2005

Elementi di un'analisi del terrorismo contemporaneo

Nicolò Bellanca

1. Lungo il XIX e XX secolo, la violenza politica collettiva può venire classificata secondo quattro modalità principali. La "guerra internazionale" si svolge tra Stati, ricorre a eserciti professionali e coinvolge, più o meno ampiamente, le risorse dei sistemi economici dei paesi in lotta. La "guerra civile" si effettua tra gruppi sociali all'interno di un territorio nazionale e presenta non di rado caratteristiche di insurrezione indipendentista o di rivoluzione popolare. Nelle "guerre di guerriglia" forze armate di opposizione realizzano strategie di resistenza, logoramento e controffensiva basate sulla consapevolezza della notevole inferiorità dei propri mezzi rispetto alle forze governative. Infine il "terrorismo" - secondo una definizione ampiamente condivisa, che qui criticheremo - è costituito da attacchi violenti perpetrati da un soggetto collettivo contro uno o più Stati, che suscitano un clima di paura sociale e d'instabilità politica colpendo bersagli simbolici oppure casuali, coinvolgendo i civili e valicando, nel contesto colpito, il "senso comune della violenza" (1).

2. Agli esordi del XXI secolo occorre ridefinire il ruolo delle modalità appena richiamate. Un primo aspetto riguarda il progressivo declino delle guerre internazionali (2), sia perché gli Stati nazionali non sono più gli unici attori della politica mondiale, sia soprattutto per lo scollamento tra confini statali e confini nazionali: spesso si combatte a cavallo tra più Stati, semplicemente per assecondare l'effettiva collocazione spaziale dei gruppi etnici, religiosi o sociali che lottano fra loro. Sono pertanto le tre forme restanti - guerre civili, guerriglie e terrorismi - a occupare ormai la scena. Nel 2003 si sono svolti 29 conflitti armati in 22 paesi (3). Cinque sono interpretabili come guerre civili, poiché in essi eserciti governativi combattono forze politiche di opposizione in un conflitto territoriale intenso e durevole: è il caso di Liberia, Nepal, Burundi, Sri Lanka e Sudan, ai quali, per zone più limitate del paese, possiamo aggiungere Uganda, Colombia, Algeria e Burma/Myanmar (4). Pochi altri conflitti di minore intensità sono riconducibili alla forma della resistenza guerrigliera: ciò vale per le forze di opposizione al governo in Eritrea, Etiopia, Costa d'Avorio e Senegal. I conflitti restanti si manifestano nei termini di una simbiosi sistematica di guerriglia e di terrorismo. Il caso che - per la sua esposizione mediatica, e per il coinvolgimento italiano - tragicamente osserviamo ogni giorno è quello dell'Iraq, in cui la guerra regolare tra il governo e l'alleanza guidata dagli USA è stata presto rimpiazzata dalla compresenza di una guerriglia di resistenza e del terrorismo transnazionale. Analoghe simbiosi si sono realizzate, lungo gli ultimissimi anni, in Kashmir (India), Palestina (Israele), Turchia, Afghanistan, Russia, Indonesia e Filippine. Se, peraltro, allarghiamo la casella dei conflitti armati per includere anche i luoghi nei quali si sono verificati, dall'11 settembre 2001 ad oggi, attentati terroristici significativi, dobbiamo aggiungere paesi come Tunisia, Marocco, Yemen, Arabia Saudita, Kenya, Pakistan, Uzbekistan, Ossezia, Spagna e Stati Uniti. Riassumendo, accanto a 9 situazioni in cui si svolge una guerra civile, e a 4 in cui si effettua una guerra di guerriglia, abbiamo 8 situazioni ove si manifesta un costante connubio di guerriglia e terrorismo, nonché 10 paesi direttamente colpiti dal terrorismo (e tutti gli altri sotto la minaccia di esserlo). Ovviamente diverse "voci" della lista dei conflitti sono contestabili, ma l'ordine delle grandezze in gioco e soprattutto le linee di tendenza spiccano con un vigore inequivocabile. Quel che salta agli occhi è: a) il tramonto delle classiche guerre tra Stati; b) la sopravvivenza in contesti limitati di guerre civili, pur di estrema ferocia; c) la notevole rilevanza dei connubi, territorialmente delimitati, tra guerriglia e terrorismo; d) il dilagare del terrorismo trasnazionale.

3. Dunque la guerriglia e il terrorismo appaiono oggi le forme più diffuse e incisive con cui si manifesta la violenza politica collettiva. Ciò avviene per una ragione tanto immediata quanto evidente: le altre forme di violenza non sono percorribili. Tra l'iperpotenza americana e i governi suoi alleati da una parte, e un qualsiasi gruppo di opposizione extraistituzionale dall'altra, lo squilibrio in armi, denaro, logistica, tecnologia è tale da rendere impraticabile uno scontro prolungato in campo aperto. Diventa necessario nascondersi o fuggire, per attaccare all'improvviso bersagli limitati nelle condizioni meno sfavorevoli. Per dirla alla rovescia, se i membri della banda (guerrigliera o terroristica) fossero nella condizione di condurre una "guerra regolare" contro il loro nemico, non sceglierebbero un tipo di scontro che - basandosi su gesti che spesso sono no-escape attacks - è molto più pericoloso.

Questo tratto comune a guerriglia e terrorismo è così ovvio da farci confondere. Esso spinge ad offuscare le differenze che continuano a esservi tra le due forme. Se stiamo al suo concetto puro, la guerriglia si presenta come fase interna ad un'insurrezione di massa, talvolta addirittura di segno rivoluzionario, mentre la nozione pura di terrorismo esprime il tentativo iniziale di scuotere, e via via coinvolgere in un processo sovversivo, masse giudicate renitenti e sottomesse. Tale differenza comporta un'implicazione assai importante. In quanto il guerrigliero è inserito in una vicenda ribellistica già in svolgimento, deve preoccuparsi, per migliorare le opportunità di vittoria, di non compromettere, e anzi di estendere, la partecipazione collettiva. Egli deve pertanto elaborare credibilmente e provare a realizzare tattiche e strategie, obiettivi intermedi e finali, capaci di convogliare un consenso diffuso. Seppure talvolta persegue una guerra di annientamento, la realizza soltanto nella misura in cui serve al fine della vittoria politica: la ferocia dev'essere sempre proporzionale al risultato da conseguire (5). Per il terrorista, piuttosto, è auspicabile che la propria azione rappresenti un "detonatore" in grado di risvegliare le masse; poiché tuttavia, quando effettua la propria azione, questo processo non si è verificato o è ancora in fieri, egli in definitiva ignora lungo quali percorsi, oltre quale soglia critica, in concomitanza con quali ulteriori avvenimenti, il suo attentato possa portare all'esito desiderato.

Se la differenza appena suggerita tra la condizione (idealtipica) del guerrigliero e quella del terrorista coglie il punto, essa dà luogo a una concreta biforcazione. Talune bande terroristiche ritengono di essere in grado di scommettere sulle conseguenze effettive dei propri gesti, ossia credono di potersi comportare come se fossero bande di guerriglieri. Esse tentano di ricondurre l'incertezza al rischio, stimando soggettivamente cosa seguirà a questo o quell'attacco: se diamo credito all'interpretazione che più ne esalta la lungimiranza previsionale, gli attentatori dell'11 marzo 2004 a Madrid hanno, in questo senso, ottenuto un pieno successo, prima conducendo l'opposizione politica in Spagna alla vittoria elettorale e quindi al ritiro delle truppe di quel paese dall'Iraq. Invece le bande terroristiche "pure" - quelle la cui azione più da vicino corrisponde all'idealtipo che le connota - adotteranno attacchi centrati sul metodo della "asimmetria degli scopi":

«Una dimensione che travalica i limiti conosciuti e forse ne stabilisce dei nuovi, anche se ancora indistinti è l'asimmetria degli scopi che si è affiancata a quella dei mezzi e delle strategie. A un estremo di questa asimmetria stanno gli scopi materiali o ideali ben definiti e all'altro sta l'assenza completa di scopi: il combattimento senza scopo alcuno. La conoscenza degli scopi è un fattore strategico di importanza maggiore della stessa conoscenza del potenziale avversario. Ma sapere che l'avversario non ha altro scopo per combattere se non quello di combattere non fornisce alcun vantaggio strategico e anzi influenza negativamente chi conosce, ma che non può neppure prendere in considerazione una guerra senza scopi e perciò senza end state e perciò senza fine. L'asimmetria degli spazi, dei mezzi e delle tecnologie, delle dottrine, delle politiche, degli stessi fattori morali che sostengono chi combatte è comprensibile e accettabile, ma quella degli scopi sfugge alla comprensione e all'accettazione e quindi istintivamente e irrazionalmente aumenta la paura» (6).

Essendo consapevoli dell'insensatezza di ogni calcolo strumentale, i terroristi "puri" puntano a gesti di annientamento privi di misura, sperando - confortati magari dalla fede in qualche ideologia o nell'intervento del trascendente nelle vicende mondane - che gli "effetti aggregati inintenzionali" depongano a loro favore. Questi gesti di mera distruzione, a loro volta, tanto più potranno aspirare allo sconvolgimento dell'ordine che si vuole distruggere, quanto più saranno generati al di fuori di ogni strategia prevedibile e lineare. Gli attacchi dovranno costituire "fatti nuovi" o "sorprese": anziché eventi con probabilità iniziale zero, saranno eventi non immaginati. Gli attentati alle Torri newyorkesi, al Pentagono e alla Casa Bianca dell'11 settembre 2001, accostandosi a questo "modello puro" come nessun precedente atto terroristico era riuscito a fare, trovano in ciò la loro valenza simbolica deflagrante. Ciò, si badi, non avviene perché l'impiego di aeroplani dirottati come un'arma sia stato un'assoluta novità (7); né perché Osama bin Laden non dichiari più volte obiettivi politici tatticamente definiti (8); bensì in quanto gli attacchi come tali prescindono da ogni valutazione del proprio impatto diretto e indiretto: essi cercano la distruzione pura, il colpo che annichilisce, indipendentemente dalle conseguenze per chi lo compie, per chi lo subisce e per tutti gli altri. Il terrorista "impuro" di Madrid, o quello che in questi giorni contratta quali ostaggi decapitare in Iraq e quando farlo, è una figura riconducibile alla razionalità strategica. Egli ragiona sulla geometria politico-militare delle forze in campo e tenta di forzarla in una precisa direzione. La figura che più disorienta è invece quella del terrorista che, abbattendo le Torri, imposta una "asimmetria degli scopi". La sua razionalità consiste nell'inventare un attacco mortale dal quale il nemico non immagina la difesa, e nell'ignorare consapevolmente cosa ne seguirà (9).

È l'"asimmetria degli scopi" che manca nelle altre forme di violenza politica organizzata: si tratta di «colpire X affinché ciò serva da lezione e da deterrente nei confronti di Y, e al tempo stesso galvanizzi il proprio campo» (10). Può ovviamente accadere che in una guerra tra Stati, in una guerra interna o in una lotta guerrigliera un combattente, anziché danneggiare direttamente il proprio nemico, attacchi un soggetto terzo perché alleato o connivente col nemico, o addirittura perché equidistante. Ma questa linea di condotta costituisce una caratteristica essenziale soltanto del terrorismo, il quale la applica in modo del tutto univoco e sistematico: non potendo colpire il "cuore" avversario, il terrorista ripiega talvolta su qualche (personaggio)-simbolo, che quantomeno presenta un nesso diretto col nemico, ma più spesso indirizza l'atto di guerra contro obiettivi che sono legati in modi (anche estremamente) indiretti al "cuore" nemico. Così, mentre il nemico avrebbe mezzi per proteggere ciò che (egli sa che) i terroristi concepiscono come il suo "cuore", non ha risorse bastanti né sicure per tutelare gli infiniti bersagli che il terrorismo può giudicare a lui indirettamente legati. L'asimmetria degli scopi costituisce insomma il connotato cruciale della razionalità terroristica: di fronte a un avversario molto più potente, non basta aggirarlo agilmente, coglierlo impreparato, attaccarlo quando è disunito, spaventarlo con colpi feroci, sottrargli via via il consenso dei civili e pezzi di territorio; queste modalità strategiche - proprie della guerriglia - presuppongono ancora che l'obiettivo consista nel combattere direttamente, sebbene non in campo aperto, il nemico. Invece il terrorista, valutando ex ante impraticabile lo scontro diretto, abbandona ogni calcolo strategico; sceglie di colpire qualsiasi bersaglio indiretto, purché si tratti di un gesto estremo di violenza destabilizzante.

4. Che le due figure - del guerrigliero e del terrorista - vengano sovrapposte e confuse, deriva anzitutto dalla circostanza che nel fuoco dei combattimenti le distinzioni sono assai meno nette, e che una stessa banda può adottare metodi diversi in casi diversi; ma scaturisce anche dalla tentazione di ricondurre l'avversario a ciò che ci è noto: chi è abituato a concepire lo scontro armato in termini di calcoli strategici, ha difficoltà a riconoscere che qualcuno possa decidere di non calcolare. Così, una tra le più autorevoli letture storiche del fenomeno terroristico suggerisce che ogni organizzazione - dagli anarchici russi del XIX secolo, fino alle Brigate rosse italiane - ha dovuto fare i conti con una regolarità empirica: o è riuscita rapidamente a scompaginare e annientare l'organizzazione statale nazionale che colpiva, oppure i suoi stessi eclatanti successi sono diventati un orizzonte insuperabile e ormai infecondo, entro cui si è consumata la crisi strategica e il progressivo indebolirsi del proprio attacco (11). Questa chiave interpretativa - del tutto efficace finché valutiamo i risultati del terrorismo relativamente ai suoi scopi programmatici dichiarati, ossia rispetto ai suoi calcoli strategici - si rivela tuttavia poco adeguata, non appena ci riferiamo al metodo dell'asimmetria degli scopi. Mentre il terrorista "impuro" di Madrid, come suggerisce la regolarità prima indicata, o vince subito o non vincerà mai, il terrorista "puro" di New York non sa dove stia la vittoria, e quindi non la persegue. Si dedica ad annientare e, non potendo colpire effettivamente il "cuore" nemico, ne polverizza i simboli e ne terrorizza l'immaginazione. In che senso possiamo dichiarare che questo terrorista è stato sconfitto? Non lo sconfigge la morte fisica, non il mancato crollo dell'ordine nemico, non l'incisività della repressione, e nemmeno l'eventuale debole proselitismo tra le masse di riferimento. Secondo la logica del "tanto peggio tanto meglio", egli vince purché e finché il nemico cambia a seguito del suo attacco: più la reazione è speculare, più il nemico sceglie di assomigliargli, più ricorre egli pure ad una forza "priva di misura", maggiore risulta l'efficacia della lotta. Nulla sarà come prima. Attraverso percorsi storici imprevedibili, e che dunque non richiedono programmazione strategica, opportunità sovversive prima bloccate cominceranno a giocare le loro chances. Se questo accade, il terrorista "puro" ha vinto: ha deviato comunque il corso di una vicenda storica ai suoi occhi perversa.

5. Sulla base del ragionamento svolto, proponiamo una definizione molto selettiva, ma forse anche più stringente e utile: è "terrorista" un soggetto collettivo organizzato che effettua o minaccia un attacco violento contro uno o più Stati e che, per suscitare un clima di paura sociale e d'instabilità politica, colpisce secondo un'asimmetria degli scopi. Se raffrontiamo questa con la definizione evocata in apertura, ci accorgiamo che essa viene rivista in tre punti essenziali. Anzitutto, attribuiamo al soggetto la volontà e la capacità di organizzarsi: a nostro parere questa caratteristica, che pure è spesso assente nelle concettualizzazioni del terrorismo, si riscontra pressocché sempre all'esame ravvicinato dei gesti terroristici, nonostante essi siano talvolta compiuti da individui soli (ma non isolati). In secondo luogo consideriamo l'aspetto, reso ovviamente più efficace dalla globalizzazione del pianeta, secondo cui l'attacco terroristico può essere o effettuato o anche soltanto minacciato. Le aspettative di un attentato sono bastanti a orientare le azioni come se già fossero reazioni a qualcosa che tuttavia, in effetti, non è ancora accaduto e che potrebbe non accadere più (almeno secondo le attese). Per limitarci ad un esempio tra tanti, le recenti Olimpiadi ateniesi sono costate fra i 7 e gli 8 miliardi di euro, molto più di quelle di Sidney 2000, principalmente per affrontare i problemi di sicurezza derivanti dalla "minaccia" di un attacco: il virtuale si è fatto storia pur restando virtuale. In terzo luogo, e soprattutto, connotiamo il terrorismo per il metodo dell'asimmetria degli scopi, che richiama la nostra attenzione su una linea di condotta che ignora la conformità dei mezzi ai fini, che definisce i fini in senso meramente negativo, e che, ciò nondimeno, esprime una forma di razionalità: quella che si elabora in una condizione di "incertezza radicale", e che è volta a estendere la medesima condizione al nemico.

6. L'ultima parte del nostro ragionamento riguarda le reazioni degli Stati colpiti. Occorre distinguere ancora una volta tra le figure idealtipiche del terrorista-guerrigliero e del terrorista puro. Nei riguardi della prima figura, la storia ci consegna un repertorio di risposte statali efficaci, grazie alle quali viene confermata la regolarità empirica - sopra richiamata - della sconfitta dei terroristi, a meno che costoro non riescano repentinamente a destabilizzare l'ordine politico. Inutile ricordare che si è trattato quasi sempre di risposte fortemente liberticide, che hanno proceduto tracciando un profilo-bersaglio del nemico, elaborando criteri per distinguerne i comportamenti, cercando l'approvazione o il non dissenso di tutti coloro che non corrispondevano appieno all'identikit elaborato. Ma cosa succede davanti alla figura del terrorista-puro? Come annota Fabio Mini nel brano prima citato, «la conoscenza degli scopi è un fattore strategico di importanza maggiore della stessa conoscenza del potenziale avversario». Quando gli scopi del nemico sono ignoti, diventa arduo perfino riconoscere chi è il nemico. Ecco quindi - per venire alle vicende attuali - che nella National Security Strategy americana del settembre 2002 leggiamo che per terrorismo s'intende qualsiasi «violenza premeditata, politicamente motivata e perpetrata ai danni di innocenti» (12). Con quest'impostazione «la vera operazione non è quella di identificare i terroristi come nemici, ma di definire i nemici come terroristi. Il rovesciamento semantico indica che sono terroristi tutti quelli che gli Stati Uniti assumono come nemici» (13). Ne segue che «quando nessuno può dire in anticipo chi sia l'amico e chi il nemico, quando dappertutto possono essere presenti gruppi terroristici, il comportamento più "razionale" consiste nel considerare sospetto chiunque» (14). Siamo davanti ad una reazione che non può condurre alla vittoria, né può essere sostenuta a lungo, poiché «non possiamo ritenere di porre termine a un fenomeno che può essere alimentato da qualsiasi piccolo gruppo in un pianeta di sei miliardi di persone. E non possiamo permettere ad ogni piccolo gruppo ostile di imporci per decenni i costi che saremmo preparati ad affrontare per pochi anni per proteggerci dalla potenza bellica di uno Stato straniero» (15).

Che razionalità può esservi nella scelta, da parte dello Stato militarmente dominante al mondo, di una linea di condotta che sembra condannare all'inefficacia e a enormi oneri finanziari, organizzativi e umani (16)? A nostro avviso sono possibili almeno due risposte tra loro complementari. La prima rimanda all'esigenza di non ridurre l'instabilità globale, della quale gli attacchi del terrorismo sono soltanto la manifestazione più eclatante. A sua volta, tale esigenza sembra affondare nella crescente debolezza degli Stati Uniti davanti alle proprie difficoltà economiche, ai recenti processi di de-globalizzazione e al coagularsi di aree regionali altamente competitive e autonome (17). Gestire l'instabilità globale, senza eliminarla, è un modo per poter ricorrere abitualmente a misure eccezionali e, così, meglio mantenere le proprie meno solide posizioni.

La seconda risposta segnala piuttosto la tragica efficacia, e il notevole realismo, della reazione dell'iperpotenza americana alla sfida del terrorismo transnazionale. Si tratta di assumere da parte dello Stato la stessa asimmetria degli scopi che è adottata dai terroristi puri. Lo Stato decide di non tentare più calcoli strategici di largo respiro, bensì, per dirla con le parole di Rino Genovese sopra menzionate, di colpire e atterrire «X affinché ciò serva da lezione e da deterrente nei confronti di Y, e al tempo stesso galvanizzi il proprio campo». Gli Stati Uniti e i suoi alleati, non sapendo gli scopi del nemico né chi è tale, colpiscono governi e popoli dell'Afghanistan, della Palestina o dell'Iraq per colpire indirettamente - per terrorizzare - governi e popoli che potrebbero alimentare i terroristi. Non importa, in definitiva, qual è di volta in volta il bersaglio, purché e finché il suo annichilimento costringa il nemico - quale e dove esso sia - a spiazzare i propri comportamenti, a spostare di luogo e tempo i propri attacchi o le proprie minacce. Non potendo sconfiggere chi a sua volta non può vincere (18), lo si provoca colpendo obiettivi ai quali egli dà importanza, per sollecitarlo a uscire allo scoperto, a dover decidere una strategia, a diventare terrorista "impuro". Questa tesi può venire espressa con una frase ultrasemplificata ma non infedele: lo Stato si fa terrorista per spingere i terroristi a diventare guerriglieri.

Le due chiavi interpretative non stridono fra loro, ed anzi si rafforzano a vicenda. L'una spiega lo scenario odierno d'instabilità globale enfatizzando i fattori strutturali di fragilità dell'impero americano; l'altra lo razionalizza (anche) nei termini della reazione "meno inappropriata" - per il soggetto che la effettua, sebbene non per il restante 95% della popolazione umana - all'asimmetria degli scopi del terrorismo. Per entrambe le letture gli Stati Uniti non vogliono e non possono ridurre le forme attuali della violenza politica collettiva (19).


Note

1. Per la considerazione di altre modalità rinviamo a C.Tilly, The politics of collective violence, Cambridge University Press, Cambridge, 2003; E.Conteh-Morgan, Collective political violence, Routledge, London, 2004. Tra le modalità principali andrebbe forse aggiunta la "criminalità organizzata", la quale controlla territori e mercati con violenza, intimidazione e corruzione, e, riciclando proventi illeciti, s'infiltra in attività economiche lecite. Il rilievo di questa modalità è oggi crescente: «Cosa Nostra (e i suoi soci: camorra, 'ndrangheta e sacra corona unita), la mafia americana, i cartelli colombiani, i cartelli messicani, le reti criminali nigeriane, la yakuza giapponese, le triadi cinesi, la costellazione delle mafie russe, i trafficanti di eroina turchi, le posse giamaicane e una miriade di piccoli gruppi criminali regionali e locali, presenti in tutti i paesi, si sono uniti a formare una rete globale diversificata che permea i confini e mette in relazione malaffari di ogni genere». M. Castells, Volgere di millennio (2000), Università Bocconi Editore, Milano, 2003, p.188. Preferiamo nondimeno escluderla, poiché ci dedichiamo alla violenza politica collettiva. Gli obiettivi del crimine organizzato appaiono "politici" in modi provvisori e strumentali, mentre gli scopi ultimi riguardano il guadagno e il prestigio. Il contrario accade per le altre quattro forme di violenza collettiva, in cui la finalità politica domina e sottomette a sé ogni altro motivo.

2. Dopo il 1945, i conflitti tra Stati sono stati relativamente pochi e spesso limitati nel tempo e nell'intensità. Ovviamente, le classificazioni cambiano a seconda dei criteri, ma il declino relativo delle guerre internazionali è unanimemente riconosciuto. In uno dei più autorevoli studi, ormai di qualche anno fa, si calcolava che su 164 guerre combattute tra il 1945 e il 1995, soltanto 38 rientrano nella categoria delle guerre tra Stati: K.J. Holsti, The State, War and the State of War, Cambridge University Press, Cambridge, 1996.

3. I dati seguenti sono ripresi da M. Eriksson - P. Wallensteen, "Armed conflict, 1989-2003", Journal of Peace Research, vol.41, n.5, 2004, pp.625-636. Secondo questa classificazione, i conflitti armati che si considerano sono soltanto quelli in cui una delle parti in contesa è il governo di uno Stato; essi vengono distinti in tre fasce: "minori", che comportano in tutto meno di 1000 morti, ma almeno 25 per anno; "intermedi", che segnalano in tutto più di 1000 morti, ma meno di 1000 all'anno; "guerre", con oltre 1000 morti all'anno. L'interpretazione dei vari conflitti armati rispetto ai tipi della violenza collettiva organizzata è nostra.

4. Si tratta, volutamente, di una schematizzazione priva di zone grigie. In realtà, alcune delle situazioni elencate assistono all'intreccio della guerra interna con attività criminali su ampia scala - si pensi ai narcotrafficanti in Colombia -, ma pure all'alternarsi di fasi meno aperte di scontro, in cui le forze di opposizione ricorrono a forme di guerriglia.

5. Secondo una nota definizione di Sergio Cotta, la violenza è forza senza misura, mentre il potere è forza capace di darsi una misura. In questa accezione il guerrigliero non effettua atti di violenza, poiché, piegando l'uso della forza al suo fine politico, la converte in potere. La distinzione è ad esempio ben presente, pur con termini diversi, negli scritti di Mao Zedong. Gli atti di annientamento possono essere efficaci per le loro conseguenze, ma non vanno mai apprezzati in sé stessi: «Una guerra di annientamento produce una immediata e fortissima influenza su qualsiasi nemico. In una rissa è meglio recidere un dito all'avversario che ferirgli tutte e dieci le dita; in guerra è meglio annientare una divisione nemica che metterne in rotta dieci». Mao Zedong, "Problemi strategici della guerra rivoluzionaria in Cina" (1936), in Id., Opere scelte, vol.1, Pechino: Casa editrice in lingue estere, 1969, p.265.

6. F. Mini, La guerra dopo la guerra, Einaudi, Torino, 2003, pp.110-111. Il brano di Mini è efficace, ma risulta opinabile quando asserisce che l'asimmetria degli scopi sarebbe un tratto odierno del terrorismo. Esso risale piuttosto alle origini del fenomeno.

7. In effetti, nel caso dell'11 settembre 2001, non è l'attacco in quanto tale a risultare inimmaginato. È invece proprio la sua conduzione in termini di "asimmetria degli scopi", anziché in termini di razionalità strumentale, a renderlo sorprendente: «La possibilità era immaginabile e immaginata. Ai primi di agosto 1999, l'ufficio dell'intelligence della FAA's Civil Aviation Security sottolineò il pericolo di dirottamenti aerei da parte degli uomini di bin Laden. Dopo una serrata esposizione di tutte le informazioni disponibili sul tema, la relazione identificava pochi scenari principali, uno dei quali era una "operazione di dirottamento suicida". Gli analisti della FAA giudicarono sfavorevolmente tale operazione, perché "essa non offre opportunità di dialogo per ottenere l'obiettivo-chiave del rilascio di Rahman e di altri estremisti imprigionati. ... Un dirottamento suicida va considerato come un'opzione di ripiego"». The 9/11 Commission Report, 2004, p. 345.

8. «L'Occidente si è concentrato troppo, forse intenzionalmente, sulla retorica apocalittica di bin Laden, ignorando la sua agenda specifica. [...] Sebbene bin Laden crede in una lotta manichea fra il bene, rappresentato dalla sua spada dell'Islam, e il male, che include tutti gli infedeli, ha più limitati obiettivi di breve termine. [... Egli insiste su] tre giustificazioni per attaccare l'America e gli americani: la presenza di truppe sul sacro suolo dell'Arabia Saudita; la politica verso l'Iraq e il sostegno allo Stato israeliano». T.R. Mockaitis, "Winning hearts and minds in the 'war on terrorism'", in T.R. Mockaitis - P.B. Rich (eds.), Grand strategy in the war against terrorism, Frank Cass, London, 2003, pp.29 e 25.

9. Pur senza voler ricondurre meccanicisticamente figure idealtipiche a personaggi concreti, oggi il filone terrorista-guerrigliero appare guidato da Abu Mussab al Zarkawi, mentre l'approccio terroristico puro ha la sua mente in Ayman al Zawahiri, il cosiddetto "vice" di bin Laden: «[col primo] l'Iraq è diventato l'Afghanistan della nuova generazione jihadista, [...] mostrando come il Nemico vada affrontato sul campo di battaglia [...]. Zawahiri al contrario è parso in passato assai scettico sugli esiti di uno scontro che si gioca su un terreno tradizionalmente favorevole alle forze occidentali. Per i leadre storici quaedisti l'esportazione del terrorismo sembra l'unica arma capace di indebolire la morsa occidentale sul mondo islamico. Da qui la necessità di nuove azioni su larga scala». R. Guolo, "I comandanti del terrore", Repubblica, 10 settembre 2004.

10. R.Genovese, "Per la guerra perpetua", Il Ponte, LIX, 3-4, 2003, p.105.

11. Si veda, per tutti, L. Bonanate, Terrorismo internazionale (1994), Giunti, Firenze, II ed.2001.

12. The National Security Strategy of the United States (Washington, DC: The White House, 29 settembre 2002).

13. R. La Valle, "La strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti d'America".

14. A. de Benoist, "11 settembre 2001", in F.Cardini, a cura di, La paura e l'arroganza, Laterza, Bari, 2002, p.86.

15. P.B. Heymann, Terrorism, freedom and security, The MIT Press, Cambridge (MA), 2003, p.xii. Secondo i dati forniti dall'Institute for policy studies, la guerra (iniziata con l'invasione americana del 17 marzo 2003) è costata nel suo primo anno 151,1 miliardi di dollari (e oggi supera i 220). Con questa cifra si sarebbero potuti assicurare i 27 milioni di cittadini statunitensi senza copertura sanitaria, pagare il salario a 3 milioni di maestri o 23 milioni di affitti per i senza casa o cibo per metà della popolazione affamata del pianeta. Si veda l'ampio importante studio ex ante, svolto da uno dei maggiori macroeconomisti, William Nordhaus, The Economic Consequences of the War with Iraq. Ricordiamo che il bilancio 2004-05 per la difesa firmato da Bush prevede un investimento di 417 miliardi di dollari.

16. È amplissimo il fronte degli analisti secondo cui l'odierna strategia americana è irrazionale e sbagliata. Prendiamo tra i tanti Erik Leaver, "Top 10 Reasons for the US to Get Out of Iraq", The Nation, 24 settembre 2004. Le dieci ragioni sono: 1) i costi umani si stanno incrementando; 2) l'occupazione territoriale procede male; 3) la guerra avvicina gli Stati Uniti alla bancarotta; 4) il processo di ricostruzione è in mano a politici corrotti; 5) gli alleati sono pochi e tendono a ridursi; 6) il reclutamento dei terroristi prospera; 7) la guerra sottrae risorse difensive al territorio americano; 8) le torture di Abu Ghraib (e, prima ancora, il castello di menzogne con cui è stata giustificata l'invasione); 9) molti americani si oppongono alla guerra; 10) nessuna "sovranità" effettiva è stata ancora trasferita agli iraqueni. Sebbene si tratti di motivi difficilmente smentibili, tentiamo qui di mostrare che forse l'impostazione americana è meno ingenua e folle di come appare.

17. Rimandiamo a N. Bellanca, "Verso una globalizzazione-arcipelago?", Il Ponte, LX, 7-8, 2004. Tra i contributi più recenti, segnaliamo per la loro lucidità P.Sylos Labini, "Le prospettive dell'economia mondiale e l'Iraq", Il Ponte, LIX, 3-4, 2003; M.Weisbrot, "The unbearable costs of Empire", Business Week, 29 luglio 2004; M.Lombardi, "Economie ad alto potenziale di instabilità", Antipodi. Alternativa libertaria, 2, 2004.

18. «Una lezione centrale del controterrorismo è che il terrorismo non può venire "sconfitto", ma solamente ridotto, attenuato e in qualche misura controllato. Singoli terroristi o gruppi terroristici sono talvolta sconfitti; ma il terrorismo nel suo complesso mai lo sarà. Le aspettative debbono essere realistiche». P.R. Pilar, "Lessons and futures", in P.L. Griset - S. Mahan (eds.), Terrorism in perspective, Sage, London, 2003, p.295.

19. Che il fenomeno terroristico possa venire contrastato lungo linee radicalmente differenti, è ad esempio argomentato e documentato in Foreign Policy in Focus, A Secure America in a Secure World.