2007

Kelsen: la pace internazionale attraverso il diritto internazionale (*)

Danilo Zolo

1. Partendo da Kant

Nel saggio Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, scritto durante la prima guerra mondiale e pubblicato nel 1920, Kelsen si misura per la prima volta con il tema della natura e delle funzioni dell'ordinamento giuridico internazionale (1). Con indubbia originalità e con un'imponente elaborazione teorica egli propone una prospettiva 'monistica' in opposizione sia alla teoria del primato del diritto statale sia a quella del pluralismo paritario delle fonti del diritto. Per Kelsen esiste un solo ordinamento giuridico che include entro un'unica gerarchia normativa il diritto interno e quello internazionale.

Il punto di partenza, in termini sia metodologici che propriamente filosofici, è la lezione razionalistica e universalistica di Kant. Kelsen fa proprie la teoria della conoscenza e la filosofia della scienza elaborate della scuola neokantiana di Marburgo e da esse deduce, seguendo la lezione di Rudolf Stammler, le assunzioni centrali della sua teoria del diritto. Il platonismo (neokantiano) di Hermann Cohen gli trasmette una preoccupazione metodologica quasi ossessiva: quella di eliminare dalla scienza del diritto ogni elemento soggettivo per farne una conoscenza unitaria e oggettiva, e cioè 'pura'. La purezza della conoscenza - aveva sostenuto Cohen e Kelsen ripete - non è altro che la sua 'unità' secondo il modello dalle scienze deduttive. La conoscenza logico-matematica, a differenza delle discipline empiriche che studiano i fenomeni naturali, è una conoscenza autonoma per oggetto e per metodo ed è, inoltre, una conoscenza trascendentale nel senso kantiano, e cioè 'originaria' e valida in sé, indipendentemente da qualsiasi riferimento ai contenuti, alla realtà o alla praxis (2).

L'unità e l'oggettività del metodo logico-matematico esige l'unificazione interna di ciascun ambito conoscitivo, incluso quello del dover essere. Per Cohen e per Kelsen l'universo del dover essere - comprendente le sfere del diritto e dello Stato - è inconcepibile senza un riferimento all'idea logica di 'unità': anche qui "l'unità del punto di vista della conoscenza esige imperiosamente una concezione monistica" (3). In questo caso l'unità è rappresentata dall'umanità nel suo complesso, nella quale soltanto, secondo l'insegnamento kantiano, l'individuo trova il suo senso e il suo compimento.

Il carattere unitario dell'universo giuridico (e, in esso, il primato dell'ordinamento internazionale) è per Kelsen un''ipotesi epistemologica' che corrisponde ad una opzione generalissima a favore dell'oggettività della conoscenza: presuppone una 'oggettiva ragione universale' e una 'concezione oggettivistica del mondo'. In questa epistemologia dell'unità e dell'oggettività della scienza del diritto la dimensione della soggettività statale e persino l'individuo e i suoi diritti - in una paradossale omologazione dell'individualismo degli Stati e dell'individualismo degli individui - vengono subordinati all'oggettività dell'ordinamento universale. Per Kelsen

i soggetti che conoscono e vogliono sono solo forme fenomeniche assai effimere e temporanee, i cui spiriti sono coordinati e affini solo in quanto parti integranti dello spirito universale del mondo, la cui ragione conoscente è solo emanazione della suprema ragione universale. [...] L'individuo, per l'oggettivismo, è mera apparenza. E la teoria giuridica che afferma il primato del diritto internazionale, portando alle sue conseguenze ultime l'oggettività del diritto, deve non solo sopprimere il carattere di unità definitive e supreme dei singoli soggetti statali, ma alla fine deve coerentemente ridurre anche la persona 'fisica', il soggetto giuridico 'naturale', a suo sostrato, e cioè a elemento dell'ordinamento giuridico oggettivo (4).

Al contrario, sostiene Kelsen, il soggettivismo e il relativismo conoscitivo cui si ispira la tesi del primato della sovranità statale conducono non solo ad una logica di 'pura potenza' nei rapporti internazionali ma, ben oltre, alla negazione del diritto e della possibilità di una scienza giuridica (5).

Kelsen ammette che l'accettazione o il rifiuto di queste ipotesi epistemologiche sono, in linea di principio, oggetto di una scelta valutativa in cui sono implicate Weltanschauungen fra loro alternative (6). E tuttavia egli sostiene che il primato del diritto internazionale è imposto da esigenze logico-concettuali ('normologiche') interne all'interpretazione scientifica, e cioè unitaria ed oggettiva, del diritto: si tratta di un'ipotesi che "deve essere accettata se si intende interpretare le relazioni sociali come relazioni giuridiche" (7). Infatti, sostiene Kelsen, "l'essenza imperitura del diritto e tutta la sua esistenza risiedono nella oggettività della sua validità" (8).

2. Civitas maxima

L'unità del diritto e il connesso primato del diritto internazionale significano per Kelsen che l'ordinamento internazionale include tutti gli altri ordinamenti, in particolare quelli statali, ed è ad essi sovra-ordinato. Inteso come ordinamento giuridico originario, esclusivo ed universale, il diritto internazionale è perciò incompatibile con l'idea della sovranità degli Stati nazionali e territoriali e dei loro ordinamenti giuridici: quest'idea deve essere "radicalmente rimossa" (9).

Per corroborare questa duplice tesi Kelsen si impegna anzitutto, ricorrendo agli argomenti formali della sua 'teoria pura del diritto', a mostrare le incongruenze delle teorie pluralistiche o statalistiche sostenute dalla quasi totalità dei giuristi di cultura tedesca, da Felix Somló a Georg Jellinek a Paul Laband, a Hugo Preuss, a Heinrich Triepel, allo hegeliano Adolf Lasson. Egli respinge l'idea che la fonte del diritto internazionale sia l'auto-obbligazione pattizia degli Stati o che l'obbligatorietà delle norme internazionali derivi dal riconoscimento, implicito od esplicito, loro accordato dai governi o dai parlamenti dei singoli paesi.

Per Kelsen il diritto interno degli Stati non è che un 'ordinamento parziale' rispetto all'universalità dell'ordinamento internazionale ed è anzi la piena giuridicità e la validità di quest'ultimo a conferire validità agli ordinamenti statali. Per questa ragione le norme interne non possono mai essere in contraddizione con quelle internazionali, a pena di nullità (10). E quanto al fondamento della obbligatorietà del diritto internazionale, esso non può essere cercato in qualcosa di esterno all'ordinamento medesimo: la sua validità deve essere postulata in termini logico-trascendentali come immagine giuridica del mondo e, nello stesso tempo, come riflesso dell'unità morale del genere umano.

Il vertice dell'autoreferenza formalistica della teoria pura del diritto viene così a coincidere, paradossalmente, con l'antica idea teologica di civitas maxima, riproposta in epoca moderna dalla metafisica illuministica di Christian Wolff, alla quale Kelsen si richiama. Nell'assumerla come fondazione ultima del suo globalismo giuridico Kelsen osserva che questa idea era già presente, prima ancora che nascesse il diritto internazionale moderno, nella nozione di imperium romanum. Essa ha poi attraversato l'intero Medioevo ed è entrata in crisi soltanto agli albori della modernità (11). Ebbene, la teoria pura del diritto è in grado di riscattare questa idea e di provarne la validità scientifica. Lo fa intendendo il diritto internazionale come "ordinamento giuridico mondiale o universale". E il primato di questo ordinamento mondiale può essere correlato all'idea di una 'comunità giuridica universale degli uomini', che travalica le singole comunità statali e la cui validità è ancorata nella sfera dell'etica:

come per una concezione oggettivistica della vita il concetto etico di uomo è l'umanità, così per la teoria oggettivistica del diritto il concetto di diritto si identifica con quello di diritto internazionale e proprio perciò è in pari tempo un concetto etico (12).

Quando l'ordinamento sovrano dello Stato mondiale avrà assorbito tutti gli altri ordinamenti, il diritto diventerà "organizzazione dell'umanità e perciò tutt'uno con l'idea etica suprema" (13). Abbandonata ogni cautela metodologica, Kelsen finisce per impegnarsi in una vera e propria profezia storica:

solo temporaneamente e nient'affatto per sempre l'umanità contemporanea si divide in Stati, che si sono formati del resto in maniera più o meno arbitraria. La sua unità giuridica e cioè la civitas maxima come organizzazione del mondo: questo è il nocciolo politico del primato del diritto internazionale, che è al tempo stesso l'idea fondamentale di quel pacifismo che nell'ambito della politica internazionale costituisce l'immagine rovesciata dell'imperialismo (14).

E' dunque chiaro che l'opzione a favore del primato del diritto internazionale e contro l'idea della sovranità degli Stati nazionali è in Kelsen, a dispetto della pretesa purezza neokantiana della sua scienza del diritto, una scelta ideologico-politica carica di decisioni metodologiche, di assunzioni di valore e di implicazioni etiche. Per un verso Kelsen associa il primato del diritto internazionale ad una ideologia pacifista e antimperialista che intende opporsi alla logica di potenza delle moderne concezioni individualistico-statali e relativistiche. E tuttavia lo fa richiamandosi a nozioni, come quelle di imperium romanum e di civitas maxima, che sembra difficile associare a ideali antimperialisti e pacifisti e che, per di più, possono apparire storicamente superate dopo il tramonto della respublica christiana, la fine dell'Impero medievale e l'affermazione, a partire dalla pace di Westfalia, del moderno sistema pluralistico degli Stati sovrani. Oltre a ciò, Kelsen avanza la proposta conclusiva di una 'rivoluzione della coscienza culturale' in senso globalistico e cosmopolitico. Si tratta di un vero e proprio programma di politica del diritto che propugna un'evoluzione della comunità giuridica internazionale dalla sua condizione 'primitiva', imposta dal dogma della sovranità statale, ad una organizzazione globale dell'umanità: in essa dovranno convergere e integrarsi, sotto l'egida del diritto, la morale, l'economia e la politica (15). Si tratta di un programma che ripropone nel ventesimo secolo una dottrina illuministica e giusnaturalistica risalente all'Europa del settecento.

3. Quattro corollari

L'ipotesi 'monistica' dell'unità dell'universo giuridico e del primato dell'ordinamento internazionale è indissociabile da una serie di assunzioni collaterali alle quali la costruzione kelseniana ricorre. Del resto è una caratteristica dello stile di pensiero kelseniano quella di sviluppare in modo sistematico tutte le possibili implicazioni delle ipotesi centrali della teoria. Almeno quattro corollari meritano di essere qui illustrati e discussi.

1. E' ovvio, anzitutto, che Kelsen non possa sostenere il primato del diritto internazionale senza impegnarsi a sostenere anche la sua giuridicità. Egli deve perciò prendere posizione contro la tesi, risalente a John Austin, che attribuisce all'ordinamento internazionale il carattere di una sorta di 'moralità positiva', non quello di un ordinamento giuridico in senso stretto. Com'è noto, i dubbi sulla natura giuridica dell'ordinamento internazionale sono stati per lo più sollevati facendo leva sulla mancanza a livello internazionale di istituzioni o di strumenti sanzionatori, ovvero sul loro carattere decentrato, frammentario e poco efficace (16).

Kelsen oppone un ragionamento complesso. Per un verso egli ritiene che ogni ordinamento giuridico per essere tale debba essere un sistema coercitivo e per coercizione intende l'esercizio della forza fisica o la minaccia del suo esercizio. Da un punto di vista storico-evolutivo un sistema giuridico è tanto più perfetto quanto più l'esercizio della forza è sottratto all'iniziativa individuale ed è centralizzato in organi specializzati, come i governi e i tribunali. In questo senso il moderno Stato nazionale, pur essendo un ordinamento parziale, è un sistema giuridico perfetto perché al suo interno la pacificazione delle relazioni intersoggettive è garantita al più alto livello possibile attraverso un'elevata centralizzazione dell'uso della forza (17). D'altra parte Kelsen distingue l'aspetto propriamente normativo della coercizione dalla sua effettività e considera quest'ultima come un mero fatto, in quanto tale normativamente ininfluente. Ne consegue che per Kelsen l'ordinamento internazionale è giuridico alla sola condizione che disponga di propri mezzi 'normativi' di coercizione (anche se ineffettivi o poco effettivi). In altre parole, l'ordinamento internazionale è giuridico se emana norme sull'uso della forza e se sulla loro base è possibile qualificare l'esercizio della forza da parte di uno Stato contro un altro Stato o come una sanzione o come un illecito (18).

Il fatto, innegabile, che la comunità internazionale non presenti un livello di organizzazione sanzionatoria e coercitiva paragonabile a quella dei singoli Stati - che manchi cioè di organi specializzati per l'applicazione del diritto - non esclude la giuridicità del suo ordinamento. Posto che la comunità internazionale produce comunque una serie di regole relative all'esercizio della forza, ciò che si può rilevare criticamente è soltanto che l'ordinamento internazionale è un sistema giuridico imperfetto o 'primitivo', a causa del carattere decentrato della sua struttura sanzionatoria. Come tutte le società primitive la comunità internazionale lascia ai propri membri il compito di esercitare la forza nella forma dell'autotutela o del risarcimento forzoso del danno (19). Ma non lo fa in modo indiscriminato: lo fa enunciando certe regole che qualificano come lecito o illecito il ricorso alla violenza fra gli Stati. E queste sono le regole codificate dalla tradizione dottrinale del iustum bellum, a torto trascurate, sostiene Kelsen, dai teorici del diritto internazionale moderno. Sono trascurate a torto perché "chiunque respinga la teoria del iustum bellum nega la natura giuridica del diritto internazionale" (20).

2. La teoria della guerra giusta, rimossa come un residuo dottrinale premoderno dalla grande maggioranza dei teorici giuspositivisti, è riproposta con forza da Kelsen, seppure in una versione semplificata e stilizzata. La guerra, sostiene Kelsen con argomenti che senza dubbio esulano non solo da una teoria 'pura' del diritto ma da un approccio giuspositivistico tout court, è un fenomeno tradizionalmente oggetto di considerazione etica e che l'etica internazionale, dopo la parentesi ottocentesca, sta riprendendo in attenta considerazione. Questa tendenza non deve essere sottovalutata, egli ammonisce, poiché l'etica internazionale è il terreno che alimenta la crescita del diritto internazionale: tutto ciò che essa considera giusto ha buone probabilità di divenire diritto internazionale (21). Non è un caso, sostiene Kelsen, che una serie di patti e trattati internazionali - dal Trattato di Pace di Versailles al Covenant della Società delle Nazioni, al Patto Briand-Kellog - tendano a considerare la guerra come possibile oggetto di una qualificazione giuridica (positiva o negativa).

Se qualificata in senso positivo, la guerra si configura come uno strumento coercitivo introdotto dall'ordinamento giuridico internazionale contro chi viola le sue norme. In questo caso la guerra svolge il ruolo di una sanzione giuridica la cui applicazione è lasciata alla discrezione dei singoli membri della comunità internazionale. Ma essa è una sanzione - e quindi un comportamento giuridico non solo legittimo ma anche doveroso - a condizione che sia 'giusta', che sia cioè un atto di difesa o di reazione (rappresaglia, ritorsione, riparazione, etc.) nei confronti di un illecito internazionale, e che sia condotta dallo Stato vittima dell'illecito o da parte di altri Stati che intendano assisterlo militarmente. Al di fuori di questa ipotesi di iusta causa belli la guerra è un uso illegittimo della forza ed è quindi qualificabile essa stessa come un illecito internazionale (22).

Kelsen riconosce che la mancanza di un'istanza giudiziaria che accerti l'iniziale violazione del diritto internazionale e autorizzi l'atto sanzionatorio della guerra è una grave carenza dell'ordinamento internazionale: una carenza che è appunto l'indice del suo carattere 'primitivo'. Ma questo non impedisce la costruzione di una teoria della 'guerra giusta' che legittimi la guerra quando essa è una sanzione giuridica, e cioè un atto coercitivo che uno Stato esegue in base al diritto internazionale, esercitando così le funzioni di organo della comunità giuridica internazionale (23).

3. Il terzo corollario dell'unità dell'ordinamento giuridico e del connesso primato del diritto internazionale è l'eguaglianza formale degli Stati (almeno sino al momento in cui gli Stati non saranno stati assorbiti dall'ordinamento globale della civitas maxima). Se si prescinde dall'ipotesi monistica è logicamente inconcepibile secondo Kelsen quella che per lui è l'essenza stessa dell'ordinamento internazionale, e cioè l'idea di una comunità di Stati forniti di eguali diritti nonostante la loro diversità dal punto di vista dell'estensione territoriale, della popolazione e del potere. Questa, sostiene Kelsen, è 'un'idea etica per eccellenza', una delle poche veramente indiscusse nella cultura moderna. Ma essa

è possibile esclusivamente con l'ausilio di un'ipotesi giuridica: che al di sopra degli enti giuridici considerati come Stati ci sia un ordinamento giuridico che delimita gli ambiti di validità dei singoli Stati, impedendo ingerenze dell'uno nella sfera dell'altro o ricollegando queste ingerenze a certe condizioni eguali per tutti. E' cioè indispensabile un ordinamento giuridico che regoli con norme eguali per tutti il comportamento reciproco di questi enti e che escluda alla radice, per quanto riguarda la configurazione dei rapporti giuridici particolari tra i singoli Stati, ogni plusvalore giuridico dell'uno rispetto all'altro. [...] Solo in base al primato dell'ordinamento internazionale gli Stati particolari appaiono sullo stesso piano giuridico e possono valere giuridicamente come enti di egual rango, essendo sottoposti in egual misura al superiore ordinamento giuridico internazionale. (24)

E aggiunge, sottolineando l'incompatibilità fra l'eguaglianza formale degli Stati e la loro sovranità e ammettendo esplicitamente il carattere giusnaturalistico dell'idea di civitas maxima:

una molteplicità di enti o comunità giuridiche devono essere titolari di eguali diritti, essere cioè equiparate in una comunità giuridica [...] in cui la libertà dei soggetti (degli Stati) venga limitata dalla loro fondamentale eguaglianza giuridica. Questa idea trova la sua espressione nell'ipotesi, avanzata da Christian Wolff, della civitas maxima, che come ordinamento giuridico è superiore in misura eguale agli Stati particolari. [...] Il carattere 'giusnaturalistico' di una tale fondazione del diritto internazionale non può né deve essere negato. (25)

4. Il quarto corollario riguarda la questione della soggettività giuridica internazionale. Dalla negazione della sovranità degli Stati e dal riconoscimento dell'unità morale e giuridica dell'umanità discende per necessità logica, argomenta Kelsen, il rifiuto della tradizionale concezione groziana del diritto internazionale come ordinamento i cui soggetti sono esclusivamente gli Stati. Secondo questa visione il diritto internazionale riguarda soltanto i rapporti fra gli Stati nazionali ed eventualmente anche i rapporti fra gli Stati e gli organismi internazionali che essi abbiano pattiziamente costituito: non riguarda invece né i rapporti fra gli Stati e i loro cittadini nè, a maggior ragione, i rapporti fra i cittadini di uno Stato e gli organismi internazionali. Secondo questa teoria i comportamenti assunti come rilevanti dal diritto internazionale devono essere imputati non ai singoli individui, nonostante che di fatto siano sempre degli individui ad esserne gli autori, ma agli ordinamenti statali ai quali tali individui afferiscono come sudditi o come cittadini. Gli individui sono dunque privi di soggettività giuridica entro l'ordinamento internazionale e in linea generale non sono direttamente vincolati dalle sue norme, né esposti alle sue sanzioni.

Per Kelsen, al contrario, soggetti di diritto internazionale non possono non essere, accanto agli Stati, i singoli individui e dunque le norme del diritto internazionale devono regolare anche le attività degli individui, esercitando conseguenze dirette nei loro confronti. A Kelsen preme soprattutto stabilire che tutti i soggetti umani sono tenuti all'obbedienza delle norme internazionali (anche se, di sfuggita, egli sostiene che il diritto internazionale è competente a occuparsi anche dei doveri di uno Stato nei confronti dei suoi cittadini (26)). Per Kelsen è infatti inconcepibile, a pena di negare il carattere giuridico dell'ordinamento interno dello Stato, che lo Stato possa obbligare se stesso sul piano internazionale senza con ciò obbligare anche i suoi organi. Ed è d'altra parte impossibile sul piano giuridico separare un organo statale dai sudditi (o cittadini) il cui comportamento viene 'imputato allo Stato' da norme del suo ordinamento (27).

4. I quattro corollari criticati

I quattro corollari che Kelsen fa discendere dal primato del diritto internazionale sono stati variamente criticati, sia sotto il profilo formale, sia per le assunzioni di valore alle quali rinviano in modo implicito ed esplicito. Si è sostenuto che Kelsen deduce arbitrariamente dall'ordinamento giuridico statale l'idea che non ci sia diritto in assenza di un esercizio sanzionatorio della forza fisica (28). Non c'è dubbio che Kelsen abusa della domestic analogy quando giudica 'primitivo' lo stadio in cui si trova l'ordinamento internazionale. Egli assume infatti che per diventare 'maturo', e cioè pienamente giuridico, l'ordinamento internazionale debba svilupparsi sino a soddisfare gli stessi criteri che determinano il carattere giuridico di un ordinamento statale. Ma mentre l'esercizio monopolistico della coercizione fisica (o la sua minaccia in ultima istanza) è senza dubbio una caratteristica saliente degli ordinamenti statali, non si può negare che ci sono efficaci sistemi normativi quello della Chiesa romana ad esempio, che applicano sanzioni senza ricorrere alla coercizione fisica e senza neppure minacciarla. Ed anche sul piano internazionale ci sono ordinamenti, come, fra i molti altri, il sistema delle organizzazioni sportive professionali, che applicano esclusivamente sanzioni pecuniarie o sanzioni di espulsione dall'organizzazione o di esclusione dai suoi benefici (29). Si potrebbe dire, in altre parole, che il monismo giuridico e politico di Kelsen, nel momento stesso in cui si oppone alla sovranità degli Stati, tende a concepire l'ordinamento internazionale proprio in forma statale.

Altrettanto puntuale è stata la critica del tentativo di Kelsen di inserire nella sua teoria 'pura' del diritto la nozione etico-teologica di 'guerra giusta' come fondamento del carattere giuridico del diritto internazionale. E' senza dubbio paradossale che un autore che si richiama a ideali pacifisti e anti-imperialisti - e che fa della pace il fine ultimo del diritto - assuma la guerra (giusta) come condizione di giuridicità dell'ordinamento internazionale (e quindi, data la sua assunzione monistica, del diritto tout court). Di questo paradosso Kelsen sembra farsi consapevole, sia pure parzialmente e tardivamente, in Principles of International Law (30). In questo testo, pur continuando ad aderire alla teoria della 'guerra giusta', Kelsen riconosce che l'applicabilità pratica della teoria è problematica in assenza di una autorità superiore e neutrale che abbia il potere di qualificare gli atti di guerra come giusti o ingiusti. E riconosce come altrettanto grave l'obiezione che fa leva sulla circostanza che soltanto uno Stato più forte dello Stato suo avversario è in grado di usare la guerra come strumento legittimo di coercizione.

Quanto al corollario che dal primato del diritto internazionale deduce l'eguaglianza giuridica degli Stati, si può osservare che Kelsen, nel suo trattato dedicato alla struttura normativa delle Nazioni Unite, The Law of the United Nations, non dedica che un blando commento al carattere formalmente diseguale e gerarchico di questa istituzione (31). In questo testo del 1950 Kelsen passa praticamente sotto silenzio il 'plusvalore giuridico' che qualche anno prima la Carta delle Nazioni Unite aveva accordato alle cinque potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale. Del resto, nel suo stesso progetto di una 'Lega permanente per il mantenimento della pace', pubblicato nel 1944 in appendice a Peace through Law - e quindi prima della fondazione delle Nazioni Unite -, Kelsen aveva previsto l'istituzione di 'membri permanenti' del Consiglio della Lega secondo il modello del Covenant della Società delle Nazioni. Egli proponeva che il privilegio venisse accordato a Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Sovietica e Cina. Si può dunque osservare che in Kelsen l'eguaglianza formale degli Stati - che pure considera, oltre che un principio giuridico, un'idea etica indiscussa nella cultura moderna - è un'assunzione astratta che può restare senza conseguenze sul piano della normazione positiva internazionale (32).

Ma il punto che val la pena soprattutto sottolineare, anche perché è stato sinora trascurato dalla critica, è lo stridente contrasto fra la richiesta kelseniana che anche gli individui siano considerati soggetti dell'ordinamento internazionale e l'idea che la guerra possa essere una 'giusta' sanzione di diritto internazionale nei confronti di Stati (e dei loro cittadini) che abbiano usato la forza illecitamente. Se intesa come sanzione giuridica, la guerra è in sostanza l'esecuzione di una pena capitale collettiva sulla base di una presunzione di responsabilità penale di tutti gli individui che abbiano operato entro le organizzazioni militari dello Stato che si intende punire, dai Capi di Stato Maggiore all'ultimo soldato semplice. Oltre a ciò, non andrebbe trascurato che nelle condizioni moderne la sanzione bellica colpisce in modo indiscriminato sia i responsabili dei comportamenti che si giudicano delittuosi, sia una grande quantità di soggetti del tutto estranei alle decisioni e alle operazioni belliche e magari vittime del potere totalitario dell'élite politica interna che ha scatenato la guerra. Dal punto di vista delle sue conseguenze distruttive - prive di regola, di misura e di proporzione - la guerra moderna non è facilmente distinguibile dal terrorismo internazionale. (E' forse il caso di ricordare che Kelsen scrive Peace through Law proprio negli anni in cui la guerra 'giusta' degli Alleati si sta concludendo con i 'bombardamenti terroristici' (33) su città tedesche come Dresda, Amburgo e Berlino, e poi con lo sganciamento delle bombe atomiche sul Giappone). Con argomenti analoghi a quelli usati da Kelsen si potrebbe dunque proporre una teoria del 'terrorismo giusto' come sanzione giuridica internazionale e ritenere che un'azione terroristica possa essere un valido atto giuridico.

Ma a parte quest'ultimo argomento formale, è dubbio che Kelsen resti fedele ad una ispirazione liberale e democratica quando concepisce la guerra come una sanzione penale, sia pure tecnicamente primitiva, nonostante che essa colpisca la vita, la libertà o i beni di singoli individui sulla base della loro semplice afferenza ad un determinato Stato, e cioè prescindendo da ogni loro responsabilità personale. Un individuo, scrive Kelsen, può essere legittimamente punito "sulla base della cosidetta 'responsabilità oggettiva' (absolute liability), pur non avendo agito in modo volontario e doloso, e neppure per colpa o negligenza" (34). A ciò si può aggiungere che nello stesso testo Kelsen sostiene l'impraticabilità sul piano internazionale del principio democratico 'una testa un voto' perché, se applicato nell'elezione di un parlamento mondiale, potenze demografiche come l'India e la Cina godrebbero di una rappresentanza tre volte superiore a quella degli Stati Uniti e dell'Inghilterra messi assieme (35). L'internazionalismo giuridico di Kelsen disattende dunque due principi fondamentali della tradizione liberaldemocratica: il carattere personale della responsabilità penale e la titolarità individuale del potere costituente.

5. Peace through Law

In Peace through Law Kelsen disegna una compiuta strategia giuridico-istituzionale per il perseguimento di una pace stabile e universale fra le nazioni. Kelsen mutua da Kant sia l'ideale della pace perpetua, sia il modello federalistico, sia infine l'idea di un Weltbürgerrecht, di un 'diritto cosmopolitico' che comprenda come propri soggetti tutti i membri della specie umana (36). Secondo Kelsen la via maestra per realizzare l'obbiettivo della pace è l'unione di tutti gli Stati (o del maggior numero possibile di essi) in uno Stato federale mondiale. Si dovrebbero perciò concentrare gli strumenti di potere e le forze armate degli Stati nazionali e porli a disposizione di un governo mondiale sottoposto a leggi emanate da un parlamento mondiale. Ai singoli Stati verrebbe riservato il ruolo di membri di una federazione universale, secondo un'applicazione planetaria del modello federale degli Stati Uniti o della Svizzera (37). L'abbandono del paradigma statocentrico e la centralizzazione delle istituzioni internazionali potrebbero rappresentare il rimedio definitivo sia al carattere primitivo dell'ordinamento internazionale, sia alla conclamata ineffettività del diritto bellico.

Kelsen tuttavia riconosce che questo ideale è di difficile realizzazione se si intende arrivare allo Stato mondiale con metodi democratici, ispirati ai valori della libertà e dell'eguaglianza, e non si abbia invece di mira una pax romana basata sulla subordinazione degli Stati nazionali ad una potenza imperiale. Una considerazione realistica della situazione internazionale che si profila per il secondo dopoguerra, pensa Kelsen, mostra l'ingenuità di una meccanica applicazione della domestic analogy: l'instaurazione attraverso un trattato internazionale di una struttura federale mondiale è cosa infinitamente più complessa dell'unificazione politica di un popolo o di un territorio nazionale (38).

Per Kelsen la costruzione dello Stato mondiale può essere un obbiettivo realistico a condizione che sia pensata come il risultato di un lungo processo storico e non di una rivoluzione o di una improvvisa accelerazione. Soltanto attraverso numerose tappe intermedie e sulla base di un consapevole impegno ideologico-politico ed educativo è possibile arrivare ad una attenuazione dei sentimenti nazionali e a un livellamento delle differenze culturali dei vari paesi. Ma se è utopistico pensare come immediatamente realizzabile l'obbiettivo dello Stato mondiale, afferma Kelsen, è però plausibile che si arrivi in tempi brevi ad un trattato che fondi una nuova organizzazione internazionale per il mantenimento della pace. Scrivendo nel 1944, Kelsen pensa che la situazione del secondo dopoguerra, che egli prevede caratterizzata dalla presenza di non più di tre o quattro superpotenze senza eccessive pretese territoriali, sia da questo punto di vista molto favorevole: grazie ad un accordo fra le potenze vincitrici del conflitto mondiale sarà finalmente possibile realizzare 'the idea of international peace through international law' (39).

E' alla luce di questa prospettiva realistica e riformistica che Kelsen elabora il progetto di una 'Lega permanente per il mantenimento della pace'. Si tratta di un progetto che inserisce nel vecchio modello della Società delle Nazioni alcune rilevanti novità che accordano un ruolo centrale alle funzioni giudiziarie rispetto a quelle del governo e della legislazione. Il fallimento della Società delle Nazioni, sostiene Kelsen, si deve proprio al fatto che al centro delle sue funzioni non c'era la Corte di giustizia ma il Consiglio, e cioè una specie di governo internazionale. Questo è stato un 'fatale errore di costruzione' perché la più grave lacuna dell'ordinamento internazionale - quella che rende inefficace la teoria della 'guerra giusta' - è proprio l'assenza di un'autorità giudiziaria. Una pace stabile può essere assicurata soltanto da una Corte di giustizia internazionale che sia accettata generalmente e obbligatoriamente come competente a regolare le controversie internazionali e cioè a rispondere in modo imparziale alla domanda su quale delle parti in conflitto abbia ragione e quale abbia torto. In assenza di questa autorità superiore e neutrale ogni Stato ha di fatto la competenza a decidere chi ha violato il diritto internazionale e a far ricorso alla guerra o alla rappresaglia contro i presunti violatori del diritto internazionale (40).

Finita la guerra mondiale, il primo passo verso la pace dovrebbe essere dunque l'istituzione di una Corte di giustizia internazionale, titolare di una giurisdizione obbligatoria: tutti gli Stati aderenti al trattato dovrebbero obbligarsi a rinunciare alla guerra e alle rappresaglie come strumenti di regolazione dei conflitti e a sottoporre le loro controversie alla decisione della Corte e ad applicare fedelmente le sue sentenze. Kelsen pensava che un trattato del genere avrebbe dovuto essere sottoscritto anzitutto dalle potenze vincitrici, inclusa l'Unione Sovietica, e che ad esso avrebbero potuto essere ammesse successivamente anche le potenze dell'Asse, una volta che fossero state disarmate e sottoposte a rigorosi controlli politici e militari (41). E non c'era ragione di temere che le Grandi potenze, una volta sottoscritto il Patto, non avrebbero rispettato le decisioni della Corte o non la avrebbero assistita con la loro forza militare nel far valere le sue sentenze. Nè aveva molto senso sostenere che in questo modo si sarebbe ratificata sul piano giuridico la loro egemonia politica e militare. In realtà, le Grandi potenze si sarebbero fatte garanti del diritto internazionale: sarebbero state "il potere che sta dietro la legge". Accettando le regole del patto e facendole osservare le Grandi potenze si sarebbero impegnate ad esercitare la loro inevitabile preponderenza entro le forme del diritto internazionale anziché in modo arbitrario (42).

Kelsen non si nasconde che la difficoltà più grave è l'esigenza di dar vita ad una forza di polizia internazionale, diversa e indipendente dalle forze armate degli Stati membri, che applichi coercitivamente le sentenze della Corte nei casi in cui uno Stato si rifiuti di obbedire o faccia ricorso alla guerra in dispregio dei patti. Nè si nasconde che l'organizzazione di una forza di polizia alle dipendenze della Corte richiederebbe in sostanza la costituzione di un potere esecutivo centralizzato, dotato di una forza armata di considerevole potenza. E questo sarebbe possibile solo obbligando tutti gli Stati membri a disarmare o a limitare in misura drastica il proprio armamento, con la conseguente restrizione, se non la totale soppressione, della loro sovranità.

E' dunque realistico, pensa Kelsen, rinviare ad un secondo tempo l'organizzazione di una forza di polizia internazionale e iniziare subito con la semplice istituzione della Corte. Solo quando la Corte si sarà conquistata la fiducia universale dei governi grazie all'imparzialità dei suoi verdetti, sarà possibile dar vita ad una effettiva polizia internazionale. Nella fase intermedia le risoluzioni della Corte saranno eseguite contro un eventuale Stato recalcitrante dagli altri membri della comunità internazionale, se necessario usando le loro forze militari sotto la direzione di un'unità amministrativa alle dipendenze della Corte. In questo modo, seguendo una legge generale di evoluzione delle istituzioni giuridiche, sarà l'attività dei giudici internazionali, e non quella dei legislatori o degli amministratori, a creare il nuovo diritto internazionale (43).

C'è un secondo punto che, è noto, sta molto a cuore a Kelsen: egli ritiene che uno dei mezzi più efficaci per garantire la pace internazionale sia l'approvazione di regole che stabiliscano la responsabilità individuale di chi, come membro di governo o comunque agente dello Stato, sia ricorso alla guerra in violazione del diritto internazionale e cioè del principio del iustum bellum (44). La Corte dovrà dunque non soltanto autorizzare l'applicazione di sanzioni collettive ai cittadini di uno Stato in base ad una loro 'responsabilità oggettiva', ma dovrà anche sottoporre a processo e punire singoli cittadini personalmente responsabili di crimini di guerra. E gli Stati saranno obbligati a consegnare alla Corte i loro cittadini incriminati. Essi potranno essere sottoposti a sanzioni, inclusa a certe condizioni la pena di morte, anche in violazione del principio della irretroattività della legge penale, alla sola condizione che l'atto, al momento del suo compimento, fosse considerato ingiusto dalla morale corrente, anche se non vietato da alcuna norma giuridica (45).

Poste queste premesse, Kelsen non può trattenersi dal criticare, in Peace through Law, il proposito espresso dalle Potenze Alleate di dar vita ad un Tribunale internazionale che avrebbe dovuto essere composto soltanto di giudici appartenenti alla potenze vincitrici - con l'esclusione anche di rappresentanti di Stati neutrali - e sarebbe stato competente a giudicare solo i criminali nazisti, e cioè i vinti. E sull'argomento Kelsen ritorna ancora più severamente in uno scritto del 1947, dedicato ad una critica delle procedure e delle decisioni adottate nei processi di Norimberga (46). La punizione dei criminali di guerra, afferma Kelsen, dovrebbe essere un atto di giustizia e non la continuazione delle ostilità con strumenti formalmente giudiziari ma in realtà rivolti a dare soddisfazione ad una sete di vendetta. Ed è incompatibile con l'idea di giustizia che solo gli Stati vinti debbano essere obbligati a sottoporre i loro cittadini alla giurisdizione di una corte internazionale per la punizione dei crimini di guerra. Anche gli Stati vittoriosi avrebbero dovuto trasferire la giurisdizione sui propri cittadini che avessero violato le leggi di guerra al Tribunale di Norimberga, che avrebbe dovuto essere un'assise indipendente e imparziale e non una corte militare o un tribunale speciale. E non c'era alcun dubbio, per Kelsen, che anche le potenze alleate avessero violato il diritto internazionale. Solo se i vincitori sottomettono se stessi alla medesima legge che intendono imporre agli Stati sconfitti, ammonisce Kelsen, è salva la natura giuridica, e cioè la generalità, delle norme punitive ed è salva l'idea stessa di giustizia internazionale (47).

6. Globalismo giudiziario

In sintesi, si può dire che il pacifismo giuridico kelseniano comporti due tesi essenziali: una tesi globalistica e una tesi giudiziaria. Kelsen per un verso pensa che una pace stabile e universale potrà essere garantita soltanto da un sistema giuridico internazionale non più 'primitivo'. Nel suo lessico teorico, abbiamo visto, questo significa che per impedire l'uso della violenza fra gli Stati è necessaria una centralizzazione dell'ordinamento internazionale, in particolare dei suoi organi sanzionatori, in vista della costituzione di uno Stato federale mondiale. Per questo aspetto il pacifismo kelseniano si iscrive, senza molti elementi di originalità, nella tradizione del cosmpolitismo classico-cristiano, riproposta in chiave illuministica da Wolff e da Kant (48).

Per un altro aspetto, questo sicuramente originale, Kelsen fa risalire il fallimento del pacifismo istituzionale moderno al primato concesso alle funzioni di governo rispetto a quelle giudiziarie. Per Kelsen la pace può essere garantita soltanto da una Corte internazionale di giustizia che operi come un Terzo superiore e imparziale rispetto alle contese fra gli Stati e che abbia alle sue dipendenze una forza di polizia internazionale (49).

Posto che questa sia una sintesi corretta del pacifismo kelseniano, può aver senso chiedersi se esso presenti aspetti realmente innovativi e soprattutto se sia, come Kelsen pretende, una proposta più realistica rispetto alla tradizione del pacifismo istituzionale europeo e occidentale. L'interrogativo va posto, ovviamente, alla luce degli sviluppi che le istituzioni internazionali hanno conosciuto nella seconda metà del nostro secolo, a partire dalla fondazione delle Nazioni Unite nel 1945.

Occorre osservare anzitutto che la tesi globalistica si fonda in Kelsen sull'adozione della domestic analogy sia sul terreno giuridico, sia su quello politico-istituzionale, anche se, per questo secondo aspetto, egli mostra una maggiore cautela. Ma sul piano metodologico è assai dubbio che il riferimento analogico all'evoluzione dello Stato moderno europeo sia in grado di fornire schemi affidabili per la costruzione di una teoria dei rapporti internazionali e, in particolare, di una teoria di peace-making. E' infatti controverso che la società mondiale contemporanea possa essere considerata in qualche senso analoga alla nascente civil society che ha fatto da supporto al processo di centralizzazione giuridica e politica che ha portato in Europa allo Stato liberale di diritto. Più in generale, come abbiamo accennato, è dubbio che lo sviluppo del diritto internazionale possa essere misurato sul quadrante dell'evoluzione del diritto statale.

E dunque, anche riconoscendo che la centralizzazione giuridica e politica ha dato risultati significativi dal punto di vista della 'pacificazione' dei rapporti sociali all'interno degli Stati nazionali europei, nulla garantisce che la concentrazione del potere sanzionatorio nelle mani di una suprema autorità sovranazionale sia la strada maestra per costruire un mondo più sicuro, ordinato e pacifico. La teoria dei 'regimi internazionali' elaborata da Stephen Krasner e Robert Keohane, ad esempio, sembra contraddire questa assunzione, mostrando come ci siano ampie aree di 'anarchia cooperativa' entro le quali le obbligazioni giuridiche internazionali sono effettive ed efficacemente sanzionate pur in assenza di una giurisdizione accentrata e di una polizia internazionale (50). Nell'ambito internazionale l'assenza di una giurisdizione obbligatoria non sembra equivalere ad una situazione di primitivismo giuridico nella quale l'autotutela armata rappresenti la sola forma di sanzione possibile degli illeciti (anche se, naturalmente, la violenza vi è molto presente, come lo è, del resto, anche all'interno degli Stati, a cominciare dagli Stati Uniti).

Per un altro verso quella omologazione delle diversità culturali e quella estinzione dei sentimenti di appartenenza nazionale che Kelsen auspica come premesse dell'unificazione giuridica del mondo possono essere guardate con notevole diffidenza da parte di chi pensi che la varietà delle culture e la pluralità delle identità etnico-nazionali siano risorse antropologiche irrinunciabili. E la diffidenza può diventare ostilità in chi tema che il progetto globalistico esprima una mai sopita vocazione egemonica del mondo occidentale. Autori contemporanei sostengono che le dottrine globalistiche non sono che il contrappunto ideologico dei processi di globalizzazione in corso, nei quali si afferma la supremazia tecnologica, economica e militare delle potenze industriali (51). Non si può d'altra parte sottacere che in Kelsen la proposta dello Stato mondiale presenta tutti i connotati culturali dell'etnocentrismo europeo. Essa non solo si ispira, come abbiamo visto, ad una tradizione di pensiero estranea ad una visione pluralistica dei rapporti fra le nazioni, ma prescinde da qualsiasi interesse per le culture e le tradizioni politico-giuridiche diverse da quella occidentale.

Si potrebbe addirittura insinuare che il globalismo kelseniano, associato alla riproposizione della dottrina medievale del iustum bellum e all'idea di una Corte di giustizia che abbia il potere di risolvere le contese militari fra gli Stati, evochi l'immagine della respublica christiana con al centro l'indiscussa auctoritas spirituale e giuridica del Papato romano. Ma, a parte questo aspetto anacronistico, il pacifismo giudiziario kelseniano sembra essere stato finora smentito proprio nella sua aspirazione a presentarsi come una proposta innovativa e nello stesso tempo realistica. L'asprezza con cui Kelsen prima ha denunciato la parzialità del Tribunale di Norimberga (52) e poi ha criticato lo strapotere politico-militare concesso dalla Carta delle Nazioni Unite al Consiglio di Sicurezza (53) è la spia dell'impraticabilità del pacifismo giudiziario kelseniano, del suo carattere illusorio. La delusione di Kelsen è la prova che la sua distinzione fra pacifismo 'giudiziario' e pacifismo 'governativo' ha scarso rilievo.

Se Kelsen tacitamente assumeva, come pure alcuni indizi inducono a sospettare, che la Corte di giustizia avrebbe dovuto essere assistita per sempre - e non soltanto in una (indefinita) fase iniziale - dalla forza militare delle Grandi potenze, allora la sua proposta si collocherebbe senza originalità entro la tradizione del pacifismo istituzionale che va dalla Santa Alleanza alla Società delle Nazioni, alle Nazioni Unite. E mostrerebbe di fondarsi su una concezione riduttiva della pace internazionale come pura e semplice garanzia politico-militare della sicurezza collettiva, e cioè dello status quo egemonico. E' evidente infatti che una Corte internazionale che per l'esecuzione delle sue sentenze fosse costretta a far ricorso alla forze armate delle Grandi potenze non potrebbe essere imparziale, in particolare quando dovesse occuparsi di conflitti nei quali fosse coinvolta una grande potenza. La Corte non potrebbe essere più imparziale dell'attuale Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, subordinato dal potere di veto di alcune Grandi potenze, o della Nato. Nè la sua giurisdizione potrebbe invocare alcun fondamento di tipo liberale o democratico-rappresentativo. L'aspettativa, alla quale Kelsen allude, che le Grandi potenze possano svolgere il ruolo di rigorose garanti del diritto internazionale rispettandone le norme e applicando le sentenze di una Corte internazionale, anche se confliggenti con i loro interessi vitali, è di un ottimismo sicuramente eccessivo.

D'altra parte è evidente che una Corte internazionale, per ottenere l'esecuzione delle proprie sentenze senza ricorrere dalla forza militare delle Grandi potenze (o addirittura contro di esse), dovrebbe disporre di un potere eccezionalmente elevato: dovrebbe essere essa stessa una superpotenza (nucleare) o l'organo giudiziario di una superpotenza (nucleare), dotata di una forza soverchiante rispetto alle altre Grandi potenze. E sono facilmente congetturabili le conseguenze che questo avrebbe in tema di imparzialità delle sue sentenze. E' appena il caso di aggiungere che la concentrazione del potere politico-militare nelle mani di un organismo internazionale - governativo o giudiziario che sia - equivale alla concentrazione in esso del jus ad bellum sottratto agli Stati nazionali. Qualsiasi 'operazione di polizia' esercitata da un'autorità sovranazionale che detenga il monopolio mondiale della forza è destinata inevitabilmente ad assumere i connotati più classici della guerra, come sembra aver provato la guerra del Golfo Persico del 1991 (54).

7. Conclusione

Quale valore teorico può essere complessivamente riconosciuto alla dottrina internazionalistica kelseniana - dalla concezione monistica del diritto al primato del diritto internazionale, al pacifismo globalistico-giudiziario - al di là dei singoli rilievi che sono stati espressi in queste pagine?

Anche i critici più severi hanno riconosciuto a Kelsen un grande merito storico: il merito di aver impresso agli studi di diritto internazionale una svolta decisiva che li ha indotti a superare l'angusta prospettiva del giuspositivismo statalistico e a porsi il problema dell'ordine mondiale in termini profondamente nuovi. Non c'è dubbio che Kelsen ha anticipato di cinquant'anni buona parte dei problemi giuridici ed istituzionali che sarebbero emersi sul piano internazionale nella seconda metà del nostro secolo. Si pensi ai processi di globalizzazione che hanno posto in termini drammatici il tema della crisi degli Stati nazionali e del sistema westfaliano fondato sulla loro sovranità. Si pensi alla crescente affermazione della dottrina dei diritti dell'uomo e alla nuova prassi degli 'interventi umanitari' a loro tutela, fenomeni che hanno entrambi contribuito ad estendere di fatto la soggettività di diritto internazionale anche agli individui. E si pensi soprattutto alla recente costituzione dei Tribunali penali internazionali per la ex-Jugoslavia e per il Ruanda - competenti a giudicare dei crimini di guerra e dei crimini contro l'umanità commessi da singoli individui - che molto probabilmente prelude all'istituzione in tempi brevi di una Corte penale internazionale permanente.

Oltre a ciò, non si può non riconoscere la profonda originalità e la grandiosità teorica della elaborazione internazionalistica kelseniana, come hanno sostenuto, fra i molti altri, Norberto Bobbio, Richard Falk e Antonio Cassese (55). E non si può non riconoscere infine che, a dispetto della proclamata purezza della sua dottrina - ed anzi interpolando in essa, con sistematica incoerenza, una quantità di assunzioni di valore e di riferimenti storico-empirici, - Kelsen si rivela un giurista come pochi altri attento alle vicende internazionali del suo tempo: dalla 'follia nazionalistica' che ha investito la cultura europea al fallimento della Società delle Nazioni, all'imperativo prioritario della costruzione di un assetto più ordinato e pacifico del mondo dopo il flagello di due guerre mondiali.

A mio parere a questi riconoscimenti devono essere accostati i rilievi critici che ho via via esposto in questo saggio e che pongono in discussione non i meriti storici di Kelsen, ma la fondazione teorica e il realismo politico delle sue proposte. Questi rilievi possono essere compendiati, conclusivamente, nei seguenti quattro punti:

1. sul piano dell'epistemologia della conoscenza giuridica l'assunzione monistica kelseniana sta o cade con la filosofia neokantiana da cui è dedotta. Oggi una filosofia della scienza post-positivistica e post-empiristica contesterebbe in radice l'idea che il modello logico-matematico possa essere assunto come il paradigma del sapere giuridico. E un approccio di tipo sistemico fornirebbe importanti premesse per una concezione relativistica, pluralistica e policentrica - non oggettivistica, non monistica e non gerarchica - dei fenomeni giuridici interni e internazionali. E sconsiglierebbe di trattare il diritto internazionale con le stesse categorie del diritto statale.

2. la tesi del primato del diritto internazionale (con i suoi quattro corollari, in particolare l'adesione alla dottrina del iustum bellum) non può aspirare ad alcuna oggettiva validità scientifica, neppure nella versione attenuata che la presenta come un'ipotesi necessaria per la costruzione del sapere giuridico: dal punto di vista cognitivo essa non è più necessaria dell'opposta ipotesi 'soggettivistica' che argomenta il primato del diritto statale e non subordina la dimensione individuale all'oggettiva validità del diritto. In Kelsen - intellettuale austriaco personalmente coinvolto nella tragedia della seconda guerra mondiale - l'internazionalismo giuridico è molto probabilmente una (nobile) opzione etico-politica;

3. il pacifismo kelseniano è ispirato da un duplice ottimismo normativo. Per un verso muove dalla supposizione razionalistica che sia possibile abolire la guerra, disarmare gli Stati, attenuare i conflitti politici e superare le immense disparità economiche e culturali che solcano il pianeta affidandosi essenzialmente a strumenti giuridico-istituzionali, e cioè dando vita a un potere sovranazionale che si immagina per definizione imparziale, razionale e moralmente ispirato. Per un altro verso il pacifismo di Kelsen riposa su una grande fiducia negli strumenti penali. Assume infatti come una certezza che la punizione esemplare di alcuni individui responsabili di crimini di guerra da parte di una Corte internazionale possa operare come un efficace strumento dissuasivo nei confronti di possibili guerre future. Kelsen è fermamente convinto che un'attività giudiziaria sovranazionale sia in grado di incidere sulle dimensioni macrostrutturali della guerra molto più di un'attività diplomatica, politica od economica;

4. il globalismo giuridico kelseniano auspica la realizzazione di una pacifica comunità mondiale sulla base del postulato dell'unità della specie umana. Morale universale, diritto universale e Stato universale costituiscono per Kelsen una compatta unità normativa. In questo tentativo di trapiantare nel 'caos' del ventesimo secolo e di proprorre per l'umanità intera l'idea classico-cristiana e illuministica di armonia universale stanno il fascino e la fragilità dell'internazionalismo kelseniano (56).


Note

*. 'La guerra, il diritto e la pace in Hans Kelsen', Filosofia politica, 12 (1998), 2.

1. Si veda H. Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts. Beitrag zu einer Reinen Rechstlehre, Tübingen, Mohr, 1920, trad. it. Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale, Milano, Giuffrè, 1989; H. Kelsen, Les rapports du système entre le droit interne et le droit international public, 'Recueil des cours de l'Académie de droit international', 13 (1926), 4; H. Kelsen, Die Einheit von Völkerrecht und staatlichen Recht, 'Zeitschrift für ausländishes öffentliches Recht', 19 (1958); H. Kelsen, Souveränität (1962), in H. Kelsen, A. Merkl, A. Verdross, Die Wiener rechtstheoretische Schule, Bd. 2, Wien, Europa Verlag und Anton Pustet, 1968; H. Kelsen, The Essence of International Law, in K.W. Deutsch, S. Hoffmann (a cura di), The Relevance of International Law. Essays in Honor of Leo Gross, Cambridge (Mass), Schenkman Publishing Company, 1968.

2. Cfr. le illuminanti pagine della 'Prefazione' in H. Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, trad. it. cit., pp. IIIb-VIe.

3. H. Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, trad. it. cit., p. 180. Altrove: "Il postulato dell'unità della conoscenza vale senza limiti anche per il piano normativo e trova qui la sua espressione nella unità ed esclusività del sistema di norme presupposto valido, ovvero, il che è lo stesso, nella necessaria unità del punto di vista della considerazione, valutazione e interpretazione" (ivi, pp. 154-5). Sull'epistemologia neokantiana di Kelsen cfr. H. Dreier, Rechtslehre, Staatssoziologie und Demokratietheorie bei Hans Kelsen, Baden-Baden, Nomos Verlagsgesellschaft, 1986, pp. 56-90; si veda inoltre H. Kelsen, F. Sander, Die Rolle des Neukantianismus in der Reinen Rechtslehre: eine Debatte zwischen Sander und Kelsen, a cura di S.L. Paulson, Aalen, Scientia Verlag, 1988; e l'utile 'Presentazione' di Agostino Carrino in H. Kelsen, Il problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale, cit., in particolare alle pp. XIII-XX.

4. H. Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, trad. it. cit., pp. 463-4. Altrove, con rigoroso giuspositivismo: "gli unici diritti che esistono sono quelli che derivano dall'ordinamento giuridico o sono conferiti dallo Stato. Le personalità inserite nello Stato hanno i loro diritti (e i loro obblighi) non come portatori di diritto, come persone. Essi sono persone solo nella misura in cui lo Stato o l'ordinamento giuridico sancisce i loro diritti ed obblighi, ovvero li riconosce come persone. Come lo Stato conferisce loro la qualità di persone così esso può anche sottrarre loro questa qualità. L'introduzione della schiavitù come istituto giuridico è del tutto nelle possibilità di un ordinamento giuridico o Stato" (ivi, pp. 67-8).

5. Cfr. H. Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, trad. it. cit., p. 464. "Come la posizione egocentrica di una teoria soggettivistica della conoscenza è imparentata con un egoismo etico, così l'ipotesi giuridico-conoscitiva del primato del particolare ordinamento giuridico statale si accoppia all'egoismo statale di una politica imperialistica" (ivi, p. 465).

6. Cfr. H. Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, trad. it. cit., pp. 461, 464; dopo oltre trent'anni, in Principles of International Law (New York, Holt, Rinehart and Winston, Inc., 1967, 3a edizione, pp. 569-88) Kelsen conserva una posizione di stretta adesione all'epistemologia neo-kantiana della scuola di Marburgo.

7. H. Kelsen, Principles of International Law, cit., p. 587. La posizione di Kelsen su questo punto cruciale è tuttavia oscillante. In Reine Rechtslehre. Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik(Wien, Franz Deuticke Verlag, 1934) il primato del diritto internazionale e la dissoluzione del 'dogma della sovranità' vengono presentati come un risultato tecnico della dottrina pura del diritto (trad. it. Torino, Einaudi, 1952, pp. 168-9). Nella seconda edizione della Reine Rechtslehre (Wien, Franz Deuticke Verlag, 1960) Kelsen sostiene invece che soltanto la concezione monistica è imposta da un'esigenza teoretica mentre la scelta fra il primato del diritto internazionale e il primato del diritto interno non può che fondarsi su preferenze di carattere ideologico-politico (trad. it. Torino, Einaudi, 1966, pp. 360-5, 375-9). Sul tema si veda in generale H. Hart, 'Kelsen's Doctrine of the Unity of Law', in H. Hart, Essays in Jurisprudence and Philosophy, Oxford, Oxford University Press, 1983.

8. H. Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, trad. it. cit., p. 464.

9. H. Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, trad. it. cit., pp. 17-147; e A. Carrino, 'Presentazione', cit., p. XX.

10. "Non bisogna mai stancarsi di sottolineare che l'unità logica dell'ordinamento è l'assioma fondamentale di ogni conoscenza normativa. Nell'ambito di una considerazione normativa è impensabile un vero conflitto oggettivo di norme" (H. Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, trad. it. cit., pp. 163-4, 177-83). Le norme interne devono perciò conformarsi a quelle internazionali e in caso di contrasto saranno quest'ultime a dover prevalere. Almeno in linea di principio esse possono quindi essere assunte come jus cogens e applicate dalle corti nazionali senza alcun bisogno di essere trasformate in diritto interno (ivi, pp. 301 ss).

11. Cfr. H. Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, trad. it. cit., pp. 355-402; A. Carrino, 'Presentazione', cit., passim.

12. H. Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, trad. it. cit., p. 468.

13. H. Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, trad. it. cit., p. 300. Sulla 'ricongiunzione di etica e diritto' nella fondaziona kelseniana del primato del diritto internazionale cfr. G. Silvestri, 'La parabola della sovranità', Rivista di diritto costituzionale, 1 (1996), 1, pp. 34-9.

14. H. Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, trad. it. cit., p. 468.

15. Cfr. H. Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, trad. it. cit., pp. 465-9. Per una critica delle eccessive ambizioni normative della concezione kelseniana si veda H. Bull, 'Hans Kelsen and International Law', in R. Tur, W. Twining (a cura di), Essays on Kelsen, Oxford, Oxford University Press, 1986; si veda inoltre H. Lauterpacht, 'Kelsen's Pure Science of Law', in Modern Theories of Law, London, Oxford University Press, 1933; G. Sperduti, Le principe de souveraineté et le problème des rapports entre le droit international et le droit interne, Recueil des Cours de l'Académie de droit international, The Hague, 1983, vol. 153.

16. Si veda J. Austin, The Province of Jurisprudence Determined (1832), ristampa a cura di H.L.A. Hart, Oxford, Oxford University Press, 1954, Lecture VI; H.L.A. Hart, The Concept of Law, Oxford, 1981, trad. it. Torino, Einaudi, 1965, pp. 247 ss. Sui dubbi relativi alla giuridicità del diritto internazionale cfr. anche N. Bobbio, Teoria generale del diritto, Torino, Giappichelli, 1993, pp. 138-40; H. Bull, The Anarchical Society, London, Macmillan, 1977, pp. 130 ss.

17. Sull'idea del diritto come ordine sociale coercitivo che tende per evoluzione storica verso forme sempre più accentrate Kelsen ritorna più volte nei suoi testi: cfr. in particolare H. Kelsen, Law and Peace in International Relations, The Oliver Wendell Holmes Lectures 1940-41, Cambridge (Mass), Harvard University Press, 1952, pp. 48-51, 56-81. In generale a proposito questo testo di Kelsen si veda l'acuto saggio di D. Kennedy, 'Il Kelsen delle "Oliver Wendell Holmes' Lectures": un pragmatista del diritto internazionale pubblico', Diritto e cultura, 1994, 2.

18. Cfr H. Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, trad. it. cit, pp. 102-3, 378-93; H. Kelsen, Les rapports du système entre le droit interne et le droit international public, cit., p. 134; H. Kelsen, The Legal Process and International Legal Order, The New Commonwealth Institute Monographs, London, Constable and Co, 1935, p. 12; Théorie du droit international public, 'Recueil des cours de l'Académie de droit international', 84 (1953), 3, pp. 12, 22-3; H. Kelsen, Principles of International Law, cit., p. 18.

19. Cfr. H. Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, trad. it. cit., pp. 380, 391-3; H. Kelsen, Théorie générale du droit international public. Problèmes choisis, 'Recueil des cours de l'Académie de droit international', 42 (1932), 4, p. 131; H. Kelsen, The Legal Process and International Legal Order, cit., pp. 14-5; H. Kelsen, Principles of International Law, cit., p. 36; H. Kelsen, Théorie du droit international public, cit., pp. 71-2; H. Kelsen, Law and Peace in International Relations, cit., pp. 51-5.

20. Cfr. H. Kelsen, The Legal Process and International Legal Order, cit., p. 13. Sul tema della teoria della guerra giusta in Kelsen cfr. F. Rigaux, 'Hans Kelsen e il diritto internazionale', Ragion pratica, 4 (1996), 6, pp. 91-8; C. Leben, Un commento a Rigaux', ivi, pp. 107-9.

21. Cfr. H. Kelsen, Law and Peace in International Relations, cit., pp. 36-7.

22. Cfr. H. Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, trad. it. cit., pp. 389-90.

23. Cfr. H. Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, trad. it. cit., pp. 387-93. Un'ampia, sistematica trattazione del tema del iustum bellum si trova in H. Kelsen, Law and Peace in International Relations, cit., pp. 36-55. Per una severa critica della teoria kelseniana del iustum bellum cfr. H. Bull, 'Hans Kelsen and International Law', cit., p. 329. Classiche sul tema sono le pagine di Carl Schmitt in Der Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Berlin, Duncker & Humblot, 1974, trad. it. Milano, Adelphi, 1991, pp. 131-40.

24. Cfr. H. Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, trad. it. cit., pp. 299-300. Il corsivo è mio. Altrove, altrettanto esplicitamente: "l'idea dell'eguaglianza di tutti gli Stati può essere sostenuta soltanto se si fonda l'interpretazione dei fenomeni giuridici sul primato del diritto internazionale. Gli Stati in quanto ordinamenti giuridici possono essere considerati eguali solo se non sono supposti sovrani, poiché sono eguali soltanto se sono egualmente soggetti ad un ordinamento giuridico internazionale" (Principles of International Law, cit., p. 586).

25. Cfr. H. Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, trad. it. cit., pp. 370-1.

26. Cfr. H. Kelsen, Théorie générale du droit international public. Problèmes choisis, cit., pp. 301-3.

27. H. Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, trad. it. cit., pp. 233-44. Sul tema Kelsen ritorna ampiamente in Law and Peace in International Relations, cit., pp. 90-102.

28. Cfr. F. Rigaux, 'Hans Kelsen e il diritto internazionale', cit., pp. 94-8; C. Leben, 'Un commento a Rigaux', cit., pp. 106-9. Si veda inoltre M. Virally, 'Sur la prétendu primitivité du droit international', in M. Virally, Le droit international en devenir, Presses Universitaires de France, Paris, 1990; più in generale: H.L., Herz, 'The Pure Theory of Law Revisited: Hans Kelsen's Doctrine of International Law in the Nuclear Age', in S. Engel, R.A. Métall (a cura di), Law, State and International Legal Order. Essays in Honor of Hans Kelsen, Knoxville, University of Tennessee Press, 1964; Isak, H., 'Bemerkungen zu einigen völkerrchtlichen Lehren Hans Kelsens', in O. Weinberger, W. Krawietz (a cura di), Reine Rechtslehre im Spiegel ihrer Fortsetzer und Kritiker, Wien, Springer Verlag, 1988.

29. Cfr. F. Rigaux, 'Hans Kelsen e il diritto internazionale' cit., pp. 94-7; C. Leben, 'Un commento a Rigaux', cit., pp. 118-20.

30. Cfr. H. Kelsen, Principles of International Law, cit., pp. 29-33.

31. H. Kelsen, The Law of the United Nations, New York, Frederick A. Praeger, 1950. Kelsen si limita ad osservare incidentalmente che le procedure decisionali del Consiglio di Sicurezza non corrispondono agli ideali democratici che erano stati proclamati durante la guerra dalle potenze vincitrici e che avevano ispirato la Carta della Nazioni Unite nel suo complesso (pp. 276-7).

32. Cfr. H. Kelsen, Peace through Law, New York, Garland Publishing, Inc., 1973, pp. 58, 135, trad. it. Torino, Giappichelli, 1990. Continuerò di seguito a fare riferimento, nella indicazione delle pagine, esclusivamente alla edizione originale in lingua inglese.

33. Così li ha chiamati Michael Walzer in Just and Unjust Wars, New York, Basic Books, 1992, pp. 263-8.

34. Cfr. H. Kelsen, Peace through Law, cit., pp. 72-3 ("That an individual is to be punished although he has not acted willfully and maliciously or with culpable negligence, so-called 'absolute liability', is not completely excluded, even in modern criminal law"). Sul tema della 'responsabilità oggettiva' nel diritto interno e nel diritto internazionale cfr. anche H. Kelsen, Law and Peace in International Relations, cit., pp. 96-106. Sul medesimo tema si veda il recente saggio di L. Parisoli, 'Soggetto responsabile, sanzione collettiva e principi morali: suggestioni kelseniane in tema di politica internazionale', Filosofia politica, 11 (1997), 3, pp. 471-89.

35. Cfr. H. Kelsen, Peace through Law, cit., p. 10.

36. E' noto tuttavia che, a differenza di Kelsen, Kant esclude in Zum ewigen Frieden che in assenza di un ordine politico internazionale si possa parlare di 'guerra giusta': per Kant uno Stato che muove guerra si erige a giudice in causa propria. Sull'internazionalismo kantiano si veda P.P. Portinaro, 'Foedeus pacificum e sovranità degli Stati: un problema kantiano oltre Kant', Iride, 9 (1996), 17, pp. 94-103; A. Loretoni, 'Pace perpetua e ordine internazionale in Kant', ivi, pp. 117-25; G. Marini, 'Kant e il diritto cosmopolitico', ivi, pp. 126-40.

37. Cfr. H. Kelsen, Peace through Law, cit., pp. 3-9.

38. Cfr. H. Kelsen, Peace through Law, cit., pp. 11-3; H. Kelsen, Law and Peace in International Relations, cit., pp. 142-4.

39. Cfr. H. Kelsen, Peace through Law, cit., p. 9.

40. Cfr. H. Kelsen, Peace through Law, cit., pp. 13-5; H. Kelsen, Peace and Law in International Relations, cit., pp. 145-68.

41. Cfr. H. Kelsen, Peace through Law, cit., pp. 14-5. Nei primi anni quaranta Kelsen dedica a questa proposta una lunga serie di saggi e di articoli, che cita in un'ampia nota assieme alle testimonianze di consenso di numerose associazioni politiche e religiose degli Stati Uniti (ivi, pp. 14-5).

42. Cfr. H. Kelsen, Peace through Law, cit., pp. 66-7.

43. Cfr. H. Kelsen, Peace through Law, cit., pp. 19-23.

44. Cfr. H. Kelsen, Peace through Law, cit., pp. 71 ss.

45. Cfr. H. Kelsen, Peace through Law, cit., pp. 87-8. Anche qui Kelsen si esibisce in una contaminazione normativa fra etica e diritto che dovrebbe essergli vietata dalla assunzione della 'purezza' della sua teoria del diritto. In generale, a proposito delle Corti penali internazionali competenti a giudicare delle responsabilità individuali per i crimini di guerra, Hedley Bull (The Anarchical Society, cit., p. 89) ha osservato che la loro funzione simbolica è stata offuscata dal carattere selettivo delle loro pronunce. Sono stati i 'vincitori' a promuovere questi Tribunali e vi hanno svolto senza eccezioni il ruolo di giudici, mentre sul banco degli imputati sono comparsi normalmente alcuni capri espiatori in rappresentanza degli sconfitti.

46. Cfr. H. Kelsen, Will the Judgment in the Nuremberg Trial Constitute a Precedent in International Law?, 'The International Law Quarterly', 1 (1947), 2. Sul tema Kelsen ritorna anche in Principles of International Law, cit., pp. 215-20.

47. Cfr. H. Kelsen, Peace through Law, cit., pp. 110-15. Kelsen ritiene che l'Unione Sovietica, invadendo la Polonia e muovendo guerra al Giappone, avesse commesso crimini di guerra punibili da un Tribunale internazionale.

48. Sul tema mi permetto di rinviare al mio Cosmopolis. Prospects for World Government, Cambridge, Polity Press, 1997, pp. 1-18.

49. Il tema del 'Terzo' come garanzia della pace internazionale è stato sviluppato da Norberto Bobbio nella raccolta di saggi Il terzo assente, Torino, Edizioni Sonda, 1989. Più in generale si veda anche P.P. Portinaro, Il Terzo, Milano, Angeli, 1986.

50. Si veda R.O. Keohane, 'The demand for international regimes', ora in S.D. Krasner (a cura di), International Regimes, New York, Cornell University Press, 1983; S.D. Krasner, 'Regimes and the limits of realism: regimes as autonomous variables', ivi.

51. Si veda: S. Latouche, L'occidentalisation du monde. Essai sur la signification, la portée et les limits de l'uniformisation planétaire, Paris, Editions La Découverte, 1989, trad. it. Torino: Bollati Boringhieri, 1992; M. Featherstone (a cura di), Global Culture, Nationalism, Globalization ad Modernity, London, Sage Publications, 1991; B.S. Turner, Theories of Modernity and Postmodernity, London, Sage Publications, 1990.

52. La richiesta kelseniana che gli Stati vincitori della seconda guerra mondiale sottoponessero i propri soldati al giudizio delle stesse Corti istituite per giudicare i nemici sembra ignorare la logica radicalmente partigiana e distruttiva della guerra.

53. In Principles of International Law, cit., Kelsen sottolinea con enfasi il fatto che la Carta delle Nazioni Unite introduce finalmente "un sistema di sicurezza internazionale caratterizzato da un elevato grado di centralizzazione" (p. 40), ma lamenta tuttavia che l'eccessiva discrezionalità del potere conferito al Consiglio di Sicurezza gli impedisca di operare come un organo 'giuridico', e cioè come fonte di una giurisdizione accentrata, uguale ed universale, capace di dar vita ad un effettivo sistema di sanzioni alternative alla guerra, in particolare alla 'guerra di difesa' (pp. 47-51).

54. Cfr. R.A. Falk, 'Reflections on the Gulf War Experience: Force and War in the United Nations System', Juridisk Tidskrift, 3 (1991), 1, p. 192, trad. it. 'La forza e la guerra nel sistema delle Nazioni Unite', Democrazia e diritto, 32 (1992), 1, p. 328.

55. Si veda N. Bobbio, 'Kelsen e il diritto cosmopolitico: un dialogo con Danilo Zolo', Reset, 43 (1997), passim; N. Bobbio, Diritto e potere. Saggi su Kelsen, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1992. Richard Falk considera Kelsen come uno dei "più grandi teorici del diritto internazionale del nostro tempo che hanno sviluppato una coerente interpretazione dell'ordinamento giuridico internazionale" (The Status of Law in International Society, Princeton, Princeton University Press, 1970, p. X). Più sobriamente Antonio Cassese ha sostenuto che la dottrina kelseniana del primato del diritto internazionale "ha utilmente contribuito a consolidare l'idea che gli organi dello Stato devono rispettare il diritto internazionale, facendo prevalere i precetti internazionali sui valori nazionali" (The International Law in a Divided World, Oxford, Oxford University Press, 1986, ed. it. Bologna, il Mulino, 1984, p. 29).

56. Cfr., in questo senso, W. Bauer, Weltrelativismus und Wertbestimmheit im Kampf um die Weimarer Demokratie, Berlin, Duncker & Humblot, 1968, pp. 112-3; cfr. anche A. Carrino, 'Introduzione', cit., pp. XLIV-XLV.