2007

Leviathan e Behemoth. Modelli egemonici e spazi coloniali in Carl Schmitt (*)

Filippo Ruschi

Introduzione: grandi spazi, grandi equivoci

Aedo dell'imperialismo coloniale europeo, epigono dell'espansionismo imperiale prussiano, ideologo del Lebensraum nazionalsocialista: queste ed altre etichette screditanti sono state usate per (s)qualificare Carl Schmitt. E proprio nel concetto di Grossraum, nella tematizzazione del 'grande spazio' che tanta parte ha avuto nella sua riflessione internazionalistica, si è voluto individuare il nucleo di questo sinistro programma egemonico. (1)

Nulla di tutto ciò. Nel discorso schmittiano sui Grossräume sarebbe vano cercare allusioni a grandiosi progetti di egemonia globale, o più semplicemente appelli a favore di quelle 'classiche' politiche di intervento coloniale che ancora nel 1878 avevano trionfato al Congresso di Berlino. Tra i primi a denunciare questo formidabile fraintendimento del pensiero schmittiano, va annoverato Alexandre Kojève che, in un brillante scritto dedicato alla questione del colonialismo europeo, ci ha lasciato alcune felici intuizioni. Si tratta di un'interpretazione su cui vale la pena insistere, per chiarire alcuni delicati passaggi della teoria schmittiana ed evitare ogni possibile fraintendimento. Lo scritto in questione, risalente al lontano 1957, è in realtà il testo di una conferenza tenuta nel gennaio di quell'anno in una sede tutt'altro che accademica: si trattava del Rhein-Ruhr-Klub di Düsseldorf che raccoglieva nomi prestigiosi dell'imprenditoria tedesca. (2) L'incontro, organizzato dallo stesso Schmitt con il quale Kojève aveva avviato da tempo una fitta corrispondenza, era dedicato al tema dei rapporti tra i paesi industrializzati e quelli sottosviluppati. Si trattava di una questione particolarmente delicata, dal momento che proprio in quegli anni stava tramontando il classico modello del "colonialismo politico", mentre un nuovo, aggressivo "colonialismo economico" andava celebrando i propri fasti.

E' probabile che l'uditorio, più che il filosofo hegeliano allievo di Karl Jaspers ed amico e maestro di Georges Bataille, Jacques Lacan e tanti altri intellectuelles, si aspettasse di ascoltare l'influente chargé de mission, incaricato dal governo francese di condurre delicate negoziazioni internazionali. Possiamo dunque immaginare la perplessità dei presenti nel momento in cui Kojève - non rinunciando al gusto di stupire - propugnò un "colonialismo datore", per cui i paesi sviluppati avrebbero dovuto investire nei paesi sottosviluppati il plusvalore ricavato dal loro sfruttamento. E probabilmente non furono in pochi a sobbalzare quando Kojève giustificò questo indirizzo di politica economica richiamandosi a quanto aveva fatto Henry Ford, nel momento in cui aveva rafforzato il potere di acquisto dei propri operai attraverso l'aumento salariale. "Il colonialismo moderno", osservava Kojève, "ha urgente bisogno di un nuovo Ford collettivo, così come il vecchio capitalismo ha avuto bisogno dei vari Ford." (3) Dal canto suo l'Europa era chiamata ad applicare una tale logica fordista in primo luogo all'area mediterranea. "Se non si pratica il 'colonialismo datore' i clienti meridionali e orientali del Mediterraneo resteranno clienti poveri." E questo concludeva con buona dose di realismo Kojève "significa cattivi clienti, quindi pericolosi per il buon andamento delle cose." (4)

Al di là delle osservazioni di Kojève sulla situazione politica internazionale, le riflessioni svolte davanti al Rhein-Ruhr-Klub si prestano a diversi livelli di interpretazione. Ed al lettore di Schmitt non sfuggono certo le allusioni di Kojève alle tesi schmittiane espresse in testi come Nehmen/Teilen/Weiden. (5) Non si tratta solo del richiamo alla necessità di un nuovo "nomos della terra occidentale" - la cui matrice schmittiana è chiaramente esplicitata - che Kojève declina in un'accezione conforme alla sua proposta di un "colonialismo datore".

Penso, piuttosto, a riferimenti impliciti, sotterranei e forse per questo ancor più preziosi. L'immagine di un'Europa capace di un'azione politica unitaria, affrancata dal bipolarismo della Guerra Fredda, con cui Kojève concludeva il suo intervento presenta forti assonanze con l'immagine schmittiana di un Grossraum europeo. Se Washington era "la cittadella inespugnabile del colonialismo 'di principio'", (6) se l'Unione Sovietica, storicamente rivolta ad Oriente, al più poteva replicare una versione nazionalizzata del "vecchio capitalismo 'appropriatore' che dava alle masse lavoratrici il meno possibile", (7) spettava all'Europa prendere coscienza di sé e proporre un nuovo nomos, un nuovo ordine giuridico e politico globale.

E' facile pensare che Schmitt abbia applaudito Kojève con convinzione, riconoscendo in lui se non un allievo, quanto meno un suo appassionato lettore. (8) E forse è perfino lecito immaginare che, ascoltando la proposta di Kojève, Schmitt sia tornato con la mente a quanto lui stesso aveva sostenuto fin dal primo Dopoguerra: in un incontro tenuto nel 1951 all'Università di Madrid, ad esempio, Schmitt non aveva esitato a caldeggiare la formazione di una "terza forza" alternativa al duopolio sovietico e americano. (9) Questo nuovo attore internazionale, negli auspici di Schmitt, non solo infrangeva il bipolarismo imposto dalla Guerra Fredda, ma strutturandosi come Grossraum configurava un ordinamento alternativo tanto allo Stato nazionale 'classico', quanto alle diverse possibili declinazioni dello Stato mondiale.

Si trattava, dunque, di un soggetto politico assolutamente inedito. Ed era un soggetto che, attraverso un dialogo costante con gli altri 'grandi spazi', era chiamato a forgiare un nuovo jus gentium. Secondo Schmitt, infatti, era possibile immaginare un Grossraumrecht che, fondato su un equilibrio tra diversi grandi spazi, si configuri come "nuovo diritto delle genti, ad un nuovo livello, e con dimensioni nuove, però, nello stesso tempo, dotato di certe analogie con il diritto delle genti europee dei secoli XVIII e XIX", basato proprio sul balance of power. (10) Quali, oltre al Grossraum europeo, erano questi potenziali altri 'grandi spazi'? La Cina, l'India, il mondo ispanico, il blocco arabo e, significativamente, il Commonwealth, erano alcuni dei possibili soggetti del Grossraumordnung schmittiano. (11)

E' appena il caso di osservare che le considerazioni di Schmitt indiscutibilmente lasciano aperte numerose problematiche. E si può sostenere che nel corpus schmittiano, le pagine dedicate alla determinazioni dei lineamenti del Grossraum talvolta siano velate da una certa opacità. (12) Allo stesso tempo, però, accogliendo i suggerimenti di Alessandro Campi, non si può fare a meno di notare che la soluzione prefigurata da Schmitt sembra anticipare quanto ipotizza Samuel Huntington nel celebre Clash of Civilization, laddove l'ordine mondiale riposa sull'equilibrio esistente tra differenti aree di civilizzazione. (13) Solo che mentre per il politologo statunitense questo ordine ha, con un alto grado di probabilità, una deriva 'pan-conflittualista' - il clash appunto -, Schmitt, memore della grande lezione del Concerto Europeo, è consapevole delle potenzialità cooperative di un tale assetto anarchico. (14)

Ritornando all'analisi di Kojève, dunque, non mi pare eccessivo interpretare le sue parole come un sommesso omaggio a Schmitt. E mi preme sottolineare come la lettura kojèveana declini in maniera particolarmente suggestiva il concetto di Grossraum. Non è qui il caso di passare in rassegna la corposa riflessione che Schmitt ha dedicato al concetto di 'grande spazio'. Ma nel far mia la lucida interpretazione di Kojève, mi preme quanto meno sottolineare l'originalità del concetto di Grossraumordnung e, sopratutto, la sua incompatibilità con i tradizionali archetipi giuridici e politici dell'imperialismo coloniale. In effetti il Grossraum, tanto sul piano dell'ingegneria normativa quanto su quello simbolico, è davvero qualcosa di 'altro': non si tratta solo di un inedito archetipo istituzionale. La nozione di 'grande spazio', ha suggerito ancora Campi, "rimanda più compiutamente ad un intreccio molto complesso di fattori storici, politici, culturali, simbolici, economici, addirittura mitologici che ne delimitano la localizzazione spazio-temporale ed il concreto significato storico-spirituale". (15)

Il concetto di 'grande spazio', dunque, è dotato di una notevole complessità e si presta a diversi livelli di lettura. Questo non significa che Schmitt elabori un modello astratto, proiettato nella dimensione del 'dover essere'. Al contrario la sua analisi rimane saldamente ancorata alla storia dell'ordinamento internazionale: la nozione di Grossraum trova infatti un referente concreto - un vero e proprio prototipo - nel regime instaurato dalla Monroe doctrine. (16) Interpretata nel suo significato originario e depurata da ogni tensione imperialistica, nella lectio schmittiana questa dottrina si configura come il prodromo di un nuovo ordine giuridico e politico costituendo, al tempo stesso, un effettivo principio di ripartizione territoriale e il frutto di una precisa coscienza spaziale.

Il messaggio del Presidente James Monroe del 2 dicembre 1823 trasudava indignazione nei confronti del Vecchio Continente, cui si imputava di essere il ricettacolo di ogni forma di oppressione. Negli auspici di Monroe l'America, ribellandosi alle ingerenze europee, una volta per tutte doveva prendere coscienza della propria specificità e divenire, da territorio coloniale, terra di libertà. Sul piano giuridico questa concezione spaziale si doveva tradurre nella neutralizzazione del Western Hemisphere, che veniva così ad affrancarsi da ogni ingerenza esterna. Infine, agli Stati Uniti - si diceva a chiare lettere nel messaggio presidenziale - spettava il compito di vigilare sul continente americano, tutelando questa land of freedom contro le mire egemoniche delle potenze europee. Non è il caso di insistere oltre sulle parole del Presidente Monroe, salvo segnalare come Schmitt abbia colto proprio nel Grossraum consacrato dalla Dichiarazione due elementi: una matura coscienza spaziale ed un rigoroso principio di ripartizione territoriale. Il primo fattore opera sul piano simbolico ed ideologico. L'altro, invece, appartiene alla dimensione giuridica e si misura nel concreto radicarsi dell'ordinamento all'interno di un territorio spazialmente determinato. Perché un Grossraum possa sussistere, è necessario che i due elementi siano contemporaneamente presenti.

Nel tratteggiare la Grossraumtheorie schmittiana mi preme evidenziare l'insistente riferimento alla justissima tellus ed al momento della sua ripartizione in spazi giuridici. In questo carattere di forte radicamento 'tellurico' si misura tutta la distanza che intercorre tra la nozione di 'grande spazio' e l'universalismo, indistinto e de-localizzato, connaturato ai progetti imperiali e coloniali. A ben vedere, però, il paradigma 'tellurico' allude ad una prospettiva più vasta: ampliando lo sguardo sull'intero corpus schmittiano, non si può fare a meno di cogliere nella nozione di 'grande spazio' l'ultima tappa di una evoluzione che accompagna la storia umana. E' una dinamica contraddistinta dalla dialettica tra due concezioni dello spazio e del diritto radicalmente opposte. Il pensiero schmittiano ancora una volta non si sottrae alla dicotomia primaria Freund-Feind. (17) Solo che in questo caso, ha suggerito Pier Paolo Portinaro, "i raggruppamenti amico-nemico sono ricostruiti a partire dalle dinamiche di appropriazione e ripartizione delle aree geografiche del globo terrestre." (18) Si tratta di una contrapposizione che Schmitt, con rara forza evocativa, configura come la lotta 'primigenia' tra la terra e il mare, tra i mostri biblici Leviathan e Behemoth.

Nel ricostruire questa brutale lotta 'elementare' la narrazione schmittiana non è forse sempre limpida: Schmitt talvolta concede troppo al gusto per gli arcana imperii, al piacere per le allusioni ad un sapere esoterico, cabalistico. E non è certo il caso di ripercorrere le diverse valenze di un confronto che Schmitt spinge ai limiti dell'escatologia. Qui tenterò solo di ricostruire come, alla luce dell'interpretazione che ne ha dato Schmitt, il confronto tra la terra e il mare ha contraddistinto la Modernità: fin dai suoi esordi questa contrapposizione ha prima segnato l'occupazione degli spazi oceanici, presupposto necessario ad ogni ulteriore conquista. Ha poi scandito la nascita degli imperi coloniali, da subito in competizione reciproca. Infine ha portato alla definizione dei modelli egemonici che caratterizzano l'Età della globalizzazione.

Nelle pagine da Schmitt dedicate alla lotta tra Leviathan e Behemoth, però, quello che immediatamente colpisce non è il rigore del giusinternazionalista, né lo spessore analitico dello storico del diritto e neppure la lucida concettualizzazione del filosofo del diritto. Ciò che subito si avverte leggendo queste pagine è la potenza epica del narratore di saghe. Ritengo, dunque, che in primo luogo conto sia opportuno dare di questa straordinaria vis narrativa.

Carl Schmitt e Moby Dick

"Melville è per gli oceani del mondo quello che Omero è per il Mediterraneo orientale". (19) Le pagine di Land und Meer - non a caso reputato il libro più bello, se non il più importante, dell'intera produzione schmittiana - sono senza dubbio ricche di autentico epos. (20) Dal canto suo Carl Schmitt, con la consueta schiettezza, non ha esitato a rendere esplicita la matrice letteraria delle pagine che ha dedicato al rapporto tra la terra ed il mare.

Non c'è solo Moby Dick. Accanto a Melville, altre sono le fonti di ispirazione: (21) il Das Nordlicht, "poema gnostico e presocratico al tempo stesso" del triestino Theodor Däubler, oggetto di una precoce passione giovanile, è stata senza dubbio una fonte potente di suggestione per Schmitt. (22) E che dire di Jules Michelet? Il suo La mer, scrive Schmitt, è un grandioso inno alla bellezza del mare, alle sue abissali profondità che "il 'crudele re del mondo', l'uomo, non ha ancora sfruttato". (23)

I flutti non appartengono solo ai cacciatori di balene ed alle loro gigantesche prede, e tanto meno ai mercanti che pacificamente ne solcano le acque. Non tutti "i figli del mare" sono amanti della pace: gli spazi marini sono il terreno di caccia degli "schiumatori del mare", rimangono in balia dell'animus furtandi di pirati e filibustieri. E' così che tra i riferimenti letterari di Schmitt, si deve annoverare il brillante The Pirates Who's Who di Philip Gosse. E forse si potrebbero fare anche i nomi di Robert Louis Stevenson e Daniel Defoe. Si tratta di letture che si saldano ad un epos ben radicato nella Kultur germanica: si pensi all'epopea dei Vitalenbrüder baltici, o alle vicende della Lega Anseatica che hanno affascinato generazioni di tedeschi. Non è un caso che negli anni feroci della Rivoluzione conservatrice, all'indomani della Prima Guerra mondiale - lo ricorda Ernst Von Salomon nel terribile Die Geächteten -, (24) i Frei Korps innalzassero fieramente le insegne dei pirati baltici.

Al di là di questa componente letteraria, le riflessioni schmittiane sulla dialettica tra terra e mare sono tutt'altro che il frutto di un otium filosofico, meditazioni avulse da qualsiasi riferimento concreto. Ha senza dubbio ragione Franco Volpi a cogliere in Land und Meer il prodotto di una crisi, cagionata dal forzato allontanamento dai centri di potere del Reich di colui che ne era stato l'orgoglioso Kronjurist. (25) Ma se si allunga lo sguardo alla produzione internazionalistica di Schmitt relativa agli anni immediatamente precedenti l'ultima Guerra mondiale e se, al contempo, ci si sforza di cogliere la dimensione più squisitamente filosofico-giuridica di Land und Meer, l'immagine dello Schmitt/Machiavelli - dell'erudito in forzato esilio nella Plettemberg/San Casciano -, appare per lo meno appannata. L'eredità machiavelliana si manifesta in ben altro che in un otium, del resto solo apparente: nella produzione schmittiana si intravede una costante volontà di dialogare con il potere, di influenzarne le scelte con il peso della propria auctoritas, secondo uno 'stile' che è proprio del realismo politico da Machiavelli - appunto - a Kenneth Waltz.

E' dunque opportuno sgombrare il campo da ogni possibile fraintendimento: al di là della componente letteraria che contrassegna la narrazione del confronto tra Land e Meer, questa ricostruzione va ad inserirsi a pieno titolo nella produzione giusfilosofica schmittiana. Anzi, all'interno di un tale framework - ed alla luce del capolavoro assoluto di Schmitt, il più tardo Der Nomos der Erde -, la dicotomia terra/mare assume un'incontestabile centralità.

Ripercorrendo la biografia intellettuale di Schmitt, le prove della sua irriducibile 'volontà di azione' non mancano. Tutta la sua produzione internazionalistica è segnata da un'innegabile concretezza. Anche nei momenti più 'narrativi' la dimensione giuridica, operativa, è assolutamente prevalente.

Nel 1936, all'indomani del duro attacco alla sua persona apparso sulle pagine di Das Schwarze Korps, l'organo ufficiale delle SS, Schmitt era stato costretto a dimettersi da tutti gli incarichi pubblici mantenendo solo la cattedra universitaria. (26) Eppure già nel 1937 dava alle stampe Der Begriff der Piraterie, che era sì un agile saggio dedicato alla figura dell'hostis humani generis, ma al contempo era un duro attacco alla criminalizzazione della lotta sottomarina sancita dalla Conferenza di Nyon il 14 settembre 1937. (27) Ancora. I saggi pubblicati a cavallo dell'apertura delle ostilità, da Totaler Feind, totaler Krieg, totaler Staat (1937) a Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes (1938), (28) fino a Land und Meer, hanno introdotto la questione del confronto tra terra e mare. Ma, anche in questo caso sono testi ricchi di riferimenti alla situazione politica, segnata dall'antagonismo anglo-tedesco: è appena il caso di ricordare come già alla fine degli anni Trenta, Schmitt avesse moderato il suo anti-comunismo, plaudendo al Patto Ribbentrop-Molotov ed al contempo riconoscendo nella Gran Bretagna l'avversario irriducibile. (29)

La coerenza del progetto teorico schmittiano ha trovato importanti attestazioni: come ha suggerito tra gli altri Natalino Irti, le pagine che Schmitt ha dedicato al rapporto tra diritto e spazio devono essere ricondotte alla polemica anti-kelseniana, che è una costante della sua produzione intellettuale. Alla luce del normativismo kelsensiano, il fattore spaziale perde ogni valenza, diventa mera categoria di ripartizione quantitativa: per Kelsen lo spazio, oltre a segnare l'ambito di vigenza del diritto, non ha alcun significato. E' un elemento accessorio, che non esercita alcuna influenza sulla validità della norma, fondata unicamente sul postulato logico della Grundnorm. Il diritto può perfino fare a meno dello spazio, sublimando il proprio sradicamento, la propria de-localizzazione, sino ad assumere una valenza universalistica. (30)

A questo modello teorico Schmitt contrappone, come è noto, un ordine giuridico che ha il proprio fondamento nella storia. Si tratta di un nomos che è il prodotto della divisio primaeva del territorio occupato, capace di essere al tempo stesso Ordnung e Ortung, principio di organizzazione della comunità e modalità di radicamento spaziale. Il nomos, dunque, non si riduce ad insieme di regole e convenzioni internazionali, ma è il "principio fondamentale della distribuzione dello spazio terrestre". (31) Per dirla ancora con Irti, in Schmitt la correlazione tra diritto e spazio non si risolve "nella banale ricerca di un 'dove' applicativo, ma s'innalza a sintesi di vita, in cui la presa di possesso è, insieme, decisione della volontà, principio d'ordine giuridico e costituirsi del popolo". (32) La filosofia del diritto di Schmitt può essere ridotta a questa visione 'tellurica' che si presenta come la componente peculiare della sua teoria, e che diviene il discrimine fondamentale, nel momento in cui Schmitt si misura con l'universalismo, il normativismo e l'economicismo.

La validità di questa lettura unitaria della teoria schmittiana trova un'ulteriore attestazione in Portinaro, che nega qualsiasi cesura tra lo Schmitt teorico dello stato e lo Schmitt filosofo del diritto internazionale, - dal decisionismo alla teoria dell'ordinamento concreto - insistendo piuttosto sulle costanti contaminazioni tra i due piani. Ma soprattutto si deve a Portinaro l'aver mostrato come la dottrina del nomos poggi su una filosofia della storia che permea tutta la produzione schmittiana, e che deriva da differenti sollecitazioni: da Hegel a Spengler, a Toynbee. (33) Ed è una filosofia che ha al centro proprio Land und Meer: "la tesi di fondo" ha puntualizzato incisivamente Portinaro "è che nella contrapposizione di terra e mare si deve ravvisare il grande principio di sviluppo della civiltà e il fondamento delle ostilità politiche che hanno deciso delle sorti di essa." (34)

Non è mia intenzione adottare un approccio filologico nei confronti della produzione internazionalistica di Schmitt, né tanto meno proporre nuove interpretazioni del suo storicismo. (35) A partire dalle premesse poste da Portinaro, quello che mi interessa, più modestamente, è esaminare la dialettica tra Land e Meer nelle sue diverse determinazioni storiche. E' mia intenzione, cioè, riflettere su come l'ordinamento giuridico internazionale ha tentato di risolvere la tensione esistente tra spazi tanto differenti, ora negando qualsiasi valore giuridico al mare, ora subordinandolo alla terra, ora, infine, sancendo delicate forme di equilibrio.

Horror vacui

[La regina Elisabetta] non comprende per quale motivo Ella e gli altri Principi debbano essere banditi dalle Indie dal momento che non reputa che lo Spagnolo possa vantare alcun valido titolo dalla donazione del vescovo di Roma, cui Ella non riconosce alcuna prerogativa e tanto meno l'autorità di vincolare gli altri Principi, che non gli debbono alcuna obbedienza, in relazione a questioni come quella dell'arrivo dello Spagnolo nel Nuovo Mondo e della successiva donazione. E dunque gli Spagnoli senza alcun titolo sono andati qua e là, hanno costruito villaggetti e dato nomi a fiumi e promontori; fatti che in sé non garantiscono alcun diritto di proprietà. Così tale donazione, che non ha alcun valore giuridico, non può certo attribuire un'immaginaria proprietà e tanto meno può escludere gli altri Principi dal commerciare in tali paesi e dal fondare colonie, senza alcuna violazione del diritto delle genti, laddove non siano giunti gli Spagnoli, dal momento che il semplice comando, senza il possesso effettivo, vale poco. (36)

Secondo quanto riporta William Camden nella sua The Historie of the Most Renowned and Victorious Princesse Elizabeth, late Queene of England (1610), questa fu la sarcastica replica di Elisabetta I alle rivendicazioni spagnole sul Nuovo Mondo, accampate dall'influente legato di Madrid alla Corte di San Giacomo, Bernardino de Mendoza.

Difficile immaginare un incontro tra personalità così differenti: da una parte il legato di quel Filippo II d'Asburgo che, erede del grandioso disegno universalistico promosso da Carlo V, fu l'ultimo alfiere dell'ideale di respublica christiana. Dall'altra la figlia di Enrico VIII che dal padre aveva ricevuto, oltre al titolo regio, quello di capo della Chiesa dell'Inghilterra, ed aveva poi difeso entrambe le prerogative con strenua convinzione. Ma la vivace narrazione di Camden si riferisce soprattutto ad uno drammatico contrasto - per dirla con Schmitt - tra Ortungen contrastanti, tra due concezioni dello spazio giuridico e politico radicalmente opposte.

Per comprendere i termini di un confronto che ha caratterizzato in profondità la prima età moderna è opportuno, in primo luogo, riflettere sulle conseguenze che l'apertura agli spazi oceanici ha avuto per le potenze marittime europee. In questa prospettiva il confronto con Schmitt si rivela davvero imprescindibile.

L'Oceano, per il navigatore dell'età classica e medioevale, era qualcosa di assolutamente inesplorato: era un'estensione vuota, minacciosa, un non-spazio in cui il mito prendeva corpo. Odisseo nelle sue peregrinazioni si guardò bene dal superare le Colonne d'Ercole, e quando ciò avvenne, quando cioè l'Ulisse dantesco oltrepassò "quella foce stretta dov'Ercule segnò li suoi riguardi", non solo perse la vita ma la sua anima fu dannata per l'eternità. Ancora all'epoca gloriosa dei re-navigatori, l'età dell'oro della marineria lusitana, la navigazione atlantica rimaneva strettamente legata al cabotaggio costiero. (37) Le Bolle pontificie Romanus Pontifex (1455) ed Inter Caetera (1456) con le quali si sanzionavano i diritti del Regno di Portogallo "a capitibus de Bojador et de Nam usque per totam Guineam et ultra versus illam meridionalem plagam usque ad Indos", significativamente facevano riferimento all'orografia costiera. (38) E se le prue dei drakkar vichinghi, come oggi suggeriscono gli archeologi, solcarono le gelide acque dell'oceano Atlantico, lo fecero rasentando l'Islanda e la Groenlandia. Si trattò dunque di una rotta da pescatori, o da cacciatori di pellicce, più che da esploratori, e forse anche per questo le loro effimere imprese rimasero sconosciute al di fuori dei kraal scandinavi.

La diffidenza verso l'Oceano, d'altra parte, ha radici antiche. Gli imperi marittimi d'Occidente si svilupparono entro mari chiusi: la loro 'occupazione di mare' era circoscritta, non si estendeva al di là del bacino mediterraneo o, al più, di quello baltico e del Mare del Nord. (39) Come non manca di annotare Schmitt "tutti gli ordinamenti preglobali erano essenzialmente terranei, anche se comprendevano domini marittimi e talassocrazie". (40) Si potrà dunque parlare di civiltà continentali, potamiche, talassiche, ma certo non di civiltà oceaniche, riconoscendo implicitamente il carattere rivoluzionario dell'ordo generatosi con la scoperta del Nuovo Mondo.

Prevaleva dunque una mentalità 'terranea', ancorata al dogma assoluto ed indiscutibile dell'occupazione di terra (Landnahme), alla ripartizione degli spazi fisici, alla determinazione sacrale dei confini. Come Schmitt non si stanca di ribadire, il diritto ha salde radici telluriche: "i grandi atti primordiali del diritto" fa rilevare nel Nomos der Erde "restano localizzazioni legate alla terra". (41) L'occupazione della terra, in tal senso, ha istituito diritto secondo una duplice 'direzione': internamente al gruppo occupante, tramite il solco del vomere, si è ripartito il suolo in proprietà. Verso l'esterno l'occupazione è invece divenuta la misura della sovranità della comunità. Il termine stesso di nomos, pur nella sua pluralità di significati, prova la solidità del binomio tra Ordnung e Ortung. (42) Questo sostantivo deriva, come precisa Schmitt, dal verbo greco nemein che è polisemantico: può indicare la conquista, il titolo originario ma anche la brutale presa di possesso dello spazio territoriale. Può poi essere utilizzato in relazione alla fase della ripartizione di tale spazio, il momento dell'aggregazione della comunità, della nascita dell'ordinamento giuridico, e, più in generale delle istituzioni politiche, sociali e religiose. Infine, nemein è associato alle modalità di sfruttamento economico di tale spazio, in particolare con la pastorizia. Ma altri ancora sono i vocaboli che esprimono la natura tellurica del diritto: si pensi solo a limes, un termine che nel suo significato originario indicava la pietra di confine tra i fondi rustici, ma che nell'Europa pre-moderna è divenuto il discrimine della soggettività politica e giuridica del corpo sociale.

E' appena il caso di notare come negli ordinamenti più antichi il rapporto tra diritto e terra assuma perfino sfumature religiose. Si tratta di un carattere particolarmente evidente nel diritto romano arcaico, laddove la rimozione delle pietre che segnavano il confine tra i fondi limitrofi veniva considerata scelus inexpiabile, da punire, secondo una legge che si vuole ascrivere a Numa, con la consecratio capitis et bonorum del reo. Stigma devastante, la sacertà non solo implicava l'immediato allontanamento del colpevole dalla comunità ma anche il suo abbandono alla vendetta della divinità offesa, in questo caso il dio Termine. Il che, in una società elementare quale quella della Roma monarchica, comportava che il reo fosse privato di qualsiasi tutela: chiunque avrebbe potuto ucciderlo senza timore di alcuna sanzione. (43)

Nelle società elementari la relazione tra terra e diritto necessitava di simboli forti, in grado di qualificare la comunità, di determinarne lo spazio politico. (44) Nessuna sorpresa dunque che tra le prime forme di architettura si fosse imposta la costruzione di fortificazioni. Le mura, siano esse di terra pressata come tra le tribù che vivevano disperse nelle lande della Gallia cesariana, siano strutture lignee come quelle che difendevano i primi castra romani od elaborate costruzioni in pietra e mattoni come nel caso della cinta muraria della Roma imperiale, sono state un segno identitario imprescindibile. (45) Prima ancora che militare, la loro funzione è stata quella di delimitare la comunità, determinando allo stesso tempo lo status degli individui. Si tratta di una caratteristica, questa, che ha segnato in profondità la società occidentale. Il diritto, nel suo nucleo arcaico, è strettamente legato all'immagine di uno spazio circoscritto, conchiuso. Prima di essere sistema di regole, è determinazione spaziale. L'aratro di Romolo, bagnato nel sangue del fratello, segna la nascita di un nuovo ordo giuridico e politico. E dunque tutta l'architettura castrense, con le sue torri, le opere murarie, le porte attraverso cui la comunità entra in contatto con l'esterno, può essere interpretata come una grandiosa celebrazione del trionfo del diritto sullo spazio fisico.

Il nomos - la presa di possesso - non è dunque indeterminato, ma nel delimitare lo spazio, segna il suo ambito di vigenza. In quanto ordo ordinans si configura osserva Schmitt "in un atto originario, costitutivo e ordinativo in senso spaziale", che solo il lessico 'geo-giuridico' è in grado di svelare nella sua reale portata. (46) Si pensi, ad esempio, all'etimologia del sostantivo 'confine', che è in tal senso rivelatrice dell'intima natura del nomos: cum finis, "con un limite". (47) Ritorna ancora l'immagine del solco del vomere impresso nella terra, del diritto che si appropria dello spazio fisico, ripartendolo, suddividendolo in unità. "E' il confine" ha suggerito Umberto Vincenti, "che crea la res suscettibile di possesso ad excludendum omnes alios e, dunque, di divenire oggetto di dominio, di diritto che autorizza e giustifica la cacciata violenta dell'invasore". (48)

La ripartizione spaziale ha conseguenze estremamente rilevanti per l'individuo: attraversare il confine non significa solo entrare in contatto con norme e usi diversi, significa modificare il proprio status. E' appena il caso di ricordare - e siamo già nel pieno dell'Età di Mezzo - come l'espansione delle città fosse avvenuta all'insegna del brocardo di origine germanica "l'aria della città rende liberi". Un miraggio che aveva favorito il massiccio inurbamento delle genti del contado in fuga dal sistema feudale in crisi.

Ma la relazione tra determinazione degli spazi e creazione dell'identità trova una chiara esemplificazione nelle vicende della Roma imperiale: esaurita la spinta verso l'esterno, gli Imperatori non esitarono a ricorrere al ciclopico sistema dei valli per difendere il limes imperii Romani. A ben vedere, però, il vallum africanum, come il vallo germanico e quelli più celebri voluti da Adriano ed Antonino per difendere la Britannia romana dalle incursioni degli Scoti e dei Pitti, non hanno avuto solo uno scopo militare. Piuttosto è fondamentale esaminare in chiave schmittiana i riflessi sul piano giuridico e politico di questo irrigidimento del limes, del suo rafforzamento come strumento di delimitazione spaziale. Non è un caso infatti che il sistema dei valla abbia coinciso cronologicamente con il processo di allargamento della cittadinanza romana, destinato a culminare con la concessione della civitas a tutti gli abitanti - liberi - dell'Impero sancita dall'Editto di Caracalla (212 d.C.).

Ed il mare? Non deve meravigliare che per civiltà così saldamente ancorate alla dimensione terrestre, ad una concezione sacrale del confine, le distese marine siano state difficilmente sussumibili all'interno di categorie in senso proprio giuridiche. Refrattario a ogni partizione, irriducibile a qualsiasi diritto di proprietà, il mare è libero. I guai di Odisseo incominciano una volta approdato, durante la navigazione non c'è nessun altro inconveniente oltre a quello, peraltro notevole, dell'ira di Poseidone. Gli Argonauti in viaggio verso la Colchide devono schivare l'abbraccio mortale delle Simplegadi, ma nessuno si sogna di interdire loro il passaggio attraverso l'Ellesponto. I profughi in fuga disperata da Ilio vanno incontro a molti pericoli durante le loro peregrinazioni attraverso il Mediterraneo. Eppure vengono coinvolti nei giochi politici del Lazio arcaico - acquisiscono per così dire soggettività politica - solo dopo essere sbarcati, stremati, alla foce del Tevere.

Il mare, suggerisce Schmitt, per tutta l'età premoderna è stato davvero qualcosa di 'altro': i suoi flutti sono sfuggiti a qualsiasi forma di imperium. (49) Anche l'universalismo che ha caratterizzato la dottrina politica medioevale si arrestava di fronte agli spazi marini. Il mare non tollerava dominium. Come già aveva annotato Ulpiano "mari quod natura omnibus patet, servitus imponi privata lege non potest". (50) Ed in quanto res communis omnium, ha sottolineato Wilhelm Grewe, il mare è giuridicamente incommensurabile, è alieno da qualsiasi titolo legale. (51) Sfugge perfino alla giurisdizione del dominus mundi: il Papa e l'imperatore, soggetti politici con interessi strategici saldamente 'continentali', non intervennero a disciplinare il diritto marittimo, lasciando che evolvesse secondo linee consuetudinarie. (52)

E' una 'riserva di legislazione', questa, che ha radici antiche, se già nel Digesto, a proposito della Lex Rhodia de iactu, Meciano fa dire ad Antonino Pio: "Έγώ μὲν τοῦ κόςμου κῦριος, ό δὲ νόμος τής θαλάσσης". (53) Il dominium dell'imperatore si arresta ineluttabilmente di fronte alle distese marine. E, si badi bene, non si parla delle ignote vastità oceaniche, popolate di creature mostruose, ma di quello che - per dirla con Fernand Braudel - altro non è che "un mare tra montagne". (54) Appare a questo punto lecito chiedersi se la tanto abusata espressione Mare Nostrum, con cui si celebrava il dominio romano sul bacino mediterraneo, non debba essere ridimensionata una volta per tutte: Roma non dominava le acque del Mediterraneo, ma solo le sue coste. (55)

Il mare apparteneva dunque ad un altro ordo, rappresentando uno spazio anarchico in cui perfino le categorie del diritto e della morale sembravano essere sovvertite. Ancora un tardo umanista come Andrea Alciato potrà permettersi di scrivere "pirata minus delinquit, quia in mari delinquit". (56) Il mercante che solcava i mari, d'altra parte, poteva facilmente spogliarsi dei panni di pacifico commerciante per vestire quelli del pirata, come testimoniano le vicende di Landolfo Rufolo narrate da Boccaccio: di fronte al crack finanziario il mercante di Ravello "comperò un legnetto sottile da corseggiare (...) e diessi a far sua della roba d'ogni uomo." (57) Nell'epoca d'oro della guerra di corsa questa fu quasi la regola: John Hawkins, il grande maestro di Francis Drake, alternò con successo attività mercantile e guerra di corsa. Le vicende di Henry Mainwaring, un altro campione della marineria inglese, hanno in tal senso un carattere quasi romanzesco: uomo - come si dice oggi - di straordinaria flessibilità, Mainwaring fu prima avvocato, poi mercante, quindi cacciatore di pirati e pirata lui stesso, fino a divenire influente membro del Parlamento sotto gli Stuart.

Approfondendo le premesse schmittiane è forse possibile radicalizzare il confronto tra terra e mare: nel Medio Evo le distese marine tendevano infatti ad assumere valenze ulteriori, sconfinando nell'escatologia. Il mare per l'uomo medievale era uno spazio senza confini, indistinto, e come tale suscitava diffidenza, irrequietezza. Il testo dell'Apocalisse - è lo stesso Schmitt a ricordarlo - è esplicito: nel tempo della nuova Gerusalemme mondata dal peccato il mare non esisterà più. (58)

Le distese marine rappresentavano per la Cristianità un territorio ricco di insidie, tanto per il corpo che per l'anima. E' un medievalista di rango come Marco Tangheroni a ricordare come a bordo fosse "proibito celebrare messa e conservare le sacre specie". (59) Ed il mercante, già di per sé una figura ambigua per molta della Scolastica, lo è ancora di più quando svolge i suoi traffici per mare, commerciando con i Greci eretici, o, abominio, con i Mori infedeli. (60) Ed è sempre Tangheroni ad aver sottolineato come, in un età di diffusa devozione e scrupolosa ortodossia, le genti di mare esprimessero una religiosità del tutto peculiare, gelosa delle proprie devozioni quanto permeabile alla superstizione: se ai primi del Duecento - in un'età di sincera e diffusa devozione - oltre la metà dei 'legni' genovesi e veneziani recava un nome laico quando non addirittura paganeggiante, ancora in tardi manuali nautici come la Raxion de' marineri, pubblicato a Venezia nel 1444, accanto all'indicazione delle feste dei santi, si potevano trovare pagine dedicate all'influenza delle stelle sulle "fortune de mar" o alla determinazione dei giorni nefasti per la navigazione. Mai arrischiarsi a prendere il largo, si può ad esempio leggere, il 1 di aprile "perché in tal dì Chain olxise so fradel Abel e quelo fu el primo sangue fu spanto al mondo". (61) Si tratta di una spia che denuncia come sui mari, non solo l'ordine temporale, ma anche l'autorità di Pietro tendesse a divenire evanescente.

Non è dunque un caso che i primi Crociati, gente dalle saldi radici terranee guidata da un'aristocrazia franco-germanica poco avvezza agli spazi marini, nella loro marcia verso la Terrasanta preferirono il difficile percorso balcanico ed anatolico piuttosto che l'imbarco nei porti della penisola italica. D'altra parte, nel valutare la diffidenza dell'Occidente cristiano verso il mare, non possiamo dimenticarci che il Mediterraneo è stato per secoli un lago arabo e barbaresco. Ed il diffuso ricorso alle fortificazioni costiere, oltre che una risposta a tale supremazia, è una potente metafora dell'atteggiamento dell'Occidente medievale di fronte alle distese marine. Ancora alla metà del Cinquecento verranno impegnate somme ingenti per rafforzare le difese costiere dei Vicereami di Napoli e di Sicilia: il solo Ferrante Gonzaga fece costruire tra il 1535 ed il 1543 ben centotrentasette torri di avvistamento per proteggere le coste siciliane dalle minacce turche e barbaresche (62)

Alla luce di queste considerazioni l'affermazione di Bartolo contenuta nel De Insula, secondo cui la iurisdictio del sovrano si estendeva entro le cento miglia marine, appare oggi nient'altro che un richiamo formalistico a principi desunti per analogiam dalla legislazione classica. (63) Mentre la concessione alla Repubblica di Genova, da parte di Raimondo di Tolosa, del monopolio commerciale su un'area che copriva grosso modo il bacino nordoccidentale del Mediterraneo - avvenuta nel lontano 1174 - per quanto significativa, ha rappresentato un episodio isolato, un'eccezione tutt'altro che fondante dovuta al peculiare contesto geopolitico in cui si trovava ad operare la Repubblica di San Giorgio. (64)

Solo a partire dalla metà del tredicesimo secolo, in corrispondenza con il decrescere della pressione araba e berbera e con il miglioramento delle tecniche di navigazione, si ebbero i primi tentativi di esercitare forme embrionali di sovranità marittima: nel 1209 Venezia, ad esempio, ottenne dall'Imperatore il controllo esclusivo sull'Adriatico settentrionale, a nord della linea Ravenna-Golfo del Quarnaro. (65) Come non mancarono di sottolineare oltre tre secoli dopo i giuristi impegnati a difendere le ragioni della Serenissima contro le mire spagnole, tale concessione attribuiva a Venezia il compito di "illud mare tutum et securum reddere, et purgare a piratis". Al tempo stesso riservava a Venezia il diritto di esigere "vectigalia, gabellas, et collectas" sul traffico mercantile, ma soprattutto la facoltà di interdire a proprio piacimento l'accesso all'Adriatico settentrionale. (66)

Al di fuori del Mediterraneo, poi, erano risalenti nel tempo i tentativi del Regno di Danimarca di 'vincolare' le rotte commerciali tra Baltico e Mare del Nord, mentre il Regno di Norvegia rivendicò a lungo il monopolio sulla pesca nelle remote acque dell'Islanda. I Plantageneti, dal canto loro, in virtù dei possedimenti in terra di Francia poterono fregiarsi del titolo di 'dominus utriusque ripae', tentando in effetti di esercitare un blando controllo sulla Manica, diretto per lo più alla repressione della pirateria endemica in quelle acque. (67) Ma, nuovamente, occorre cautela: in un'epoca in cui l'effettività dello jus gentium si misurava spesso sul filo della spada, si può dubitare che i Regni di Castiglia, di Francia e di Inghilterra, a lungo privi di una marina 'nazionale', possano avere esercitato un potere anche solo lontanamente assimilabile al moderno concetto di sovranità marittima. (68)

D'altro canto, il contributo della scienza giuridica medioevale alla determinazione dello statuto giuridico degli spazi marini è difficile da valutare. E' vero che la questione del dominium mari non fu ignota ai doctores iuris: si pensi solo al peso che hanno avuto le argomentazioni di Baldo e di Bartolo sulla successiva elaborazione di un Alberico Gentili o di un Paolo Sarpi. (69) Ma per lo più si trattava di elaborazioni teoriche che, ricche di riferimenti all'universalismo dominante la cultura giuridica e politica medioevale, peccavano di astrattezza. Oppure erano argomentazioni che, rivolte a legittimare il controllo esercitato da specifici soggetti politici su specifiche regioni costiere - in primis al fine di reprimere la pirateria -, tendevano a replicare schemi e modelli propri dell'ordinamento feudale. In definitiva le opiniones dei doctores iuris, al di là dell'auctoritas di chi le esprimeva, finivano con l'avere scarso rilievo sul piano concreto.

La nozione di 'sovranità marittima', intesa come proiezione sui mari del dominium statale, appartiene indiscutibilmente all'Evo Moderno. (70) I precoci tentativi di regolamentare gli spazi marittimi sono stati ben lontani dallo smentirne la natura anarchica, e certo non hanno preparato a quella vera e propria rivoluzione geopolitica e 'geo-giuridica' (Raumrevolution) rappresentata dalla scoperta del Nuovo Mondo.

L'occupazione del mare

Il ritorno di Colombo in Europa, il 15 marzo 1493, ebbe un effetto dirompente sul sistema internazionale. I primi a percepire con lucidità le implicazioni connesse al fortunato viaggio del navigatore genovese furono gli stessi finanziatori dell'impresa: i sovrani di Spagna. Iniziò così un'attività diplomatica a dir poco convulsa. Era infatti necessario contrastare quella sorta di monopolio sull'attività esplorativa che la corona lusitana si era riservata fin dagli anni 'eroici' di Enrico il Navigatore e della penetrazione lungo le coste dell'Africa avvenuta alla prima metà del Quattrocento. (71) L'asso nella manica dei Portoghesi, come si è visto, erano le Bolle pontificie con cui solo pochi decenni prima Niccolò V, seguito poi da Callisto III, aveva esteso la zona di influenza lusitana "usque ad Indos". Solo che al soglio pontificio sedeva ora un Papa assai più sensibile agli interessi della corona di Castiglia. L'intervento dello spagnolo Alessandro VI, al secolo Rodrigo Borgia, non poté che smentire l'indirizzo precedente. Meno di due mesi (3-4 maggio 1493) dopo l'arrivo di Colombo il Papa emanava una serie di bolle che, segnando il progredire dei negoziati ispanico-lusitani, attribuivano ai due regni iberici le Indie, stabilendo come linea di confine tra le rispettive zone di influenza il meridiano che passava a cento miglia dalle Azzorre. (72) Si trattava di una determinazione ambigua, che se da un lato aveva la funzione di disinnescare la tensione esistente tra i due Regni iberici, dall'altro apriva la strada alla successiva tranche di negoziati che avrebbe portato agli accordi di Tordesillas del luglio 1494 ed al successivo spostamento verso Occidente della sfera di influenza lusitana. (73)

La raya, la delimitazione spaziale che veniva a dividere le rispettive zone di espansione è stata un'innovazione assoluta sul piano del rapporto spazio/diritto: il territorio ha perso qualsiasi specificità fisica e si è realizzato quello che Schmitt ha definito 'pensiero per linee globali'. (74) E' il trionfo di Cartesio su Tolomeo, della trigonometria e dell'astronomia sulla geografia fisica. L'uomo domina gli spazi fisici misurandoli e definisce gli spazi politici non più tramite il riferimento all'orografia del territorio, ma in funzione ad astrazioni matematiche. La natura non è più il luogo del meraviglioso, ma è oggetto di conoscenza scientifica, deve essere misurata, classificata. "Non è esagerato affermare" scrive Schmitt in Land und Meer "che tutte le sfere della vita, tutte le forme di esistenza, tutte le specie di energia creativa dell'uomo - l'arte, la scienza, la tecnica - prendono parte alla formazione del nuovo concetto di spazio". (75) La rivoluzione scientifica e la rivoluzione spaziale vanno di pari passo.

D'altra parte, rileggendo le vicende del primo colonialismo ispanico, non va trascurato il fatto che la Conquista avvenne per impulso di una personalità complessa quale quella di Carlo V, imbevuta di afàn de cruzada, almeno quanto di razionalismo erasmiano. L'homo novus che dunque si afferma nell'età delle grandi scoperte domina gli elementi: non prova timore di fronte alle distese oceaniche, che perdono così la loro specificità di spazi vuoti, incommensurabili.

Eppure è opportuno essere cauti di fronte a questa precoce affermazione delle scienze positive. Nel momento in cui la scienza sembrava celebrare la propria emancipazione dal pensiero aristotelico-tomista - nel momento in cui il dubbio generava trionfalmente la scoperta -, essa finiva per essere arruolata a forza al servizio del principe. Nell'Europa della prima espansione coloniale astronomi, matematici e geografi non erano meno importanti di un buon ammiraglio. (76)

L'importanza della scienza è particolarmente evidente negli sviluppi successivi delle rayas: le 'linee di amicizia' care alle cancellerie di Parigi e di Londra. "Un méridien décide de la vérité" commentava con amarezza Pascal, di fronte alla spregiudicatezza con cui i sovrani dell'età pre-vestfaliana utilizzavano compassi e sestanti per fare o disfare accordi, ma anche per porre vincoli all'etica e al diritto internazionale. Nessuna sorpresa, dunque, se agli occhi di un Giacomo I o di un Luigi XIV la geografia fosse davvero troppo importante per poterla lasciare agli scienziati.

Le rayas e le amity lines hanno dunque segnato la Seenahme, l'occupazione di mare: eppure fin da subito lo sviluppo del "pensiero per linee globali" ha rivelato profonde antinomie, Weltanschauungen in irriducibile contrasto. Si tratta di una contrapposizione che Schmitt ha colto con esemplare lucidità nel momento in cui sottolinea che: "un universo intero - si può ben dire - separa il tipo storico della raya da quello della amity line inglese". (77) Il primo modello di ripartizione spaziale, ancorato alla nozione medioevale di respublica christiana era caratterizzato da una logica 'distributiva': sul piano 'geo-giuridico' la raya non riconosceva alcuna specificità alle distese oceaniche, ma si limitava a definire le rispettive zone di espansione dei due Regni iberici. Al contrario le amity lines, prodotto della drammatica cesura operata dalla Riforma e legate ad una dimensione agonale delle relazioni internazionali, rendevano l'Oceano qualcosa di 'altro', tanto sul piano giuridico che su quello etico.

Alla luce delle premesse schmittiane, dunque, occorre esaminare come la tensione tra rayas e amity lines abbia segnato la prima modernità. Il primo archetipo di ordine 'geo-giuridico', come si è visto, si basa sui caratteri del tutto peculiari della Conquista. Non è qui possibile proporre una riflessione articolata sulla valenza giuridica delle Bolle alessandrine né, tanto meno, di soffermarsi sui titoli che la casa di Asburgo poteva addurre a giustificazione della propria espansione nelle Americhe. (78) Ma, per lo meno, è opportuno segnalare, sulla scorta delle osservazioni di Schmitt, quanto i negoziati tra il Regno di Portogallo ed il Regno di Castiglia si collocassero nel solco di una traditio e di un ordo condivisi: "Caratteristica della linea ispano-portoghese (raya) è che le parti avevano un fondamento comune nella fede cristiana, rispettavano l'autorità del Capo della Chiesa - il Papa di Roma -" e pertanto "si riconoscevano, reciprocamente, come eguali nel trattato di spartizione e distribuzione." (79) La semantica dell'accordo tra i due Regni iberici era dunque profondamente indebitata con l'universalismo della dottrina politica medioevale. Lisbona e Madrid si riconoscevano in un sistema etico-normativo unitario, e la mediazione pontificia altro non era che un appello ad un'auctoritas che ambedue gli attori identificavano come superiore. Dal canto suo la scienza giuridica, come sempre conservatrice, tardò ad aggiornare il proprio lessico alle nuove scoperte, preferendo riproporre le categorie classiche dell'inventio e dell'occupatio.

Unità e continuità: queste sono le chiavi attraverso cui interpretare l'espansionismo ispano-lusitano nelle Americhe. La Conquista può essere letta come un processo di omologazione, di reductio ad unitatem del diverso. Non è un caso che tanto nelle Università che nelle Corti, uno dei problemi più discussi - ed il dibattito in seno alla Scuola di Salamanca lo dimostra con irriducibile vigore - riguardasse la possibilità di adattare alle Americhe le categorie giuridiche e politiche del Vecchio Mondo. Le stesse comunità indigene non sfuggivano a questa 'logica adattiva'. Adottando questa chiave di lettura si comprende come, ad esempio, la pratica del requerimiento, cara a Cortés, non fosse una vuota e formalistica affermazione di un astratto principio giuridico, ma segnalasse una precisa strategia di assimilazione del diverso.

Ma ad avere una forte connotazione unitaria era la stessa organizzazione spaziale del potere. Madrid si rifiutava - o forse non era semplicemente in grado - di cogliere la specificità degli spazi che la Conquista gli aveva garantito. L'esame della legislazione coloniale spagnola rivela il tentativo di replicare ad una concezione spaziale con il passare degli anni sempre più obsoleta. Le riforme imposte da Madrid, infatti, non facevano altro che riproporre istituti e modelli normativi propri dell'esperienza europea. (80) Proprio l'ordinamento marittimo è in questa prospettiva esemplare: si pensi solo al tentativo, in atto per lo meno a partire dalla metà del Cinquecento, di coinvolgere le municipalità del Nuovo Mondo nella lotta alla corsa ed alla pirateria, secondo quanto avveniva comunemente sulle coste mediterranee. Sempre secondo gli ottimistici auspici di Madrid, le comunità indios avrebbero dovuto formare invece l'ossatura di un sistema di avvistamento costiero, palesemente ispirato al sistema di torri e fortificazioni che fin dal Medio Evo costellavano le rive settentrionali del Mediterraneo. Oppure si pensi, sempre per rimanere in ambito marittimo, alla diffusa tendenza a vincolare l'attività dei corsarios ad una normazione puntigliosa, riflesso di quella stessa tendenza 'amministrativistica' con cui Madrid aveva disciplinato il monopolio commerciale esercitato della Casa de contratación di Siviglia. (81)

Tra i corollari di un'ideologia che non escludeva la diversità, ma la sussumeva in un sistema gerarchicamente ordinato, è necessario soffermarsi sul fatto che - come fa notare Schmitt - con le rayas non si faceva distinzione tra occupazione di terra e occupazione di mare. (82) Queste linee di divisione, infatti, erano concepite come un confine 'fisico', come uno strumento di ripartizione 'quantitativa' degli spazi geopolitici e geo-giuridici. La Corona di Castiglia, nel salvaguardare i confini oceanici sanciti negli accordi di Tordesillas, guardava alle soluzioni adottate nel continente europeo per tutelare i confini terrestri.

Nel ricostruire l'esperienza giuridica della Spagna imperiale si può dunque attribuire un duplice senso al binomio 'continuità ed unitarietà': da una parte questo binomio ha segnato la politica legislativa spagnola nei due continenti. Dall'altro ha segnalato l'assoluta identità, nella visione geospaziale di Madrid, tra occupazione di mare e occupazione di terra. Alla luce del vivace incontro tra Elisabetta I e don Bernardino de Mendoza, prima richiamato, è paradigmatico il fatto che Madrid, adottando le medesime categorie giuridiche, intendesse al contempo escludere da las Indias le altre Potenze europee ed interdire la navigazione oceanica: l'inventio e l'occupatio si applicavano indistintamente alle selve dello Yucatàn ed alle acque del mar dei Carabi.

Sempre adottando le categorie schmittiane non si può fare a meno di rilevare come alla base della crisi dell'esperienza imperiale spagnola, si possa individuare un errato Raumordnungsbegriff. Il tentativo di replicare nelle immense distese oceaniche le linee di confine che delimitavano gli 'spazi di dominio' dei territori statali non poteva che essere destinato al fallimento. L'analisi di Schmitt può forse essere impietosa quando coglie tutti i limiti di una concezione degli spazi giuridici e politici incapace di comprendere la specificità dell'Oceano, ma certo è tutt'altro che infondata. Semmai appare legittimo domandarsi in che misura la crisi del disegno imperiale spagnolo non fosse dovuta ad una carenza teorica, dottrinaria. Ci si può cioè chiedere se la cultura giuridica e politica della Spagna del Cinquecento fosse davvero munita degli strumenti concettuali per comprendere che, con la scoperta del Nuovo Mondo, erano state poste le basi per la definizione di un nuovo 'nomos della terra'. (83) Un nomos che trovava nella distinzione tra "occupazione di terra" ed "occupazione di mare" il suo carattere distintivo. Come non ha mancato di rimarcare Schmitt, proprio la separazione tra terraferma e "mare libero" è stata la caratteristica fondamentale dello jus publicum Europaeum. (84) Ed il principio della libertà dei mari - è sempre Schmitt a ricordarcelo - ha segnato una frattura con l'ordine medievale, nel momento in cui ha comportato la determinazione di uno spazio 'anomico', sanzionato dalle amity lines, in cui si è affermato "il libero e spietato uso della violenza". (85)

Nel 1559 con la Pace di Cateau Cambresis si mirava a porre fine alla tensione tra l'Impero ed il Regno di Francia che aveva per lunghi decenni contrassegnato la politica europea. (86) L'accordo, com'è noto, da un lato riconosceva il predominio imperiale sulla penisola italiana, dall'altro stabilizzava una volta per tutte i confini settentrionali francesi. Con una buona dose di realismo, però, le delegazioni coinvolte nei negoziati non ritennero opportuno estendere alle Indie l'efficacia del trattato. Anzi, si accordarono oralmente per limitarla entro un ambito spaziale preciso: ad oriente del primo meridiano avrebbero avuto pieno vigore le disposizioni concordate a Cateau Cambresis. Ad occidente invece "might should make right, and violence done by either party to the other should not be regarded as in contravention of treaties". (87)

Questi accordi non furono un caso eccezionale nella prassi politica dell'Europa moderna. (88) Cateau Cambresis fu tutt'altro che il frutto eccentrico e cinico di una diplomazia machiavellica. Piuttosto le linee di amicizia hanno rappresentato una radicale innovazione nella concezione degli spazi giuridici, tracciando un solco profondo con il modello precedente di linea globale. Se, come si è detto, le rayas si fondarono su una visione unitaria, sulla continuità tra l'esperienza giuridica cis e trans-oceanica, la prassi delle amity lines ha avuto una valenza fortemente disgregante. "No peace beyond the line" era il giudizio unanime che accomunava le corti d'Europa. L'efficacia del diritto internazionale si arrestava al 'meridiano di Ferro'. (89) Oltre, rimarca ancora Schmitt, valeva hobbesianamente la legge del più forte: quello che avveniva beyond the line, sfuggiva alle "valutazioni giuridiche, morali e politiche riconosciute al di qua della linea". (90)

Era l'assenza di una auctoritas, di un ordo condiviso, ad aver impedito, nell'Europa traumatizzata dallo scisma religioso, di concepire soluzioni alternative a quella una sostanziale anomia. E non è un caso che le contestazioni più forti alla legittimità della Conquista provenissero da entusiasti sostenitori della Riforma quali l'Inghilterra e i Paesi Bassi. Del resto, a partire da Gentili e da Grozio, furono protestanti i grandi promotori della libertà dei mari. Ed in Francia - nei primi decenni del Cinquecento grande rivale della Spagna anche sulle acque oceaniche - furono gli Ugonotti a premere per frenare l'espansionismo spagnolo al grido "mare sit commune". (91) Come ha scritto Schmitt "il calvinismo era la nuova religione guerriera; l'impulso elementare verso il mare lo catturò quale fede a esso più consona." (92) E forse si può intravedere un sottile filo rosso che lega, da un lato, la polemica dei monarcomachi contro i disegni assolutistici della corona francese e, dall'altro, la rivendicazione della libertà dei mari contro le pretese spagnole: la Riforma, del resto, era saldamente radicata nelle città della costa atlantica - La Rochelle sarà l'ultima piazza in mano agli Ugonotti - dove il ceto mercantile mal tollerava il monopolio del commercio con le Indie esercitato dalla Casa de Contrataciòn de Sevilla. E non è un caso che la marina francese vivesse alla metà del Cinquecento i suoi primi fasti sotto la guida di Gaspard de Coligny, al vertice del partito protestante durante le guerre di religione e destinato ad essere la vittima più illustre dei massacri della notte di San Bartolomeo. (93)

Ma ancor prima che per motivi religiosi, l'attrito si generava tra due Raumordnungsbegriffe - l'uno fondato sulla continuità, l'altro sulla differenza - in irriducibile conflitto. E questa tensione, a sua volta, alludeva ad una dicotomia più profonda, 'elementare', che si mostra "nella sua vera e piena luce solo se anche qui teniamo conto dell'opposizione fra gli elementi e della separazione incipiente fra il mondo del libero mare e il mondo della terraferma." (94)

L'esito di tale confronto era però scontato. La posta in palio, infatti, era il controllo delle rotte commerciali tra Europa ed Americhe, più che l'acquisizione di nuovi territori. E forse Schmitt non insiste a sufficienza sul fatto che i Kriegspiele delle potenze europee furono giocati essenzialmente sulle acque dell'Atlantico. Nelle Indie l'ultima parola spettava agli ammiragli. Le grandi battaglie campali, che hanno segnato gli snodi fondamentali della storia del Vecchio Continente, rimasero sconosciute nel Nuovo Continente almeno fino alla metà del Settecento. E dunque la Landnahmedelle Americhe non era che il frutto di una Seenahme: era il mare, e non la terra, a veicolare l'espansione coloniale, ad incanalarne le direttrici. Adottando dunque la griglia concettuale proposta da Schmitt si comprende perfettamente come l'anomia consacrata nelle amity lines investì le distese oceaniche, prima che i remoti territori del Nuovo mondo.

Ci si può poi chiedere, di fronte alla vigorosa reazione alle pretese monopolistiche di Madrid, in che misura la rivendicazione della libertà dei mari non trovasse ragione di sé nel regime giuridico che nell'Età di Mezzo caratterizzava la navigazione marittima. Certo è che nella prima Modernità, da François Hotman a Edward Coke, è stato frequente il ricorso a modelli giuridici e politici arcaici per contrastare l'assolutismo monarchico. (95) E dunque sarebbe lecito ipotizzare che nella rivendicazione del carattere anarchico degli spazi marittimi si facesse riferimento ad una retorica risalente nel tempo. Occorre però prudenza nello stabilire analogie con il regime classico e medioevale dei mari. Per il giurista educato al Corpus Iuris Civilis, le distese marine erano inappellabilmente ritenute res communes omnium. Tutti avevano il diritto di sfruttarne le risorse e di solcarne le acque. Al contrario l'Ordnung che iniziava ad emergere a partire da Cateau Cambresis, concepiva il mare come uno spazio privo di regole, 'de-normativizzato', come una no man's area in cui gli uomini potevano dare libero sfogo alle passioni. Con le amity lines si proclamava la validità della legge del più forte, sanzionata dalle ordinate manovre delle squadre navali. Era, come Schmitt suggerisce, il trionfo dello stato di natura hobbesiano, di un'antropologia all'insegna dell'homo homini lupus.

Per meglio comprendere il carattere assolutamente anomico che nella prima età moderna caratterizza gli spazi oceanici, può essere opportuno riflettere sul ruolo esercitato da corsari e pirati nel controllo degli spazi oceanici. Si trattava, come noto, di due categorie distinte sotto il profilo giuridico: gli uni erano dei 'privati' che 'correvano' il mare muniti di lettres de marque emanate da uno Stato sovrano. Questi atti, in sostanza, autorizzavano il titolare ad abbordare vascelli nemici solo in presenza di determinate condizioni, elencate minuziosamente nella patente di corsa. Gli altri invece non erano che il prodotto di quel 'banditismo sociale' - per usare la felice espressione coniata da Eric Hobsbawm - che ha profondamente caratterizzato l'Europa della prima modernità. (96) Ma al di là di ogni formalismo, la distinzione tra privateer e pirate tendeva nei fatti a sfumare. (97) Nonostante che la pirateria fosse comunemente ritenuta una delle più gravi forme di devianza - ed il reo se catturato, veniva sottoposto ai più terribili supplizi -, è sintomatico del carattere anomico dell'Oceano il fatto che tra Cinque e Seicento nelle loro power politics le potenze europee, non avessero esitato a ricorrere ai servigi dei 'Fratelli della Costa'. E questo nel momento in cui Alberico Gentili - solo per fare un esempio - ispirandosi alla nozione medievale di hostis humani generis dubitava perfino che si potesse invocare la lex naturalis a favore del pirata. Se dunque gli Stati del Vecchio Continente potevano agire in violazione non solo dei canoni del iustum bellum, ma perfino dei principi più sacri della legge naturale, la giustificazione va trovata nel carattere eccezionale accordato agli spazi del Nuovo Mondo dalle amity lines.

Britannia rules the waves

A partire dalla Pace di Vestfalia la prassi delle linee di amicizia iniziò a venire meno. Se l'impero coloniale spagnolo era oramai indirizzato verso una lenta ma costante decadenza, gli insediamenti anglo-francesi nel Nuovo Mondo erano divenuti qualcosa di più di un mero dato di fatto. Londra e Parigi erano pienamente consapevoli delle potenzialità economiche dei territori acquisiti al di là dell'Oceano: era iniziata l'espansione coloniale verso l'interno del continente americano ed una situazione di endemica conflittualità non giovava più a nessuno. Il Trattato franco-spagnolo di Ratisbona del 1684, era un eccellente esempio di questa inversione di tendenza nella politica coloniale, nel momento in cui prevedeva espressamente la cessazione di ogni ostilità "in et extra Europam, tam cis quam trans lineam".

Il processo di assimilazione delle Americhe nel sistema normativo europeo, in realtà, fu tutt'altro che istantaneo e indolore. Al di là delle alte enunciazioni espresse nei trattati internazionali, non era facile per il Nuovo Continente superare la dimensione anomica che aveva caratterizzato la sua prima colonizzazione: ancora nel 1759 - nel pieno della guerra dei Sette Anni - James Wolfe, il brillante comandante delle truppe inglesi impegnate nella conquista del Quebec francese, era costretto a intervenire per reprimere con severità "the inhuman practice of scalping", evidentemente diffusa tra i suoi uomini, ritenendola però ammissibile "when the enemy are Indians, or Canad[ian]s dressed like Indians". (98) Ma certo è che il nuovo clima politico instaurato con la Pace di Vestfalia, stimolò un'ampia riflessione su quali fossero gli strumenti migliori per ordinare giuridicamente i territori del Nuovo Mondo.

Non deve sorprendere che nell'epoca dei fasti del giusnaturalismo l'ideologia delle 'frontiere naturali', largamente prevalente nei trattati dei giuristi come nella prassi delle cancellerie, venisse riproposta con entusiasmo anche per le Americhe. Aggiornata nelle forme e nelle tecniche giuridiche, rifioriva così l'immagine un poco vetusta di un'occupazione 'per divisione', di un limes ancorato alla geografia fisica. E questo nonostante che personalità di rilievo come il Maresciallo di Vauban, tra le menti più brillanti della sua epoca, mettessero in guardia sui rischi connessi al frettoloso adattamento al Nuovo Mondo di categorie appartenenti al patrimonio giuridico del Vecchio. (99)

Differente fu invece il destino degli spazi oceanici, in cui il carattere anarchico impresso dalla pratica delle amity lines continuò a lungo a contraddistinguere il regime giuridico dei mari. Fu così che ancora per buona parte dell'Ottocento il mare rimase al di fuori di ogni ordinamento spaziale specificatamente statuale. Non essendo territorio statale, né spazio coloniale, né zona occupabile, era ritenuto libero da ogni tipo di sovranità. Accanto allo jus publicum Europaeum sorgeva un ordinamento 'parallelo' dotato dei medesimi attributi: anch'esso era universale. Anch'esso riconosceva valore normativo a locuzioni come quelle di guerra e di preda. Anch'esso, per citare ancora Schmitt, era consapevole del valore della libertà. (100)

Le analogie, però, erano solo morfologiche. I due ordinamenti si trovavano ad essere in irriducibile contrasto tra loro: l'ordinamento marittimo, fondato sul dogma della libertà dei mari, rifuggiva la dimensione statuale. I fenomeni di accentramento istituzionale, di costruzione della sovranità, promossi dalle monarchie europee nei loro progetti assolutistici, erano destinati ad arrestarsi di fronte al mare aperto. E se lo jus publicum Europaeum con non poche incertezze veniva plasmandosi grazie al decisivo contributo degli Stati, promotori politici e al tempo stesso soggetti privilegiati di tale ordinamento, gli spazi marittimi conservavano la loro natura anarchica, de-statuale: sui mari altri erano gli attori, altre erano le regole. Quel processo di razionalizzazione normativa che permise alla guerra di divenire guerre en forme, (101) superando la sanguinaria anomia delle guerre di religione, non toccò dunque - se non in maniera molto limitata - il diritto dei mari.

Nell'età vestfaliana, ha osservato Schmitt, la guerra terrestre era giusta "nel senso del diritto internazionale europeo dell'epoca interstatale" qualora fosse stata condotta "da eserciti militarmente organizzati, appartenenti a Stati riconosciuti dal diritto internazionale europeo, sul suolo europeo e secondo le regole del diritto bellico europeo." (102) Sui mari, dal momento che il carattere spaziale delle norme era totalmente negato, la situazione era specularmente rovesciata: si faceva riferimento ad ordinamento privo di qualsiasi radicamento territoriale, privo di qualsiasi delimitazione, capace, in quanto tale, di proporsi come il primo ordinamento globale. Le regole dello jus navale erano valide per le squadre navali che si contendevano le acque della Manica durante il conflitto anglo-olandese del 1652, come per gli agili vascelli che, sotto le insegne dei gigli di Borbone o issando l'Union Jack, pattugliavano le coste dell'India durante la Guerra dei Sette Anni.

Ancora. Nell'Europa della prima modernità la guerra era ormai un fatto pubblico, appannaggio delle Corti e delle Cancellerie. Sul mare, invece, la presenza massiccia di soggetti dotati di un enorme potere economico, politico e perfino militare quali le compagnie commerciali, pregiudicava il monopolio statale non solo sul controllo dei traffici mercantili, ma perfino sullo stesso uso della forza. L'attività dei privateers, poi, fiorente ancora nell'Ottocento, alludeva ad una dimensione, quella del bellum privatum, retaggio addirittura dell'Età feudale.

Infine la guerra marittima, contraddicendo l'ideale proto-illuministico della guerre en forme, era una guerra 'totale': per usare ancora una volta il lessico schmittiano, non accordava rilevanza alla dicotomia tra privato e pubblico, ma neppure a quella, ancor più fondamentale, tra amico e nemico. Le operazioni contro i traffici commerciali, a partire dalla prassi del blocco navale, erano dirette a piegare il sistema economico dell'avversario, non soltanto a bloccare le linee di comunicazione o a danneggiare le fonti di approvvigionamento dell'esercito nemico. La complessa vicenda dello jus predae, spinto fino al sequestro della nave neutrale che avesse trasportato un carico di proprietà nemica in funzione al principio "enemy goods - enemy ship" - come sancito dalla Court of Prize britannica nella Rule of War of 1756 e nella Doctrine of Continuous Voyage -, era la definitiva conferma del carattere totalizzante del conflitto navale: la Seekrieg dissolveva perfino la distinzione primaria, archetipa, tra Freund e Feind. (103) "La guerra marittima", ha scritto Schmitt "non è affatto una semplice guerra di combattenti, ma si basa su un concetto totalitario del nemico". Si tratta di una concezione che dilata la nozione di hostis fino a comprendere "non soltanto ogni cittadino appartenente allo stato avversario, ma chiunque abbia rapporti commerciali col nemico e ne favorisca l'economia." (104)

Che cosa rimaneva della dottrina del mare clausum sostenuta da quel Serafino de Freitas che, nel De iusto imperii Lusitanorum, aveva vigorosamente replicato al groziano Mare Liberum? (105) Che cosa restava di quell'Oceanus Britannicus teorizzato da un altro grande avversario di Grozio, John Selden? Al termine di quella "guerra libresca dei cent'anni" (106) che per quasi un secolo aveva contrapposto la migliore scienza giuridica europea, i sostenitori della nozione di sovranità marittima vedevano le loro aspettative radicalmente ridimensionate. Spettò a Cornelius Van Bynkershoek, che nel 1702 aveva pubblicato il celeberrimo De dominio maris Dissertatio, mettere la parola fine a questo annoso dibattito. (107) La proposta di Bynkershoek, nel suo realismo, era cristallina: "potestatem terrae finiri ubi finitur armorum vis", la sovranità dello Stato si misurava sulla gittata delle batterie costiere. (108) Il che, come ebbe modo di precisare l'abate Galiani - evidentemente buon conoscitore della scienza balistica quanto versato in quella economica -, significava confinare la sovranità marittima dello Stato entro il limite delle tre miglia dalla costa. (109)

La questione della corretta determinazione della acque territoriali era tutt'altro che chiusa. Ma al di là di un dibattito in cui dai trattati eruditi dei giuristi esalava l'odore della polvere nera, certo è che, raramente, la correlazione tra diritto e forza ha trovato nell'evoluzione dell'ordinamento internazionale una così precisa e spietata estrinsecazione.

Quali furono le conseguenza sul piano 'geo-giuridico' di una tale determinazione spaziale? Balena davanti agli occhi la suggestiva immagine della lotta tra Behemoth e Leviathan - così ricorrente in uno Schmitt profondo conoscitore della tradizione cabalistica -, (110) metafora di due ordinamenti, quello terrestre e quello marittimo, in titanica contrapposizione tra loro. La lotta tra i due abomini è feroce: Behemoth tenta con le corna o con le zanne di squarciare l'odiato nemico, che a sua volta si avviluppa a lui, cercando di soffocarlo. Ed in questo drammatico scontro ecco che, con la regola delle tre miglia, si genera un momento di stallo, di precario equilibrio tra le due creature mostruose. (111)

Nell'età dei Lumi, consacrata al culto della Ragione, l'equilibrio significava misura, ordine. E l'equilibrio tra Land e Meer non era che il riflesso di quello, sancito dal Concerto Europeo, vigente nel Vecchio Continente. Si potrebbe dunque interpretare la dottrina della armorum vis come un tentativo di inglobare anche gli oceani nel gioco di pesi e contrappesi che ha caratterizzato il sistema politico Settecentesco.

Ma non è così. Il mare e la terra rimanevano in competizione fra loro. Occorre prudenza nel soppesare le analogie, le possibili sovrapposizioni e le ipotetiche sintesi tra due ordinamenti geo-giuridici e geopolitici, quello oceanico e quello tellurico, tanto diversi: il sistema politico elaborato dalle Landmächte europee, fondato sulla balance of power, sull'assoluto rispetto della sovranità territoriale, sulla capacità della diplomazia protocollare di mediare e contenere i conflitti, ha rappresentato l'incubatrice dello jus publicum Europaeum. L'equilibrio multipolare ha dunque permesso la formazione di un sistema di regole condivise, di un linguaggio comune. Sul mare, invece, oggetto dell'indiscussa supremazia di un'unica Seemacht, quella inglese, fu la forza delle armi a sancire una volta per tutte il diritto.

Fu dunque l'Inghilterra - e non poteva essere altrimenti - a comprendere tutte le implicazioni connesse al dualismo tra ordinamento terrestre ed ordinamento dei mari, divenendo così la depositaria di un preciso Raumordnungsbegriff, la vestale dell'equilibrio tra terra e mare. E com'è ovvio, si trattava, di un equilibrio che non intaccava l'egemonia inglese. Può anche essere che Laurent-Basile Hautefeuille - siamo alla fine dell'Ottocento - nei suoi celebri studi sul diritto internazionale marittimo peccasse di faziosità, ma certo non travisava la realtà quando osservava "il n'existe pas d'équilibre maritime. L'océan, cette possession commune à toutes les nations, est la proie d'une seule nation". (112) Queste parole, in cui riecheggiava lo spirito di revanche dei vinti di Trafalgar, fotografavano in maniera senza dubbio incontrovertibile il fatto che "Britannia ruled the waves". (113) L'oceano possession commune era dunque divenuto preda di una sola nazione: i vocaboli utilizzati dal giurista francese erano tutt'altro che incidentali, alludendo alle ragioni profonde dell'egemonia inglese. Una supremazia fondata, prima ancora che sulle bordate dei vascelli di linea, sul precipuo carattere dell'ordinamento dei mari, in cui la retorica della libertà dei mari si saldava allo jus predae invocato dall'Inghilterra a giustificazione della propria politica di potenza.

Quali le conseguenze di tale egemonia? Approfondendo le premesse schmittiane si può individuare nel binomio freedom of trade/freedom of war uno dei paradigmi fondamentali della politica inglese. Tale binomio ha incanalato l'espansionismo coloniale britannico, ne ha orientato le decisioni economiche e ne ha determinato gli obbiettivi politici. Ed è un binomio che si è esplicitato prima di tutto sui mari, come causa ed effetto al tempo stesso della talassocrazia inglese. (114)

Se già con la Pace di Utrecht (1713) si era cercato una prima regolamentazione della guerra marittima, è sintomatica la freddezza con cui in genere tanto la diplomazia quanto la scienza giuridica britannica accolsero il principio del free ship, free goods che avrebbe dovuto tutelare il traffico neutrale durante le operazioni belliche. (115) Ed il fatto che da sempre Londra avesse mal sopportato vincoli giuridici troppo stretti, era provato dalla spregiudicatezza con cui la Royal Navy aveva esercitato il blocco navale delle coste continentali durante le guerre napoleoniche.

Ancora dopo la Dichiarazione di Parigi del 1856, l'atteggiamento britannico era di latente ostilità nei confronti delle possibili restrizioni al libero esercizio del potere navale. A Parigi, come noto, si era celebrato un grande compromesso sotto gli auspici del dogma liberale 'peace through trade': l'Inghilterra aveva chiesto che una volta per tutte fosse sancito il divieto alla guerra di corsa, rendendo così definitivamente illegittima una pratica che aveva finito per impensierire non poco l'Ammiragliato nei lunghi anni delle guerre contro la Francia. (116) Da parte sua, l'Inghilterra aveva acconsentito a dare una stabile disciplina al blocco navale che la marina inglese aveva dimostrato di saper applicare con micidiale efficacia. Ma soprattutto Londra, accordando una forte tutela ai traffici marittimi internazionali, aveva infine accolto il principio del free ships, free goods, assicurando l'assoluta inviolabilità delle merci neutrali, anche se trasportate su un vascello battente bandiera nemica. (117)

In tal senso, gli accordi di Parigi possono a ragione considerarsi uno dei traguardi più significativi raggiunti dalla European International Society, segnalando il grado di integrazione politica raggiunto dalla potenze europee a metà dell'Ottocento, pur in assenza di una cornice istituzionale definita e stabile. (118) Eppure, applicando ancora una volta le categorie schmittiane come chiavi di lettura, pare difficile esaltare le vicende di Parigi come il trionfo dello jus publicum Europaeum sul nomos del mare. Le disposizioni contenute nella Dichiarazione del 1856, per quanto politicamente significative, avevano uno statuto ambiguo: si trattava di una manciata di principi che, accomunati da una precisa cornice ideologica, non dettavano però una disciplina sostanziale, avvicinandosi così - in accordo per altro con l'esprit du temps - molto più alla positive morality che non al diritto in senso proprio.

Del resto anche l'impronta cobdeniana della Dichiarazione di Parigi tende a sfumare se solo si riflette sull'egemonia economica esercitata dall'Impero britannico alla metà del diciannovesimo secolo. Londra, è vero, nel 1849 aveva rinunciato alla prassi dei Navigation Acts con cui fin dalla metà del diciassettesimo secolo aveva protetto il proprio mercato interno, e reprimendo ogni tentazione mercantilista sembrava essersi convertita una volta per tutte ai principi del laissez-faire. Ma ci si può chiedere se tale conversione, avvenuta nel momento in cui il controllo esercitato da Londra sulle rotte oceaniche era pressoché assoluto, prima ancora che un omaggio all'idealismo liberale, non fosse un atto di supremo realismo. Ci si può cioè domandare se l'aspirazione britannica al free trade, all'abolizione dei dazi doganali e alla protezione del commercio internazionale, nel momento di massimo splendore dell'Impero britannico, non sortisse sul piano geopolitico effetti del tutto analoghi a quelli delle politiche mercantilistiche rigidamente applicate fino a pochi anni prima.

Nella Dichiarazione di Parigi, l'equilibrio tra terra e mare, dunque, era tutt'altro che contraddetto. Se ne aggiornavano i caratteri, si assestavano i pesi ed i contrappesi, si riequilibrava la bilancia, ma non si negava la natura del tutto peculiare degli spazi oceanici, la loro valenza profondamente anarchica.

E' semmai sorprendente il fatto che in un età di incipiente giuspositivismo, di incombente statalismo, il carattere non-statale del mare trovasse una così vigorosa conferma: se con le amity lines le distese oceaniche erano state consegnate al libero esercizio della violenza, ora i principi consacrati nella Dichiarazione di Parigi sancivano il connubio tra la libertà dei mari e la libertà dei commerci marittimi, "dove le navi erano essenzialmente non statali". (119)

In definitiva, quello che si ribadì a Parigi - ha suggerito Schmitt - fu piuttosto l'immagine eurocentrica del diritto internazionale, allora più che mai il prodotto di una coscienza comune, di un lessico giuridico condiviso. (120) E' appena il caso di osservare però che, nel momento stesso in cui si andava celebrando il trionfo di questo ordinamento, iniziavano a palesarsi i primi segni della sua crisi. Tre furono gli Stati che rifiutarono di aderire alla Dichiarazione: la Spagna in primo luogo, che in virtù della precaria situazione in cui versava la propria marina dichiarò di non poter fare a meno di ricorrere alla guerra di corsa in caso di conflitto. Ma senza dubbio più significativa fu l'opposizione dei rappresentanti di due paesi extraeuropei: la giovane repubblica messicana e gli Stati Uniti. E' il caso di sottolineare, più che le ragioni di tale rifiuto, l'importanza di questo primo strappo nella tela dello jus publicum Europaeum, da considerare uno dei prodromi della crisi di questo ordinamento, destinata a manifestarsi in tutta la sua drammaticità soltanto un secolo più tardi. (121)

Alla luce della dicotomia tra Land e Meer, invece, gli accordi di Parigi non smentirono affatto la natura anarchica delle distese marine. L'ordinamento dei mari continuava ad avere una natura 'liquida', flessibile. La sua morfologia si plasmava in un ambiente ibrido, in cui altre regole tendevano ad innestarsi sulle norme consuetudinarie, frutto ora della prassi mercantile, ora delle logiche di potenza. Come ha suggerito Grewe, il principio della libertà dei mari "did not only mean freedom of maritime intercourse and world trade, it also meant freedom of choice in respect of treaties of naval warfare". E quest'ultima libertà "can only be understood in the perspective of British sea power." (122)

Freedom of the seas, freedom of trade, freedom of war, queste erano dunque le direttrici secondo cui il nomos del mare è venuto configurandosi, questa era la rotta seguita dal "grande pesce", il Leviatano, "alla ricerca di altri oceani". (123) Sul Vecchio Continente tanto l'opera di mediazione del Concerto Europeo ispirata alla tradizionale retorica della balance of power, quanto l'influenza esercitata dai giuristi, avevano individuato nel diritto interstatuale una 'ragione' in grado di contenere gli eccessi della 'potenza'. Il diritto dei mari, invece, era destinato ad apparire, più che il risultato di scelte concertate, una delle modalità attraverso cui si manifestava la Machtwillen britannica.

Se il pacifismo liberale trionfante a Parigi aveva avuto un esito così modesto sul piano normativo, non era sorprendente che nei decenni successivi, sotto l'impulso delle dottrine navaliste sempre più à la page nelle cancellerie, i sostenitori della neutralità marittima ed i fautori di una codificazione del diritto dei mari trovassero in genere scarsa accoglienza. Nessuna meraviglia dunque, se, nel momento in cui il neomercantilismo prendeva vigore, non si esitava ad evocare i fantasmi di Drake, di Raleigh e di tutti coloro che avevano contribuito a fondare la potenza navale britannica sullo jus predae. Thomas Gibson Bowles - tra i più influenti giornalisti dell'Inghilterra vittoriana oltre che politico di rilievo - interpretava un sentimento diffuso nell'establishment britannico quando osservava che "the Declaration of Paris has no friends", auspicandone un repentino ripudio. (124) Ed erano parole, queste, destinate a non rimanere confinate nell'ambito della dialettica parlamentare, se è vero che la Gran Bretagna, dopo le 'graziose concessioni' di Parigi, aveva assunto un atteggiamento di forte diffidenza nei confronti dei progetti di codificazione della guerra marittima, discussi all'Aia nel 1907, e poi ancora a Londra nel 1909. (125) Tutto ciò, nello stesso periodo in cui le Potenze cercavano, per lo meno a partire dalla Convenzione di Ginevra del 1864, di trovare dei temperamenta belli efficaci per le operazioni terrestri. Sullo sfondo delle scelte di Londra si agitavano inquieti i fantasmi dei privateers elisabettiani: ancora una volta "l'essenza del Seekrieg è la conquista del bottino, il suo è l'animus furtandi del pirata.", ancora una volta "il mare non conosce, al contrario della terra, né OrtungRecht." (126)

Questa peculiare commistione tra diritto e potenza, questa continua sovrapposizione di piani, per cui le strategie navali non si esaurivano nelle manovre delle squadre navali, ma approdavano alle prassi diplomatiche e perfino ai manuali dei giuristi, ha segnato l'ordinamento marittimo, anche al di là dello jus belli navale vero e proprio: in realtà è stato tutto il diritto del mare, nella sua relazione tra norma e spazio, ad essere caratterizzato da questa forte commistione tra Macht e Recht. Ed è una ibridazione che senza dubbio ha favorito uno sviluppo 'unilaterale' dell'ordinamento marittimo. E' il caso, ad esempio, del Territorial Waters Jurisdiction Act del 1878 con cui la Gran Bretagna - negli stessi anni in cui lo spirito della Dichiarazione di Parigi entrava in crisi - aveva sancito il limite delle tre miglia nautiche, ponendo fine alle dispute sull'estensione delle acque territoriali che continuavano a svolgersi all'ombra dell'auctoritas di Byrkenshoeck. (127) Od ancora, per venire a tempi più recenti, alla Truman Proclamation del 1945, con cui gli Stati Uniti hanno addirittura fondato giuridicamente l'istituto della piattaforma continentale.

Non è dunque un caso che solo nel 1982 - dopo molte difficoltà ed in un contesto politico ben diverso - si sia giunti con la celebre Convenzione sul diritto del mare di Montego Bay alla definizione di un'organica disciplina degli spazi marini, frutto della volontà della comunità internazionale nel suo complesso. (128) Ed è un traguardo che, come avverte la dottrina giusinternazionalistica riecheggiando inconsapevolmente le parole di Schmitt, ancora una volta mira ad un equilibrio tra "potere territoriale e potere navale". (129)

Del resto Montego Bay non ha certo esorcizzato i fantasmi della Realpolitik. E' emblematico il fatto che Stati Uniti, non a caso gli eredi della talassocrazia britannica, per oltre un decennio si siano rifiutati di aderire alla Convenzione. Lord Nelson avrebbe senza dubbio applaudito alle conclusioni dell'ambasciatore James Malone, chairman della delegazione statunitense ai lavori della Convenzione, esposte sulle prestigiose pagine di Foreign Policy:

Let me state very emphatically that the United States cannot and will not sign the United Nations Convention on the Law of the Sea. The treaty is fatally flawed and cannot be cured. In its present form it presents a serious threat to U.S. vital national interests and, in fact, to global security. Once more, it is inimical to the fundamental principles of political liberty, private property, and free enterprise. The administration firmly believes that those very principles are the key to economic well-being for all countries-developing as well as developed. (130)

L'isola che si fece pesce

La teoria schmittiana ha dunque il merito di cogliere la complessa relazione tra terra e mare in tutta la sua ricchezza di significati. E nel far questo Schmitt non solo sopravanza per spessore concettuale quella Realpolitik così ben radicata nella tradizione della geopolitica germanica, ma supera anche quella prospettiva tellurica cui, ad esempio, è ancora legato il Vom Kriege clausewitziano. (131) La visione schmittiana è senza dubbio grandiosa: proprio la sua 'apertura' agli spazi oceanici le permette già in Land und Meer di avvertire l'imminenza di un nuovo nomos, eccentrico sotto il profilo quantitativo e qualitativo rispetto ad ogni altra concezione spaziale. Ed è questa acuta sensibilità a segnare la distanza di Schmitt dalla Geopolitik di un Rudolf Kjellen o di un Karl Haushofer, ed ancor di più dalla retorica nazionalsocialista del Lebensraum cui è stato talvolta troppo frettolosamente associato. (132) Si tratta, infatti, di concezioni, che sotto il profilo spaziale, tendono ad assolutizzare l'ordine tellurico. Per Schmitt, invece, questa dimensione viene sempre relativizzata, messa in discussione. Il nomos può nascere solo dalla tensione tra terra e mare, dal feroce abbraccio tra Leviathan e Behemoth. (133)

L'allegoria, per altro, è senza dubbio affascinante, ma bisogna andare oltre i riferimenti cabalistici, non farsi tentare dalle allusioni gnostiche, non perdersi dietro l'erudito gioco di specchi fabbricato da Schmitt. Le questioni che pone, infatti, alludono alle radici profonde della tradizione politica e giuridica occidentale. E proprio partendo dalla contrapposizione ancestrale tra terra e mare, Schmitt ha modo di svilupparne tutte le implicazioni: in primo luogo l'opposizione tra due modelli giuridici contrastanti, l'uno basato sull'idea di sovranità statale, di territorialità, l'altro invece fondato su un ordine staatsfrei, universalistico e dunque deterritorializzato.

La tradizione giuridica, cui guarda se non lo Schmitt radicale di Land und Meer, quanto meno lo Schmitt più pacato del Nomos der Erde, ha metabolizzato questa contrapposizione. Il nomos promana dalla costante dialettica tra terra e mare, che non ricerca sintesi o, peggio ancora, sovrapposizioni, ma che piuttosto mira ad un 'equilibrio conflittuale'. Ed è uno 'stile di pensiero' che, come ha messo in luce Pier Paolo Portinaro, trova degli autorevoli referenti negli stessi padri dello jus publicum Europaeum, da Francisco de Vitoria ad Alberico Gentili, a Ugo Grozio. "Gli effetti dell'opposizione terra-mare sulla configurazione politica della storia dei popoli", ha precisato Portinaro, "erano infatti sempre stati riconosciuti dai giuristi europei testimoni dei conflitti fra le potenze interessate alla colonizzazione del nuovo mondo." (134)

Il nomos, dunque, nasce dal conflitto tra gli spazi, dalla continua tensione tra terra e mare secondo una dialettica che non nasconde la propria ascendenza hegeliana, ma la rivendica con forza: la citazione in calce a Land und Meer del paragrafo 247 delle Grundlinien der Philosophie des Rechts, relativo proprio alla contrapposizione tra terra e mare, ha quasi il significato di un lascito spirituale. "Lascio al lettore attento" scrive infatti Schmitt "il compito di cogliere nelle mie considerazioni l'inizio di un tentativo di sviluppare questo paragrafo 247, analogamente al modo in cui i paragrafi 243-246 sono stati sviluppati dal marxismo". (135)

Mi guardo bene dal voler raccogliere un così gravoso fardello. Quello che mi interessa, piuttosto, è proporre alcune riflessioni relative alla 'talassopolitica' schmittiana - ed alle dinamiche egemoniche da essa configurate -, (136) che hic et nunc possono essere declinate al più come 'dichiarazioni di intenti' per ulteriori ricerche.

Come si legge nel Nomos der Erde l'Inghilterra, dunque, "divenne il veicolo del mutamento spaziale verso un nuovo nomos della terra e persino - potenzialmente - il campo in cui si sarebbe verificato il balzo successivo nella totale perdita di luogo della tecnica moderna." (137) Nel momento in cui si era affermato l'ordo Britannicus, si era prodotto un ordine de-spazializzato, dirompente nella sua radicale opposizione a qualsiasi archetipo precedente. Né poteva essere diversamente: l'Inghilterra non aveva conosciuto quella forma-Stato che si era invece imposta sul continente europeo: "conquistò il mondo con la sua navigazione" si legge in Der Leviathan "e non ebbe bisogno della monarchia assoluta, né di un esercito stanziale, né di una burocrazia statale, né di un sistema giuridico da Stato di 'leggi'." (138) L'Inghilterra rimaneva profondamente ostile all'idea stessa di sovranità, così come si è affermata al di qua della Manica. E' vero che con gli Stuart si era tentato di importare il modello continentale, ma questa progetto 'tellurico' fu respinto dalle "forze del mare e del commercio, più potenti e più conformi alla nazione inglese." (139) Alla radice dell'ordo britannicus vi era dunque un conflitto, ancor più devastante in quanto conflitto civile. Ma nel momento in cui l'Inghilterra proiettava la sua potenza sugli oceani, la contrapposizione tra terra e mare era stata ormai metabolizzata. La nazione inglese aveva deciso: la sua vocazione era marittima.

Per altro, riprendendo un tema caro a tanta storiografia d'Oltremanica, Schmitt scorge dietro l'espansionismo 'talassocratico' dell'Inghilterra la pressione di forze non-statali: era la society, intesa come l'insieme delle forze sociali ed economiche, e non lo Stato, il vettore di questa dinamica egemonica. Nessuna sorpresa che, rispetto ai grandiosi progetti di ingegneria istituzionale circolanti tra le Corti dell'Europa continentale, il modello coloniale inglese appaia singolarmente elementare. Si trattava di un ordine giuridico basato su un sistema di governo indiretto, quell'indirect rule che avrebbe trovato in India la sua definitiva consacrazione, rivelatore della tradizionale avversione inglese verso modelli istituzionali più strutturati ed organizzati.

Ne consegue che il trionfo dell'Inghilterra, ha suggerito ancora Schmitt, è coinciso con il trionfo dell'U-topia, intesa come negazione di ogni localizzazione, di qualsiasi determinazione spaziale. E nella prospettiva schmittiana, tale negazione non comportava alcuna 'fine della storia', ma solo una discesa nel nichilismo più radicale. Esplicitando la correlazione tra nichilismo e U-topia Schmitt scrive infatti che: "solo una definitiva e radicale separazione tra ordinamento e localizzazione nello spazio [...] può essere detta nichilismo in un senso storico specifico." (140)

D'altra parte, se gli spazi marittimi venivano assoggettati ad un apparato di regole privo di qualsiasi relazione spaziale, tale ordine de-localizzato si saldava su un articolato sistema normativo frutto della consuetudine e della lex mercatoria. Un ordine 'de-statualizzato', dunque, si incardinava su di un sistema normativo che fin dalla sua origine sfuggiva alla normazione statuale. Si trattava, infatti, di un ordinamento che nasceva dalla prassi dei mercanti, dalle convenzioni sorte spontaneamente tra gli operatori commerciali che i tecnici del diritto avevano saputo affinare.

Abbandonando ogni aspirazione formalistica occorre riflettere, suggerisce Schmitt, sul fatto che "il diritto internazionale interstatale dello jus publicum Europaeum è soltanto una delle molte possibilità del diritto internazionale presenti nella storia del diritto". (141) E' così che accanto al diritto interstatale, altri sistemi di norme si sono succeduti nel regolare i rapporti tra le comunità: il diritto intertribale, quello intermunicipale, il Grossraumrecht. Ma soprattutto, nell'Età moderna, accanto al diritto delle gentes si sono generati sistemi di regole che, per così dire, trascendono le entità statali.

Il sistema normativo internazionale in Schmitt si dissolve in una pluralità di ordinamenti tra loro concorrenti: accanto al diritto internazionale pubblico, frutto della prassi delle cancellerie e delle opiniones dei giuristi germinano altri ordinamenti, altri sistemi di norme basati se non su una cultura giuridica condivisa, per lo meno su una coscienza comune. E' così che tra le maglie del diritto inter-statale, si è venuto affermando un "diritto economico comune". Si tratta, dice ancora Schmitt, del diritto del libero commercio e della libera economia, che, sotto la pressione dei mercati, non ha tardato a saldarsi con il principio della libertà dei mari. (142)

E' qui appena possibile richiamare il fatto che questa saldatura si sia attuata in una cornice ideologica tutt'altro che neutra. E certo, proprio a partire dalle premesse poste da Schmitt, sarebbe interessante esaminare in una dimensione giusfilosofica e storico-giuridica quale sia stata l'influenza del mercantilismo prima, e del liberalismo poi, nel costruire un diritto 'liquido', non-statale. (143)

Ma, 'prendendo sul serio' le tesi di Schmitt, vale almeno la pena soffermarsi sull'influenza che le compagnie commerciali - a partire dal Seicento le grandi protagoniste dei traffici mercantili oceanici - hanno esercitato sulle politiche navali e coloniali dell'Europa moderna. Attori di primo piano nel sistema internazionale fin dall'epoca pre-vestfaliana, queste vere e proprie joint-stock companies si segnalavano per la loro eccentrica morfologia, per uno status giuridico ibrido, ambiguamente sospeso tra diritto civile, lex mercatoria e diritto pubblico internazionale. (144) Come ha osservato Janice Thomson che, sulla scorta di Charles Tilly, Fernand Braudel ed Immanuel Wallerstein, ha ricostruito con dovizia di particolari il ruolo delle compagnie commerciali nell'evoluzione delle relazioni internazionali, "with these curious institutions all analytical distinctions - between the economic and the political, non-state and state, property rights and sovereignty, the public and the private - broke down". (145) E, dunque, si può ritenere, con Schmitt, che proprio in virtù di questa particolare fisionomia in grado di eludere qualsiasi categorizzazione, questi soggetti fossero i 'naturali' vettori di quel nichilismo storico teorizzato in Nomos der Erde.

Nel gioco delle dicotomie schmittiane, terra e mare, sovranità ed anarchia, diritto statale e diritto 'comune', se ne può dunque aggiungere un'altra: quella tra soggetti statali e soggetti non-statali. Forse Thomson pecca di scarsa cautela quando ritiene che "mercantile companies were, as a rule, granted full sovereign powers". (146) Ma è innegabile che le compagnie commerciali, se non furono munite di vera e propria sovranità, furono quanto meno dotate di un'ampia facoltà di quella che oggi potremmo definire governance.

La loro attività, infatti, andava ben oltre l'ambito della prassi commerciale. Il loro potenziale militare era considerevole: l'East India Company, a cui la Corona sembrava aver delegato il compito di costruire l'impero, arruolava oltre centomila sepoys nel 1782, per tacere delle milizie europee. Una forza militare impressionante se si pensa che solo un ventennio prima l'Inghilterra, durante la Guerra dei Sette Anni, pur essendo impegnata su numerosi fronti - dal Mediterraneo, all'India, all'Africa ed alle Americhe - aveva faticato a mettere in campo un esercito di analoghe dimensioni. L'olandeseVerenigde Oostindische Compagnie, fondata nel 1602 proclamando a gran voce la propria vocazione esclusivamente commerciale, un decennio dopo devolveva alla fortificazione delle Molucche - le chiavi di accesso dell'Estremo oriente - oltre un terzo del suo considerevole bilancio. (147)

Nessuna sorpresa dunque che ad un potenziale bellico così elevato corrispondesse una notevole autonomia politica: lo statuto della West-Indische Compagnie - la compagnia olandese delle Indie Occidentale -, datato 1621, attribuiva alla Compagnia piena libertà nelle sue relazioni con le popolazioni indigene. La charter della Hudson Bay Company, siamo nel 1670, autorizzava la compagnia a tutelare con le armi le proprie prerogative nei territori del Nord-Ovest canadese. (148) Ma già lo statuto che nel 1661 aveva ridisegnato l'assetto dell'East India Company, aveva espressamente conferito alla Compagnia il potere di muovere guerra ai principi non cristiani, anche in difetto dell'assenso della Corona. (149) Negli anni feroci della prima espansione coloniale anche il discrimine religioso, però, era destinato a venir meno: è vero che nel 1609 la Verenigde Oostindische Compagnie si trovò a ricorrere all'autorevole parere di Grozio per vedere riconosciuta la legittimità della cattura di un galeone portoghese nello Stretto delle Molucche. Ma, in genere, una certa spregiudicatezza pagava: nel 1621 una forza congiunta anglo-persiana, frutto dell'inedita alleanza tra lo Scià e l'East India Company, strappava, dopo una sanguinosa battaglia, lo snodo strategico di Hormuz ai cristianissimi portoghesi. Un trentennio dopo furono gli Olandesi, con il decisivo apporto delle milizie singalesi, a strappare la piazza di Colombo ai portoghesi, infliggendo un colpo decisivo alle ambizioni coloniali di Lisbona.

Ma l'autonomia politica - la sovranità si potrebbe dire - delle compagnie commerciali si manifestava in forme se possibile ancora più esplicite. Come ha sottolineato Thomson, non era raro che, sopiti i clamori delle armi in Europa, nei tropici si continuasse a combattere. Talvolta le compagnie decidevano semplicemente di ignorare gli accordi stipulati dalla madrepatria: le complesse vicende delle Guerre Carnatiche, con cui alla metà del XVIII secolo la East India Company riuscì ad espellere la Francia dal subcontinente indiano, hanno palesato questa costante sovrapposizione di bellum publicum e bellum privatum. Altre volte tali scontri rispondevano alla logica del confronto commerciale, coinvolgendo compagnie rivali. Ed in nome del monopolio commerciale ogni discrimine di bandiera veniva meno: i territori del Manitoba, ad esempio, videro contrapporsi la Hudson Bay Company e la North West Company in un lungo e sanguinoso braccio di ferro, terminato solo nel 1821 con la fusione delle due compagnie commerciali. Poteva perfino verificarsi, qualora gli interessi delle compagnia confliggessero con quelli della madrepatria, che si sfiorasse la guerra civile. Gli Stati Generali d'Olanda, in particolare, faticarono non poco a tenere a freno le spregiudicate manovre politiche delle compagnie olandesi, arrivando più volte a minacciare l'uso della forza. (150)

Oltre ad un impressionante potenziale militare ed a una notevole autonomia politica, le compagnie commerciali avevano una specifica soggettività giuridica, che si traduceva nella capacità di stipulare accordi internazionali, intrattenere negoziati, stabilire rappresentanze diplomatiche. Ma che soprattutto significava una forte autonomia interna, sia sotto il profilo dell'organizzazione amministrativa, sia nell'esercizio di un'assoluta riserva di giurisdizione in materia civile e penale. Si tratta di un aspetto che può forse apparire scontato se ci si riferisce alle compagnie commerciali olandesi, che erano particolarmente autonome dalla madrepatria vuoi in virtù della loro vocazione mercantile, vuoi per la loro fisionomia 'aziendale', vuoi perché l'Olanda non sarebbe comunque stata in grado di esercitare un effettivo controllo politico e militare. Ma certo sorprende che una tale autonomia giuridica fosse riconosciuta alle compagnie inglesi, in genere più sensibili agli interessi politici di Londra, e soprattutto alle loro controparti francesi, in effetti delle vere e proprie imprese di stato. (151)

Nel 1858, all'indomani della rivolta dei sepoys, la Regina Vittoria proclamava ufficialmente che il governo britannico si sarebbe direttamente fatto carico dell'amministrazione dell'India, sostituendo in via definitiva l'East India Company, per altro già indebolita nelle proprie prerogative 'sovrane' dall'India act fermamente voluto da William Pitt. (152) Eppure la presenza di soggetti privati all'interno del sistema politico internazionale, in grado di alterare la tradizionale dimensione statocentrica che si è soliti attribuire al moderno ordinamento post-vestfaliano, rimaneva costante anche nel momento in cui le grandi compagnie mercantili entravano in crisi. Sullo sfondo delle vicende dell'imperialismo europeo tardo-ottocentesco, infatti, è possibile scorgere un brulicare di iniziative private, che pur senza avere la solidità economica e l'autorevolezza politica delle compagnie commerciali del passato, sembravano volerne ricalcare le gesta.

All'indomani del Congresso di Berlino del 1885 si consegnavano alla storia le gesta delle compagnie commerciali che avevano aperto i ricchi mercati dell'Asia, inserendo nel circuito statale territori fino ad allora 'altri'. Eppure non si esitava a riproporre il modello delle mercantile companies nel momento in cui nuovi spazi si aprivano alla penetrazione europea. La schizofrenia di queste politiche coloniali non è sfuggita a Schmitt, il quale osserva lucidamente che "antiche forme di acquisizione di territorio coloniale mediante compagnie private di commercio, praticate nel secolo XVII e quindi per lungo tempo ritenute superate dall'evoluzione statale tornarono ora in vita [...] in numero sorprendente." (153) E' sufficiente citare il nome di Cecil Rhodes che a capo della British South Africa Company munita nel 1889 di una propria Royal Charter, conquistò il cuore dell'Africa australe, regalando alla Corona l'immenso territorio della Rhodesia. Ancora nel 1897 la Royal Niger Company si spinse verso l'Africa sub-sahariana invadendo gli emirati musulmani dell'Alto Niger ed impegnandosi in una dura campagna militare: nonostante alcuni successi iniziali, le operazioni militari terminarono infatti solo nel 1903.

D'altra parte questa reviviscenza delle compagnie mercantili non riguardò solo l'Africa dell'ultimo colonialismo. Nell'America centrale, ad esempio, la mano di Washington era forse meno pesante e gli attori meno agguerriti. Ma è certo che ancora nel primo decennio del secolo scorso i grandi cartelli della frutta non esitavano a sfidarsi organizzando milizie armate e coinvolgendo nei loro scontri le fragili democrazie locali, fino a rendere necessario l'intervento stabilizzatore di Washington.

Il confronto tra terra e mare, così com'è ricostruito da Schmitt, rimane dunque un paradigma importante, e tutt'altro che datato, per comprendere la modernità. All'ordine tellurico dello Stato che nell'Europa continentale andava costruendo la propria identità, si affiancava dunque il nomos degli oceani. Ed è significativo che il diritto 'liquido' del mare sia sgorgato dalla stretta interazione tra fattori ben determinati: in primo luogo un ordine normativo 'spontaneo' che ha avuto il proprio archetipo nella common law e nella lex mercatoria. In secondo luogo ordine politico de-statualizzato, causa ed effetto al tempo stesso della suzerainty e dell'indirect rule con cui Londra ha governato il suo immenso impero. Infine il diritto 'liquido' dei mari era il prodotto di un sistema di relazioni internazionali fortemente 'privatizzato', come dimostrano le vicende dei privateers prima e delle mercantile companies poi.

Era un'alchimia delicata, generata della sintesi di elementi tanto dissimili, che poteva realizzarsi solo nel momento in cui l'equilibrio di potenza sussistente nel continente europeo lasciava libero sfogo alla Machtpolitiknegli spazi oceanici. (154) Ed in questa forte polarizzazione si misurava la distanza tra due modelli giuridici, due 'geofilosofie' - l'una tellurica, l'altra oceanica - in irriducibile contrapposizione.

Forse ci si può spingere oltre, andando al di là di quella che comunque rimane un'affascinate archeologia dell'ordinamento internazionale. Secondo quanto suggerisce Portinaro, è infatti possibile individuare nell'analisi di Schmitt quali sono le cause della crisi della sovranità statale, minacciata all'esterno dal diritto internazionale economico ed erosa, al suo interno, dall'affermarsi della società civile pluralistica. "Nell'un caso come nell'altro" infatti "il motivo dominante dell'argomentazione schmittiana è lo stesso: è la società civile, la sfera economica, il regno del privato, a portare con sé la minaccia di dissoluzione di un ordine globale che coincide con lo Stato o con il sistema di Stati." (155)

Rileggendo le vicende del moderno sistema interstatuale, dunque, la teoria schmittiana mantiene una straordinaria freschezza ed un'insuperata capacità di scandagliare le interazioni tra archetipi politici, modelli giuridici e sistemi economici. Senza per questo voler cadere in pericolosi anacronismi, certo è che risulta difficile resistere alla tentazione di cogliere nel nomos degli spazi oceanici una prefigurazione - Schmitt lo avverte perfettamente anche se forse non lo esplicita pienamente - dell'immagine odierna della global law: ovvero di un ordinamento fortemente 'destrutturato', prodotto dai mercati e dalle prassi degli operatori giuridici, molto più che dalla legislazione statale. In tal senso la riflessione schmittiana può essere un importante punto di partenza per ripensare il legame tra global law e l'ordine nato dal disfacimento dello jus publicum Europaeum. Un ordine in cui l'equilibrio tra terra e mare appare definitivamente compromesso e le acque sembrano sommergere una volta per tutta la justissima tellus.

Translatio imperii

Tenendo sullo sfondo la suggestiva immagine di un diritto globale epigono del diritto dei mari, occorre soffermarsi sul fatto che, se l'Ottocento si chiudeva all'ombra della Pax Britannica, il Novecento sin dall'inizio palesava la propria vocazione a divenire The American Century.

Il diciannovesimo secolo, che si era aperto con la vittoria di Trafalgar, non aveva mai contestato all'Inghilterra, al vertice di un impero disperso in tutto il globo, il titolo di 'regina dei mari'. "Of Europe, not in Europe", (156) nelle parole di Schmitt l'isola di San Giorgio, ormai "deterrestrizzata", era una nave in procinto di prendere il largo verso le immensità degli oceani. (157) Ma i campi di battaglia della prima Guerra Mondiale, conflitto 'tellurico' par excellence, furono un brusco risveglio per un'Inghilterra infatuata del proprio ambiguo isolazionismo ed inebriata dalla propria vocazione marittima.

Non è certo il caso di passare qui in rassegna le cause della decadenza dell'Impero britannico, né tanto meno di tracciare analiticamente il percorso che ha portato gli Stati Uniti ad abbracciare una visione 'oceanica', abbandonando quella prospettiva telluricache, nel corso dell'Ottocento, aveva spinto sempre più ad Ovest i confini della giovane repubblica nordamericana. Piuttosto è opportuno segnalare, sulla scorta delle osservazioni di Schmitt, che nel momento in cui i politici di Washington volgevano lo sguardo verso le distese marine, si trovarono clamorosamente privi del logos e della tekne necessari per gestire questi spazi. La dottrina Monroe, con cui Washington fin dal 1823 aveva tentato di porre l'America intera sotto la propria tutela, aveva adottato una prospettiva 'continentale', difensiva, rappresentando "di fronte alle potenze della vecchia Europa la protesta contro ogni ulteriore occupazione del suolo americano." (158) Al contempo, la dottrina Monroe aveva prudentemente lasciato impregiudicata la questione degli spazi marini, riconoscendo in maniera implicita il principio tradizionale della freedom of the seas. Ma soprattutto la giovane repubblica statunitense, pur dimostrando una notevole aggressività - già nel 1801 la marina statunitense era stata impegnata nel Mediterraneo contro i pirati barbareschi -, non aveva né un adeguato potere navale, né una visione strategica in grado di sfidare la talassocrazia britannica. Ma quando, nell'ultimo decennio dell'Ottocento, gli Stati Uniti acquisirono piena coscienza del proprio ruolo internazionale, divenne impellente dotarsi di una efficace visione spaziale e di una dottrina altrettanto adeguata del potere navale.

La questione 'tecnica' trovò una precoce soluzione grazie ad Alfred Thayer Mahan, "the evangelist of sea-power". (159) Con il progressivo sfaldarsi della supremazia della Royal Navy, già percepibile alla fine dell'Ottocento, la dottrina navale britannica 'classica', basata tanto sul dogma della sacralità del commercio oceanico quanto sull'efficacia delle artiglierie dei vascelli di linea, infatti, aveva trovato un entusiasta sostenitore al di là dell'Atlantico nel contrammiraglio Mahan. Araldo della talassocrazia statunitense e maître a penser della 'geopolitica navalista', (160) Mahan seppe esercitare con il suo The Influence of Sea Power Upon History, 1660-1793 (1890) e con il successivo The Influence of Sea Power Upon the French Revolution and Empire, 1793-1812 (1892) una straordinaria influenza tanto sui circoli politici di Washington che sui corsi di strategia navale del Naval War College di Newport, destinato a precorrere la pratica tutta statunitense dei think-tanks. (161) Del resto, a confinare Mahan all'interno degli studi strategici e geopolitici, si rischia di sottostimarne il ruolo politico e culturale: Mahan fu autore di oltre venti monografie e nel 1902 divenne presidente dell'American Historical Association. Durante la guerra del 1898, come membro dell'influente Naval War Board, era stato consulente del Presidente McKinley, mentre nel 1899 aveva poi preso parte alla Conferenza dell'Aia come advisor della delegazione statunitense. Sotto l'amministrazione Roosevelt, infine, fu chiamato a riorganizzare il Navy Departement.

Sea power: questa era la chiave della supremazia secondo Mahan. La ricetta era perfino banale nella sua semplicità: da un lato una potente flotta mercantile sostenuta dalle bocche da fuoco della marina da guerra, dall'altra un esercizio del potere marittimo diretto a bloccare le rotte commerciali degli avversari, e - per usare un'espressione cara a Mahan - a scacciarne le bandiere dal mare. Il dominio sulle sea-lanes doveva in primo luogo concretizzarsi nel controllo delle vie di accesso alle blue waters - il mare aperto -, da attuarsi, osservava da buon realista Mahan, con ogni strumento, da quelli messi a disposizione dal diritto internazionale a quelli assai meno pacifici della panoplia navale. (162)

In realtà l'importanza del pensiero mahaniano non si misurava nei precetti di strategia navale generosamente elargiti dalla sua prosa non sempre misurata. Si trattava di principi già conosciuti e devotamente praticati dai Lords dell'Ammiragliato per lo meno un secolo prima. Piuttosto rileva la capacità di Mahan di concettualizzare le componenti del potere navale, di fissarne con lucidità i lineamenti fondamentali. Il paragone con Clausewitz è fin troppo facile, anche se l'autore del Vom Kriege non potè godere in vita della fama che invece accompagnò Mahan: la fortuna delle tesi mahaniane, lo si è detto, si misurava nella capacità di offrire al potere politico un insostituibile vademecum per gestire la Seemacht. E Mahan, in modo ancor più radicale di Clausewitz, interpretava la guerra come un fatto esclusivamente politico. (163) La Navy, prima di essere una vitale componente della difesa nazionale, era infatti un duttile strumento di pressione politica. Come ha suggerito Hedley Bull, rileggendo Mahan in un brillante articolo apparso sulle pagine degli Adelphi Papers, il potere navale si presta a numerose 'applicazioni' politiche: "by supporting friends and clients, by coercing enemies, by neutralizing similar activities by other naval powers", perfino "by exerting a more diffuse influence in politically ambiguous situations in which even one's own objectives may be uncertain, o più semplicemente "by advertising one's sea power or 'showing the flag'". (164)

Le tesi di Mahan ebbero l'effetto di una doccia fredda sugli Stati Uniti fino ad allora magnetizzati dalla conquista del Wild West o, al più, orientati a costituire uno spazio politico continentale in conformità alla dottrina Monroe. Anzi, proprio a partire da Mahan questa dottrina si trasformò - ha rilevato Carlo Jean - "nella teoria della difesa emisferica e nella valorizzazione delle possibilità offerte dalla potenza navale americana per l'espansione commerciale degli Stati Uniti." (165)

La 'rivoluzione mahaniana', dunque, non va in alcun modo sottovalutata, segnando il definitivo abbandono della politica 'continentale' praticata fino ad allora dagli Stati Uniti. Nel 1898, poi, il conflitto con la Spagna combattuto essenzialmente sul mare sembrò confermare le tesi mahaniane. Ma a decretare la definitiva fortuna del libro di Mahan fu il Presidente Theodore Roosevelt - gia attento studioso di politica navale -, che fu un entusiastico sostenitore dello sviluppo della Navy statunitense, divenuta, al termine del suo mandato, la seconda marina mondiale per tonnellaggio e numero di navi. (166) Gli scritti di Mahan hanno così segnato il passaggio degli Stati Uniti da un'esistenza terrestre, fondata sull'assioma dell'occupazione di terra, ad una marina. Grazie a questi scritti, cioè, gli Stati Uniti presero coscienza della propria vocazione marittima iscritta nei geni della Kultur anglo-sassone - e Mahan sarà un grande fautore dell'asse Londra-Washington - e concepirono il mare come la dimensione privilegiata attraverso cui proiettare globalmente la propria potenza.

L'atteggiamento di Schmitt è tutt'altro che univoco: in Land und Meer non ha mancato di confrontarsi con la dottrina mahaniana, ben conosciuta in Germania anche al di fuori degli ambienti della Kriegsmarine, mentre nel più tardo Nomos der Erde tale riferimento è, al più, implicito. Di Mahan, Schmitt ha elogiato la lucida caratterizzazione della Seemacht anglosassone, nonché la robustezza della sua visione geopolitica. Eppure, osserva Schmitt, l'ammiraglio statunitense "non vedeva che il sovvertimento prodotto dall'industria andava a toccare proprio il punto essenziale, ossia il rapporto elementare dell'uomo con il mare." (167) Si è trattato di un giudizio senza dubbio frettoloso: le pagine che Schmitt ha dedicato a quella che ha definito l'Età del fuoco, l'imminente epoca del trionfo della macchina sull'uomo, sono tra le più suggestive di Land und Meer, se non altro per il loro vigore epico, ma con tutta probabilità non sono tra le più felici. (168)

"La rivoluzione industriale", ha osservato Schmitt, "trasformò i figli del mare nati direttamente dall'elemento marino in costruttori di macchine e manovratori di macchine." (169) Si può replicare che la tecnica ha forse sovvertito il rapporto - per dirla ancora con Schmitt - tra il pesce-balena ed il pescatore armato di arpione. Certo, non ha alterato l'immagine del mare come luogo dove la politica di potenza può liberamente esprimersi, manifestarsi in una pluralità di forme fino a divenire essa stessa Ordnung. Ma già nel Nomos der Erde la critica alle tesi mahaniane è sopita. Anzi, proprio dal mare, o meglio dall'occupazione del mare, veniva fatto emergere il nuovo ordo che decretava il tracollo definitivo dello jus publicum Europaeum.

Era un ordo consacrato dall'ennesima 'linea globale' tracciata a poco più di un mese dallo scoppio dell'ultimo conflitto mondiale: il 3 ottobre 1939, alla conferenza panamericana convocata a Panama sotto gli auspici di un altro Roosevelt, Franklyn Delano, venne disposta a salvaguardia dalle operazioni belliche in atto la neutralizzazione delle acque del c.d. Western Hemisphere, predisponendo una safety belt passante a trecento miglia dalle coste americane. In sostanza, Roosevelt aveva proposto una proiezione delle acque territoriali ben oltre i limiti sanciti dalla consuetudine e dai trattati internazionali. (170)

Era una linea globale che, fondata su di una Seenahme, ancora una volta finiva per assumere un valore ulteriore a quello meramente spaziale, replicando le coppie dicotomiche anomia/conflitto da una parte, diritto/pace dall'altra. Allo stesso tempo, però, la linea tracciata a Panama aveva una portata assolutamente innovativa: se le rayas avevano avuto una valenza distributiva e le amity lines erano invece legate ad una dimensione agonale, la safety belt voluta da Roosevelt era invece la 'linea dell'autoisolamento'. (171) Come ha osservato con lucidità Schmitt "la linea globale che viene tracciata qui è dunque una sorta di linea di quarantena, di cordone sanitario che divide una regione contaminata da una sana." (172) Ma soprattutto, ha suggerito ancora Schmitt, era una partizione che poggiava su salde basi ideologiche: quelle dell'irriducibile unicità degli Stati Uniti come luogo della giustizia e della pace. Si tratta di una sorta di 'religione civile', che ha le sue radici nel senso di predestinazione proprio del calvinismo professato dai Padri Pellegrini. Un sentimento rinnovato e rinvigorito dalle aspettative dei milioni di europei che, in fuga dal Vecchio Continente, approdarono negli Stati Uniti "per iniziarvi una nuova vita in condizioni verginali". (173)

Nel soppesare questo passo, in cui viene scandagliata la peculiare matrice religiosa dell'esperienza giuridica e politica statunitense, è appena il caso di segnalare il debito che Schmitt mostra di avere con la teoria weberiana. Piuttosto, occorre rilevare come alla luce della filosofia della storia schmittiana, la Dichiarazione di Panama è stata solo l'ultima tappa di un percorso attraverso cui gli Stati Uniti hanno progressivamente preso coscienza della questione spaziale. Si è trattato di un lungo processo che con una certa approssimazione può essere articolato in tre fasi: la prima è stata segnata dall'isolazionismo imposto dalla dottrina Monroe. La seconda è stata invece improntata all'interventismo wilsoniano. Infine, la terza fase è stata caratterizzata dalla formalizzazione della nozione di Western Hemisphere.

Quella vocazione alla specificità che la Conferenza di Panama aveva definitivamente consacrato, in realtà, aveva già avuto importanti testimonianze: George Washington, nella sua lettera di commiato dalla Presidenza dell'Unione aveva messo in guardia i cittadini statunitensi dal farsi coinvolgere nella trama delle politiche del Vecchio Continente. (174) Ma già Alexander Hamilton, nei suoi celebrati Federalists Papers, non aveva esitato ad opporre America ed Europa, Nuovo e Vecchio Mondo, concludendo il suo undicesimo Paper, datato 24 novembre 1787 ed emblematicamente intitolato The Utility of the Union in Respect to Commercial Relations and a Navy, con un accorato appello: "Let the thirteen States, bound together in a strict and indissoluble Union, concur in erecting one great American system, superior to the control of all transatlantic force or influence, and able to dictate the terms of the connection between the old and the new world!". (175)

Alcuni decenni più tardi, Thomas Jefferson non sarebbe stato meno radicale nel momento in cui preconizzava: "Non è lontano il giorno in cui noi esigeremo formalmente che nell'oceano vi sia un meridiano che separi i due emisferi, al di qua del quale nessun europeo potrà mai sparare un colpo, così come nessun Americano potrà farlo al di là si esso." (176)

Ma è solo con il Presidente James Monroe che la separazione del continente americano assumeva una precisa formalizzazione sul piano giuridico-politico. Nel messaggio presidenziale al Congresso del 2 dicembre 1823, ne erano delineati i punti salienti: in prima battuta si rivendicava l'esistenza di uno spazio politico, l'emisfero occidentale, libero ed indipendente da ogni influenza europea. Fin qui nulla di nuovo rispetto a quello che era un opinione diffusa nei circoli politici di Washington. Ma Monroe andava ben oltre, riservando agli Stati Uniti il diritto/dovere di tutelare la libertà esistente nelle Americhe dalle intromissioni europee. E lo faceva invocando il principio più sacrosanto dello jus publicum Europaeum, il diritto all'autodifesa. Preoccupato delle potenziali ingerenze del Vecchio Continente, il quinto Presidente degli Stati Uniti sottolineava infatti che "we should consider any attempt on their part to extend their system to any portion of this hemisphere as dangerous to our peace and safety". (177)

E' forse eccessivo parlare di entusiastica ammirazione da parte di Schmitt nei confronti della Monroe Doctrine, ma certo tale dottrina ha un peso decisivo nella determinazione del concetto di Grossraum. "La dottrina americana di Monroe", ha riconosciuto Schmitt, "costituisce nella recente storia del diritto delle genti il primo e finora più fortunato esempio di un principio spaziale dell'ordinamento internazionale." (178) La dichiarazione del presidente Monroe fondava un 'grande spazio' impermeabile all'esterno, ma sottoposto al suo interno ad un diritto di intervento limitato da parte degli Stati Uniti. E questo in assoluta conformità al 'principio costituzionale' di ogni Grossraum, per cui la potenza egemone - ha puntualizzato Cumin - "veille à l'intégrité et à l'indépendance des États sur la base de leur homogénéité politique". (179)

Si può sostenere che nell'infatuazione per i precoci successi della politica estera statunitense, Schmitt abbia sottovalutato un fatto essenziale: ovvero che la dottrina Monroe più che una dichiarazione di orgoglioso isolazionismo, sia stata il frutto di delicate negoziazioni con la Gran Bretagna. In tal senso il Grossraum statunitense non sarebbe altro che uno dei contrappesi che regolavano quella balance of power, accuratamente ricercata dalle Cancellerie europee. In effetti, come ha lucidamente sottolineato Walter Russell Mead, al termine delle guerre napoleoniche, la situazione nell'America Latina era, per usare un eufemismo, fluida. Nessuna sorpresa che un tale contesto politico favorisse gli appetiti di vecchi e nuovi legittimismi dinastici. Era, questa, una prospettiva del tutto inaccettabile per la giovane repubblica statunitense, che mancava però di strumenti politici e militari in grado di impedire nuove iniziative coloniali. D'altra parte Londra, tesa alla salvaguardia delle proprie rotte, aveva tutto l'interesse a non ripetere gli errori della guerra del 1812, in cui si era disastrosamente trovata isolata a combattere su due fronti, quello europeo e quello americano. E con buona dose di realismo preferiva ad ogni altra possibile opzione uno spazio 'neutralizzato', ma di fatto sottoposto alla tutela degli Stati Uniti gravitanti pur sempre nell'orbita inglese. (180)

Al di là della valenza più o meno centripeta della dottrina Monroe, ciò che nella prima metà del diciannovesimo secolo appariva una virtuosa dichiarazione di principio, nella metà successiva sarebbe divenuto il cardine di un'aggressiva power politics. (181) Fu la stessa Gran Bretagna a farne più volte le spese: nel 1895, ad esempio, l'amministrazione Cleveland non aveva esitato a minacciare l'uso della forza schierandosi a fianco della Repubblica Venezuelana nella controversia che l'opponeva a Londra sull'esatta determinazione del confine con la Guyana Britannica. L'intervento statunitense - a Washington c'era già chi parlava di marciare su Ottawa - fu decisivo nel far accettare a Londra un arbitrato internazionale sulla disputa, che altro non era se non quanto Caracas aveva richiesto fin dal 1877. Nel 1901, poi, Theodore Rossevelt, portando a termine un progetto elaborato già nel 1881 da un convinto sostenitore del panamericanismo quale James Blaine - Segretario di Stato durante la presidenza di James Garfield -, aveva vittoriosamente imposto alla Gran Bretagna l'esclusivo controllo statunitense su quello che di lì a pochi anni sarebbe divenuto uno degli snodi strategici delle comunicazioni marittime internazionali: il progettato taglio dell'istmo di Panama. (182)

Accantonando la questione dell'effettiva portata della dottrina Monroe - tra l'altro non vi era alcuna intenzione di mettere in discussione gli assetti coloniali sussistenti, né si diceva nulla in merito alle relazioni tra le due sponde del Pacifico -, quello che davvero rilevava sul piano 'geo-giuridico' era il superamento del concetto di sovranità statale. Si era formato, secondo quanto suggerisce Schmitt, "uno spazio che va largamente oltre il territorio statale, un grande spazio nel senso giuridico-internazionale del termine." (183) La dottrina Monroe alludeva dunque al concetto Grossraum, ad un sistema di sovranità sovrapposte, ad un 'ordine plurale' formato da differenti nazionalità - omogenee sotto il profilo politico - organizzate in funzione di un Ordnungsprinzip rappresentato, appunto, dall'egemonia statunitense.

Ma, a partire dagli inizi del secolo scorso, ha osservato Schmitt, quella che era una "netta consapevolezza politico-spaziale", dotata "di una reale capacità ordinativa, nella forma dell'autoisolamento del continente americano rispetto al vecchio mondo", subì una drastica metamorfosi. (184) Gli Stati Uniti, a partire da Theodore Roosevelt adottarono una politica esplicitamente imperialista. Si trattava di un imperialismo, però, che non si accontentava di riprodurre quelle politiche coloniali così ben consolidate nelle prassi delle potenze del Concerto. Al contrario, non esitava a cercare nuove strade, ad assumere nuove morfologie.

La questione è complessa e non è qui il caso di tentare una ricostruzione analitica della polemica anti-americana sostenuta con vigore da Schmitt. Tanto più che il percorso schmittiano è estremamente frastagliato e, soprattutto nei testi anteriori alla fine dell'ultima Guerra Mondiale, tutt'altro che scevro di inflessioni ideologiche. Vale però la pena rilevare come anche l'ascesa degli Stati Uniti al rango di global power, sia ricondotta da Schmitt all'eterna dialettica tra terra e mare. Secondo i parametri della filosofia della storia schmittiana, infatti, la potenza statunitense che agli albori del secolo scorso si stava affacciando sulla ribalta internazionale, portava su di sé le stigmate del Leviatano, i segni indelebili dell'ordine 'liquido' dei mari. Il primato dell'economia sulla politica, la potestas indiretta eletta ad archetipo egemonico, una 'deterritoralizzazione' degli spazi cui corrisponde un universalismo giuridico e politico, questi erano per Schmitt i tratti fondamentali dell'imperium statunitense.

Il primato dell'economia era riassunto da Schmitt nella massima "commercio quanto più possibile e politica quanto meno possibile." (185) Si trattava di un assioma che trascendeva la dimensione propriamente economico-capitalistica. Piuttosto, il primato dell'economia alludeva ad una concezione 'acquea' degli spazi giuridici e politici, percepibile tanto nella riluttanza degli Stati Uniti a 'costituzionalizzare' il diritto internazionale, quanto nella loro propensione a considerare l'ordinamento giuridico internazionale non come Völkerrecht politico, ma come internationales Recht economico. Questa concezione 'liquida', infine, era ravvisabile nell'evanescente presenza statunitense nei consessi internazionali, la Società delle Nazioni in primo luogo, a cui corrispondeva però l'esercizio di forme pervasive di indirect rule. (186)

La vicenda è fin troppo nota: nonostante che il Presidente Wilson fosse stato il grande promotore del consesso ginevrino, gli Stati Uniti non avevano aderito alla League of Nations, rifiutando perfino di prendere parte alla Corte Permanente di Giustizia. Ufficialmente Washington si teneva distante da Ginevra, ma tale assenza, come Schmitt non manca di far rilevare, celava una presenza forte, invasiva. Alla Società delle Nazioni avevano aderito Stati, in realtà, dotati di una sovranità molto limitata: Cuba, Haiti, Santo Domingo, Panama e Nicaragua. Satelliti di un sistema economico e politico fortemente accentrato, queste giovani e gracili Repubbliche gravitavano nel Grossraum statunitense instaurato dalla dottrina Monroe. (187)

Si trattava di una dipendenza sanzionata da trattati bilaterali, quali quello tra Stati Uniti e Cuba del 22 maggio 1903, o quello tra Stati Uniti e Panama del 18 novembre 1903 che imponevano riduzioni davvero drastiche delle prerogative sovrane degli Stati centroamericani. L'accordo tra Washington e L'Havana, ad esempio, recependo in toto il c.d. Emendamento Platt - fortemente voluto dal Secretary of War Elihu Root ed approvato dal Congresso il 2 marzo 1901 - all'art. 3 statuiva:

That the government of Cuba consents that the United States may exercise the right to intervene for the preservation of Cuban independence, the maintenance of a government adequate for the protection of life, property, and individual liberty, and for discharging the obligations with respect to Cuba imposed by the treaty of Paris on the United States, now to be assumed and undertaken by the government of Cuba. (188)

La sovranità, dunque, era ridotta ad un guscio vuoto, ad una mera categoria formale. Secondo questo modello egemonico lo Stato 'dominante' manteneva uno ius interventionis che salvaguardava l'integrità territoriale del satellite, ma al contempo privava la sovranità di ogni significato giuridico e politico. Si tutelavano i confini fisici, "non già il contenuto sociale ed economico della stessa integrità, ovvero la sua sostanza." (189) D'altra parte, sottolineava non senza una punta di malizia Schmitt, il diritto di intervento esercitato dall'hegemonic power era inglobato nell'ordinamento internazionale tramite accordi e convenzioni "in modo tale che risulta possibile affermare che da un punto di vista puramente giuridico non si è più in presenza di un intervento." (190)

Il fatto che a Ginevra sedessero accanto agli Stati muniti del crisma della piena sovranità, soggetti politici inglobati nel Grossraum statunitense, permetteva dunque a Washington, già pienamente in grado di esercitare dall'esterno un influenza 'diretta', di giovarsi di un'analoga influenza, ancorché 'indiretta', dall'interno della Società. (191)

"Of Europe, not in Europe" si diceva dell'Inghilterra ottocentesca. Era una lezione che evidentemente aveva trovato allievi scrupolosi nel Dipartimento di Stato. L'"isola maggiore", prima ancora di esercitare questa sorta di fluida indirect rule sulla Società delle Nazioni, aveva infatti avuto cura che le fosse garantito uno spazio refrattario ad ogni ingerenza esterna. In tal senso la dottrina Monroe aveva trovato espresso riconoscimento nell'art. 21 dello statuto dell'organizzazione ginevrina, ricorrendo all'espediente dell'entente règionale. L'art. 21 del Covenant statuiva infatti che "nothing in this Covenant shall be deemed to affect the validity of international engagements, such as treaties of arbitration or regional understandings like the Monroe Doctrine, for securing the maintenance of peace". A tutti gli effetti si era trattato del capolavoro della diplomazia wilsoniana: questo articolo avrebbe dovuto incentivare l'adesione statunitense alla Società delle Nazioni. Ma l'esca non fu sufficiente, e tale norma non fece che consacrare la 'specificità' del Western Hemisphere, sottoposto agli special interests di Washington.

A Schmitt non sfugge l'ambiguità 'geo-giuridica' della situazione: al di là dell'Atlantico si era affermato in maniera incontestabile un sistema spaziale autonomo, dotato di uno specifico Ordnungsprinzip - rappresentato dalla potenza statunitense - e munito di un proprio nomos. Al di qua, invece, si era costituita sotto i più alti auspici un'organizzazione internazionale che si era voluta universalistica, ma che proprio sotto questo profilo falliva miseramente, in virtù del rifiuto statunitense a privarsi del Grossraum sanzionato dalla dottrina Monroe. Ma ciò che a Schmitt interessa soprattutto sottolineare lo squilibrio politico e giuridico esistente tra le due sponde dell'Atlantico. Quel balancement che era stato la misura stessa dello jus publicum Europeum era infatti venuto meno: se la Società delle Nazioni era ab origine rispettosa delle prerogative dettate dalla dottrina Monroe, la presenza statunitense nel Palais des Nations era garantita dalle diciotto delegazioni latino-americane che partecipavano ai lavori della Società delle Nazioni. A Ginevra, conclude Schmitt, si era dunque abbandonata l'idea di qualsiasi possibile equilibrio tra gli emisferi, e la diplomazia mondiale si era piegata una volta per tutte dinanzi all'emisfero occidentale. (192)

Le tesi schmittiane delineavano con precisione le tensioni interne all'ordinamento internazionale sancito a Ginevra. Si trattava di un contesto giuridico e politico caratterizzato da vicende quali quella della 'dottrina Stimson', che non sfugge all'impietosa, ma lucida, analisi di Schmitt. Di fronte all'invasione giapponese della Manciuria meridionale, avvenuta nel settembre del 1931, l'amministrazione Hoover, nella persona dell'influente Segretario di Stato Henry Lewis Stimson, notificava alle parti coinvolte nel conflitto una nota diplomatica, datata 7 gennaio 1932, dal tenore quanto meno esplicito: gli Stati Uniti non avrebbero riconosciuto la legittimità

of any situation de facto nor does it intend to recognize any treaty or agreement entered into between those Governments, or agents thereof, which may impair the treaty rights of the United States or its citizens in China, including those which relate to the sovereignty, the independence, or the territorial and administrative integrity of the Republic of China, or to the international policy relative to China, commonly known as the open door policy; and that it does not intend to recognize any situation, treaty or agreement which may be brought about by means contrary to the covenants and obligations of the Pact of Paris of August 27, 1928, to which Treaty both China and Japan, as well as the United States, are parties. (193)

E' appena il caso di indugiare sull'esplicito riferimento agli special interests come fonte di legittimazione dell'intervento statunitense. E certo non vale la pena attardarsi sui motivi fin troppo noti del fallimento dell'iniziativa diplomatica di Stimson. Alla luce della prospettiva adottata da Schmitt, quello che rileva, piuttosto, è l'ambiguità spaziale dell'ordine scaturente dall'Emisfero Occidentale. Durante le complesse iniziative diplomatiche connesse alla proclamazione della Stimson Doctrine, infatti, il Dipartimento di Stato aveva giocato la partita su due tavoli contemporaneamente: da un lato aveva esercitato la sua influenza sulla Società delle Nazioni, che finirono per adottare la dottrina Stimson con la risoluzione dell'11 marzo 1932. (194) Allo stesso tempo, quasi a rimarcare la specificità del Western Hemisphere, Washington aveva condotto una frenetica attività diplomatica all'interno della comunità panamericana. Fu così che la dottrina Stimson venne incorporata nella Inter-American Convention on the Prevention of War, Non-Aggression and Conciliation - altrimenti nota come Patto Saavedra-Lamas - stipulata a Rio de Janeiro il 10 ottobre 1933. (195) Il giudizio di Schmitt è lapidario: con la dottrina Stimson "gli Stati Uniti avanzavano la pretesa di decidere, al di là della distinzione tra emisfero occidentale ed emisfero orientale, sulla liceità o illiceità di ogni mutamento territoriale in tutta la terra". (196)

Erano così poste le basi per il nuovo nomos dell'"isola maggiore": un nomos esplicitamente 'oceanico' nella sua tensione universalistica.

I segni della prevalenza della dimensione 'liquida' non mancano: il diritto di intervento elevato a principio fondamentale del diritto internazionale, la dottrina degli special interests assunta a discriminante giuridica. Ed è un ordine politico e giuridico che non tarderà a sommergere l'antico ordo tellurico, leso nel suo principio fondante, la sovranità territoriale.

Ma c'è di più. Quel "diritto economico", che era emerso all'epoca delle grandi compagnie commerciali, trovava nuova linfa, nuove occasioni di affermazione in questo contesto ambiguamente sospeso tra universalismo ed isolazionismo. Se è vero infatti che la separazione tra economia e politica, cardine della strategia statunitense, finiva per ingenerare un "metodo indiretto di influenza politica", ed un progressivo superamento dei "confini politici territoriali", questo processo era intimamente connesso all'assunzione del free trade e del libero mercato come "standard costituzionali del diritto internazionale". (197) E dunque il diritto economico, investito di un'alta missione civilizzatrice, poteva rivendicare il ruolo di vero Ordnung delle relazioni internazionali, avventandosi con furore iconoclasta sui principi più consolidati dello jus publicum Europaeum.

La riformulazione dell'ordinamento interstatale alla luce del free trade è, per Schmitt, un colpo mortale al diritto 'tellurico' consacrato al dio Termine. E' il confine territoriale la prima vittima di questa rivoluzione geogiuridica. Come ha suggerito Portinaro, infatti, "l'internazionalizzazione dell'economia e la formazione di un mercato mondiale" agli occhi di Schmitt sono "i presupposti strutturali dell'affermazione di un pensiero giuridico universalistico, che tende ad ignorare sistematicamente il problema degli ordinamenti spaziali concreti", mirando alla formazione di uno "Stato di diritto al servizio della società civile mondiale". (198)

Proprio in questo insistente richiamo al concetto di civiltà c'erano tutte le premesse per la nuova linea globale, tracciata nel 1939 a Panama. Si era trattato dell'ultima tappa di un lungo percorso che aveva portato l'"isola maggiore" a dotarsi di una visione spaziale globale. E questo grazie al fatto che gli Stati Uniti, lo si è visto, possedevano oramai gli strumenti 'tecnici' e le categorie concettuali per dominare questa nuova rivoluzione spaziale. Quanto la consapevolezza spaziale raggiunta dall'"isola maggiore" fosse ormai matura, non necessita di ulteriori prove: se la dottrina Monroe non aveva ricompreso le distese marine nel Grossraum statunitense, né Washington aveva inteso successivamente mettere in discussione l'assetto dei mari imposto dalla Gran Bretagna, con la Dichiarazione di Panama non si esitava invece a proporre una nuova Seenahme, eversiva di ogni principio fino ad allora riconosciuto. Ed è una frattura che poggia sul primato morale del Western Hemisphere, sulla sua pretesa di rifondare il sistema etico e normativo internazionale sulle rovine dello jus publicum Europaeum.

In realtà, ha suggerito Schmitt, la dottrina Stimson e la Dichiarazione di Panama non sono altro che due facce della stessa medaglia: è solo apparente la discontinuità concettuale tra una dottrina 'paninterventista' quale quella elaborata dal Segretario di Stato Stimson e le scelte operate dall'Amministrazione Roosevelt, di cui per altro Stimson, pur essendo un convinto repubblicano, fu l'influente Secretary of War. "La linea di autoisolamento - ha osservato con rara lucidità Schmitt - si converte proprio nel suo contrario quando la si vuole ergere a linea di squalificazione e discriminazione del resto del mondo". (199) E nel momento in cui l'autoisolamento si converte in una prospettiva interventistica, l'assunzione da parte degli Stati Uniti di una propria superiorità morale diventa la premessa per la criminalizzazione del nemico. Defintivamente tramontata la guerre en forme che aveva caratterizzato l'Europa vestfaliana, si manifesta una nuova forma di 'guerra giusta', rivolta ad eliminare il criminale piuttosto che a vincere il nemico. E questo rappresenta la definitiva legittimazione della guerra totale. (200)

Crisi della sovranità, prevalenza dell'economia, affermazione dell'universalismo morale e della guerra totale: per Schmitt sono queste le tappe del processo attraverso cui il nomos degli oceani finisce per prevalere sulla justissima tellus.

L'importanza della linea dell'Emisfero Occidentale è inversamente proporzionale alla sua durata: la neutralizzazione degli spazi americani voluta dal presidente Roosevelt ebbe vita breve. Era infatti imminente il coinvolgimento statunitense nel conflitto in atto sul suolo europeo. Gli spazi 'neutralizzati' nel '39 divennero nel '41 il campo su cui si combatteva la decisiva 'Battaglia dell'Atlantico'. Nel maelstrom dell'ultimo conflitto mondiale, la Dichiarazione di Panama rischia dunque di apparire un mero accidente della storia, oggetto dell'erudita attenzione degli storici della diplomazia.

Eppure, accogliendo i suggerimenti di Schmitt sulla relazione tra spazio e diritto, occorre tornare a ripensare questa nuova linea globale. In particolare è opportuno riflettere sul fatto che la linea dell'emisfero occidentale, segnando la definitiva presa di coscienza da parte degli Stati Uniti della propria natura di Global Power - o meglio, di Oceanic Power -, è stata il cardine ed il discrimine di un nuovo ordine giuridico, politico ed etico al tempo stesso. Dopo le rayas e le amity lines, ancora una volta è una linea a segnare l'avvento di un nuovo assetto egemonico. Si tratta di un ordo, per dirla ancora con Schmitt, che sotto molteplici profili trova ragione di sé nel mare. E' infatti il frutto di una logica di potenza - spinta fino al punto di ripartire per lineam gli spazi del globo - che si manifesta secondo modalità e strategie già praticate dalla talassocrazia britannica: adeguandosi ai precetti contenuti nella geopolitica mahaniana, gli Stati Uniti non hanno infatti tardato ad individuare negli spazi marini il luogo privilegiato per esercitare la propria power politics. Emersi dalla Seconda Guerra Mondiale come superpotenza grazie alla propria supremazia navale, o meglio aeronavale, gli Stati Uniti, poi, hanno gelosamente difeso questo primato nei lunghi decenni della Guerra Fredda. Allo stesso tempo, l'ordine del Western Hemisphere dimostra la propria natura talassica nel momento in cui si considera il mare, non solo come uno spazio indistinto, elementare, ma anche come metafora di un ordo universalistico, unpolitisch.

Lo psichiatra James Hillman, nel fortunato A Terrible Love for War, ha suggerito che solo gli archetipi del mito permettono di comprendere l'immane tragedia della guerra: il pensiero logico-scientifico, in sé, è inadeguato a spiegare un fenomeno tanto complesso. (201) Schmitt potrebbe replicare che tale inadeguatezza si estende anche alla comprensione delle dinamiche egemoniche in atto nel sistema internazionale.

Nel momento in cui si accoglie il suggerimento di Schmitt, dunque, si può riconoscere nella lotta elementare tra Leviathan e Behemoth "il conflitto tra potenza dei luoghi e potenza planetaria dell'economia". (202) La dicotomia terra/mare non sembra aver esaurito la sua funzione 'essoterica'. Come suggerisce Maria Rosaria Ferrarese, la mitologia schmittiana è uno strumento prezioso per decodificare quanto avviene sul piano istituzionale all'interno dei processi di globalizzazione. (203) Certo, la prassi delle linee oggi appare desueta, come del resto tale doveva apparire anche ad uno studioso di diritto internazionale prima della Conferenza di Panama. Le pagine di Schmitt, però, ci mettono in guardia da giudizi troppo affrettati: ad un cinquantennio dalla prima pubblicazione di Nomos der Erde, mantengono infatti una straordinaria freschezza, dimostrandosi ancora capaci di cogliere il carattere delle dinamiche egemoniche oggi in fieri e di determinare con esattezza le tensioni cui è sottoposto l'ordinamento internazionale.


Note

*. Il presente saggio è stato pubblicato sui "Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno", XXXIII/XXXIV (2004-2005), pp. 379-462. Ringrazio la redazione dei Quaderni fiorentini e la casa editrice Giuffrè per averne concesso la riproduzione in formato elettronico.
Sono grato a Vincenzo Durante, Patrizia Giunti e Stefano Pietropaoli per aver letto e commentato il mio testo. Bernardo Santalucia, Domenico Siciliano e Francescomaria Tedesco, poi, sono stati prodighi di consigli preziosi. La mia gratitudine va anche agli amici di Jura gentium. Centro di filosofia del diritto internazionale e della politica globale con cui ho potuto discutere alcune delle tematiche affrontate. Infine, un ringraziamento speciale va a Danilo Zolo che è stato un punto di riferimento insostituibile durante le mie ricerche.

1. Come noto, la nozione di Grossraum fu fortemente criticata dalla dottrina giusinternazionalistica nazionalsocialista che la riteneva ambigua e contraddittoria. Si vedano in particolare le osservazioni mosse da Reinhard Höhn e Werner Best: cfr. R. HÖHN, Grossraumordnung und völkisches Rechtsdenken, "Reich-Volksordnung-Lebensraum", 1 (1941), pp. 256-288 e W. BEST, Völkische Grossraumordnung, "Deutsches Recht", 10 (1940), pp. 1006-1007. Ambedue i giuristi erano membri del Sicherheitsdienst (SD), il temibile servizio di sicurezza delle SS: Höhn, tra l'altro, fu il titolare dell'inchiesta che nel 1936 portò all'allontanamento di Schmitt da ogni carica pubblica. Best, più tardi proconsole hitleriano in Danimarca, era il consigliere legale della Gestapo. In merito alle critiche nazionalsocialiste al concetto schmittiano di Grossraum cfr. J. W. BENDERSKY, Carl Schmitt Theorist for the Reich, Princeton University Press, Princeton 1983, trad. it., Carl Schmitt teorico del Reich, il Mulino, Bologna 1989, 303-317. Si vedano anche le puntuali contestualizzazioni storiche proposte da Detlev Vagts in D. F. VAGTS, International Law in the Third Reich, "The American Journal of International Law", 84 (1990), 3, pp. 661-704 e da Peter Stirk in P. STIRK, Carl Schmitt's 'Völkerrechtliche Grossraumordnung', "History of Political Thought", 20 (1999), 2, pp. 357-374.

2. Il testo della conferenza intitolata Kolonialismus in europäischer Sicht, rimasto a lungo inedito per espressa volontà dello stesso Kojève, è stato edito solo di recente in P. TOMMISSEN (hrsg.), Schmittiana, Beitrage zu Leben und Werk Carl Schmitts. Band VI, Duncker & Humblot, Berlin 1998, pp. 126-40, trad. it. parziale Il colonialismo nella prospettiva europea, "Adelphiana", 20 aprile 2003. Schmitt e Kojève intrattennero nella seconda metà degli anni Cinquanta del secolo scorso una significativa corrispondenza epistolare, cfr. Der Briefwechsel Kojève-Schmitt in P. TOMMISSEN (hrsg.), Schmittiana, Beitrage zu Leben und Werk Carl Schmitts. Band VI, cit., pp. 100-124, trad. it. con note preziose di Carlo Altini C. SCHMITT, A. KOJÈVE, Carteggio, "Filosofia politica", 17 (2003), 2, pp. 185-207, in particolare sull'incontro di Düsseldorf pp. 200-206. In merito a tale corrispondenza si veda poi C. ALTINI, Fino alla fine del mondo moderno. La crisi della politica nelle lettere di Carl Schmitt e Alexandre Kojève, "Filosofia politica", 17 (2003), 2, pp. 209-222.

3. Cfr. A. KOJÈVE, Il colonialismo nella prospettiva europea, cit., p. 11.

4. Ivi, p. 20.

5. Cfr. C. SCHMITT, Nehmen / Teilen / Weiden. Ein Versuch, die Grundfragen jeder Sozial- und Wirtschaftsordnung vom NOMOS her richtig zu stellen, "Gemeinschaft und Politik. Zeitschrift für soziale und politische Gestaltung", 1 (1953), 3, pp. 18-27, trad. it. Appropriazione, divisione, produzione. Un tentativo di fissare correttamente i fondamenti di ogni ordinamento economico-sociale, a partire dal 'nomos', in ID., Le categorie del 'politico'. Saggi di teoria politica, il Mulino, Bologna 1972, pp. 295-312. La traduzione italiana è relativa alla riedizione di Nehmen / Teilen / Weiden apparsa in ID.,Verfassungsrechtliche Aufsätze aus den Jahren 1924-1954. Materialien zu einer Verfassungslehre, Berlin, Duncker & Humbolt 1958, pp. 489-504 ed è arricchita da cinque glosse dedicate al termine Nomos. L'ultima di queste propone una breve riflessione proprio sul 'colonialismo datore' di Kojève.

6. Cfr. A. KOJÈVE, Il colonialismo nella prospettiva europea, cit., p. 10.

7. Ivi, p. 13.

8. E' nota la stima reciproca che univa Schmitt e Kojève. Il filosofo russo in un colloquio con Jacob Taubes, suo ospite nel 1967 a Berlino presso la Freie Universität, aveva sostenuto - con scarsa diplomazia - che in Germania "Carl Schmitt è l'unico con cui valga la pena parlare". L'aneddoto è riportato dalo stesso teologo tedesco in in J. TAUBES, Ad Carl Schmitt. Gegenstrebige Fügung, Merve, Berlin 1987, trad. it., In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, Quodlibet, Macerata 1996, p. 35. In merito ai rapporti tra Schmitt e Kojève cfr.ancora una volta C. ALTINI, Fino alla fine del mondo moderno, cit.

9. Il testo della conferenza tenuta all'Ateneo di Madrid è stato poi pubblicato in C. SCHMITT, La Unidad del Mundo, Ateneo, Madrid 1951, trad. it., L'unità del mondo, "Trasgressioni", 1 (1986), 1, pp. 117-128, poi in ID., L'unità del mondo e altri saggi, Pellicani, Roma 1994, pp. 303-320. Si veda anche il più tardo ID., El orden del mundo desués la segunda guerra mundial, "Revista de Estudios Politicos, 122 (1962), 2, pp. 19-36, trad. it., L'ordinamento planetario dopo la seconda guerra mondiale, in ID., L'unità del mondo e altri saggi, cit., pp. 321-344. Se riletto alla luce dei precedenti lavori degli anni Cinquanta e, soprattutto, dell'incontro con Kojève,El orden del mundo desués la segunda guerra mundial risulta davvero prezioso per comprendere gli ultimi sviluppi della teoria internazionalistica schmittiana.

10. C. SCHMITT, L'unità del mondo, in ID., L'unità del mondo e altri saggi, p. 309.

11. Ivi, p. 308.

12. La nozione di Grossraumordnung è stata spesso criticata per la sua 'opacità'. Si può poi sostenere che nei testi degli anni Trenta, Schmitt si ispirasse ad un 'grande spazio' egemonizzato dalla Germania. In tal senso si veda inter alii P. STIRK, Carl Schmitt's 'Völkerrechtliche Grossraumordnung', cit., pp. 357-374. E' altrettanto vero però che questa prospettiva è totalmente assente nei testi successivi alla fine della Seconda Guerra mondiale, mentre rimane l'assoluta originalità dell'idea di Grossraum. Sul punto cfr. P. P. PORTINARO, La crisi dello jus publicum europeum, Comunità, Milano 1982, pp. 188-202. Sul rapporto tra la nozione di Reich e quella di Grossraum, cfr. C. GALLI, Genealogia della politica, il Mulino, Bologna 1996, pp. 867-873. In particolare sulla difficoltà di declinare in senso 'imperiale' il concetto di 'grande spazio' si veda D. ZOLO, Usi contemporanei di impero, "Filosofia politica", 18 (2004), 2, pp. 183-198

13. Cfr. S. P. HUNTINGTON, The Clash of Civilizations?, "Foreign Affairs" 72 (1993), 3, pp. 22-49, poi trasfuso in ID.,The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, Simon & Schuster, New York 1996, trad. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 1997. In merito all'analogia suggerita da Campi cfr. A. CAMPI, Introduzione, in L'unità del mondo e altri saggi, cit., pp. 52-53.

14. Proprio alla luce della rilevanza attribuita all'esperienza del Concerto Europeo, è possibile osservare una significativa contiguità tra Schmitt e Hedley Bull, il massimo teorico della 'società internazionale anarchica'. Cfr. H. BULL H. BULL, The Anarchical Society. A Study of Order in World Politics, Macmillan, London 1977. Per altro, come ha sottolineato Alessandro Colombo, il richiamo a quella che Bull definiva la European International Society è una costante del realismo politico europeo. Cfr. A. COLOMBO, L'Europa e la società internazionale, "Quaderni di scienza politica", 6 (1999), 2, pp. 251-301.

15. Cfr. A. CAMPI, Introduzione, in L'unità del mondo e altri saggi, cit., p. 17.

16. Schmitt in più occasioni ha avuto modo di insistere sulla natura giuridica della dottrina Monroe: questo a partire da C. SCHMITT, Völkerrechtliche Grossraumordnung mit Interventionsverbot für raumfremde Mächte. Ein Beitrag zum Reichsbegriff im Völkerrecht, Deutscher Rechtsverlag, Berlin-Wien-Leipzig 1941, - ma si tratta dell'edizione ampliata di ID., Völkerrechtliche Formen des modernen Imperialismus, "Königsberger Auslandsstudien", 8 (1933), poi in ID., Positionen und Begriffe im Kamps mit Weimar - Genf - Versailles, 1923-1939, Hanseatische Verlagsanstalt, Hamburg 1940, pp. 162-180 - trad. it., Il concetto di Impero nel diritto internazionale, Settimo Sigillo, Roma 1996, in particolare pp. 13-25, fino ad arrivare all'approfondita trattazione contenuta nel celebrato ID., Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus publicum Europaeum, Duncker & Humblot, Berlin 1974, trad. it., Il Nomos della terra, Adelphi, Milano 1991, in particolare pp. 368-387

17. Nell'economia del pensiero politico di Schmitt questa dicotomia è fondamentale. Si veda C. SCHMITT, Der Begriff des Politischen, Duncker & Humblot, München-Leipzig 1932, trad. it., Il concetto di 'politico', in ID., Le categorie del 'politico', il Mulino, Bologna 1972, pp. 87-208. Tra gli studi dedicati a questo delicato snodo della teoria schmittiana si veda P. P. PORTINARO, La crisi dello jus publicum europeaum, Comunità, Milano 1982, in particolare pp. 217-257 e C. GALLI, Genealogia della politica, cit., pp. 733-837, ed ancora G. PRETEROSSI, Carl Schmitt e la tradizione moderna, Laterza, Roma - Bari 1996, pp. 85-107.

18. P. P. PORTINARO, La crisi dello jus publicum europeaum, cit., p. 164.

19. Cfr. C. SCHMITT, Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung, Klett-Cotta, Stuttgart 1954, trad. it., Terra e mare. Una riflessione sulla storia del mondo, Adelphi, Milano 2002, p. 32.

20. Cfr. N. SOMBART, Jugend in Berlin. 1933-1943. Ein Bericht, Fischer, Frankfurt a. M. 1991, p. 255. Il giudizio del sociologo e scrittore Nicolaus Sombart, figlio del celebre economista Werner ed intimo di Schmitt, è riportato in F. VOLPI, Il potere degli elementi, in C. SCHMITT, Terra e mare, cit., p. 135

21. Un altro omaggio a Melville si trova nelle pagine di Ex Captivitate Salus, dove Schmitt, riflettendo sul ruolo svolto nella Germania nazionalsocialista, arriva ad identificarsi nella figura di Benito Cereno, il protagonista di uno dei più celebri - e cupi - racconti usciti dalla penna dello scrittore nordamericano, cfr. C. SCHMITT, Ex Captivitate Salus. Erfahrungen der Zeit 1945/47, Greven Verlag, Köln 1950, trad. it., Ex Captivitate Salus. Esperienze degli anni 1945-47, Adelphi, Milano 1987, p. 78. In merito a tale identificazione cfr. J. W. BENDERSKY, Carl Schmitt teorico del Reich, cit., pp. 305-306.

22. Sul punto cfr. F. VOLPI, Il potere degli elementi, in C. SCHMITT, Terra e mare, cit., pp. 115-149, ed in particolare sull'influsso däubleriano pp. 118-119. Si veda anche C. GALLI, Genealogia della politica, il Mulino, Bologna 1996, pp. 230-234. A Däubler Schmitt dedicò nel 1912 addirittura una monografia: cfr. C. SCHMITT, Theodor Däublers Nordlicht, Duncker & Humblot, Berlin 1991, trad. it., Aurora boreale: tre studi sugli elementi, lo spirito e l'attualità dell'opera di Theodor Däubler, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1995. Ancora su Däubler, si vedano le considerazioni contenute in ID., Ex Captivitate Salus, cit., pp. 47-55.

23. Schmitt fa riferimento a J. MICHELET, La mer, Hachette, Paris 1861 - trad. it. Il mare, Il melangolo, Genova 1992 -, in C. SCHMITT, Terra e mare, cit., pp. 31-32.

24. Cfr. E. VON SALOMON, Die Geächteten, Rowohlt, Berlin 1930, trad. it., I proscritti, Baldini e Castoldi, Milano 1994.

25. Cfr. F. VOLPI, Il potere degli elementi, in C. SCHMITT, Terra e mare, cit., p. 117. In molti, da Julien Freund a Nicolaus Sombart, hanno insistito sul fatto che la 'conversione' di Schmitt agli studi internazionalistici debba essere interpretata come una frattura nel suo percorso intellettuale. Sul punto cfr. A. CAMPI, Introduzione, in C. SCHMITT, L'unità del mondo e altri saggi, cit., pp. 7-13.

26. La carica di membro del Consiglio di Stato prussiano, mantenuta grazie ai buoni uffici di Hermann Goering, era puramente nominale dal momento che tale organo a partire dal 1936 di fatto cessò ogni attività. In relazione alle alterne fortune di Schmitt nella Germania nazionalsocialista, cfr., J. W. BENDERSKY, The Expendable 'Kronjurist': Carl Schmitt and National Socialism, 1933-1936, "Journal of Contemporary History", 14 (1979), 2, pp. 309-328, ed in particolare sulla sua emarginazione politica pp. 321-328 ed più ampiamente ID., Carl Schmitt teorico del Reich, cit., pp. 233-317.

27. Tale Accordo intendeva porre il freno agli attacchi al traffico mercantile, eseguiti durante la Guerra civile spagnola per lo più da battelli battenti bandiera nazionalista e italiana. Cfr. C. SCHMITTDer Begriff der Piraterie, "Völkerbund und Völkerrecht", 4 (1937), pp. 351-354, trad. it., Il concetto di 'pirateria', "La vita italiana", 26 (1937), pp. 189-193, poi in ID., L'unità del mondo e altri saggi, cit., pp., 181-186.

28. Cfr. C. SCHMITT, Totaler Feind, totaler Krieg, totaler Staat, "Völkerbund und Völkerrecht", 4 (1937), pp. 139-145, poi in Positionen und Begriffe, cit., pp. 235-239 e ID., Der Leviathan in der Staatslehre des Thomas Hobbes. Sinn und Fehlschlag eines politischen Symbols, Hanseatische Verlagsanstalt, Hamburg 1938, trad. it. Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes. Senso e fallimento di un simbolo politico, in ID., Scritti su Thomas Hobbes, Giuffrè, Milano 1986, pp. 61-143.

29. Cfr. D. CUMIN, Thalassopolitique. Carl Schmitt et la mer, in H. COUTAU-BÉGARIE (éd.), L'évolution de la pensée navale, ISC, Paris 1999.

30. Si vedano in merito N., Norma e luoghi. Problemi di geo-diritto, Laterza, Roma-Bari 2001, in particolare pp. 39-47.

31. Cfr. il prezioso C. SCHMITT, Cambio de estructura del derecho internacional, Istituto de Estudios Politicos, Madrid 1943, trad. it., Cambio di struttura del diritto internazionale, in ID., L'Unità del mondo e altri saggi, cit., pp. 271-301, ed in particolare p. 271.

32. N. IRTI, Norma e luoghi, cit., p. 35.

33. Cfr. P. P. PORTINARO, La crisi dello jus publicum europeaum, cit., pp. 161-162.

34. Ivi, p. 163.

35. Accanto ai classici Land und Meer e Der Nomos der Erde, la produzione internazionalistica di Schmitt annovera numerosi saggi brevi, articoli, testi di lezioni magistrali e conferenze. Si veda la bibliografia proposta da Alessandro Campi in C. SCHMITT, L'unità del mondo e altri saggi, cit., pp. 67-81, e quella contenuta in D. CUMIN, Thalassopolitique, cit. Più specificatamente in relazione alla contrapposizione tra terra e mare cfr. F. VOLPI, Il potere degli elementi, in C. SCHMITT, Terra e mare, cit., pp. 147-149. Infine, un'accurata ricostruzione della produzione giusinternazionalistica di Schmitt è in P. HAGGENMACHER, L'itinéraire internationaliste de Carl Schmitt, in C. SCHMITT, Le Nomos de la terre, PUF, Paris 2001, pp. 1-37.

36. "She understood not, why hers and other Princes subjects should be barred from the Indies which she could not perswade herselfe the Spaniard had any rightfull title to by the Byshop of Rome's donation, in whom she acknowledged no prerogative, much less authority in such causes that he should bind Princes which owe him no obedience, or infeoffe as it were the Spaniard in that New World and invest him with the possession thereof: nor yet by any other title than that the Spaniards had arrived here and there, built Cottages and given names to a River or a Cape; which things, cannot purchase any proprietie. So as this donation of that which is anothers, which in right is nothing worth, and this imaginary property, cannot let, but that other Princes may trade in those Countries, and without breach of the Law of Nations, transport Colonies thither, where the Spaniards inhabite not, for as much as prescription without possession is little worth." Cfr. W. CAMDEN, The Historie of the Most Renowned and Victorious Princesse Elizabeth, late Queene of England, II, London 1630, p. 116, citato in W. G. GREWE, The Epochs of International Law, de Gruyter, Berlin 2000, p. 246.

37. Per altro il giudizio degli storici sulle imprese lusitane è tutt'altro che univoco: "Dei cabotieri inquieti e paurosi, privi della minima audacia marinara". Questo lo sprezzante giudizio con cui Georg Friederici, bolla la marineria lusitana. Cfr G. FRIEDERICI, Der Charakter der Entdeckung und Eroberung Amerikas durch die Europeer, Bd. I-III, Perthes, Stuttgart - Gotha, 1925-1936, ed in particolare bd. 2, p. 23. Dell'opera di Friederici esiste una edizione meno risalente in lingua castigliana, si veda G. FRIEDERICI, El caracter del descubrimiento y de la conquista de América: introduccion a la historia de la colonizacion de América por los pueblos del Viejo Mundo, voll. I-III, Fondo de Cultura Economica, Mexico 973-1988. Il passo di Friederici, storico ed etnografo di primo piano nella Germania gugliemina e weimariana, è citato, per poi essere subito dopo confutato, da Fernand Braudel in in F. BRAUDEL, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l'époque de Philippe 2, Colin, Paris 1976, trad. it., Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, voll. 1-2, Einaudi, Torino 1986, ed in particolare vol. I, p. 101.

38. Si trattava di due Bolle strettamente collegate: la prima sanciva il dominio temporale della monarchia portoghese sui territori scoperti. La Bolla successiva, invece, aveva ad oggetto la regolazione del profilo giursidizionale e religioso di tale espansione. I testi delle Bullae sono in W. G. GREWE, Fontes historiae iuris gentium, voll. I-III, de Gruyter, Berlin 1992-1995, ed in particolare vol. I, pp. 642-648. Sulle vicende legate al primo espansionismo portoghese in riferimento all'evoluzione dell'ordinamento giuridico internazionale, cfr. ID., The Epochs of International Law, cit., pp. 229-233.

39. Ci si può chiedere se, adottando le categorie schmittiane, non vada ridimensionata la tanto celebrata vocazione talassica delle culture polinesiane e melanesiane. Tra l'altro si può dubitare che tali culture siano giunte ad elaborare la stessa categoria spaziale di 'oceano'. Spostandoci di qualche meridiano, sul piano delle rappresentazioni spaziali è per lo meno significativo che nelle Hawai'i lo 'ohana, il gruppo parentale che costituisce l'unità fondamentale dell'ordinamento giuridico e politico, si identifichi con la 'aina, la terra che dà nutrimento. Escluso dunque ogni riferimento agli spazi marini, anche per una cultura così remota il diritto promana dalla relazione tra la comunità ed il territorio. Si veda in tal senso C. L. CONNERY, Ideologies of Land and Sea: Alfred Thayer Mahan, Carl Schmitt, and the Shaping of Global Myths Elements, "Boundary", 28 (2001), 2, pp. 173-201. Si tratta di un saggio forse troppo ambizioso, ma che offre numerosi spunti di riflessione.

40. Cfr. C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., pp. 19-29. Si vedano anche le considerazioni contenute in ID., Terra e Mare, cit., pp. 25-30.

41. Cfr. C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., p. 22.

42. Ivi, pp. 54-71. Questa accurata esegesi del sostantivo nomos ricorre più volte in Schmitt: si veda ad esempio ID., Terra e Mare, cit., pp. 73-74, ed ancora ID., Appropriazione, divisione, produzione, cit., pp. 297-298. Infine cfr. ID.,Nomos-Nahme-Name, in S. Behn (hrsg.), Der beständige Aufbruch. Festschrift für Erich Przywara S.J., Glock und Lutz-Verlag, Nürnberg 1959, pp. 92-105, trad. it., Nomos - Presa di possesso - Nome, in C. RESTA, Stato mondiale o 'nomos' della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso, Pellicani, Roma 1999, pp. 107-131, in particolare pp. 122-126.

43. Per un primo inquadramento della consecratio cfr. B. SANTALUCIA, Diritto e processo penale nell'antica Roma, Giuffrè, Milano 1989, pp. 4-6.

44. Sull'evoluzione della nozione di spazio politico, dalla polis alla civitas maxima cosmopolitica si veda C. GALLI, Spazi politici, il Mulino, Bologna 2001.

45. Ancora per Giustiniano le mura e le porte della città sono res sanctae. Sul punto si vedano le stimolanti riflessioni contenute in U. VINCENTI, Il fondamento materiale della centuriazione: l'idea romana di 'res', "Agri Centuriati", 1 (2004), pp. 23-29.

46. Cfr. C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., p. 70. Mutuo l'aggettivo 'geo-giuridico' dal sostantivo 'geo-diritto' usato con grande efficacia da Irti in N. IRTI, Norma e luoghi, cit. L'uso del termine geo-juridiques è inoltre attestato da Peter Haggenmacher che, in relazione alla filosofia del diritto schmittiana, riporta anche la definizione di Geojurisprudenz. Cfr. P. HAGGENMACHER, L'itinéraire internationaliste de Carl Schmitt, in C. SCHMITT, Le Nomos de la terre, cit., p. 41.

47. Si vedano in tal senso le puntuali osservazioni di Fabio Armao in F. ARMAO, Confine, in F. ARMAO, V. E. PARSI (a cura di), Società internazionale, Jaca, Milano 1996, pp. 89-91.

48. Cfr. U. VINCENTI, Il fondamento materiale della centuriazione, cit., p. 23.

49. La questione della possibilità per gli Stati dell'età Antica e Classica di esercitare una qualche forma di dominio sugli spazi marini è, per lo meno, controversa. Giova qui richiamare l'attenzione sull'autorevole opinione di Coleman Philippson che, basandosi su una vasta serie di fonti - da Erodoto a Tucidide a Plutarco - ipotizza tra mille cautele che "property in the sea was considered possibile", con particolare riferimento alle lontane vicende della civiltà minoica ed a quelle più documentate dell'Atene periclea. Cfr. C. PHILLIPSON, The International Law and Custom of Ancient Greece and Rome, voll. I-II, Macmillan, London 1911 (rist. Hein, Buffalo - New York 2001), ed in particolare vol. II, p. 376. Occorre però domandarsi se tali fonti, in realtà, più che all'esercizio di un vero e proprio diritto, non facciano piuttosto riferimento ad una situazione di fatto, riflesso ora della talassocrazia cretese, ora di quella ateniese.

50. D. 8, 4, 13pr. (Ulp., VI opin.). Per un inquadramento esegetico del passo ulpianeo cfr. B. SANTALUCIA, I Libri opinionum di Ulpiano, I, Giuffrè, Milano 1971, p. 190. L'anomia delle regioni marittime trova una riprova nel fatto che ancora in una recente monografia relativa all'evoluzione del diritto internazionale nell'Età Antica, l'autore può permettersi tranquillamente di ignorare la questione del regime giuridico dei mari. Cfr. il pur documentatissimo D. BEDERMAN, International Law in Antiquiity, Cambridge University Press, Cambridge 2001.

51. Sulla corretta qualificazione giuridica del mare - nonché sulla sua rilevanza nello ius gentium - le opinioni sono in realtà divise: si pensi solo alla polemica al calor bianco che alla metà del secolo scorso ha opposto due protagonisti della romanistica come Gabrio Lombardi e Giuseppe Branca: cfr.in tal senso G. BRANCA, Le cose extra patrimonium humani iuris, in "Annali triestini di diritto, economia e politica", XII (1941), nonché le severe critiche mossegli da Lombardi in G. LOMBARDI, Ricerche in tema di 'ius gentium', Giuffrè, Milano 1946 in particolare pp. 49-172, ed infine l'ancor più dura replica di Branca in G. BRANCA, Ancora sulle 'res publicae iuris gentium, in F. CARNELUTTI, M. T. ZANZUCCHI, P. CALAMANDREI, A. SEGNI, T. CARNACINI (a cura di), Studi in onore di Enrico Redenti nel quarantesimo anno del suo insegnamento, vol. I, Giuffrè, Milano 1951, pp. 179-194.

52. Cfr. W. G. GREWE, The Epochs of International Law, cit., p. 132. Questo non impedì ai Glossatori di rivendicare a favore dell'Imperatore, "quia dominus omnium est", la iurisdictio sul mare. Sul punto si veda la ricostruzione offerta da Paolo Marchetti in P. MARCHETTI, De iure finium. Diritto e confini tra tardo medioevo ed età moderna, Giuffrè, Milano 2001, pp. 205-209. Ma c'era anche chi preferiva assegnare tale potere al Pontefice, invocando il fatto che la donatio Constantini aveva riservato al Papa le insulae. Sul punto cfr. A. A. CASSI, 'Ius Commune' tra Vecchio e Nuovo Mondo, Giuffrè, Milano 2004, pp. 139-146.

53. D., 14, 2, 9, De lege Rhodia de iactu. Mario Fiorentini ha mostrato come la legislazione romana in tema di tutela delle acque marittime abbia avuto una valenza essenzialmente civilistica. In sostanza tale legislazione si limitava ad una serie di interventi pretorili relativi alla tutela della libertà di navigazione costiera ed alla regolamentazione dello sfruttamento delle risorse ittiche. Le opiniones dei giureconsulti completavano poi il quadro normativo. Questo non ha impedito che proprio a partire da questa composita congerie i Glossatori prima, ed i giuristi del Cinque-Seicento poi, desumessero con operazioni esegetiche spesso spericolate i principi fondamentali dell'ordinamento marittimo. Cfr. M FIORENTINI, Fiumi e mari nell'esperienza giuridica romana, La Sapienza, Roma 1999, in particolare pp. 1-54 e 235-349, e ID., Mare libero e mare chiuso. Su alcuni presupposti romanistici dei rapporti internazionali nei secoli XVI-XVIII, in AA.VV., Studi in onore di Mario Talamanca, Jovene, Napoli 2001, pp. 321-353. Questo modus operandi era destinato a durare a lungo: si veda ancora lo 'stile' di un giurista del tardo Settecento come Domenico Azuni nella ricostruzione che ne ha dato Paolo Garbarino in P. GARBARINO, Il diritto romano nel 'Droit Maritime de l'Europe di Domenico Alberto Azuni. In memoria di Alberto Silingardi, "Archivio Giuridico", CCXXII (2002), 4, pp. 569-604.

54. Cfr. F. BRAUDEL, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, vol. I, p. 9.

55. E' opinione diffusa che, una volta eliminata Cartagine e debellata la pirateria endemica nel Mediterraneo Orientale, l'assenza di attori in grado di contrastare l'egemonia romana sul bacino mediterraneo abbia di fatto reso superfluo l'istituzione di un ordinamento marittimo, in tal senso cfr. A. A. CASSI, 'Ius Commune' tra Vecchio e Nuovo Mondo, cit., pp. 114-121. Di fatto Roma, evidentemente disinteressata a possibili espansioni lungo le pur promettenti coste del Mar Rosso e del Golfo Persico, si sarebbe accontentata di disciplinare lo sfruttamento delle acque costiere e, al più, di emanare disposizioni - essenzialmente a carattere penalistico - atte a reprimere la pirateria. Su quest'ultimo fenomeno si veda l'affascinante ricostruzione contenuta in P. DE SOUZA, Piracy in the Graeco-Roman World, Cambridge University Press, Cambridge, 1999. L'autore, a mio avviso, ha tra l'altro il merito di ampliare la visuale tradizionale, allargandola anche alle coste atlantiche e baltiche.

56. Citato in C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., p. 21.

57. Per una lucida riflessione sul significato della 'corsa' cristiana, cfr. F. CARDINI, Quell'antica festa crudele, Mondatori, Milano 1997, pp. 302-305.

58. Come ha avuto modo di ricordare tra gli altri Aldo Andrea Cassi, già nel Vecchio Testamento emerge un atteggiamento di forte diffidenza verso il mare. Cfr. A. A. CASSI, 'Ius Commune' tra Vecchio e Nuovo Mondo, cit., p.86.

59. Cfr. M. TANGHERONI, Commercio e navigazione nel Medioevo, Laterza, Roma - Bari 1996, pp. 240-241.

60. Sulla figura del mercante medioevale cfr. A. J. GUREVIČ, Il mercante, in J. LE GOFF (a cura di), L'uomo medievale, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 271-317. Come Aron Gurevič ha modo di sottolineare, a partire dal XIII sec. si assiste ad un progressivo reinserimento della figura del mercante nella societas christiana. Non è un caso che tra i grandi promotori di questo processo vi fu Jacopo da Varazze, autore della celebre Legenda Aurea, ma soprattutto influente Arcivescovo di Genova. E dei cittadini della Superba si usava dire "genovese, dunque mercante".

61. Si veda ancora una volta M. TANGHERONI, Commercio e navigazione nel Medioevo, cit., pp. 242-243.

62. Braudel ha insistito in particolar modo sull'immagine di un Occidente 'catafratto', cfr. ad esempio F. BRAUDEL, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, cit., vol. II, pp. 902-919

63. Il passo di Bartolo, annotato da Grewe, è in W. G. GREWE, Fontes historiae iuris gentium, cit., vol. I, pp. 692-693.

64. Ivi, pp. 676-677.

65. Ivi, pp. 677-678. Secondo numerosi studiosi, questo accordo replicherebbe in realtà pacta precedenti. In tal senso si veda tra gli altri, G. VISMARA, Scritti di storia di storia giuridica. Comunità e diritto internazionale, vol. 7, pp. 441-474.

66. Cfr. J. PACIUS A BERIGA, De dominio maris Hadriatici disceptatio inter Sereniss. Regem Hispaniarum ob regnum Neapolitanum, et Sereniss. Rempublicam Venetam, Lugduni 1619, pp. 36-39, citato in W. G. GREWE, The Epochs of International Law, cit., p. 130.

67. Si tratta di un'argomentazione cara a John Selden nella sua appassionata difesa delle prerogative inglesi sull'Oceanus Britannicus. Cfr. S. CARUSO, La miglior legge del regno: consuetudine, diritto naturale e contratto nel pensiero e nell'epoca di John Selden (1584-1654), voll. I-II, Giuffrè, Milano 2001, ed in particolare vol. II, pp. 591-629. Sulla problematicità del concetto di 'acque territoriali', se riferito all'esperienza giuridica medioevale si veda W. G. GREWE, The Epochs of International Law, cit., pp. 129-133.

68. Le vicende della sovranità marittima degli Stati Europei sono strettamente legate alla costituzione di una flotta permanente, posta sotto il diretto controllo del Monarca. E' sintomatico che solo a partire dal 1254, regnante Alfonso X El Sabio, l'ordinamento castigliano prevedesse la carica dell'Almirantazgo. In Francia solo mezzo secolo più tardi, con Filippo IV il Bello, viene formato un nucleo stabile di forze navali sotto il diretto controllo della Corona e finanziato attraverso un apposita tassa, l'obole de la mer. L'Inghilterra - paradosso della storia -, pur essendo duramente impegnata anche sui mari durante la Guerra dei Cento Anni, non ebbe per tutto il Medio Evo una propria marina permanente. A titolo introduttivo si veda J. B. HATTENDORF, R. W. UNGER (eds), War at Sea in the Middle Ages and Renaissance, Boydell Press, Woodbridge 2003, ed in particolare i seguenti saggi ivi contenuti: sulla nascita del potere marittimo castigliano L. V. MOTT, Iberian Naval Power, 1000-1650, pp. 105-118, sulle vicende inglesi I. FRIEL, Oars, Sails and Guns: The English and War at Sea, c. 1200 - c. 1500, pp. 69-82 ed infine T. J. RUNYAN, Naval Power and Maritime Technology during the Hundred Years War, pp. 53-68. Un'agile ricostruzione delle problematica in esame è poi contenuta in R. AVEKORN, The Sea as European, Diplomatic, Political, and Economical Battlefield in the Times of the Hundred Years War, in L. FRANÇOIS, A. K. ISAACS (a cura di), The Sea in European History, PLUS, Pisa 2001, pp. 191-218.

69. In relazione a questa delicata problematica, rimando ancora una volta a A. A CASSI, Ius Commune' tra Vecchio e Nuovo Mondo, cit., pp. 85-166.

70. Si veda però l'ipotesi suggerita da Giulio Vismara in G. VISMARA, Scritti di storia di storia giuridica. Comunità e diritto internazionale, cit., pp. 441-474. Secondo Vismara l'ordinamento marittimo e, in particolare, la nozione di mare territoriale nascono già nell'Alto Medioevo. L'ipotesi è affascinante, ma come lo stesso Vismara è costretto ad ammettere "rare sono le norme giuridiche e le testimonianze della prassi, completo è il silenzio delle fonti" circa l'esistenza di un vero e proprio ordinamento marittimo. Il rischio di proporre indebite anticipazioni cronologiche è dunque concreto. In tal senso faccio mia la cautela espressa da Benedetto Conforti in B. CONFORTI, Il regime giuridico dei mari, Jovene, Napoli 1957, pp. 10-56 e Wilhelm Grewe in W. G. GREWE, The Epochs of International Law, cit., pp. 129-133.

71. Sulla peculiare fisionomia del primo colonialismo portoghese cfr. H. BULL, European States and African Political Communities, in H. BULL, A. WATSON (eds), The Expansion of International Society, Oxford University Press, Oxford 1984, trad. it., Gli Stati europei e le comunità politiche africane, in H. BULL, A. WATSON (a cura di), L'espansione della società internazionale, Jaca, Milano 1993, pp. 103-119.

72. Il 3 maggio 1493, con la prima Bulla il cui testo originario è andato perso, il pontefice donava, concedeva ed assegnava in perpetuo il Nuovo Mondo ai Re Cattolici. Contemporaneamente una seconda Bolla, emanata lo stesso giorno, veniva a specificare le prerogative spettanti al re di Castiglia. Il giorno successivo fu emanata una terza, e poi una quarta Bolla, comunemente conosciuta come Inter caetera per la sua valenza autoritativa, che ripartiva le rispettive zone di espansione. Il testo di quest'ultima Bolla è in W. G. GREWE, Fontes historiae iuris gentium, cit., vol. II, pp. 103-109. Il 25 giugno 1493, poi, il Pontefice emanava la Bolla Piis fidelium con cui promuoveva l'evangelizzazione delle Indie, affidandola al benedettino Bernardo Boyl Infine con la Bolla Dudum siquidem del 26 settembre 1493si ribadiva il dominio castigliano sulle Indie. Per un inquadramento delle problematiche giuridiche connesse all'emanazione delle bolle papali cfr. ID.,The Epochs of International Law, cit., pp. 233-234 e l'approfondita ricostruzione in A. A. CASSI,'Ius Commune' tra Vecchio e Nuovo Mondo, cit., pp. 85-114.

73. W. G. GREWE, Fontes historiae iuris gentium, cit., vol. II, pp. 110-116.

74. Cfr. C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., p. 83. La prassi delle rayas trovò poi un'altra esemplificazione nel Trattato di Saragozza del 1529, con cui Spagna e Portogallo segnavano le reciproche zone di espansione nell'area del Pacifico. Il testo di questo accordo è in W. G. GREWE, Fontes historiae iuris gentium, cit., vol. II, pp. 117-134. Sul punto si veda la ricostruzione contenuta in ID., The Epoches of International Law, cit., pp. 249-250.

75. Cfr. C. SCHMITT, Terra e mare, cit., p.71.

76. Il rapporto tra diritto e cartografia nell'età della Conquista trova una convincente ricostruzione in L. NUZZO, Il linguaggio giuridico della Conquista. Strategie di controllo nelle Indie spagnole, Jovene, Napoli 2004, in particolare pp. 87-189.

77. Cfr. C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., p. 88.

78. Rimando ancora una volta a W. G. GREWE, The Epochs of International Law, cit., pp. 228-255 ed A. A. CASSI,'Ius Commune' tra Vecchio e Nuovo Mondo, cit., pp. 85-114.

79. Cfr. C. SCHMITT, Cambio di struttura del diritto internazionale, in ID., L'Unità del mondo e altri saggi, cit., p. 273.

80. Già alla metà del Cinquecento Madrid esercita un deciso controllo sulle colonie d'Oltroceano. Il progressivo abbandono della pratica dell'encomienda nella gestione dei nuovi territori, a favore dell'istituzione di corregidores, dipendenti pubblici salariati, segnala l'assorbimento dell'amministrazione coloniale nel circuito burocratico imperiale. Cfr. in tal senso P. BAKEWELL, Conquest after the Conquest: The Rise of Spanish Domination in America, in R. L. KAGAN, G. PARKER, Spain, Europe and the Atlantic World. Essays in Honour of John H. Elliott, Cambridge University press, Cambridge 1995, pp. 296-315. La figura dell'encomiendero, già presente nell'ordinamento feudale castigliano, trova poi un'attenta ricostruzione in A. A. CASSI, 'Ius Commune' tra Vecchio e Nuovo Mondo, cit., pp. 166-242.

81. Si vedano O. CRUZ BARNEY, El régimen juridico del corso marítimo: el mundo indiano y el México del siglo XIX, UNAM, Mexico 1997 e, più sinteticamente, ID., El combate a la piratería en Indias. 1555-1700, Oxford University Press, Mexico 1999. Mi permetto di rinviare poi al mio F. RUSCHI, Ius Predae. Oscar Cruz Barney e la 'guerra di corsa' come paradigma della modernità, "Quaderni fiorentini per lo studio del pensiero giuridico moderno", 32 (2003), pp. 599-618.

82. Cfr. C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., p. 89.

83. Mi pare in tal senso significativo che ancora nella polemica tra Freitas e Grozio sulla libertà dei mari, ambedue i contendenti, accanto alle opiniones dei doctores iuris, non esitassero a citare passi dell'Eneide o delle Metamorfosi. In tal senso si veda la ponderata valutazione di Cassi in A. A. CASSI, 'Ius Commune' tra Vecchio e Nuovo Mondo, cit., pp. 114-121.

84. Cfr. C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., p. 223.

85. Ivi, p. 93. Più in generale sulla contrapposizione tra rayas e 'linee di amicizia', pp. 90-101.

86. Per il testo del Trattato cfr. W. G. GREWE, Fontes historiae iuris gentium, cit., vol. II, pp. 2-38.

87. Cfr. F. G. DAVENPORT, European treaties bearing on the history of the United States and its dependencies Vol. I, Carnegie Institute, Washington 1917-37, p. 220, cit. in W. G. GREWE, The Epochs of International Law, cit., p. 155..

88. Un altro esempio di amity line è rappresentato dal Trattato di Londra del 1604, tra Spagna ed Inghilterra. Ma ancora nel 1750 il trattato ispano-portoghese di Madrid faceva riferimento alla prassi delle linee di amicizie. Sul punto cfr. E. GOULD, Zones of Law, Zones of Violence: The Legal Geography of the British Atlantic, circa 1772, "William and Mary Quarterly", 60 (2003), 3, pp. 471-510. Per altro è lo stesso Schmitt a riconoscere nella neutralizzazione del Congo sancita al Congresso di Berlino del 1885 un tardivo esempio di amity line, cfr. C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., pp. 269-286.

89. Si trattava del meridiano passante per l'Isola del Ferro, la più occidentale delle Canarie, long. 18° 9' Ovest.

90. Cfr. C. SCHMITT, Cambio di struttura del diritto internazionale, in ID., L'unità del mondo e altri saggi, cit., p. 274 ma anche ID., Il Nomos della terra, cit., p. 95

91. W. G. GREWE, The Epochs of International Law, cit., pp. 254-255.

92. Cfr. C. SCHMITT, Terra e mare, cit., pp. 84-85.

93. Sul punto W. G. GREWE, The Epochs of International Law, cit., pp. 244-245. Com'è noto gli Ugonotti fornirono abbondante personale agli equipaggi delle navi pirata che operavano nei Carabi. E' appena il caso di ribadire quanto la figura dello 'schiumatore del mare' sia centrale nella narrazione schmittiana. Si veda la suggestiva ricostruzione contenuta in C. SCHMITT, Terra e Mare, cit., pp. 42-52.

94. Cfr. C. SCHMITT, Terra e Mare, cit., p. 81.

95. Sui caratteri di questa retorica cfr. P. COSTA, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa. 1. Dalla civiltà comunale al Settecento, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 81-88 e 188-197.

96. Cfr. l'ormai classico E. J. HOBSBAWM, Bandits, Weidenfeld and Nicolson, London 1969, trad. it., I banditi, Einaudi, Torino 2002. Questa interpretazione della pirateria è suffragata da Franco Cardini in F. CARDINI, Quell'antica festa crudele, cit., p. 302.

97. Su questo punto si veda ancora una volta F. CARDINI, Quell'antica festa crudele, cit., pp. 302-315, ma anche la ponderata valutazione di Grewe in W. G. GREWE, The Epochs of International Law, cit., pp. 304-315.

98. Ordine del generale Wolfe, 27 luglio 1759, in E. GOULD, Zones of Law, Zones of Violence, cit. Per una vivida ricostruzione del conflitto 'a bassa intensità' che interessò il Nordamerica alla metà del XVIII secolo, cfr. L. CODIGNOLA, Guerra e Guerriglia nell'America coloniale, Marsilio, Padova 1977.

99. Cfr. W. G. GREWE, The Epochs of International Law, cit., p. 298.

100. Cfr. C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., p. 208.

101. L'espressione adottata da Schmitt è stata in realtà coniata da Emer de Vattel, cfr. E. DE VATTEL Le droit des gens ou Principes de la loi naturelle appliqués à la conduite et aux affaires des Nations et des Souverains, Londres, 1758, t. 2, § 68, p. 56.

102. Cfr. C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., p. 168.

103. La formalizzazione di tale prassi si ebbe nel 1759, in relazione al sequestro del mercantile olandese America bloccato mentre trasportava merci dirette a Santo Domingo, strategico possedimento francese nei Caraibi. In particolare, la Rule of War of 1756 vietava ai mercantili neutrali di trasportare merci alla volta di porti il cui accesso sarebbe loro interdetto in tempo di pace: questo era appunto il caso delle colonia di Santo Domingo, soggetta ad un rigido monopolio commerciale da parte di Parigi. La Dottrina del viaggio continuo, invece, permetteva di sequestrare le merci imbarcate su un vettore battente bandiera neutrale se le circostanze potevano far desumere che queste fossero dirette ad un paese ostile. Si veda in tal senso W. G. GREWE, The Epochs of International Law, cit., pp. 407-410 e S. MANNONI, Potenza e ragione. La scienza del diritto internazionale nella crisi dell'equilibrio europeo (1870-1914), Giuffrè. Milano 1999, pp. 217-218. Sulle reazioni alla prassi instaurata dal Tribunale delle prede, cfr. E. GOULD, Zones of Law, Zones of Violence: The Legal Geography of the British Atlantic, cit.

104. Cfr. C. SCHMITT, Staatliche Souveränität und freies Meer. Über den Gegensatz von Land und See im Völkerrecht der Neuzeit, in F. HARTUNG (hrsg.),Das Reich und Europe, Köhler & Amelang, Leipzig 1941, pp. 91-117, trad. it., Sovranità dello Stato e libertà dei mari, "Rivista di studi politici internazionali", 8 (1941), 1-2, pp. 60-91, poi in L'unità del mondo e altri saggi, Pellicani, Roma 1994, pp. 217-252, ed in particolare p. 226.

105. Per un'articolata ricostruzione della polemica di Freitas rimando a C. H. ALEXANDROWICZ, Freitas versus Grotius, "The British Yearbook of International Law", 35 (1959), pp. 162-182.

106. La definizione è di uno storico del diritto internazionale quale Ernest Nys, cfr. E. NYS, Les origines du droit international, Bruxelles 1894, p. 262, ripresa in C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., p. 216.

107. Su Bynkershoek si veda K. AKASHI, Cornelius van Bynkershoek: His Role in the History of International Law, Kluwer, The Hague - London, 1998.

108. Cfr. C. VAN BYNKERSHOEK, De dominio maris, Lugduni Batavorum 1702 e più ampiamente Quaestionum iuris publici libri duo, Lugduni Batavorum, 1737. In realtà Byrkenshoek è tutt'altro che un radicale innovatore: già Grozio nel De iure belli ac pacis sembra prefigurare la cannon shot rule. Sul dibattito pre-Byrkenshoek si veda ancora una volta W. G. GREWE, The Epochs of International Law, cit., pp. 327-330

109. Cfr. Ferdinando Galiani nel suo Dei doveri dei principi neutrali verso i principi guerreggianti, e di questi verso i neutrali, Napoli 1782. Per tutto il Settecento convivono differenti interpretazioni sulla reale misura del cannon shot. in tal senso W. G. GREWE, The Epochs of International Law, cit., pp. 330-332.

110. Sullo Schmitt 'cabalista' cfr. ancora una volta F. VOLPI, Il potere degli elementi, in C. SCHMITT, Terra e mare, cit., pp. 115-145, ed in particolare pp. 119-124.

111. Behemoth, rappresentato ora nelle sembianze di un toro ora in quelle di un elefante, in Schmitt viene talvolta assimilato anche ad un orso mostruoso. Il Leviatano è invece raffigurato come una balena, C. SCHMITT, Terra e mare, cit., pp. 18-19.

112. Cfr. L.-B. HAUTEFEUILLE, Histoire des origines, des progrès e des variations du droit maritime, Paris 1869 (deuxième edition), pp. 471-472, citato in C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., p. 209. Sul ruolo di Hautefeuille nel dibattito giusinternazionalistico ottocentesco cfr. S. MANNONI, Potenza e ragione, cit., p. 180 e pp. 226-230.

113. D'altra parte, almeno fino al XIX sec. il dominio dei mari non si concretizzava con l'assoluto dominio navale, ovvero con la capacità di interdire all'avversario l'accesso alle vie marittime. Questo perché, come ha precisato tra gli altri Geoffrey Parker, nemmeno l'inghilterra aveva in questo periodo una tale capacità militare. In merito a questo punto e, più in generale, all'evoluzione della guerra navale nell'Età Moderna, cfr. G. PARKER, The Military Revolution. Military Innovation and the Rise of the West, 1500-1800, Cambridge University Press, Cambridge 1988, trad. it., La rivoluzione militare. Le innovazioni militari e il sorgere dell'Occidente, il Mulino, Bologna 1990.

114. E' lo stesso Schmitt a richiamare l'attenzione sul fatto che la strenua difesa della libertà delle 'vie di traffico marittimo' ha orientato al tempo stesso le scelte politiche, l'espansionismo coloniale e, infine, le negoziazioni diplomatiche di Londra. Cfr. C. SCHMITT, Il concetto di Imperonel diritto internazionale, pp. 27-35.

115. Sulla nascita e sull'evoluzione normativa di tale principio si veda il classico J. M. VERZIJL, International Law in Historical Perspective, vol XI, part ix-C, Kluwer, Dordrecht 1992. Per una ricostruzione attenta anche al dibattito dottrinario si veda poi W. G. GREWE, The Epochs of International Law, cit., con particolare riferimento agli esordi di tale problematica pp. 221-225 e pp. 402-412. Nell'Ottocento la questione della tutela del traffico neutrale diventa poi uno dei temi più 'caldi' del dibattito giusinternazionalistico, ivi, pp. 535-542 e pp. 631-636 ma vedi anche S. MANNONI, Potenza e ragione, cit., pp. 174-260. Il testo del Trattato di Utrecht, composto in realtà da due distinti accordi - l'uno anglofrancese, l'altro anglospagnolo, stipulati rispettivamente nell'aprile e nel luglio 1713 -, è in W. G. GREWE, Fontes historiae iuris gentium, cit., vol. II, pp. 217-239.

116. Nel solo periodo delle guerre rivoluzionarie i corsari francesi avevano catturato oltre 2100 navi inglesi. Si veda J. E. THOMSON, Mercenaries, Pirates, Sovereigns. State-Building and Extraterritorial Violence in Early Modern Europe, Princeton University Press, Princeton (N. J.) 1994, p. 26.

117. In relazione alle vicende della Dichiarazione di Parigi, cfr. S. MANNONI, Potenza e ragione, cit., pp. 226-233.

118. Sul concetto di società internazionale rimane imprescindibile H. BULL, The Anarchical Society, cit.

119. Cfr. C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., p. 210.

120. Sul legame tra diritto internazionale, ordinamento spaziale eurocentrico e logica dell'equilibrio ivi, pp. 233-237.

121. L'immagine di Schmitt 'filosofo della crisi' trova una convincente caratterizzazione in A. COLOMBO, L'Europa e la società internazionale, "Quaderni di scienza politica", cit.

122. Cfr. W. G. GREWE, The Epochs of International Law, cit., p. 551.

123. Cfr. C. SCHMITT, Terra e mare, cit., p. 98.

124. Gibson Bowles, prima ancora che membro del Parlamento ed intimo del giovane Winston Churchill, fu il fondatore del fortunato Vanity Fair. In merito alle critiche mosse alla Dichiarazione di Parigi, cfr. T. GIBSON BOWLES, The Declaration of Paris: Being an Account of the Maritime Rights of Great Britain; a Consideration of their Importance; a History of their Surrender by the Signature of the Declaration of Paris; and an Argument for their Resumption by the Denunciation and Repudiation of their Declaration, London 1900, p. I. L'opinione espressa da Gibson Bowles è riportata in S. MANNONI, Potenza e ragione, cit., p. 244.

125. Si veda in tal senso il duro giudizio di Grewe in W. G. GREWE, The Epochs of International Law, cit., pp. 551-552, ma anche la più articolata, e pacata, ricostruzione di Stefano Mannoni in S. MANNONI, Potenza e ragione, cit., pp. 246-258.

126. Cfr. A. BOLAFFI, Presentazione, in C. SCHMITT, Terra e mare, Giuffrè, Milano 1986, p. 5-29 ed in particolare p. 25

127. Sulla rilevanza di tale atto si veda L. SICO, Nuovo diritto del mare e potere marittimo degli Stati, in AA.VV., Il potere marittimo: atti del convegno di Napoli, 22 ottobre 1994, USMM, Roma 1995, pp. 47-54. Il Territorial Waters Jurisdiction Act fu il frutto della vigorosa reazione del Parlamento alla sentenza The Queen v. Keyn. In tale giudizio la High Court aveva fissato i limiti della propria giurisdizione, escludendo che nell'ordinamento britannico si potesse rinvenire una norma volta a sancire la sovranità nazionale sulla fatidica Three-mile line. L'importanza di questo caso è autorevolmente attestata da Henry Sumner Maine che nella seconda delle Whewell Lectures ne offre un'approfondita ricostruzione, cfr. H. S. MAINE, International Law, London 1887. E' per lo meno emblematico che l'ordinamento marittimo abbia ricevuto un così determinante impulso non da un trattato multilaterale, ma da un atto legislativo nazionale. Ed è altrettanto significativo che l'atto in questione fosse stato emanato dal Parlamento britannico. Sulle vicende del Territorial Waters Jurisdiction Act cfr. S. MANNONI, Potenza e ragione, cit., pp. 67-70.

128. Sui contenuti di tale convenzione cfr. T. TREVES, La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 10 dicembre 1982, Giuffrè, Milano 1983. Montego Bay è in realtà il risultato di un lungo e difficile percorso che, solo per rimanere nel secolo scorso, parte dall'Aia (1907), per arrivare alla Convenzione di Barcellona sulla libertà di transito (1921), alla Convenzione di Ginevra sui porti marittimi (1923), ai più ambiziosi tentativi di codificare il diritto del mare rappresentati dalla Prima Conferenza sulla codificazione del diritto internazionale dell'Aia (1930), alle due Conferenze sul diritto del Mare di Ginevra (1958 e 1960). L'iter della Convenzione di Montego Bay fu travagliato: i lavori preparatori svolti all'interno della terza Conferenza delle Nazioni Unite per la codificazione del diritto del mare durarono dal 1974 al 1982. La Convenzione, poi, entrò in vigore solo nel 1994, dal momento poi che per oltre un decennio mancò il numero di ratifiche necessario.

129. Cfr. L. SICO, Nuovo diritto del mare e potere marittimo degli Stati, in AA.VV., Il potere marittimo, cit., p. 53.

130. Cfr. J. MALONE, Who Needs the Sea Treaty?, "Foreign Policy", 54 (1984), 2, p. 83. Gli Stati Uniti hanno ratificato la Convenzione solo nel 1994, con l'amministrazione Clinton.

131. In merito all'interpretazione schmittiana di Clausewitz cfr. C. SCHMITT, Clausewitz als politischer Denker. Bemerkungen und Hinweise, "Der Staat: Zeitschrift fur Staatslehre, offentliches Recht und Verfassungsgeschichte", 6 (1967), pp. 479-502. Schmitt rimprovera a Clausewitz il carattere 'tellurico' della sua dottrina politico-strategica. Sul punto si veda P. P. PORTINARO, La crisi dello jus publicum europaeum, cit., p. 214 e A. BOLAFFI, Presentazione, in C. SCHMITT, Terra e mare, cit., pp. 25-26.

132. Sul rapporto tra Schmitt e Haushofer cfr. J. W. BENDERSKY, Carl Schmitt teorico del Reich, cit., pp. 294-295.

133. In realtà l'opposizione tra Land e Meer, ha suggerito Portinaro, è un topos della letteratura geopolitica. Solo con Schmitt, però, questa dialettica assurge a vera e propria filosofia della storia. Sul punto cfr. P. P. PORTINARO, Nel tramonto dell'Occidente: la geopolitica, "Comunità", 36 (1982), 184, pp. 1-42, ed in particolare pp. 1-15.

134. Ivi, pp. 39-40.

135. Cfr. C. SCHMITT, Terra e mare, cit., p. 111. Il passaggio è ancor più notevole dal momento che Schmitt è stato sempre piuttosto tiepido nei confronti dell'idealismo hegeliano. Antimo Negri, proprio alla luce dei suggerimenti schmittiani, ha proposto una lucida riflessione relativa al paragrafo 247 delle Grundlinien der Philosophie des Rechts in A. NEGRI, Hegel e il mare, "Behemoth", 12 (1992), 2, pp. 19-25.

136. Utilizzo il termine 'talassopolitica' nell'accezione suggerita da Julien Freund nella sua postfazione all'edizione francese di Land und Meer, cfr. C. SCHMITT, Terre et mer, Le Labyrinthe, Paris 1985, e da David Cumin in D. CUMIN, Thalassopolitique, cit.

137. Cfr. C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., p. 215.

138. Cfr. C. SCHMITT, Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes, in ID., Scritti su Thomas Hobbes, cit., pp. 61-143, p. 125.

139. Ivi, pp. 124-125.

140. Cfr. C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., p. 53.

141. Ivi, p. 263.

142. Ivi, pp. 265-266.

143. E' una dinamica che, al di là dei fasti britannici, coinvolge un po' tutte le Potenze impegnate nel primo espansionismo coloniale. Tra i migliori interpreti della dottrina mercantilista - non a caso si parla anche di colbertismo - va annoverato Jean-Baptiste Colbert, influente Contrôleur Général alla Corte del Re Sole, a cui si devono oltre alle celebri Ordonnances du commerce (1673), le non meno importanti Ordonnances de la marine (1681). Nel suo disegno politico potere navale e potere economico venivano a saldarsi l'un l'altro: Colbert fu infatti il grande promotore della Compagnie des Indes Orientales e al tempo stesso uno strenuo sostenitore della Marine royale, che proprio con l'Inscription Maritime del 1668 viene a dotarsi di una moderna struttura amministrativa.

144. La East India Company, ad esempio, faceva risalire i propri natali al 31 dicembre 1600, quando Elisabetta I autorizzò la sua costituzione con il nome di The Governor and Company of Merchants of London Trading into the East Indies.Il testo della Charter è in W. G. GREWE, Fontes historiae iuris gentium, cit., vol. II, pp. 165-170. A questa, detta Old o anche London East India Company, nel 1694 si affiancò per impulso del Parlamento la c.d. New o English East India Company. La concorrenza durò poco: già nel 1702 le due compagnie si fusero sotto la comune denominazione The United Company of Merchants of England Trading to the East Indies. La letteratura relativa alle sue vicende è particolarmente ampia, ma si veda quanto meno P. LAWSON, The East India Company, Longman, New York - London 1993.

145. Cfr. J. E. THOMSON, Mercenaries, Pirates, Sovereigns, cit., p. 32.

146. Ivi, p. 35.

147. Si calcola che le spese militari incidessero fino al 70% sui costi di ogni singolo viaggio tra i Paesi Bassi e l'Estremo Oriente. I dati riportati sono contenuti in G. PARKER, La rivoluzione militare, p. 226. In relazione all'atto di fondazione della Verenigde Oostindische Compagnie, cfr. W. G. GREWE, Fontes historiae iuris gentium, cit., vol. II, pp. 171-175.

148. cfr. W. G. GREWE, Fontes historiae iuris gentium, cit., vol. II, pp. 599-605.

149. Cfr. J. E. THOMSON, Mercenaries, Pirates and Sovereigns, cit., pp. 35-36.

150. Ivi, pp. 59-67.

151. Come si è visto, sotto il Re Sole era stata attivata nel 1664 la Compagnie des Indes Orientales altrimenti detta, e non è un caso, Compagnie de Colbert. Nel 1714 la ragione sociale era mutata in Compagnie perpétuelle des Indes ed infine, nel 1785, in Compagnie de Calonne, in quest'ultima fase con indirizzo solo mercantile. Ma altre compagnie si affacciano alla ribalta con maggior o minor fortuna, come la Compagnie française des Indes Occidentales, gemella di quella delle Indie Orientali o la Compagnie du Senegal, fondata nel 1673 dall'instancabile Colbert. Il fenomeno è davvero esteso: solo per rimanere nell'ambito francese tra il 1599 ed il 1789 furono fondate non meno di settantacinque compagnie commerciali. Cfr. in tal senso W. G. GREWE, The Epochs of International Law, cit., pp. 298-304.

152. In relazione alla Royal Proclamation Concerning the Liquidation of the British East India Company, cfr. W. G. GREWE, Fontes historiae iuris gentium, cit., vol. III-1, pp. 348-354.

153. Cfr. C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., p. 271.

154. Prendendo in esame le guerre scoppiate tra il 1648 ed il 1814, l'età dell'oro delle compagnie commerciali e delle prassi mercantilistiche non è superfluo notare che prendendo in esame i 58 conflitti 'maggiori', almeno 28 erano originati da controversie commerciali od erano il frutto della competizione coloniale, si vedano in tal senso K. J. HOLSTI, Peace and War: Armed Conflicts and International Order 1648-1989, Cambridge University Press, Cambridge 1991, pp. 46-54 e pp. 83-92

155. Cfr. P. P. PORTINARO, La crisi dello jus publicum europaeum, cit., pp. 187-188.

156. Cfr. C. SCHMITT, Il nomos della terra, cit., p. 209.

157. Cfr. C. SCHMITT, Terra e mare, cit., pp. 97-98.

158. Cfr. C. SCHMITT, Cambio di struttura del diritto internazionale, in ID., L'Unità del mondo e altri saggi, cit., ed in particolare p. 280. Cfr. il testo della Dichiarazione del Presidente Monroe in W. G. GREWE, Fontes historiae iuris gentium, cit., vol. III-1, pp. 212-214.

159. Cfr. P. A. CROWL, Alfred Thayer Mahan: The Naval Historian, in P. PARET (ed.) Makers of Modern Strategy, Clarendon, Oxford 1986, pp. 444-477, trad. it. Alfred Thayer Mahan: lo storico navale, in Guerra e strategia nell'età contemporanea, Marietti, Genova 1992, pp. 155-186. Sul concetto di potere navale e sulle sue differenti declinazioni, cfr. C. JEAN, Guerra, strategia e sicurezza, Laterza, Roma - Bari 1997, PP. 138-145.

160. In relazione al contributo di Mahan all'evoluzione della geopolitica 'navalista' cfr. V. E. PARSI, Intorno alla geopolitica, "Quaderni di scienza politica", 2 (1995), 3, pp. 495-510 e P. P. PORTINARO, Nel tramonto dell'Occidente, cit., pp. 11-13.

161. Per una convincente ricostruzione del pensiero mahaniano cfr. J. TETSURO SUMIDA, Inventing Grand Strategy and Teaching Command. The Classic Works of Alfred Thayer Mahan Reconsidered, John Hopkins University Center, Baltimore (Md.) 1997. In merito al pensiero di Mahan cfr. poi anche P. A. CROWL, Alfred Thayer Mahan: lo storico navale, in P. PARET (a cura di) Guerra e strategia nell'età contemporanea, cit. Prima ancora che negli Stati Uniti, Mahan riscosse un plauso generalizzato in Gran Bretagna, dove fu ricevuto dalla Regina Vittoria. Le sue opere furono presto oggetto di traduzione: in Germania nel 1898 appariva Der Einfluss der Seemacht auf die Geschichte, mentre già nel 1897 era stata data alle stampe l'edizione giapponese di The Influence of Sea Power.

162. Sul peso delle tesi mahaniane nel dibattito giusinternazionalistico cfr. S. MANNONI, Potenza e ragione, cit., pp. 183-187.

163. In realtà mentre Mahan aveva avuto modo di soffermarsi lungamente sul Précis de l'art de la guerre di Antoine-Henri de Jomini, l'incontro con Clausewitz è successivo alla pubblicazione del suo celebre The Influence of Sea Power. Cfr. J. TETSURO SUMIDA, Inventing Grand Strategy and Teaching Command, cit., pp. 113-114.

164. Cfr. H. BULL, Sea Power and Political Influence, "Adelphi Papers", 122 (1976), pp. 1-9, ed in particolare p. 6.

165. Cfr. C. JEAN, Guerra, strategia e sicurezza, cit, p. 139.

166. Si trattava di una politica che inevitabilmente aveva inferto drastici tagli alla Navy che, negli anni successivi alla Guerra Civile, poteva contare su appena 9631 uomini. In merito a Mahan interprete delle aspirazioni di rivincita di ambienti ben determinati delle burocrazie militari cfr. P. A. CROWL, Alfred Thayer Mahan: lo storico navale, in P. PARET (a cura di), Guerra e strategia nell'età contemporanea, cit., pp. 175-182. In merito ai rapporti tra Roosevelt e Mahan si veda poi R. W. TURK, The Ambiguous Relationship, Theodore Roosevelt and Alfred Thayer Mahan, Greenwood, New York 1987.

167. Cfr. C. SCHMITT, Terra e mare, cit., p. 104.

168. Ivi, p. 108. Per ricostruire il ruolo di Mahan nello sviluppo della teoria schmittiana, si veda anche C. SCHMITT, Beschleuniger wider Willen oder: Die Problematik der westlichen Hemisphäre, "Das Reich", 19/4 /1942, trad. it. La lotta per i grandi spazi e l'illusione americana, "Lo Stato", 12 (1942), poi in ID., L'Unità del mondo e altri saggi, cit., pp. 261-269

169. C. SCHMITT, Terra e mare, cit., p. 102.

170. Erano naturalmente escluse le zone marittime prospicienti le coste del Canada, parte belligerante nel conflitto.

171. Cfr. C. SCHMITT, Cambio di struttura del diritto internazionale, in ID., L'unità del mondo e altri saggi, cit., p. 281.

172. Cfr. C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., p. 381.

173. Ivi, p. 383.

174. "Europe has a set of primary interests, which to us have none, or a very remote relation. Hence she must be engaged in frequent controversies, the causes of which are essentially foreign to our concerns. Hence, therefore, it must be unwise in us to implicate ourselves, by artificial ties, in the ordinary vicissitudes of her politics, or the ordinary combinations and collisions of her friendships or enmities." Cfr. J. C. FITZPATRICK (ed.), The Writings of George Washington from the original manuscript sources, 1745-1799, vol. XXXV, U.S. Government, Washington, D.C. 1931-1944, p. 214. Il testo del celebre farewell address del 17 settembre 1796 è poi consultabile anche in linea.

175. A. HAMILTON, The Federalists Papers. Paper no 11, The Utility of the Union in Respect to Commercial Relations and a Navy.

176. Cfr. T. JEFFERSON, Thomas Jefferson to William Short, 1820, in ID., The Writings of Thomas Jefferson, vol. XV, Thomas Jefferson Memorial Association, Washington D. C. 1905, p 262. Il passo, giustamente famoso, è ripreso in C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., p. 378.

177. La citazione è riportata in W. G. GREWE, The Epochs of International Law, cit., p. 460.

178. Cfr. C. SCHMITT, Il concetto di Impero nel diritto internazionale, p. 13.

179. Cfr. D. CUMIN, Thalassopolitique, cit. Vale la pena sottolineare che proprio negli anni Trenta del secolo scorso la formula della dottrina Monroe aveva avuto diversi tentativi di replica. E' lo stesso Schmitt a ricordare come da parte nipponica si fosse giustificato l'intervento in Manciuria invocando una Monroe Doctrine giapponese. Ma già all'indomani della Prima Guerra mondiale il Primo Ministro William Morris Hughes aveva invocato per la giovane federazione australiana una propria dottrina Monroe. Cfr. C. SCHMITT, Il concetto di Impero nel diritto internazionale, cit., pp. 18-22.

180. Cfr. W. R. MEAD, Special Providence: American Foreign Policy and how It Changed the World, Knopf, New York 1999, pp. 199-204.

181. In merito all'evoluzione della Dottrina Monroe si veda S, MANNONI, Potenza e ragione, cit., pp. 125-129.

182. Nel 1850 Londra e Washington, in totale conformità allo spirito della dottrina Monroe, avevano negoziato un accordo - il c.d. Clayton-Bulwer Treaty dal nome dei diplomatici coinvolti - in base al quale le parti si erano impegnate a non intraprendere iniziative coloniali nel Centroamerica. Inoltre si era previsto che qualsiasi attività diretta ad aprire un canale tra Atlantico e Pacifico, avrebbe dovuto essere concertata tra le parti contraenti. Questo trattato venne abrogato nel 1901 dall'accordo Hay-Pauncefote, che di fatto rappresentò il primo passo verso l'affermazione del controllo esclusivo statunitense sul Canale di Panama.

183. Cfr. C. SCHMITT, IL Nomos della terra, cit., p. 369.

184. Cfr. C. GALLI, Genealogia della politica, cit., p. 869.

185. Cfr. C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., p. 328.

186. In relazione all'interpretazione offerta da Schmitt in relazione alle vicende della Società delle Nazioni si può vedere oltre a C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., p. 306-334, il sintetico ma brillante ID., Völkerrechtliche Neutralität und völkische Totalität, "Monatshefte für Auswärtige Politik", 5 (1938), pp. 613-618, trad. it., Stato totalitario e neutralità internazionale, "Lo Stato", 9 (1938), pp. 605-612, poi in ID., L'unità del mondo ed altri saggi, cit., pp., 187-194, ed anche ID., Inter pacem et bellum nihil medium, "Zeitschrift der Akademie fur Deutsches Recht", 6 (1939), pp. 594-595, trad. it. in "Lo Stato", 10 (1939), pp. 541-548, poi in ID., L'unità del mondo ed altri saggi, cit., pp. 195-201, ed in particolare pp. 198-201. Infine cfr. ID., Cambio di struttura del diritto internazionale, in ID., L'unità del mondo e altri saggi, cit., pp. 271-301.

187. Cfr. C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., p. 323.

188. Cfr. C. I. BEVANS (ed.), The Platt Amendment, in ID., Treaties and Other International Agreements of the United States of America, 1776-1949, vol. 8, (Washington, D.C.: United States Government Printing Office, 1971), pp. 1116-17. E' verosimile pensare che Schmitt avesse sotto gli occhi proprio il testo dell'accordo negoziato tra Cuba e gli Stati Uniti, allorquando nel Nomos der Erde esaminava i tratti dell'egemonia statunitense, cfr. C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., p. 324.

189. Cfr. C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., p. 325.

190. Ivi, p. 324.

191. In relazione alla lucida ricostruzione di Schmitt ivi, pp. 325-327. E' appena il caso di ricordare come la tematizzazione dell'indirect rule statunitense fosse già presente in uno dei primi testi 'internazionalistici' di Schmitt, cfr. in tal senso ID., Der Volkerbund und Europa, "Hochland", 26 (1928), pp. 345-354, poi in Positionen und Begriffe, cit., pp. 88-97. Sugli esordi dello Schmitt studioso del diritto internazionale cfr. A. CAMPI, Introduzione, in C. SCHMITT, L'unità del mondo e altri saggi, cit., pp. 13-15.

192. Cfr. C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., p. 326. Per altro è il caso di annoverare Mahan - come ricorda lo stesso Schmitt - tra i più appassionati fautori di una 'rilettura' della dottrina Monroe indirizzata ad un maggiore coinvolgimento degli Stati Uniti negli affari europei. Cfr. A. T. MAHAN, The Interest of America in International Conditions, London 1910, citato in C. SCHMITT, Cambio di struttura del diritto internazionale, in ID., L'unità del mondo e altri saggi, cit., p. 298.

193. Per un inquadramento storico cfr. W. G. GREWE, The Epochs of International Law, cit., pp. 600-601.

194. Ma già a meno di tre settimane dall'invasione nipponica il console statunitense a Ginevra aveva avuto istruzione di stimolare il Segretario Generale al fine di ottenere dalla Società delle Nazioni un intervento incisivo. Cfr. UNITED STATES DEPT. OF STATE, Peace and War: United States Foreign Policy, 1931-1941, U.S. Government Printing Office, Washington D.C. 1943, pp. 3-8.

195. Nel 1936 la Conferenza di Buenos Aires, e poi ancora nel 1938 quella di Lima, confermarono questo indirizzo. Cfr. W. G. GREWE, The Epochs of International Law, cit., p. 601.

196. Cfr. C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., p. 407.

197. Cfr. C. SCHMITT, Il Nomos della terra, cit., p. 329.

198. Cfr. P. P. PORTINARO, La crisi dello jus publicum europaeum, cit,. p. 201.

199. Cfr. C. SCHMITT, Cambio di struttura del diritto internazionale, in ID., L'unità del mondo e altri saggi, cit., p. 287.

200. Sul concetto di guerra in Schmitt e sulle sue trasformazioni, cfr. E. CASTRUCCI, La ricerca del nomos, in C. SCHMITT, Il Nomos della terra cit., pp. 433-443.

201. Cfr. J. HILLMAN, A Terrible Love for War, Penguin, London 2004, trad. it., Un terribile amore per la guerra, Adelphi, Milano 2005.

202. Cfr. N. IRTI, Norma e luoghi, cit., p. 36.

203. Si vedano in tal senso le puntuali osservazioni di Maria Rosaria Ferrarese che, riflettendo sulla "posizione giuridica dell'Europa di fronte alle sfide della globalizzazione", ha scelto di adottare proprio il paradigma schmittiano di Land e Meer, cfr. M. R. FERRARESE, Il diritto europeo nella globalizzazione: fra terra e mare, "Quaderni fiorentini per lo studio del pensiero giuridico moderno", 31 (2002), pp. 10-38.