oxford, 1980, trad. it. Legge naturale e diritti naturali, Giappichelli, Torino, 1996.

4. Cfr. M. Ignatieff, Human Rights as Politics and Idolatry, Princeton, Princeton University Press, 2001, pp. 53-4.

5. Ibidem, p. 20.

6. Cfr. N. Bobbio, L'età dei diritti, Torino, Einaudi, 1990, pp. 5-16. Anche Niklas Luhmann assume una posizione scettica circa l'universalità dei diritti dell'uomo: si veda N. Luhmann, Grundrechte als Institution, Berlin, Dunker & Humblot, 1965. Sul tema si veda in generale L. Baccelli, Il particolarismo dei diritti, Roma, Carocci, 1999.

7. Cfr. N. Bobbio, L'età dei diritti, cit., p. 13

8. Cfr. T.H., Marshall, Citizenship and Social Class, in T.H. Marshall, Class, Citizenship, and Social Development, Chicago, The University of Chicago Press, 1964, trad. it. Cittadinanza e classe sociale, Torino, UTET, 1976.

9. L'espressione 'generazioni' è di Bobbio ed è priva di ambizioni teoriche. P. Barile, in Diritti dell'uomo e libertà fondamentali, Bologna, il Mulino, 1984, si limita ad una compilazione di diritto costituzionale positivo. Tentativi di elaborazione teorica di devono ad autori come R. Alexy, Theorie der Grundrechte, Baden-Baden, Nomos Verlagsgesellschaft, 1985; J. Rawls, The Basic Liberties and Their Priorities, in S.M. McMurrin (a cura di), The Tanner Lectures on Human Values, vol. 3, Salt Lake City, University of Utah Press, 1982, pp. 1-87, trad. it. in H.L.A. Hart, J. Rawls, Le libertà fondamentali, Torino, La Rosa Editrice, 1994; G. Peces-Barba Martínez, Curso de derechos fundamentales, Madrid, Eudema, 1991, trad. it. Milano, Giuffrè, 1993; L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, Roma-Bari, Laterza, 2001.

10. Cfr. A. Laquièze, Lo Stato di diritto e la sovranità nazionale in Francia, in P. Costa, D. Zolo (a cura di), Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica, Milano, Feltrinelli, 2002. Laquieze ricorda che in Francia Etienne Picard (L'émergence des droits fondamentaux en France, 'Actualité Juridique. Droit Administratif', 1998, numero speciale su Les Droits fondamentaux, pp. 6 ss.) ha proposto di istituire una 'scala di fondamentalità'.

11. Cfr. N. Bobbio, L'eta dei diritti, cit., pp. 14-6.

12. Cfr. N. Bobbio, L'età dei diritti, cit., p. XX.

13. Cfr. M. Ignatieff, Human Rights as Politics and Idolatry, cit., pp. 3-4 e p. 95.

14. Ibidem, p. 7.

15. Ibidem, p. 57 ("the capacity of each individual to achieve rational intentions without let or hindrance").

16. Cfr. N. Bobbio, L'età dei diritti, cit., pp. IX, 58 ss.

17. Sul tema si veda M. Villey, La formation de la pensée juridique moderne, Paris, Monchretien, 1975, trad. it. Milano, Jaka Book, 1986.

18. Cfr. E. Santoro, Autonomia individuale, libertà e diritti, cit., passim.

19. Cfr. I. Berlin, Two Concepts of Liberty, ora in I. Berlin, Four Essays on Liberty, Oxford, Oxford University Press, 1969, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1989, pp. 185-245.

20. Si veda W. Kymlicka, Liberalism, Community and Culture, Oxford, Oxford University Press, 1998.

21. Cfr. M. Ignatieff, Human Rights as Politics and Idolatry, cit., pp. 66-7.

22. Sul tema si veda J. Habermas, Kampf um Anerkennung im democratischen Rechtsstaat, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1996, trad. it. in J. Habermas, C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 1998; E. Vitale (a cura di), Diritti umani e diritti delle minoranze, Torino, Rosenberg e Sellier, 2000; A. Facchi, I diritti nell'Europa multiculturale, Roma-Bari, Laterza, 2001, particolarmente alle pp. 21-36.

23. Ignatieff si richiama all'autorità di Amartya Sen: "nessuna grave carestia si è mai avuta in paesi con una forma democratica di governo ed una stampa relativamente libera" (cfr. M. Ignatieff, Human Rights as Politics and Idolatry, cit., pp. 90-91). Si veda A. Sen, Development as Freedom, New York, Anchor Books, 1999, trad. it. Lo sviluppo è libertà, Milano, Mondadori, 2000; A. Sen, Human Rights and Asian Values.

24. Su questi temi si veda in particlare la già citata "Banjul Charter on Human and People's Rights", approvata nel 1981 dall'Organizzazione dell'Unità Africana, ove i diritti economico-sociali, concepiti come diritti collettivi dei popoli, hanno una netta prevalenza nei confronti dei diritti civili e politici degli individui; altrettanto si può dire a proposito della Dichiarazione islamica di Tunisi, del 1992; cfr. R.J. Vincent, Human Rights and International Relations, Cambridge: Cambridge University Press, 1986, pp. 39-44.

25. Cfr. A. Gutmann, Introduction in M. Ignatieff, Human Rights as Politics and Idolatry, cit., pp. XI-XIV.

26. È stato Bobbio ha mettere in luce la tendenza alla specificazione dei diritti nelle carte internazionali: cfr. N. Bobbio, L'età dei diritti, cit., pp. 29-33.

27. Cfr. M. Ignatieff, Human Rights as Politics and Idolatry, cit., p. 56.

28. Ibidem, pp. 7, 57.

29. Ibidem pp. 57-8.

30. Anche i due giovani intellettuali cinesi, Son Qiang e Zhang Xiaobo, un tempo leaders della generazione di piazza Tien An Men, sono autori di un saggio, divenuto rapidamente un best-seller, dal significativo titolo The China that Can Say No. Sul tema si veda M.C. Davis (a cura di), Human Rights and Chinese Values. Legal, Philosophical and Political Perspectives, Columbia University Press, New York 1995; W.T. de Bary, T. Weiming (a cura di), Confucianism and Human Rights, Columbia University Press, New York 1998, E. Vitale, 'Valori asiatici' e diritti umani, 'Teoria politica', 15 (1999), 2-3, pp. 313-24; M. Bovero, Idiópolis, 'Ragion pratica', 7 (1999), 3, pp. 101-6; F. Monceri, Altre globalizzazioni. Universalismo liberal e valori asiatici, Catanzaro, Rubbettino, 2002.

31. Il giapponese Shintaro Ishihara, il malese Mahathir Mohammed, e i cinesi Son Qiang e Zhang Xiaobo sono rispettivamente autori dei volumi The Japan that Can Say No; The Asia that Can Say No; The China that Can Say No. Si veda l'ampia bibliografia sul tema dei valori asiatici, a cura di Flavia Monceri. Si veda anche il contributo critico di A. Ehr-Soon Tay, I 'valori asiatici' e il rule of law, in P. Costa, D. Zolo (a cura di), Lo Stato di diritto, cit., pp. 683-707.

32. L. Chung Sho, Human Rights in the Chinese Tradition, in UNESCO, Human Rights: Comments and Interpretations, New York, Columbia University Press, 1949.

33. Cfr. L. Scillitani, Tra l'Occidente e la Cina: una via antropologica ai diritti dell'uomo, in A. Catania, L. Lombardi Vallauri (a cura di), Concezioni del diritto e diritti umani. Confronti Oriente-Occidente, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2000, pp. 385-94.

34. Cfr. F. Jullien, Un usage philosophique de la Cine, "Le debat", ottobre 1996, p. 191; si veda inoltre: R. Panikkar, La notion des droits de l'homme est-elle un concept occidental?, "Diogéne", 120 (1982), pp. 87-115; W.T. de Bary, Asian Values and Human Rights. A Confucian Communitarian Perspective, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1998; C. Taylor, Conditions of an Unforced Consensus on Human Rights, in J.R. Bauer, D.A. Bell (a cura di), The East Asian Challenge for Human Rights, Cambridge, Cambridge University Press, 1999; D.A. Bell, East meets West: Human Rights and Democracy in East Asia, Princeton, Princeton University Press, 2000.

35. Cfr. R. Panikkar, La notion des droits de l'homme est-elle un concept occidental?, cit.; H. Höffe, Déterminer le droits de l'homme à travers une discussion interculturelle, "Revue de Métaphisique et de morale", (1997), 4; L. Baccelli, Il particolarismo dei diritti, cit., passim.

36. Ignatieff esalta anche la funzione repressiva dei Tribunali penali Internazionali, in particolare del Tribunale penale internazionale per la ex-Jugoslavia, voluto, finanziato, assistito militarmente dagli Stati Uniti. Sul tema mi permetto di rinviare al mio Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Torino, Einaudi, 2000, pp. 124-68.

37. Cfr. M. Ignatieff, Human Rights as Politics and Idolatry, cit., pp. 37-48. Sulla 'guerra umanitaria' per il Kosovo mi permetto di rinviare al mio Chi dice umanità, Einaudi, Torino, 2000.

38. Cfr. M. Ignatieff, Human Rights as Politics and Idolatry, cit., p. 42.

39. Ibidem, pp. 38-9.