2010

Guerra giusta, nemico ingiusto: Schmitt interprete di Kant

Francesco Mancuso

1. Delle profonde ambiguità che innervano il rapporto originario e dialettico tra violenza e politica/diritto, il fenomeno della guerra, intesa come violenza 'qualificata' e atto pubblico (grozianamente: 'solenne') compiuto da uno Stato sovrano verso altri Stati sovrani, è la rappresentazione più evidente, anche e soprattutto a partire dalla sue trasformazioni, che riguardano sia il quadro di riferimento (il sistema internazionale composto da entità sovrane, trasformatosi già dalla fine della seconda guerra mondiale, e da lì, attraverso tappe successive, con il 1989 e il Nine-Eleven 2001 come vere e proprie 'date assiali' (1), ulteriormente modificatosi), sia le relazioni con la pace e il diritto, sia la percezione stessa del fenomeno bellico (2).

Le mutazioni del concetto di 'guerra' non sono il segno di una sua progressiva neutralizzazione e limitazione. Al contrario, se non da un punto di vista quantitativo, senz'altro da un punto di vista qualitativo i nostri tempi vedono non solo un'intensificazione della violenza su scala planetaria, ma anche un parallelo indebolimento di alcuni principi giuridici fondamentali e la preoccupante riemersione dell'idea etica (e premoderna) di 'guerra giusta'. Se, come scrive Carl Schmitt, «tutte le questioni importanti dell'ordinamento giuridico internazionale finiscono per convergere sul concetto di guerra giusta» (3), allora il mezzo essenziale per comprendere le mutazioni del concetto di 'guerra' e la riemersione dell'idea di guerra giusta è costituito dalla rappresentazione, o meglio, dalla qualificazione del 'nemico' (4). Da questa prospettiva è possibile osservare uno degli snodi concettuali decisivi della filosofia del diritto internazionale, e la lettura che Schmitt dà di un capitolo centrale del pensiero internazionalistico di Immanuel Kant è una sorta di messa in luce, problematica essa stessa, di una aporia che si cela nell'evoluzione del diritto internazionale moderno, e che riemerge prepotentemente nel diritto internazionale contemporaneo: il problema del «Quis judicabit?» e della possibilità dell'intensificazione della polemicità del 'politico' attraverso il passaggio dalla figura del nemico 'reale' a quella del nemico 'assoluto'. Questo è un punto che riguarda specificamente la teoria schmittiana e l'analisi presente in essa del difficile equilibrio tra 'ordine' e 'disordine' che impedisce la degenerazione del 'politico' in caos agonale assoluto, in negazione di se stesso.

L'evoluzione del diritto internazionale nel ventesimo secolo è stata caratterizzata dal tentativo di recidere il nesso tra sovranità e jus ad bellum. A partire dalla fine della seconda guerra mondiale (ma con il notevole precedente del Patto Briand-Kellogg), la proibizione dell'utilizzo della forza per la risoluzione delle controversie internazionali è divenuto vero e proprio jus cogens, valore supremo essenziale e inderogabile (l'uso della forza è legittimo, oltre che per autodifesa, solo ed esclusivamente previa autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, e unicamente per il ristabilimento della pace) (5). Oggi, tuttavia, la guerra, il 'fatto' della guerra (non le sue denominazioni politicamente corrette) è stato rilegittimato dopo un lungo periodo in cui esso è stato considerato al di fuori «da ogni criterio di legittimazione e di legalizzazione» (6). Così, il diritto internazionale vede quasi contemporaneamente entrare in crisi due suoi elementi fondativi e solo apparentemente concorrenti, il principio «statista» e il principio cosmopolitico (7), in favore di un paradigma ibrido che va modellandosi con elementi tradizionali confusamente rimescolati in forme nuove e che può essere condensato nell'efficace espressione «legittimazione dello 'stato di natura' internazionale» (8). In altri termini, va in cortocircuito, e non importa qui valutare se questo sia un fenomeno contingente o necessitato (9), la conciliazione tra modello hobbesiano e modello kantiano, per cui quest'ultimo non è più il senso della fuoriuscita da quello stato di natura che il primo modello, quello sovranista-hobbesiano, attesta essere l'insuperabile orizzonte delle relazioni internazionali, ma costituisce viceversa, sulla base di un 'cattivo' universalismo, il fattore legittimante della reintroduzione unilateralistica dello jus ad omnia proprio dello stato di natura (10). In termini meno netti, si potrebbe dire che entra in palese contraddizione l'universalità dei principi e la parzialità della salvaguardia, che immediatamente erode la prima: nemo judex in sua causa. Si tratta in ogni caso di una vera e propria 'normalizzazione' dell'eccezione, o di un'eccezione permanente, emergenziale, non avente alcuna destinazione ordinativa e neutralizzatrice, e dichiaratamente ostile a qualunque 'messa in forma'-limitazione giuridica. A dimostrazione di questa tendenza involutiva ed eversiva, una molteplicità di fenomeni: la dissoluzione - assiologica anzitutto - dell'equazione guerra=crimine, una volta nominalmente sublimatosi il fenomeno bellico in 'operazione di polizia internazionale' (specialmente in assenza di legittimazione e di garanzie giurisdizionali internazionali rispetto ai crimini di violazione del diritto internazionale); la trasfigurazione della guerra di autodifesa rispetto ad un'aggressione esterna in 'guerra preventiva' e unilaterale, anche in assenza di minacce dirette; l'introduzione della figura fortemente ideologica e unilateralistica di 'Stato canaglia' (rogue State); lo scavalcamento, sul piano della condotta degli affari internazionali, dell'etica della responsabilità da parte di un'etica della convinzione che spesso è soltanto mera, paretiana 'derivazione' coprente interessi materiali (economici, strategici, ecc.) specifici e localizzati. Il risultato più catastrofico è quello, ancipite, che non solo la guerra non è più il 'tabù' dell'odierno diritto internazionale, ma che «si sta verificando la tendenza a considerare quello militare come l'unico strumento concepibile e disponibile per ogni azione di politica internazionale: compreso il negoziato» (11).

Oggi si parla di 'guerra' in due sensi diversi eppure complementari, quasi come se non ci fosse alcuna soluzione di continuità tra l''interventismo umanitario' dei primi anni '90 e i recenti, e già falliti sul piano della realtà effettuale, tentativi di mobilitazione reattiva della cosiddetta War on Terror: o come 'guerra' umanitaria e «virtuosa», ossimoro che tenterebbe di legittimare il fenomeno bellico imbellettandolo come strumento di tutela e affermazione dei diritti umani (con la parallela crisi del principio di non-ingerenza, rifiutato in nome di argomenti moralistici) (12), oppure, e ciò a partire dal settembre 2001, come 'guerra al terrorismo': guerra cioè ad un soggetto criminale, il terrorismo internazionale, organizzato e armato, reticolare e non localizzabile territorialmente, che paradossalmente si traduce in interventi militari contro Stati accusati di fiancheggiare le organizzazioni terroristiche. Quindi da un lato si utilizza un concetto, quello di 'guerra', che ha sicuramente un notevole impatto retorico, ma che pone la concreta minaccia terroristica, soggettivizzandola, su un piano differente da quello della criminalità, anche politica; dall'altro si criminalizzano Stati sovrani accusati (nel caso dell'Iraq sulla base di prove false) di fiancheggiare il terrorismo e di preparare l'uso di armi di distruzione di massa. Il criminale diventa 'nemico' (nel senso classico-politico del termine), il 'nemico' diventa criminale (13). Un cortocircuito concettuale e politico che, vedendo il 'nemico' dappertutto (ma giudicandolo come l'assolutamente 'altro'), lo smarrisce, lo favorisce, indirettamente lo sostiene.

Un ulteriore effetto del trascolorimento della valenza semantica di 'guerra' è la crisi di quel faticoso, instabile, relativo, precario, ma pur storicamente esperito tentativo di limitazione dell'assolutezza, intesa sia come intensità, sia come estensione temporale, della 'guerra' stessa.

La «forza di tensione e la violenza dello sforzo bellico» sono ridotte, come sottolinea Clausewitz, dal fatto che la guerra non è determinata dall'obbiettivo di produrre risultati assoluti e definitivi, bensì da uno «scopo politico» che «dà la misura» (14). Quale misura può esserci più, in linea di principio, se lo scopo politico si confonde e si dissimula all'interno di una serie di discorsi legittimanti che vanno dalla riesumazione dell'idea teologica di 'guerra giusta' all'utilizzazione strumentale della retorica dei diritti umani (magari procedente insieme a discutibili riflessioni sulla liceità della tortura e dell'imprigionamento senza imputazioni) (15), sino alla delineazione di un inedito diritto penale dei nemici? Ciò che viene meno, nella 'guerra infinita', è esattamente quella conservazione della «possibilità della pace» che per Hegel è resa possibile, assieme al riconoscimento reciproco dei contendenti sul piano agonale, dal nesso costitutivo tra diritto e politica; nesso che viene brutalmente spezzato dalla 'moralizzazione' del discorso bellico, che viene completamente distratto dal 'politico' e assolutizzato (16). La 'moralizzazione' assoluta e discriminatoria si configura, in assenza di un 'terzo' giudicante o almeno 'autorizzante', come il vettore più potente della polemicità del 'politico': anzi, da 'altro da sé' del politico, la 'morale' assoluta diventa il politico stesso nelle sue intensificazioni più nichilistiche e distruttive.

In più, come è stato lucidamente notato, la guerra globale azzera le distinzioni classiche: «L'erosione delle distinzioni tra pubblico e privato, militare e civile, interno ed esterno rende in ultima analisi problematica la stessa distinzione tra guerra e pace» (17). Il problema si fa ancora più stringente se si analizza il tema della qualificazione del nemico. La categoria di 'Stato canaglia' segna una vera e propria svolta 'discriminatoria' del diritto internazionale. Svolta che in realtà era già in atto con la teorizzazione e l'attuazione dell'interventismo bellico-umanitario: in entrambi i casi è dichiarata unilateralmente, e perdipiù su un piano 'egemonico', una intrinseca dissimmetria, anzitutto morale, dei contendenti. Al di là della questione, pur importante ma non teoricamente decisiva, della corrispondenza tra criteri definitori (18) e azioni effettive, è proprio una così sanzionata dissimmetria a fornire una risorsa fondamentale per una rilegittimazione del fenomeno bellico, il cui orientamento verso un nemico 'perpetuo', ma anche verso un nemico 'inumano' ne sancisce la indeterminatezza e la potenziale infinità (19). Scrive Schmitt: «proclamare il concetto di umanità , richiamarsi all'umanità, monopolizzare questa parola: tutto ciò potrebbe manifestare soltanto ... la terribile pretesa che al nemico va tolta la qualità di uomo, che esso dev'essere dichiarato hors-la-loi e hors-l'humanité e quindi che la guerra dev'essere portata fino all'estrema inumanità» (20).

La categoria di 'Stato canaglia', che si accompagna alla dottrina della 'guerra preventiva', sembra essere l'applicazione alle relazioni interstatuali della figura, prevista come soggetto oppositivo nel 'bellum piraticum', dell'hostis humani generis, rispetto al quale non valgono tutte le limitazioni politiche e giuridiche di un diritto internazionale che, al contrario, va confondendosi con una sorta di diritto penale asimmetrico basato su retoriche manicheistiche e fondamentalistiche (si pensi ai continui riferimenti all'axis of evil) (21). Un problema ulteriore, ma decisivo, è che lo Stato 'outlaw' è dichiarato tale in modo unilaterale. E l'unilateralismo è oltremodo accentuato, in questa che possiamo definire, usando le parole di Schmitt, una «costruzione concettuale propria del diritto internazionale di tipo penal-criminalistico» (22), dal rifiuto verso la sottoposizione a quella giurisdizione penale internazionale che si intende costituire con il Tribunale penale internazionale. Come è stato affermato, «il ricorso al dispositivo giudiziario sostituisce alla logica polemogena della colpa collettiva la logica politicamente neutralizzante della responsabilità individuale» (23). In questo caso abbiamo una sorta fusione di logica polemogena e logica criminalizzante, nell'assenza (o nel rifiuto) della terzietà (e delle sue logiche - almeno tendenzialmente - universalistiche e 'neutralizzanti').

2. Non è quindi un mero interesse storiografico che ci muove al ripercorrimento della lettura critica schmittiana di Kant, bensì la constatazione della latenza, nella tradizione del pensiero giuspolitico della modernità, di una sorta di 'principio d'eccezione' costituito dalla possibilità di una guerra 'assoluta' contro un nemico 'assoluto', una messa tra parentesi (ma anche una 'conservazione' in vista di una sua 'utilizzabilità') della intensificazione al massimo grado del conflittualismo politico. L'eccezione è costitutiva del 'politico', secondo la griglia interpretativa schmittiana. Ma l'intensificazione assoluta del conflittualismo rappresenta, secondo le coordinate teoriche schmittiane, il 'rovesciamento' del 'politico', la perdita di quell'equilibrio, in stato di tensione e perennemente esposto alla contingenza, tra ordine e disordine. Questo è un punto decisivo che riguarda e coinvolge il nucleo teorico del pensiero di Schmitt: la distinzione e la coimplicazione di guerra e politica, che si struttura in forme diverse a seconda che si tratti di politica interna e di politica esterna. Su questo livello si evidenzia un elemento di forte ambiguità, o meglio, un'aporia della prestazione teorica schmittiana, giacché la 'possibilità' dell'eccezione, ossia la possibilità di una «lotta reale» come «tensione specificamente politica» (24), si accompagna ad un incanalamento dell'energia conflittualistica basato sul presupposto della destinazione 'ordinativa' della distinzione amico/nemico, e sul non superamento di un certo «grado di intensità» (25). E.W. Böckenförde ha specificato con grande precisione questo aspetto della teoria di Schmitt, richiamando l'attenzione sul fatto che nello Stato, inteso come unità politica «in sé pacificata», la distinzione amico/nemico non scompare, giacché nel suo ambito «permangono tutti i confronti, i conflitti e i contrasti sotto il livello di un raggruppamento amico-nemico» (26): la distinzione amico/nemico, perché possa essere compatibile con l'ordine politico, deve essere relativizzata e mantenuta al di sotto della soglia del conflitto aperto. Deve essere cioè una distinzione 'potenziale'. La conseguenza è che la «relativizzazione» del conflitto sul piano interno si traduce, per la teoria schmittiana, in una sorta di privilegiamento della politica estera 'classica' (il 'classico' si riferisce alla identificazione, la cui crisi è il reagente originario della riflessione di Schmitt, tra 'statale' e 'politico') rispetto alla politica interna (intesa più propriamente «come polizia») neutralizzata e 'relativizzata' (27). A differenza della 'neutralizzazione' interna, la decisione dello Stato sull'amicizia, ostilità e neutralità è, secondo Schmitt, «politica in senso ampio, alta politica», monopolio della decisione sovrana riassunta nello jus ad bellum.

L'attestazione di un nesso tra (relativa) pacificazione interna ed espressione extra moenia civitatis delle energie conflittualistiche non produce, nella ricostruzione schmittiana, la conseguenza che nello stato di natura delle relazioni interstatuali si apra il varco del conflitto assoluto permanente: anzi, il nemico ha uno status, è riconosciuto, pertanto la guerra «può essere limitata e circoscritta». Anche sul piano esterno si arriva quindi, nonostante il campo delle relazioni internazionali sia il luogo della «alta politica», ad una «relativizzazione dell'ostilità». Con una differenza fondamentale: che mentre sul piano interno l'ordine politico contiene sempre un principio di esclusione centrato su un'istanza sovrana (come se fosse una 'guerra civile' normativizzata, oppure una latenza della frattura conflittualistica), mantenendo all'orizzonte la possibilità della guerra civile (intesa sia come 'origine' della politica, che come esito della massimizzazione del conflitto, e dunque come sconfitta del politico, ossia dell'equilibrio tra ordine e conflitto), sul piano esterno la guerra non è data come possibilità, ma come realtà concreta, che però viene limitata e moderata dal riconoscimento dei contendenti.

E' evidente che nel primo caso la 'relativizzazione' (che non potrà mai essere 'compiuta' e defintiva) è data da un contesto politico-giuridico-istituzionale vigente sino a che non vi sia il superamento di un certo grado di conflitto, che nel secondo caso è assente: il diritto internazionale per Schmitt si sostanzia quasi esclusivamente nel «riconoscimento del diritto alla guerra» (cioè del nemico legittimo). Ma se il 'politico' è il grado di intensità di associazione o di dissociazione, è evidente che la sua matrice originaria risiede nella guerra civile, non nella guerra interstatale, giacché è nella guerra civile che si palesano il massimo grado di intensità del conflitto e la nettezza della decisione sull'ostilità: e d'altro canto proprio perché la guerra civile si configura come ostilità assoluta, essa ha spesso, per Schmitt, e potremmo dire hobbesianamente, una connotazione totalmente negativa: exeundum e statu naturali. La guerra civile è interruzione della relazione tra ordine (politica e diritto) e conflitto, è conflitto assoluto, dissociazione senza associazione, senza riconoscimento reciproco delle parti in lotta. La guerra e il nemico 'assoluti' sono la sconferma del nesso (hegeliano)-schmittiano tra logos e guerra. Non è, come afferma Schmitt, la negazione (liberale) del conflitto (o la sua trasmutazione in 'competizione') che prelude necessariamente al conflitto assoluto, ma è esattamente la logica polemogena stessa che ha una ineluttabile destinazione alla nientificazione del senso politico.

Ma proprio qui, attraverso un utilizzo di Schmitt 'contro' Schmitt, si evidenzia un'altra possibile aporia del discorso schmittiano: la guerra civile è solo dissociazione estrema, e sconfitta del 'politico', oppure 'può' avere potenzialità ordogenetiche? Tutta la questione del potere costituente, così attentamente analizzata dal giurista tedesco, orienta verso l'idea di una primazia logico-concettuale della idea di guerra civile nei suoi rapporti con il 'politico' e il 'giuridico'.

Pur essendo il luogo della massima intensificazione dell'energia conflittualistica 'senza' riconoscimento dei contendenti, la guerra civile è una situazione che 'può' inaugurare l'edificazione di un nuovo ordine: l'«appello al cielo» è una dichiarazione di conflittualità assoluta per il ristabilimento di un ordine politico infranto. Così, tuttavia, si è ancora in un pensiero che si mantiene entro le coordinate della 'continuità' politico-istituzionale (pensiero che ha grande fortuna nella tradizione giuspolitica occidentale, e che, ad esempio, possiamo ritrovare nel '900 nelle celebri riflessioni di Santi Romano sul rapporto tra rivoluzione e diritto); ben più radicale è un autore pur caro a Schmitt, Sieyès, che reputava essenziale per la costruzione (e non, a differenza di Locke, il ristabilimento) dell'ordine rivoluzionario, del Novus ordo, l'eliminazione del nemico interno (giudicato appunto come nemico assoluto).

La guerra civile è quindi la silhouette della nuova guerra interstatale; ma non perché, come ritiene Schmitt, la fine del monopolio della sovranità e dell'equivalenza tra 'politico' e 'statale' abbia comportato l'effetto della sostituzione della guerra interstatale (limitata) con una guerra civile mondiale: la Welt-Bürgerkrieg. L'emergenza della figura del 'nemico assoluto', che sostituisce quella, limitata e 'positiva', del 'nemico reale', si pone per Schmitt come attestazione del nesso di causa ed effetto esistente tra neutralizzazione passiva della sovranità esterna e assolutizzazione moralistica/dissoluzione dei limiti della guerra esterna. Al contrario, si potrebbe più agevolmente ricavare dalla logica stessa del 'politico' l'esito 'iperpoliticizzante' (e autoannichilente) del conflitto assoluto e totale, dove si spezza la tensione tra ordine e conflitto e si smarrisce ogni potenzialità costituente e ordinativa (28), sia sul piano interno che su quello esterno. Da qui un'aporia quasi insolubile del pensiero schmittiano, che imputa ad 'altro' (la neutralizzazione passiva, l'ideologizzazione, la tecnica, l'universalismo) quella che sembra essere la logica stessa del 'politico', ossia il destino del suo autoannichilimento in forme di conflittualismo assoluto.

Il problema risalta ancor di più quando si affronta il tema del 'nemico assoluto': questo è un principio di eccezione che, ed è molto significativo che Schmitt ometta il problema, non scompare nemmeno in alcuni dei teorici della neutralizzazione attiva della violenza interstatuale, da attuarsi mediante un processo di deteologizzazione del diritto internazionale e di circoscrizione del problema del diritto naturale. Figura a questo rilievo particolarmente significativa è Vattel, uno degli ultimi teorici dello jus publicum europaeum, il quale teorizzò la guerre en forme e il 'nemico giusto'; individuò, sviluppando la 'pubblicizzazione' groziana della figura del nemico, la distinzione tra hostis e inimicus (29); neutralizzò il potenziale controversistico racchiuso nel diritto naturale, e tuttavia non eliminò affatto la figura del nemico assolutamente ingiusto, nei confronti del quale vengono messe tra parentesi le norme dello jus in bello e dinanzi alla quale cade la connessione tra forma politica statuale e possibilità della guerra come fenomeno pubblico e relativamente determinato (e limitato) (30). Questa eccezione senza norma compare improvvisamente nel discorso di Vattel, ed è agente sia sul piano interno che su quello esterno. Rispetto al primo, Vattel perpetua il discorso tradizionale sul diritto di resistenza, innervandolo però, ed è questa la grande novità, con il riferimento alla potenza politica costituente della 'Nation'. Il nemico illegittimo non è il sedizioso, ma è colui o coloro che violano le clausole del patto sociale. Sicché la guerra mossa, una volta attivatasi la potenza politica della nazione, contro costoro (che sono i veri re-bellantes) è una guerra sostanzialmente legittima.

L'eccezione alla norma, alla formalizzazione neutralizzante, è uno snodo decisivo per comprendere l'oscillazione politico-morale prerivoluzionaria di Vattel. Nel suo discorso, tuttavia, è ben ferma la convinzione che si tratta appunto di un'eccezione (peraltro definita con criteri precisi soltanto quando attivata sul piano interno) tant'è vero che gran parte del suo Droit des Gens è dedicato alla neutralizzazione del potenziale controversistico e discriminatorio dell'idea di giustizia 'assoluta', giacché la justa causa è intrinsecamente impregiudicabile. Ed è ben chiaro a Vattel che gli effetti della discriminazione dell'avversario sono una intensificazione dell'energia politica conflittualistica tale da dissolvere l'istituto giuridico della guerra e da annientare i limiti giuridici alle potenze «acherontiche» del fenomeno bellico: scrive Schmitt, «la guerra è così eliminata, ma solo perché i nemici non si riconoscono più reciprocamente sul medesimo piano morale e giuridico» (31).

3. La latenza dell'eccezione, presente nell'attivazione della figura del nemico «massimamente ingiusto», coinvolge, come abbiamo visto, tutta la prestazione schmittiana sul 'politico' e sulle connessioni con l'idea di guerra; prestazione che senz'altro, sul piano interno alla forma-Stato, ne mette in discussione una interpretazione pacificata ed geometricamente neutralizzata (il conflitto produce l'ordine, che a sua volta contiene dentro di sé la possibilità del conflitto, l'«appello al cielo» come elemento di aggregazione in vista di una nuova forma politica, ma anche di disaggregazione assoluta: guerra civile, stasis); ma che sul piano esterno, viceversa, attribuisce un'eccessiva e forse mitologica capacità morfologica e neutralizzante allo jus publicum europeo storicamente orientato e situato.

Il 'politico' - questa la cifra tragica del pensiero schmittiano - inteso come «grado di intensità di un'associazione o di una dissociazione di uomini», può 'autosuperarsi' sul piano internazionale in forme «intensive e disumane» attraverso la squalificazione del nemico. I fattori di questo autosuperamento del politico sono per Schmitt molteplici: il principale tra essi è sicuramente lo sviluppo tecnologico-bellico. Scrive nella Teoria del Partigiano: i «mezzi distruttivi assoluti richiedono un nemico assoluto, proprio per non apparire disumani» (32). Il secondo fattore decisivo è l'ideologizzazione, originariamente 'giacobina' (33) (e poi marx-leninista) del conflitto, che comporta, come conseguenza di quella che (non un giacobino ma un girondino come) Brissot chiamava la «croisade de la liberté universelle», l'assolutizzazione del nemico: la «tragica ironia», che Schmitt non coglie in Vattel, viene invece individuata in Rousseau, che da un lato, con la sua teoria della guerra come relation d'État à État, rappresenta il culmine della riflessione sullo justus hostis e sulla guerra statale; dall'altro, costituisce il riferimento teorico principale per il rifiuto giacobino della «liquidazione della guerra civile» e della «limitazione della guerra esterna», e per la loro sostituzione della «guerra puramente statale con la guerra di popolo e la levée en masse democratica» (34). Schmitt non prende minimamente in considerazione la possibilità che l'assolutizzazione della guerra derivi da una torsione ipersovranista, cioè da una concezione della sovranità come assoluta e arbitraria 'illimitabilità', come hobbesiano jus ad omnia, come quello che Habermas chiama esattamente il «potere di autoaffermazione selvaggio verso l'esterno e giuridicamente non sottomesso» (35). Al contrario, per Schmitt l'evoluzione del diritto internazionale nel Novecento si rivela come una 'falsa' giuridificazione celante un'immensa potenzialità discriminatoria e polemogena.

In parte responsabile, paradossalmente, di una torsione del concetto di nemico che è al tempo stesso apparentemente spoliticizzante (il conflitto viene rimosso e criminalizzato) e iperpolitica (per il grado d'intensità degli effetti della 'criminalizzazione' del nemico), è secondo Schmitt l'ideologia cosmopolitica e democratica del XX sec., alla quale Kant dà un contributo decisivo quasi 'riteleogizzante', ed è questa la ragione per cui il filosofo di Königsberg rappresenta per lui una vera e propria di testa di moro teorica. Come risulterà evidente, molto più della «reintroduzione» della guerra giusta (funzionale a Kant per dimostrare la necessità di fuoriuscire dallo stato di natura delle relazioni internazionali), quello che Schmitt non tollera è il tentativo kantiano di pensare una 'giuridificazione' della politica, o meglio: la sua costituzionalizzazione.

4. Il problema della reviviscenza della guerra giusta è quindi la cifra di tutta la riflessione internazionalistica schmittiana, il cui orientamento ideologico-politico immediato è condensato nel sottotitolo di una raccolta di saggi del 1940: im Kampf mit Weimar - Genf - Versailles. In più ampia prospettiva, essa va collocata nel quadro del declino della moderna statualità. Non è possibile discutere in questa sede il senso e le motivazioni del grande affresco schmittiano (sebbene, rispetto alle seconde, non si può non concordare con quanto rilevato da Hasso Hofmann, secondo il quale i «tragici eventi tedeschi tra il 1933 e il 1945 impallidiscono in una totale mancanza di importanza ed ogni questione di colpa diventa, secondo quel che si dice, senza senso») (36), né è il caso di sottolineare la distanza tra l'apologia della connessione tra spazio e diritto e della neutralizzazione dei rapporti interstatali operata dallo Jus publicum Europaeum, e il fatto che la dottrina imperialistica tedesca ne rappresentò una patente e ripetuta violazione (37). Basti solo ricordare che gli scritti dedicati al diritto internazionale sono, come si è già accennato, il punto di incontro di una pluralità di tematiche decisive per la riflessione del giurista tedesco: la teoria del Nomos, il problema del 'politico', il rapporto tra 'politico' e guerra, la funzione neutralizzante della statualità moderna, la lucida critica ai falsi universalismi (38). L'opera più importante, in questo contesto, è Il Nomos della terra, e all'interno del capitolo specificamente dedicato allo Jus publicum Europaeum è possibile leggere la trattazione de Il nemico ingiusto in Kant. Il paragrafo non casualmente segue quello dedicato a Pufendorf, Bynkershoek e Vattel: prima di giungere alla trattazione della tematica kantiana del nemico ingiusto, che giudica essere una grande e irreversibile 'lesione' teorica allo Jus publicum Europaeum, Schmitt traccia un quadro della trasformazione delle guerre medievali (faide, ossia guerre private; crociate, ossia guerre di religione) in guerre statali. In relazione a queste ultime Schmitt parla specificamente di un «concetto umanizzato di guerra», basantesi su due elementi cruciali: 1) formalizzazione (e dunque esclusione) del problema della giustizia sostanziale (justa causa) della guerra (bellum utrimque justum); 2) definizione del concetto di justus hostis.

La Hegung des Krieges, la moderazione della guerra, è il prodotto dell'azione congiunta di questi due fattori di neutralizzazione e razionalizzazione del conflitto, operanti sul piano interno (attraverso il principio ordogenetico del cuius regio eius religio, attraverso la monopolizzazione del potere, con la conseguente esclusione dal 'politico' delle potestates indirectae, e infine mediante la 'positivizzazione' del diritto, che fa sì che «le leggi dello Stato siano indipendenti da ogni contenuto sostanziale di giustizia e di verità, religiosa o giuridica, e che abbiano valore, come norme di comando, solo in forza della determinatezza positiva della decisione statuale») (39); e sul piano esterno, attraverso il riconoscimento interstatuale che hegelianamente avviene proprio con il conflitto: lo jus ad bellum, prerogativa delle sovranità, fonda (con la conseguenza di limitare 'politicamente' e dunque di ordinare la distruttività assoluta dell'evento bellico) lo jus in bello, non in quanto formalizzazione giuridica positiva, bensì come conseguenza storica e concreta (Schmitt parla di «forza vincolante di un ordinamento spaziale eurocentrico») (40). La criminalizzazione del nemico vige in due soli casi: rispetto al nemico interno («traditore» e rebellis) (41); rispetto alle popolazioni extraeuropee, come 'titolo' della conquista.

A grandi linee, l'evoluzione del diritto internazionale moderno consiste per Schmitt nel passaggio epocale da una concezione dei concetti giuridici internazionalistici «ecclesiastica e teologico-morale» ad una «giuridico-statuale» (42). Il quadro descritto da Schmitt è il modello eurocentrico (con incanalamento delle energie conflittuali e discriminatorie all'esterno delle «linee globali» stabilite nel modello pluricentrico vestfaliano) il cui cardine è quel principio di sovranità che rappresenta uno snodo concettuale decisivo anche per la teoria kantiana. Nel momento in cui la sovranità statuale declina, il modello della 'guerra civile'-ideologica prende secondo Schmitt il sopravvento sul modello neutralizzato (ma interno all'Europa) del bellum utrimque justum, che è fattore della limitazione della guerra, concepita in tal modo come «misurazione regolata delle forze che termina con la realizzazione di un nuovo equilibrio» (43). All'ideologia liberale, apparentemente spoliticizzante, Schmitt imputa la trasfigurazione del rifiuto della guerra in vettore di energia discriminatoria e annichilente, totalmente asimmetrica verso un hostis dichiarato unilateralmenteinjustus (e poco rileva per Schmitt che il nemico ingiusto sia tale eticamente o giuridicamente), nonché quella che chiama «trasformazione fondamentale subita dai concetti di nemico, guerra, ordo concreto e giustizia» (44).

All'origine della teoria politico-internazionalistica 'liberale', 'democratica' e 'cosmopolitica' del XX secolo, la teoria kantiana rappresenta il principale antecedente della «soppressione normativistica del diritto internazionale interstatale europeo» (45). Ad essa, Schmitt, pur costretto a riconoscerle una parziale conformità con i princìpi dello jus publicum («gli Stati stanno gli uni di fronte agli altri come persone morali equiparate, e ognuno di essi ha il medesimo diritto alla guerra») (46), il rifiuto del bellum punitivum, del bellum subjogatorium e della guerra di sterminio (bellum internecinum), imputa però la «sorprendente» reintroduzione della figura del nemico ingiusto, nonché una «completa confusione» della dottrina dello justus hostis.

5. Nella esposizione di Schmitt, che si accentra quasi esclusivamente sulla Rechtslehre, i punti rivelativi e problematici dei testi kantiani sono: l'incertezza tra «riconoscimento e negazione» del 'nemico giusto' e il riferimento non neutrale, anzi criminalizzante, alla figura penalistica della 'amnistia': l'improvvisa introduzione della figura del nemico ingiusto, la scarsa definizione di criteri che consentono di qualificare un nemico come ingiusto, l'esitazione dinanzi alla «estreme conseguenze» dell'identificazione tra nemico e criminale. In breve, l'«etica filosofica» kantiana, attraverso la reintroduzione della figura del nemico ingiusto (peraltro sganciata dalla delineazione novecentesca del crime de l'attaque), azzererebbe, secondo Schmitt, la grande «creazione dei giuristi dello Jus publicum Europaeum», «così come in precedenza era stata negata dalla teologia» (47).

Indirettamente, Schmitt imputa a Kant una responsabilità molto grave: la rieticizzazione del diritto internazionale, con tutto il conseguente potenziale controversistico e iperconflittualistico che ne deriva. In assenza di terzo, chi deciderà inoltre sulla 'ingiustizia' del nemico? In questo caso Schmitt ha buon gioco nel cogliere l'esitazione kantiana rispetto alla sovranità: come è noto, Kant non prevede cessioni o limitazioni di sovranità nell'ambito della confederazione degli Stati: «in luogo dell'idea positiva di una repubblica universale (...) rimane soltanto il surrogato negativo di una lega permanente e sempre più estesa, come unico strumento possibile che ponga al riparo dalla guerra e arresti il torrente delle tendenze ostili contrarie al diritto» (48).

Tuttavia, pur non essendo assolutamente estraneo al discorso kantiano il rifiuto etico della guerra («massimo ostacolo della moralità», scrive Kant nel Conflitto delle facoltà in tre sezioni), la grande novità da esso apportata consiste 1) nella ricerca di una soluzione giuridica al problema della guerra e 2) nello stabilimento di un nesso indissolubile tra libertà repubblicana, costituzione interna e pacificazione dei rapporti internazionali. Ma, al di là del rifiuto complessivo, da parte di Schmitt, del modello cosmopolitico kantiano, vale a dire del tentativo di superamento insieme 'politico' e 'giuridico' della situazione di anarchia internazionale, conta in questa sede rilevare se Kant sia responsabile della 'moralizzazione' del diritto internazionale, una tendenza manifesta in quello che già nel 1995 Habermas definiva - paventando una (puntualmente verificatasi) negativa eterogenesi dei fini - 'Menschenrechts-fundamentalismus': vale a dire una «legittimazione morale, ammanta[ta] con una pseudolegittimazione giuridica, a un intervento armato che di fatto fosse soltanto la lotta di una parte contro un'altra» (49).

Sebbene ci sia un collegamento strettissimo, bisogna decisamente distinguere il tema della guerra giusta da quello del nemico ingiusto: quanto alla prima, è innegabile che per Kant la guerra è un male, rispetto al quale cade il «veto» della ragion pratica, e in quanto tale non può essere giustificata. Certamente, esistono condizioni per cui una guerra può essere legalmente 'permessa', ma in una situazione di diritto 'provvisorio' (Metaphysische Anfrangsgründe der Rechtslehre, § 61) qual è quella vigente nello stato di natura degli Stati: situazione nella quale uno Stato «persegue il proprio diritto (...) con la propria forza; giacché nello stato di natura ciò non può accadere mediante un processo» (§ 56). Il riferimento kantiano al nemico ingiusto, giudicato da Schmitt una mossa per annientare la figura del justus hostis e per introdurre un concetto di guerra discriminatorio, serve in realtà a dimostrare la assoluta ingiustizia dello stato di natura, e dunque della guerra. Nello stato di natura tutti i nemici sono ingiusti, proprio perché lo stato di natura è una situazione di assenza di giustizia: come ha scritto Hobbes, e di queste parole Kant era profondo conoscitore: «A questa guerra [lo stato di natura] di ogni uomo contro ogni altro uomo, consegue anche questo, che niente può essere ingiusto. Le nozioni di ciò che è retto e di ciò che è torto, della giustizia e dell'ingiustizia, non hanno luogo qui» (50). Ed è in questo snodo concettuale che si cela un possibile rovesciamento della critica schmittiana: quando Kant afferma che «il diritto di uno Stato verso un nemico ingiusto non ha limiti» (riguardo al «grado»), sottintende evidentemente che in assenza di qualunque limite giuridico e politico, una concezione 'ipertrofica' della sovranità, intesa come assoluto arbitrio, jus ad omnia, conduce il conflittualismo al massimo grado, con l'effetto di eliminare quei «principi» che rendono «possibile uscire» dallo stato di natura, perpetuandolo. Ma ancora di più, il nemico ingiusto, con buona pace di tutti coloro che includono Kant tra i teorici della guerra giusta (51), è una figura che viene descritta da Kant in una situazione (lo stato di natura), in cui «ogni Stato è giudice in casa propria», cioè in una situazione non-giuridica che impedisce ogni universalizzabilità. Sicché è evidente che 1), la qualificazione del 'nemico ingiusto' non può che essere sempre unilateralistica (e dunque ingiusta essa stessa) e 2), quei criteri così laschi che permetterebbero di identificare il 'nemico ingiusto', che è quello «la cui volontà pubblicamente espressa (sia a parole o con i fatti) tradisce una massima secondo cui, se fosse resa regola universale, non sarebbe possibile alcuno stato di pace tra i popoli, e lo stato di natura dovrebbe essere perpetuato», criteri che tanto scandalizzano Schmitt («Una guerra preventiva contro un simile nemico sarebbe ancor più di una guerra giusta. Sarebbe una crociata. Poiché abbiamo qui a che fare non già con un semplice criminale, ma con un nemico ingiusto, con uno che perpetua lo stato di natura») (52), in effetti servono a dimostrare paradossalmente l'ingiustizia in sé della guerra e a sottolineare la necessaria spirale entropica innescata da atti di ostilità intensi che fatalmente conducono alla guerra di sterminio (bellum internecinum): come scrive nel sesto articolo preliminare per la pace perpetua tra gli Stati, da un lato i nemici 'devono' riconoscersi l'un l'altro, mantenendo «una qualche fiducia nella disposizione d'animo»; dall'altro l'impossibilità di una guerra giusta è dimostrata dal fatto che «la guerra è (...) solo il triste mezzo necessario allo stato di natura (dove non esiste tribunale che possa giudicare secondo diritto) per affermare con la forza il proprio diritto, non potendo in tale stato esser considerata nemico ingiusto nessuna delle due parti (perché ciò presuppone una sentenza giudiziaria) e decidendo solo l'esito del combattimento (come nel cosiddetto giudizio di Dio) da quale parte stia il diritto: ma tra i due non è concepibile una guerra punitiva (bellum punitivum) poiché tra essi non sussiste rapporto di superiore ad inferiore». Quest'ultima affermazione, profondamente condizionata dalle tesi di Pufendorf, Wolff, Vattel, è decisiva rispetto alla non condivisione, da parte di Kant, della teoria (etica e premoderna) della guerra giusta. Certo, il pensiero di Kant non è il pensiero di un pacifista assoluto né di un negatore dei conflitti (tant'è vero che per lui la guerra di autodifesa non è propriamente 'giusta', sebbene 'giustificabile'); al contrario, l'idea di una 'pace perpetua' è pensata, con tragica ironia, come un'idea fondamentalmente tanatologica.

E tuttavia sembra essere una notevole forzatura del pensiero kantiano quella che vede in esso una 'riesumazione' dell'idea sostanzialistica di guerra giusta: sia l'analisi non adiafora di Schmitt, sia i tentativi di arruolare Kant tra i teorici della just war e del anticipatory attack, vedono in modo unilaterale, e critico nel primo caso, acritico nel secondo, la centralità dell'idea dei diritti umani come paradossale elemento di giustificazione, politica e morale, dell'evento più distruttivo del principale diritto dell'uomo: quello alla vita. In luogo di una giuridificazione e di una neutralizzazione del conflittualismo dei rapporti internazionali, si avrebbe una fondamentalistica e pseudouniversalistica legittimazione della guerra. In realtà, la strategia kantiana, strutturata sulla base del rifiuto di ogni cosmopolitismo à la Wolff (Weltstaat), cerca di collegare, in un nesso produttivo di pace, costituzione repubblicana e rapporti internazionali, aprendo ad una prospettiva cosmopolitico-costituzionalistica che si sviluppa come moto interno agli Stati, espansivo e non impositivo (53): come ha scritto Habermas, l'ostilità di Schmitt nei confronti della teoria di Kant deriva dalla centralità, evidente in quest'ultima, della «funzione di razionalizzazione del dominio che la costituzione deve assumersi sia all'interno, sia al di là dello Stato nazionale». Razionalizzazione del dominio che però, sul piano internazionale, deve fare necessariamente i conti con il problema della terzietà e della legittimazione. Lo stesso Habermas, peraltro, sembra assumere dalla critica schmittiana, depurata dalla sua concezione della politica «di stampo esistenzialistico», una suggestione rilevante: la trasfigurazione dell'universalismo in unilateralismo «egemonico», e i rischi di tale trasmutazione (54). Ciò senza rinunciare alla centralità dei diritti umani: «Il fondamentalismo dei diritti umani non viene scongiurato rinunciando alle politiche in loro favore, bensì soltanto trasformando cosmopoliticamente in una situazione di legalità lo stato di natura ancora vigente tra gli stati» (55). Evitare la dissoluzione del diritto internazionale, ma anche una esiziale tirannia dei valori, ovvero l'«imposizione unilaterale in punta di baionetta» del «nucleo universalistico della democrazia e dei diritti umani», è oggi una sfida decisiva e terribile. In luogo di un falso universalismo reattivo, unilateralistico e polemogeno, è necessario improntare la comprensione e l'azione ad «un universalismo egualitario che impone un decentramento della propria prospettiva: impone di derelativizzare il proprio sguardo aprendolo alle prospettive interpretative degli altri, visti come pari» (56). Soltanto così è possibile spezzare il legame entropico tra possibilità di ordine e ostilità, e impedire la trasformazione dell'eccezione in norma, consapevoli della latenza dell'eccezione, rispetto alla norma. E tuttavia, proprio per questo, oggi, riprendere la lezione kantiana vuol dire anche rileggere Schmitt, affrontando, senza rimozioni e semplificazioni, senza falsi ottimismi, le latenze e le contraddizioni del suo 'scandaloso' scandagliare l'«opaco nucleo decisionistico della politica» (57).


Note

1. Sulla significatività dell'11 settembre non c'è accordo. C'è chi sostiene che questa data non rappresenti soltanto il precipitato della «crisi spaziale e categoriale della politica moderna», ma che abbia anche una «qualità teologica» (C. Galli, La guerra globale, Laterza, Roma-Bari, 2002); e c'è chi invece chi ritiene che «la trasformazione della guerra e delle sue protesi ideologiche è stata accelerata, non 'causata'» dall'attentato terroristico dell'11/9/2001 (D. Zolo, La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 97). Si tratta, credo, di una discordia concors perché, se da un lato è innegabile che l'11/9 è una data fortemente simbolica, quasi una data 'assiale', dall'altro è evidente che le lente e decisive trasformazioni della guerra, del suo diventare guerra pre e iper-moderna, del suo caricamento ideologico, sono databili immediatamente dopo la caduta del muro di Berlino: non è senza significato che l'intervento statunitense a Panama venne significativamente ribattezzato Operation Just Cause (dic. 1989).

2. Cfr. A. Colombo, La guerra ineguale, Il Mulino, Bologna, 2006 e C. Galli (a cura di), Guerra, Laterza, Roma-Bari, 2004.

3. C. Schmitt, Il Nomos della terra, trad. it. Adelphi, Milano, 1991, p. 132.

4. Un'efficace analisi del nesso tra concezioni della sovranità e qualificazione del nemico è quella di W.G. Wouter, From Justus Hostis to Rogue State. The Concept of the Enemy in International Legal Thinking, "International Journal for the Semiotics of Law", n. 17, 2004.

5. Sul tema vedi F. Viola, Ius gentium e Ius cogens. Alle radici del diritto internazionale dei diritti umani, in V. Possenti (a cura di), Pace e guerra tra le nazioni. Annuario di filosofia 2006, Guerini e Associati, Milano, 2006.

6. N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna, 1991³, p. 65. Il riferimento di Bobbio andava innanzitutto alla guerra termonucleare, ma kantianamente si estendeva a tutte le guerre con eccezione di quelle di autodifesa. La sua sofferta riflessione sulla legittimità della guerra a partire dalla prima guerra del Golfo è ancora oggi una lettura di grande interesse.

7. Le forme attuali della crisi del diritto internazionale si evidenziano nella crisi del principio della eguaglianza formale degli Stati (paradigma statale, portato del modello vestfaliano), e del principio a tendenza sovranazionale e cosmopolitica, sancito dalla carta dell'Onu, secondo il quale l'uso della forza è consentito, oltre che per autodifesa, soltanto dopo l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, ed esclusivamente per il ristabilimento della pace. Nella crisi precipitano conseguentemente le istituzioni internazionali-sovranazionali, la cui funzione è stata storicamente essere al tempo stesso strumento e limite delle grandi potenze.

8. G. Preterossi, L'occidente contro se stesso, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 43.

9. Secondo M. Revelli, «la distanza tra la variante 'giusglobalista' d'origine kantiana e la variante hobbesiana del paradigma politico della modernità» va «radicalmente riducendosi, fino a cancellare, o quasi - nello spazio dilatato della globalizzazione- le differenze di sostanza tra le due», giacché la variante kantiana, pur depurata e «incivilita» si affida anch'essa «al ruolo salvifico della violenza monopolizzata come condizione di efficacia e di effettività della Norma», Id., La critica alla sovranità dello Stato e allo stato di natura nei rapporti internazionali nel XX secolo, in V. Possenti (a cura di), Pace e guerra tra le nazioni, cit., p. 99. Si noti tuttavia che una così proclamata indistinzione assoluta tra forza (legittima) e violenza, e la negazione del rapporto, centrale per il 'giuridico', tra validità, valore ed effettività equivalgono ad una lettura iperpoliticizzante della forma giuridica e delle sue presunte 'esclusioni' che va ben oltre il 'criticismo', e che si espone al rischio di una profonda svalutazione delle sue (residuali) potenzialità catecontiche; svalutazione, peraltro, speculare a quanto sostenuto da posizioni radicalmente neoliberiste. Oltre l''incivilimento' - a volte, questo è vero, solo proclamato e retorico - del diritto, oltre le 'formule giuridiche', cosa rimane, se non l'arbitrio più sfrenato?

10. L'attore di maggiore rilievo sul piano internazionale, l'iperpotenza americana, «si dibatte tra le politiche unilaterali e quelle di valorizzazione delle organizzazioni internazionali per la propria causa, tra la pretesa di fondare la propria azione nel diritto e la tentazione a forzarne le regole quando percepite contrarie agli interessi nazionali», cfr. A. de Guttry - F. Pagani, Sfida all'ordine mondiale. L'11 settembre e la risposta della comunità internazionale, Donzelli, Roma, 2002, p. 133.

11. F. Mini, La guerra dopo la guerra. Soldati, burocrati e mercenari nell'epoca della pace virtuale, Einaudi, Torino, p. 79.

12. A mero titolo d'esempio: «Put simply, non-interventionism is a doctrine that strongly supports the international status quo; it is, therefore, blind to moral dimension of politics. Such a view cannot possibly have a place in an ethical theory of international law rooted in human rights», F. Téson, Humanitarian Intervention, Irvington-on-Hudson, NY, 1997. In ambito statunitense sono numerosi gli interventi di denuncia della «downward spiral of terror and counter-terror» ispirati dal pensiero critico schmittiano. A titolo d'esempio, vedi W.E. Scheuermann, Carl Schmitt and the Road to Abu Ghraib, "Constellations", vol. 13, n. 1, 2006.

13. Significativa è l'emersione di un vero e proprio 'diritto penale del nemico', descritta ad es. da Günther Jakobs.

14. K. von Clausewitz, Della guerra, trad. it. Milano 1970. pp. 28 e 27.

15. A questo proposito non si può non essere d'accordo con S. Rodotà (Quei diritti violati ma irrinunciabili, in "la Repubblica", 19/5/2004, p. 36), quando afferma con nettezza la radicale estraneità tra 'democrazia', le cui «radici sono in valori irrinunciabili, in fini non negoziabili», e forme estreme e organizzate di lesione al corpo e alla dignità umana come la tortura. Peraltro, appare evidente la contraddittorietà dei discorsi contemporanei di legittimazione, in nome dei diritti umani, della guerra nelle sue attuali forme di esplicazione, altamente distruttive e poco selettive: al di là del fatto inoppugnabile che la guerra contemporanea ha segnato un ribaltamento, a sfavore delle ultime, del rapporto tra vittime militari e vittime civili, appare evidente il fatto che è innanzitutto la guerra a rappresentare la più violenta negazione del diritto alla vita degli individui.

16. L'obiezione che Hegel mosse a Kant si appuntava sulla «accidentalità» dell'applicazione del discorso morale (o religioso) al problema della pace internazionale. In questo caso invece è possibile parlare di una assolutizzazione della morale che sta alla base della riemergenza della 'politica assoluta', nel senso dato a questa espressione da Alessandro Pizzorno.

17. M. Kaldor, Le nuove guerre. La violenza organizzata nell'età globale, trad. it. Carocci, Roma, 2003², p. 40.

18. «In the 1990s we witnessed the emergence of a small number of rogue states that, while different in important ways, share a number of attributes. These states:

  • brutalize their own people and squander their national resources for the personal gain of the rulers;
  • display no regard for international law, threaten their neighbors, and callously violate international treaties to which they are party;
  • are determined to acquire weapons of mass destruction, along with other advanced military technology, to be used as threats or offensively to achieve the aggressive designs of these regimes;
  • sponsor terrorism around the globe; and
  • reject basic human values and hate the United States and everything for which it stands».

19. Scrive L. Bazzicalupo, in L'impossibile neutralità: tra diritto umanitario e identità strategiche, in A. Amendola - L. Bazzicalupo (a cura di), Dopo il Nomos del moderno, ESI, Napoli, 2006, p. 40: "All'azzeramento delle mediazioni annunciato dal gesto terrorista risponde, infatti, la guerra globale al terrorismo spazialmente asimmetrica, grandiosamente sproporzionata, giuridicamente illimitata: una guerra che non ha bisogno di giustificazioni, di mise en forme giuridica, perché si tratta di necessità, di sopravvivenza. Azione e reazione".

20. C. Schmitt, Il concetto di 'politico', in. Id., Le categorie del 'politico', trad. it. Il Mulino, Bologna, 1972, p. 139. Sulla «asimmetria» del concetto di 'umanità' cfr. La rivoluzione legale mondiale, trad. it. in C. Schmitt, Un giurista davanti a se stesso. Saggi e interviste, Neri Pozza, Vicenza, 2005, p. 214.

21. Interessanti notazioni storiche in E. De Rienzo, Il diritto delle armi. Guerra e politica nell'Europa moderna, FrancoAngeli, Milano, 2005, pp. 149 e ss. La asimmetria morale e l'universalismo ad intermittenza, giocano un ruolo importante anche in alcuni recenti teorizzazioni (si pensi a Rawls, Walzer, Ignatieff). Un giudizio ambivalente su questi temi è quello di Habermas: «il problematico concetto dei cosiddetti 'Stati canaglia' (John Rawls usa l'espressione più neutra di outlaw States) segnala non soltanto la penetrazione di una mentalità fondamentalistica nella retorica della potenza-guida dell'Occidente, bensì anche la materializzazione della prassi di riconoscimento del diritto internazionale», per cui vi è una 'giusta' discriminazione delegittimante di Stati che «infrangono i criteri di sicurezza e i diritti umani sanciti dalle Nazioni Unite». Vedi J. Habermas, La costituzionalizzazione del diritto ha ancora una possibilità?, in Id., L'Occidente diviso, trad. it. Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 170. Sulla retorica bellicistico-moralistica e sulla recezione distorta di un certo schmittismo-easy nell'ambito del pensiero neo-conservatore statunitense, cfr. A. Norris, "Us" and "them": the Politics of American self-assertion after 9/11, in "Metaphilosophy", n. 3, 2004, p. 258: «Moralistic rhetoric and immoral deeds semm here to call each other forth, and, for all of the evident fundamentalist religiosity of leading members of the Bush administration, the meanings of the political terms in play - terrorist, freedom fighter, liberation, prevention, even war - seem to be determined less by objective or even simply enduring criteria than by the exigencies of a conflict beetwen us and them».

22. C. Schmitt, Il Nomos della terra, cit., p. 194.

23. P.P. Portinaro, Crimini politici e giustizia internazionale. Ricerca storica e questioni teoriche, Working Papers 5, Dipartimento di Studi politici, Università degli studi di Torino, 2005, p. 11.

24. C. Schmitt, Il concetto di 'politico', cit., p. 138.

25. Ivi, p. 121.

26. E.W. Böckenforde, Il concetto di «politico» come chiave per intendere l'opera giuspubblicistica di Carl Schmitt, trad it. in Id., Diritto e secolarizzazione, Laterza, Roma-Bari, 2007 (a cura e con Prefazione di G. Preterossi), p. 117.

27. C. Schmitt, Premessa a Il concetto di 'politico', cit., p. 91.

28. Su questi temi, vedi E. Laclau, On "Real" and "Absolute" Enemies, "The New Centennial Review", vol. 5, n. 1, 2005. L'autore vede nella teoria schmittiana una linea di continuità, anzi, una vera e propria 'progressione' nella successione delle figure 'nemico convenzionale', 'nemico reale' e 'nemico assoluto' (laddove lo stesso Schmitt, nella Premessa del 1963 a Il concetto di 'politico' lamentava una non sufficiente distinzione e separazione delle tre fugure), e, sulla base della sua (di Laclau) teoria 'conflittualista' della democrazia, ritiene di poter individuare, con discutibile riferimento alle tesi gramsciane su 'guerra di movimento'-'guerra di posizione', un «set of possibilities» per evitare l'esito apocalittico della assolutizzazione del nemico, mantenendo la 'produttività' politica del concetto. Al contrario, siamo convinti che l'aporia che si cela nella riflessione di Schmitt nasca appunto dalla tesi, più volte ripetuta dall'autore tedesco, che alla base dell'esito apocalittico e iperconflittualistico della guerra assoluta non ci sia una torsione 'iperpoliticizzante', ma o un'apparente spoliticizzazione, oppure un'ideologizzazione che prescinde dal riconoscimento del nemico. Per cui la 'progressione' nella successione delle figure del nemico esprime soltanto una latenza inespressa (e inesprimibile) della prestazione teoretica schmittiana. Il migliore saggio su questi temi, oltre all'imprescindibile Genealogia della politica di C. Galli (Il Mulino, Bologna, 1996), rimane quello di M. Surdi, I confini del politico. Note su politico e guerra in Carl Schmitt, "Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto", 1979.

29. J. Freund (Il nemico nella guerra e nella pace, trad. it. in "Behemoth", 5-1989, p. 43) afferma che quella di Schmitt non è altro che una ripresa e un approfondimento della distinzione vatteliana.

30. Su Vattel mi permetto di rinviare al mio Diritto, Stato, sovranità. Il pensiero politico-giuridico di Emer de Vattel tra assolutismo e Rivoluzione, ESI, Napoli, 2002.

31. C. Schmitt, Il Nomos della terra, cit., p. 138.

32. C. Schmitt, Teoria del partigiano. Note complementari al concetto di politico, trad. it. Il Saggiatore, Milano, 1981, p. 74. Vedi anche Id., Il Nomos della terra, cit., p. 430: «la discriminazione del nemico quale criminale e la contemporanea implicazione della justa causa vanno di pari passo con il potenziamento dei mezzi di annientamento e con lo sradicamento spaziale del teatro di guerra. Il potenziamento dei mezzi tecnici di annientamento spalanca l'abisso di una discriminazione giuridica e morale altrettanto distruttiva».

33. Schmitt avrebbe dovuto con maggiore adeguatezza storica imputare la responsabilità ai Girondini. Su questo temi rimane fondamentale il saggio di R. Schnur, Idea della pace mondiale e guerra civile mondiale 1791/92, in Id., Rivoluzione e guerra civile, trad. it. Giuffrè, Milano, 1986, con utile Introduzione di P.P. Portinaro. Scrive Schnur: «Per quanto occasioni di sentirsi minacciata gli avversari offrissero alla repubblica, lo scoppio della guerra non era da ricondursi alle macchinazioni belliche della monarchia, ma piuttosto allo scarico di tensioni dell'utopia» (p. 77). Un altro personaggio significativo è Anacharsis Cloots: «i successi della missione per la pace perpetua non sono per Cloots conquiste vecchio stile, bensì applicazione quotidiana delle dichiarazioni dei diritti dell'uomo, conquiste dunque nelle quali sconfitti sono solo i tiranni e vincitrice è soltanto la libertà, che non soggiace ad alcuna valutazione morale o giuridica, giacché è essa stessa la morale e il diritto» (p. 83).

34. C. Schmitt, Il Nomos della terra, cit., p. 178.

35. J. Habermas, La costituzionalizzazione del diritto ha ancora una possibilità?, cit., p. 118.

36. H. Hofmann, Legittimità contro legalità. La filosofia politica di Carl Schmitt, trad. it. ESI, Napoli, 1999, p. 245. Ancora più esplicito Hofmann alla n. 44 della stessa pagina: «Un obbiettivo concreto è il tentativo di dimostrare che la guerra tedesca di aggressione del 1939 non era un crimine dal punto di vista del diritto internazionale».

37. J.L. Villacaňas Berlanga nel suo importante saggio The Nomos of the Earth and the Scandal of Kant: Commentaries on Carl Schmitt's Book, "The South Atlantic Quarterly", 2-2005, p. 279, sottolinea giustamente che «the doctrine of the Greater German Reich (...) was not that of jus publicum Europaeum. The invasion of Belgium did not respect this law. The creation of the German Reich as a 'great sphere' was not jus publicum Europaeum». E. Balibar nota che la teoria internazionalistica di Schmitt, completamente afasica nei confronti della II Guerra Mondiale («comme s'il n'y avait pas eu du nazisme») è incomprensibile senza un riferimento alle conseguenze della I Guerra Mondiale. Cfr. Id., Walzer, Schmitt et la question de la guerre juste, paper presentato al Simposio Internacional "Las teorias de la Guerra Justa en el siglo XVI y sus expresiones contemporaneas", 2003.

38. In un notevole saggio dedicato all'interpretazione delle radici teologiche del Nomos der Erde, M. Koskenniemi (International Law as Political Theology: How to Read Nomos der Erde?, "Constellations", n. 4, 2004) ha sottolineato a ragione il fatto che Schmitt non rifiuta l'universalismo 'tout court', ma il falso universalismo discriminatorio. E' interessante notare che l'apologia schmittiana della figura degli hostes aequaliter justi equivale sostanzialmente ad un apprezzamento positivo al nucleo di quell'idea di 'eguaglianza giuridica' degli Stati valutata come principio fondamentale anche da Kelsen (sul tema vedi. F. Mancuso, Eguaglianza giuridica degli Stati come principio di legalità: Kelsen tra Civitas maxima e sovranità , in A. Amendola - L. Bazzicalupo, Dopo il Nomos del moderno, cit.), denso (questo, non l'idea di guerra giusta) di sostanza etica. La differenza fondamentale sta nel fatto che per Schmitt la situazione di 'anarchia' interstatuale non è una «situazione priva di diritto», C. Schmitt, Il Nomos della terra, cit., p. 173. Sulla violazione dell'eguaglianza giuridica degli Stati, sancita dal Trattato di Versailles, è fondamentale l'opera del 1938 Die Wendung zum diskriminierenden Kriegsbegriff , Duncker & Humblot, Berlin, 1988. Cfr. J.L. Villacaňas Berlanga, Dalla guerra neutrale alla guerra discriminatoria. Hegel e Carl Schmitt, trad. it. in Filosofia e guerra nell'età dell'idealismo tedesco, a cura di G. Rametta, FrancoAngeli, Milano, 2003, p. 225: «La denazionalizzazione della guerra implicava un universalismo che al fondo scioglieva ogni diritto particolare nei diritti dell'umanità (...). Il problema centrale di questo concetto discriminatorio della guerra era che, nonostante la premessa universalistica, esso non era né normativo, né teorico».

39. C. Schmitt, Il Leviatano nella dottrina dello Stato di Thomas Hobbes, trad. it. in Id., Scritti su Thomas Hobbes, Giuffrè, Milano, 1986, p. 94.

40. C. Schmitt, Il Nomos della terra, cit., p. 174.

41. Ivi, p. 195. Importante il riferimento schmittiano a Richard Zouch: «I traditori e i ribelli, che conducono una guerra contro i loro principi o il loro Stato, non possiedono - come i pirati sul mare - alcuni jura belli. Quali justi hostes sono intesi gli avversari di guerra nei confronti dei quali devono essere osservate le regole di guerra del diritto internazionale».

42. «Silete theologi in munere alieno!» è l'intimazione gentiliana che suggella la svolta. Cfr. C. Schmitt, Il Nomos della terra, cit., pp. 133-134 e Id., Ex Captivitate Salus, trad. it. Adelphi, Milano, 1987, pp. 71-80.

43. C. Schmitt, Il Nomos della terra, cit., p. 201.

44. Ivi, p. 136.

45. Ivi, p. 202.

46. Il passo della Rechtslehre kantiana è questo: «(...) uno Stato, considerato in quanto singola persona morale contro un altro Stato nello stato di libertà naturale, dunque anche nello stato di guerra permanente, ha come compito sia il diritto alla guerra, sia il diritto nella guerra, sia il diritto di reciproca costrizione a uscire da questo stato di guerra», in I. Kant, Primi principi metafisici della dottrina del diritto, trad. it. Laterza, Roma-Bari, 2005, p. 271.

47. C. Schmitt, Il Nomos della terra, cit., p. 206.

48. I. Kant, Per la pace perpetua. Un progetto filosofico, trad. it. Editori Riuniti, Roma, 1989, p. 16.

49. Vedi ad es. D. Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, Torino, 2000.

50. T. Hobbes, Leviatano, trad. it. La Nuova Italia, Firenze, 1987, cap. XIII, p. 122. Corsivo mio.

51. Vedi B. Orend, Kant's Just War Theory, in "Journal of the History of Philosophy", n. 2, 1999 (per la lettura 'walzeriana' data da Orend della teoria kantiana, «It seems that Kant's just war theory is quite coherent and both morally and politically defensible», p. 352. Molto più prudente, sebbene non del tutto condivisibile, è la posizione di G. Cavallar, Guerre giuste. Le guerre del Golfo del 1991 e del 2003 e il diritto internazionale filosofico: prospettive kantiane, trad. it. in AA.VV., Kant e l'idea di Europa, Il Melangolo, Genova, 2005: «Kant ha operato (...) una Aufhebung della dottrina tradizionale della guerra giusta: essa viene prima negata (diritto e guerra si contraddicono tra loro) e poi mantenuta in forma modificata, vale a dire come soluzione provvisoria da superare, all'interno di un nuovo sistema di diritto internazionale», p. 95.

52. C. Schmitt, Il Nomos della terra, cit., p. 203.

53. Per la prospettiva interpretativa che legge la dottrina internazionalistica di Kant come il primo tentativo di costituzionalizzazione del diritto internazionale (fortemente debitore, come già notava W.B. Gallie, nei confronti delle formulazioni repubblicane di Vattel e Rousseau), vedi H. Brunkhorst, The Right to War: Hegemonial Geopolitics or Civic Constitutionalism?, in "Constellations", n. 4, 2004: «Only a constitution that transforms all law into self-legislation, and thus transforms positive law from a repressive instrument for keeping the peace into the existence of the free will, can do away with the bellum omnes contra omnes in the interpersonal as well as the international state of nature. Not peace, but freedom through law is the Kant's message», pp. 516-517.

54. Cfr. J. Habermas, L'idea kantiana della pace perpetua, due secoli dopo, trad. it. in Id., L'inclusione dell'altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano, 2002²

55. Ivi, p. 215.

56. J. Habermas, La pace dei vincitori, trad. it. in "Internazionale", 9/15 maggio 2003, p. 24.

57. Due recenti saggi che affrontano il rapporto Schmitt-Kant sono quelli di F. Vander, Kant, Schmitt e la guerra preventiva, manifestolibri, Roma, 2005 H.-G. Schmitz, Kants Lehre vom hostis injustus und Carl Schmitts Kritik dieser Konzeption, "Archiv. für Rechts- und Sozialphilosophie", n. 3, 2003.