2016
Il
realismo di Danilo Zolo
di
Pietro Costa
1. Cenni introduttivi - 2. Dall’epistemologia
riflessiva al realismo giuridico - 3. Il realismo politico: la
teoria della democrazia - 4. Il realismo politico: la teoria
dell’ordine internazionale
1. Cenni introduttivi
Chi entrasse in contatto, anche superficialmente, con la
riflessione filosofico-giuridica e filosofico-politica sviluppata da
Danilo Zolo nell’ultimo ventennio, non esiterebbe a ricorrere, per
caratterizzarla con una formula riassuntiva, alla categoria del
‘realismo’. Per giungere a questa conclusione il lettore non avrebbe
bisogno di particolari acrobazie ermeneutiche: è l’autore stesso che
quasi in ciascuno dei suoi interventi impiega il termine ‘realismo’ (e
i suoi derivati) per indicare sinteticamente il proprio schema teorico
di riferimento. Nel suo più impegnativo contributo all’analisi della
democrazia contemporanea – Il principato democratico –
l’intenzione di delineare una teoria realistica viene
programmaticamente indicata già dal sottotitolo dell’opera1 e
in Cosmopoli2
– l’opera che apre la lunga serie di scritti dedicati alla filosofia
del diritto internazionale – fino dalle prime pagine viene dichiarata
l’appartenenza alla tradizione del realismo.
Il rinvio al realismo non è una clausola di stile; è un
passaggio importante entro un discorso caratterizzato da una forte
‘riflessività’: sempre attento a intrecciare la costruzione
dell’oggetto (sia esso la democrazia, l’ordine internazionale, la
guerra o i diritti) con l’esposizione delle strategie
linguistico-concettuali che la rendono possibile e imprimono a essa le
sue caratteristiche peculiari. Proprio per questo, interrogarsi sul
senso e sulla portata del realismo di Danilo Zolo può offrire un comodo
accesso alla sua analisi teorica, ma al contempo rischia di spezzarne
l’andamento ‘circolare’ separando arbitrariamente gli assunti
epistemologici dall’analisi del fenomeno volta a volta considerato.
Tenterò di mettere in evidenza le connessioni che intercorrono fra i
due momenti del discorso, ma mi sarà impossibile ricostruire
analiticamente i singoli apporti teorico-giuridici e
filosofico-politici: a essi guarderò soltanto attraverso la finestra di
quel realismo che Zolo presenta come la principale caratterizzazione
della sua filosofia.
2. Dall’epistemologia riflessiva
al realismo giuridico
Il realismo nel quale Zolo dichiara di riconoscersi è il
realismo politico. L’aggettivo è in questo caso importante
quanto il sostantivo, dal momento che il termine ‘realismo’ assume
significati profondamente diversi a seconda delle tradizioni
concettuali che lo impiegano: il realismo dell’epistemologo non ha
molto a che fare con il realismo politico; e anche quando è
quest’ultimo il termine di riferimento, la sua ambiguità diminuisce, ma
non sparisce del tutto: il realismo del filosofo della politica non ha
un’area semantica perfettamente coincidente con quella che gli
attribuisce un teorico delle relazioni internazionali. Il realismo
dunque, anche il realismo politico, non è un parametro univocamente
definito, impiegabile per registrare le caratteristiche e
l’orientamento dell’una o dell’altra teoria politico-sociale. Data
l'ambiguità o almeno la complessità semantica del termine, quindi, nel
momento in cui Zolo si definisce realista egli non tanto dichiara
l’appartenenza a una tradizione perfettamente definita, quanto
contribuisce a inventarla: sollecitando inediti corto circuiti fra
settori disciplinari – quali la filosofia politica e la teoria delle
relazioni internazionali – vicini ma distinti e ritagliandosi un
percorso ‘dentro’ (e ‘fra’) essi all’insegna di un realismo che si
viene definendo in itinere.
Capire il realismo di Zolo richiederà dunque un tentativo
di decostruzione del suo apparato analitico (o, meglio, di ricognizione
genetica del suo itinerario intellettuale), che metta in luce le
diverse sfaccettature del prisma realistico a contatto con la teoria
della democrazia e con la filosofia dell’ordine internazionale. La
complessità e la peculiarità del realismo di Zolo, però, non derivano
soltanto dalla molteplicità dei settori disciplinari che egli
attraversa nel corso della sua avventura intellettuale, ma nascono
anche (e soprattutto) dalle premesse metateoriche della sua teoria
politica; premesse che affondano le radici nel terreno
dell’epistemologia delle scienze umane (e dell’epistemologia in
generale).
È un terreno che Zolo esplora a fondo nel corso degli
anni Ottanta, giungendo a conclusioni che egli manterrà sostanzialmente
immutate negli anni successivi e assumerà come il quadro di riferimento
(ora implicito, ora tematizzato) della propria riflessione
politico-giuridica. Per una singolare ironia della sorte (o meglio in
conseguenza dei tortuosi itinerari storico-semantici cui il lessico
teorico è abitualmente sottoposto), però, sul terreno
dell’epistemologia il realismo, lungi dall’essere la prospettiva di
elezione, è il principale bersaglio polemico della riflessione di Zolo.
Non viene messa in questione una delle valenze più
generali del termine ‘realismo’ (una valenza che emerge soprattutto
come elemento di contrapposizione a una filosofia di ispirazione
idealistica): l'idea di una realtà esistente come tale, anziché
costituita o posta dall'attività creativa dell'essere umano. L’oggetto
del contendere è piuttosto quello specifico orientamento epistemologico
che aveva trovato nel Circolo di Vienna la sua espressione più celebre,
per dominare poi la filosofia della scienza fino agli anni
Cinquanta-Sessanta.
In quella che è stata chiamata la received view
neopositivistica (la rappresentazione dei presupposti e delle
caratteristiche di un sapere che possa dirsi scientifico) le
convinzioni più diffuse possono essere compendiate nei termini
seguenti: non solo esiste, indipendentemente dai soggetti, una realtà
autosufficiente, ma questa è conoscibile nella sua oggettiva
configurazione; la scienza è fondata sull'osservazione dei fenomeni ed
è capace di giungere alla rappresentazione (sia pure asintotica) della
realtà come tale; la dimensione della soggettività è virtualmente messa
in parentesi: la conoscenza è scientifica in quanto avalutativa e
meramente ‘descrittiva’; non è rilevante la distinzione fra scienze
naturali e scienze sociali, entrambe tenute al rispetto di un metodo
sostanzialmente unitario.
È corrente l’impiego del termine ‘realismo’ per connotare
un’epistemologia che attribuisca alla scienza il compito e la capacità
di descrivere il proprio oggetto elaborando teorie che lo rappresentano
con crescente (ancorché asintotica) approssimazione senza essere
condizionate dalle inclinazioni e dai pre-giudizi soggettivi
dell’‘osservatore’. Una siffatta concezione epistemologica ha
esercitato una notevole influenza non solo sulle cosiddette hard
sciences, ma anche su numerosi settori delle scienze sociali (dalla
storiografia alla scienza politica, alla filosofia giuridica, alla
teoria delle relazioni internazionali) fino agli anni Sessanta, quando
essa ha dovuto fare i conti con visioni alternative, molto diverse fra
loro, ma convergenti nel respingere i principali assunti della received
view positivistica: valga ad esempio il riferimento alla
tradizione ermeneutica, che, pur essendo già una componente di rilievo
della cultura europea otto-novecentesca, vede aumentare la sua
rilevanza nella Methodenstreit degli anni Settanta e
contribuisce a mettere in questione l’idea (positivistica e
neopositivistica) del soggetto come mero ‘osservatore’ di fenomeni e a
sottolinearne l'intervento necessariamente attivo e valutativo.
L’epistemologica positivistica non entra peraltro in
crisi soltanto per la crescente influenza di orientamenti con essa
incompatibili. Anche al suo interno prende forza un processo di
revisione, o di aperta sconfessione, delle tesi (di molte, se non di
tutte) che ne avevano sorretto la versione ortodossa e per lungo tempo
dominante. Da Popper a Kuhn, a Toulmin, si moltiplicano le
sollecitazioni che conducono a revocare in dubbio convinzioni date per
acquisite: non sembra possibile un’osservazione pura e impersonale dei
fenomeni, la cui analisi al contrario dipende dalle presupposizioni
teoriche dello scienziato; cade la teoria della verità come
corrispondenza, l’idea di una realtà che il discorso scientifico possa
rappresentare-descrivere nella sua oggettiva consistenza; appare
ineliminabile l’incidenza della componente valutativa nei processi
euristici.
È con questo processo di revisione interno alla
tradizione dell’epistemologia neopositivistica che Zolo entra in
contatto nel momento in cui prende a interrogarsi sui presupposti e
sulle prestazioni cognitive dei saperi specialistici. L’appiglio gli è
offerto dalla ricostruzione storico-teorica del pensiero di Otto Neurath3.
La scelta di questo autore non è né casuale né gratuita: nel filosofo
austriaco Zolo cerca non solo un’occasione per interrogarsi sulle
condizioni di possibilità di un’analisi scientifica della dinamica
politico-sociale, ma anche argomenti per corroborare e approfondire le
ipotesi che egli enuncia già nelle prime pagine del suo libro: il
superamento della teoria della verità come ‘corrispondenza’ e il
rifiuto del cognitivismo etico4.
I testi di Neurath sembrano in effetti idonei a ricevere
le sollecitazioni cui il loro lettore li sottopone. Membro fondatore
del Circolo di Vienna e al contempo critico acuto della teoria della
verità come corrispondenza fra enunciati e fatti, direttamente
coinvolto nell’azione politica e interessato all’epistemologia delle
scienze politico-sociali, Neurath appare a Zolo una delle più precoci e
significative testimonianze di un ‘revisionismo’ epistemologico
destinato ad approdare (oltre Neurath, nel corso degli anni Sessanta) a
una visione della scienza (e delle scienze sociali) che sarà detta
‘post-empiristica’.
I principali assunti che Zolo trae (attraverso Neurath e
oltre Neurath) dal processo di trasformazione della complessiva eredità
neopositivistica mi sembrano i seguenti:
a) il rifiuto dell’idea della verità come corrispondenza
e la convinzione che il linguaggio non disponga di un punto su cui far
leva per saltare oltre se stesso e attingere l’oggetto ‘come tale’;
b) l’impossibilità di un’osservazione ‘pura’ dei
fenomeni: il soggetto non è una tabula rasa, ma guarda al mondo
attraverso un filtro linguistico-concettuale che impedisce il semplice
‘rispecchiamento’ della realtà nel processo conoscitivo;
c) l’insistenza sui condizionamenti storico-sociali e
storico-culturali che incidono sulle prestazioni cognitive della
scienza e la tematizzazione del rapporto che intercorre fra la comunità
scientifica e la formazione e l’affermazione delle teorie: legate al
consenso della comunità ed esposte quindi alle strategie (retoriche)
della ‘persuasione’ e al gioco degli interessi e dei conflitti;
d) la scienza appare di conseguenza non tanto l’organo di
un progressivo avvicinamento alla ‘realtà’ come tale, quanto il veicolo
di visioni reciprocamente incommensurabili: un punto di vista sul
mondo, sostenuto da un quoziente metaforico difficilmente riducibile
all’univocità dell’argomentazione dimostrativa o della verifica
empirica;
e) le pretese conoscitive attribuibili alla scienza sono
indebolite rispetto all’epistemologia neopositivistica e soprattutto
non sono considerate esenti da impliciti o espliciti giudizi di valore.
La scienza non è eticamente e politicamente neutrale, ma
le sue strategie euristiche appaiono in qualche misura orientate e
influenzate dai valori condivisi. I valori peraltro non sono
suscettibili di essere razionalmente fondati: una delle principali
acquisizioni che Zolo trae dalle sue frequentazioni neurathiane è non
solo il rifiuto del cognitivismo etico e la condanna della ‘fallacia
naturalistica’, ma anche una complessiva svalutazione dell’universo di
discorso normativo.
Per l’empirista Neurath la pretesa kelseniana di fare
dell’analisi di un discorso normativo una vera e propria ‘scienza’, in
sé compiuta e autosufficiente, è una pericolosa illusione. L’analisi
delle norme ha una sua limitata utilità se mira a controllare la
coerenza interna del sistema giuridico, ma manca di un adeguato
fondamento, dipendente come è dalla distinzione kantiana fra sfera
dell’essere e sfera del dovere. Occorre al contrario ricondurre la
norma all’interazione sociale di cui è funzione: il sapere giuridico
può acquisire uno statuto scientifico solo convertendosi in un’analisi
sociologica delle norme. Il discorso normativo, sia giuridico che
etico, è scientificamente comprensibile soltanto in quanto venga
ricondotto alle credenze, agli interessi, ai comportamenti di cui esso
è una più o meno dissimulata ed efficace razionalizzazione e
universalizzazione.
Accogliere la critica neurathiana dell’universo normativo
significa far propria, sul terreno del sapere giuridico, la prospettiva
del realismo (attaccando la presunta autonomia delle forme giuridiche
per privilegiare, come scriveva Pound, il law in action sul law
in books), mentre implica, sul terreno dell’etica, la scelta di
contrapporre all’universalismo dell’imperativo categorico kantiano una
molteplicità di scelte (individuali e collettive) legate alla
contingenza di specifiche forme di vita.
Le suggestioni che Zolo trae dalla riflessione
neurathiana sono dunque molteplici: muovono dall’epistemologia, ma
investono anche l’ambito dell’etica e del diritto. È anzi proprio sul
terreno dell’analisi dei fenomeni giuridici che fa la sua comparsa la
categoria del ‘realismo’; e in effetti non appare una forzatura
considerare ‘realistica’ la tesi sostenuta da Neurath – la necessità di
ricondurre la jurisprudence a un’analisi sociologica del
diritto per dare ad essa lo statuto di un sapere scientifico – dal
momento che il ‘realismo giuridico’ (pur nella grande varietà delle sue
espressioni) si è sempre contraddistinto per contrapporre al formalismo
e al concettualismo dell’analisi normativa l’attenzione funzionalistica
alle radici e agli effetti sociali delle norme5.
Nell’opzione giusrealistica Zolo si trova in una nutrita
compagnia (data la diffusione, nel corso del Novecento, delle teorie
anti-formalistiche); è però assai meno frequentata la strada che egli
percorre per giungere a questo risultato, dal momento che il
giusrealismo è solo una delle indicazioni che egli trae dal confronto
con il pensiero neurathiano, mentre l’acquisizione principale resta la
convinzione di dover procedere oltre i canoni dell’originaria
epistemologia neopositivistica.
L’approdo cui Zolo perviene viene connotato da Zolo
stesso come post-empiristico. Credo che potremmo impiegare il termine
più pregnante, anche se indubbiamente polisenso, di costruttivismo6.
In realtà, Zolo evita di impiegare questo termine, attribuendo a esso
(o meglio alle sue declinazioni più radicali) una valenza fortemente
convenzionalistica e una portata cripticamente idealistica: come se la
scienza ‘producesse’ liberamente il proprio oggetto, priva di vincoli
soggettivi e oggettivi. Mi sembra però che potremmo chiamare
costruttivistica un’epistemologia che rifiuta la teoria della verità
come corrispondenza, vede nella conoscenza non un ‘rispecchiamento’
della realtà, ma un processo di selezione ed elaborazione dei dati e
insiste sul ruolo attivo e creativo del soggetto, senza per questo
trascurarne il radicamento e i condizionamenti storico-sociali.
Zolo sottolinea il carattere riflessivo della sua
epistemologia, utilizzando a questo scopo le suggestioni della celebre
metafora neurathiana dei marinai costretti a riparare la navicella
della scienza nel mare in tempesta, senza poter disporre di alcun
bacino di carenaggio. Questa metafora – scrive Zolo – «allude infatti
ad una situazione cognitiva che vieta ogni possibilità di certezza o di
avvicinamento alla verità, à la Popper, poiché il soggetto
stesso è incluso entro l’ambiente che egli si sforza di fare oggetto
della propria conoscenza»7. La conoscenza si muove
in un circolo: il soggetto conosce l’oggetto a partire dai pre-giudizi
imposti dal suo radicamento storico-sociale e storico-culturale e, se
pure consapevole dei propri condizionamenti, non è in grado di
‘guardarli dall’esterno’, di sbarazzarsene oggettivandoli.
Le conclusioni sulle prestazioni cognitive della scienza
sono francamente pessimistiche. Le teorie non conducono a un
progressivo rischiaramento dell’oggetto, ma esprimono un limitato,
condizionato e soggettivo punto di vista sul mondo, influenzato dalle
aspirazioni, dalle paure, dai valori del soggetto. «Il mio punto di
vista – scrive Zolo – è consapevolmente context dependent,
relativistico, gnoseologicamente scettico e sicuramente pregiudicato
dal punto di vista cognitivo e valutativo»8.
Non esiste un punto di Archimede su cui far leva per
uscire dal particolarismo delle più diverse forme di vita, entro le
quali la stessa ‘scienza’ viene ad esistere e a funzionare. Se dunque
anche una teoria che si vuole ‘descrittiva’ è in realtà una visione
pre-giudicata dal soggetto e dal contesto cui egli appartiene, allo
stesso modo (o a maggior ragione) il discorso normativo (sia etico che
giuridico) dovrà essere spogliato delle sue pretese universalistiche e
ricondotto al gioco delle aspettative, dei timori, delle esigenze di
individui e gruppi determinati.
Muovendo da una siffatta prospettiva epistemologica, Zolo
elabora una sorta di ‘strategia del sospetto’ nei confronti del
discorso normativo. Confrontandosi con esso occorre, a suo avviso,
evitare una doppia ‘fallacia’: non solo la fallacia ‘ontologica’ o
‘naturalistica’, che ricorre quando tentiamo di dedurre dalla struttura
‘oggettiva’ della realtà valori ed enunciati prescrittivi, ma anche la
fallacia ‘deontologica’, che interviene quando ci dimentichiamo che nel
processo conoscitivo incidono scelte di valore legate a progetti e
forme di vita determinati e presentiamo come norme di portata
universale regole di comportamento legate a inclinazioni soggettive.
L’analisi del discorso normativo si traduce quindi nella
denuncia delle sue strategie di razionalizzazione e di
universalizzazione di regole ‘locali’ e nella sua riconduzione alle
forme di vita che ne costituiscono la radice e la destinazione
funzionale. Zolo accoglie pienamente, su questo punto, la proposta
neurathiana e vi resta sostanzialmente fedele in tutta la sua
successiva riflessione. La sua diffidenza nei confronti degli enunciati
prescrittivi e degli ‘immortali principî’ era stata peraltro già
alimentata dalla lunga frequentazione dei testi di Marx, fatti oggetto,
negli anni Settanta, di accurate ricostruzioni storico-teoriche9.
Certo, l’ipotesi di rintracciare nell’opera di Marx i fondamenti di una
vera e propria ‘scienza della società’ era caduta sotto i colpi
dell’epistemologia post-empiristica. Restava però qualcosa dell’eredità
marxiana: non solo la svalutazione degli enunciati prescrittivi e
universalistici, ma anche la loro decostruzione e la loro riduzione al
gioco degli interessi soggiacenti. La lezione marxiana – lo
smascheramento della ‘falsa coscienza’ – non viene lasciata cadere, ma
corrobora l’intenzione di strappare al discorso normativo le maschere
universalistiche per far apparire il volto dei concreti agenti sociali.
Resta infine un’ulteriore (e appena tratteggiata) eredità, che da Marx
raggiunge, via Neurath, la riflessione di Zolo: un’immagine di uomo,
che Neurath chiama epicurea (e anti-platonica) e attribuisce a Marx;
un’immagine, che in qualche misura potrebbe rinviare a un’antropologia
illuministica, caratterizzata dal protagonismo dell’individuo e dalla
ricerca della felicità10.
Il realismo giuridico di Zolo è dunque l’esito di un
lungo itinerario, che ha come matrice principale l’adozione di
un’epistemologia post-empiristica (mentre resta sullo sfondo, pur
mantenendo qualcosa del suo potere suggestivo, la critica marxiana
delle ‘ideologie’). Lungi dall’essere un punto di partenza, un assioma
primitivo, dell’analisi politico-giuridica di Zolo, il realismo
giuridico è l’esito (uno degli esiti) di una riflessione che intende
sgombrare il campo dal realismo epistemologico caratteristico del
neopositivismo delle origini.
3. Il realismo politico: la teoria
della democrazia
Una conclusione che Zolo trae dal suo attacco al realismo
(epistemologico) è l’adozione di un programma giusrealistico: non
cedere alle lusinghe della pretesa autonomia del discorso normativo e
ricondurlo a quell’interazione sociale di cui esso è, al contempo,
funzione e (deformante) specchio.
Per quanto rapidamente delineato, l’approccio realistico
all’universo normativo sembra sottratto al fallibilismo
dell’epistemologia riflessiva. Per Zolo infatti è, sì, congetturale e
incerta la prestazione cognitiva di qualsiasi impresa scientifica,
costretta a ‘costruire’ il proprio oggetto intervenendo selettivamente
sulla non dominabile complessità del reale e pre-giudicata dagli
interessi vitali dei ricercatori; ma non è affatto incerta la
dipendenza (genetica e funzionale) dall’interazione sociale
dell’universo normativo, sprovvisto di un’autonoma rilevanza e
decifrabile soltanto in rapporto alle forme di vita con le quali è
collegato.
Non è comunque l’analisi realistica delle norme il
principale obiettivo perseguito da Zolo fra gli anni Ottanta e gli anni
Novanta. È piuttosto la teoria politica ad attrarre la sua attenzione e
a offrirsi come il più rilevante banco di prova della sua epistemologia
riflessiva.
Fra le scienze sociali, la scienza politica era stata
particolarmente sensibile al fascino del neopositivismo e numerosi
erano stati i tentativi di elaborare una teoria della democrazia che ne
accogliesse i principali suggerimenti: la valorizzazione delle ricerche
empiriche, la formulazione di leggi esplicative dei fenomeni,
l’adozione di uno stile ‘descrittivo’, preservato da contaminazioni
valutative. Sono in sostanza i caratteri che Bobbio aveva indicato, in
vari saggi dei primi anni Settanta11, come propri di una
teoria politica che ambisse a presentarsi come una vera e propria
‘scienza’: come una scienza empirica, dotata di un metodo di analisi
non diverso da quello osservato dalle scienze fisico-naturali.
È con questa immagine di scienza che Zolo deve
confrontarsi nel momento in cui si accinge a tracciare, a sua volta,
una teoria della democrazia che egli intende connotare come realistica.
Non è però Bobbio (ma è piuttosto Sartori) che egli assume come il
portavoce dell’epistemologia neopositivistica nell’ambito della scienza
politica12.
In Bobbio infatti, anche nel Bobbio apparentemente allineato con la
tradizione empiristica, Zolo rintraccia un’inquietudine e un’ampiezza
di orizzonti che superano di gran lunga i limiti di qualsiasi
‘ortodossia’. Bobbio avverte la difficoltà (o addirittura la sterilità)
di una teoria politica depurata da qualsiasi componente valutativa e
coltiva una visione più complessa e sfaccettata dell’azione umana;
un’azione il cui protagonista comunica con i suoi simili attraverso
simboli che chiedono di essere interpretati e agisce in vista di fini e
in obbedienza a valori che devono essere decifrati come momenti della
cultura di cui egli è parte13. Si attenua quindi,
per Zolo (in ragione della sua opzione ‘post-empiristica’), ma anche
per Bobbio (secondo l’interpretazione che Zolo suggerisce), la
contrapposizione netta, qualitativa, fra scienza politica e filosofia
politica e a distinguerle resta semmai una differenza di grado,
svolgendo la prima analisi più determinate e mirate, mentre la seconda
ambirebbe a una visione generale e complessiva dell’azione politica14.
Anche sul terreno della teoria politica occorre secondo
Zolo respingere la received view neopositivistica senza però
cadere nella trappola dell’eticismo e del normativismo. Alla prima pars
destruens segue dunque una seconda, che assume come bersaglio
‘esemplare’ il neo-contrattualismo di Rawls. Esso infatti riposa su
un’assunzione non argomentata – la condivisione universale di un
naturale senso di giustizia – contro la quale deve essere avanzata,
secondo Zolo, l’accusa di fallacia deontologica: un modello normativo
universalistico viene costruito mettendo in parentesi le differenze e
le specificità degli individui concretamente operanti, «costantemente
impegnati in una trama di circuiti transattivi entro i quali si
esprimono le esigenze di sicurezza di ciascun gruppo […]»15.
Il discorso normativo appare per Zolo inaccettabile perché trasforma i
valori (pur presenti in qualsiasi enunciato ‘descrittivo’, ma legati a
interessi e aspettative ‘locali’) in principî di portata
universalistica, di fronte alle quali ha ancora buon gioco il
‘riduzionismo’ marxiano o paretiano, che ne disvela la valenza
legittimante nei confronti di specifici assetti potestativi (la
democrazia welfarista, nel caso di Rawls, denigratoriamente ricondotta
da Zolo all’apologo di Menenio Agrippa).
L’alternativa è sviluppare sul terreno dell’analisi
politica, e della teoria della democrazia, gli assunti di
quell’epistemologia riflessiva adottata da Zolo come la propria matrice
metateorica. È a questo punto che entra in scena la categoria del
‘realismo politico’16; una categoria
«alternativa – scrive Zolo – sia al falso realismo delle teorie
economiche od empiriche della politica, sia alle concezioni
moralistiche»17.
Il realismo politico ha alle spalle una lunga e
impegnativa tradizione18, che Zolo accetta solo
con beneficio d’inventario. La sua prima preoccupazione è prendere le
distanze da una celebre tesi: la tesi del primato della forza sulla
giustizia; la tesi sostenuta da Trasimaco, che nella Repubblica
di Platone afferma che il ‘giusto’ è soltanto ciò che il più forte
ritiene utile. Zolo accoglie dal realismo ‘classico’ la diffidenza nei
confronti della giustizia, senza per questo identificare la sfera della
politica con gli interessi e le strategie del principe. Realistica è
per Zolo una teoria che vede nella politica un ambito di esperienza non
assoggettabile alle prescrizioni di un sovrastante modello normativo.
La politica è il momento del particolarismo degli interessi e dei
progetti, inevitabilmente diversi e conflittuali, che trovano
provvisori punti di incontro e momenti di composizione pattizia, ma non
possono essere disciplinati da una norma (etica o giuridica) di portata
soi-disant universalistica.
L’impossibilità di attribuire all’universo di discorso
normativo un suo autonomo significato e la necessità di ricondurlo al
particolarismo delle diverse forme di vita, già presentate da Zolo come
conseguenze obbligate della sua scelta epistemologica, vengono
confermate sul terreno di un’analisi (che Zolo chiama realistica) della
politica. Realistica è infatti per Zolo un’analisi politica che
concentra l’attenzione sugli interessi e le aspirazioni che emergono in
un contesto determinato ed esclude il ricorso a criteri normativi
sovrimposti, nella convinzione che essi siano la razionalizzazione e
l’universalizzazione di ‘punti di vista’ (di aspirazioni, interessi,
valori) contingenti.
La critica di quella ‘fallacia’ che Zolo chiama
deontologica si incontra con la diffidenza, tipica della tradizione del
realismo politico, nei confronti degli ideali, dei grandi principî,
retoricamente solenni e politicamente imbelli. Certo, pur entro la
medesima tradizione realistica, mutano il tono e la direzione di senso
dell’argomentazione a seconda che essa si collochi ex parte
principis o ex parte populi; resta però salda la
convinzione (in Machiavelli come in Marx) che i principî e gli ideali
non abbiano a che fare con l’essenza, con il motore segreto,
dell’azione politica, ma ne siano solo una variabile dipendente.
La svalutazione machiavelliana dei paternostri appare a
Zolo la precoce intuizione dell’autonomia della politica; un’intuizione
che acquista una pregnanza tanto maggiore quanto più ci si addentra
nella modernità e si diviene consapevoli della crescente complessità
della dinamica sociale. Il termine ‘complessità’ vuole avere un
significato non già generico, ma specifico, ‘tecnico’: è un
termine-chiave di quella sociologia luhmanniana che Zolo aveva
presentato e discusso fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta19
e continua a impiegare nella costruzione della sua teoria della
democrazia. In questa prospettiva, data l’enorme e non dominabile
complessità della realtà, il problema decisivo (sia teorico che
pratico) è introdurre criteri di semplificazione allo scopo di
fronteggiare le sfide dell’ambiente. È questa la funzione di ogni
sistema sociale, la cui evoluzione è, sì, caratterizzata da un
incremento di complessità interna, ma anche dalla simultanea formazione
di sistemi e sotto-sistemi differenziati e relativamente autonomi.
L’autonomia della sfera politica, la sua indipendenza da
altri sottosistemi sociali, è dunque un importante lascito della
tradizione realistica, che Zolo recepisce e valorizza facendo leva su
due linee argomentative diverse, ma convergenti: il rifiuto (per
intendersi, neurathiano) dell’universalismo normativo e la teoria
luhmanniana della complessità sociale e della differenziazione
sistemica.
Della tradizione realistica Zolo non sembra invece voler
accogliere il pessimismo antropologico ampiamente circolante al suo
interno: l’idea di un essere umano egoista, inaffidabile, aggressivo,
assetato di potere, di cui Machiavelli ha lasciato un’immagine tanto
celebre quanto efficace. Non per questo però egli ritiene irrilevante
per una teoria della democrazia qualsiasi rinvio a presupposti
antropologici. Al contrario, egli si collega alla visione antropologica
di Gehlen, che insiste sulla varietà dei comportamenti propri di un
essere umano, la cui caratteristica più saliente è l’apertura al mondo
e il continuo oscillare fra ricerca di innovazione e bisogno di
stabilità, fra assunzione del rischio ed esigenza di sicurezza20.
La plasticità dell’essere umano non è però semplice
indeterminazione e apertura a qualsiasi contenuto. Il nesso che Zolo
intende instaurare fra antropologia e politica è più forte e
sostantivo. Dall’etologia e dall’antropologia, da Lorenz e da Gehlen,
egli trae la convinzione che l’essere umano nel suo rapporto con
l’ambiente (con le sue eccessive sollecitazioni e con il troppo ampio
ventaglio delle possibilità offerte) si senta esposto al rischio e
all’imprevedibilità e chieda al gruppo sociale di intervenire con
decisioni che riducano la complessità, contengano i rischi, controllino
la paura. È la paura il principale collante dell’ordine politico:
quella paura che almeno un grande ‘classico’ del realismo politico –
Hobbes – aveva assunto come fondamento originario dell’ordine politico.
È la paura che anche per Zolo contribuisce a tenere insieme il gruppo,
a esaltare la differenza fra ciò che è interno ad esso e ciò che è
esterno (e potenzialmente minaccioso), a conferire alle autorità un
potenziale simbolico che svolge un ruolo rilevante nella
stabilizzazione dell’assetto potestativo e nel disciplinamento sociale.
Zolo instaura dunque un duplice contatto con
l’immaginario antropologico della tradizione realistica: in primo
luogo, se ne respinge una componente (l’uomo egoista e aggressivo), ne
accoglie un altro filone (l’uomo impaurito e bisognoso di
rassicurazione), che aveva già esercitato, grazie a Hobbes, un influsso
decisivo sulla rappresentazione dell’ordine politico. In secondo luogo,
quale che sia l’immagine antropologica adottata, Zolo accoglie dalla
tradizione la convinzione che l’antropologia incide in modo rilevante
sulla rappresentazione dell’ordine politico.
Conviene chiedersi però a questo proposito quale sia lo
statuto epistemologico attribuibile alle tesi antropologiche condivise.
Anche se Zolo non si pronuncia esplicitamente su questo punto, mi
sembra che non possano che essere confermati, anche su questo terreno,
i principî della sua epistemologia riflessiva: secondo la quale ogni
teoria (o spezzone di teoria) non descrive la realtà come tale, ma
costruisce il proprio oggetto elaborando selettivamente i dati senza
uscire da un circolo che trova nel soggetto un suo insuperabile punto
di partenza e di arrivo. Il realismo politico di Zolo trova quindi un
importante complemento nella sua soggiacente antropologia
(hobbesiano-gehleniana), ma non può assumerla come un assioma evidente
o come un piedistallo incrollabile. Attenuata la differenza fra scienza
e filosofia, sottolineato il carattere necessariamente soggettivo e
valutativo di ogni teoria, il realismo politico è, come ogni teoria,
semplicemente un punto di vista sul mondo ed è costretto a rinunciare
alla mossa retorica più efficace della tradizione realistica: il
richiamo alla dura ma indiscutibile realtà contro le illusioni delle
anime belle e le astrazioni dei filosofi. L’immagine dell’uomo
impaurito non è necessariamente più aderente al ‘reale’ dell’immagine
dell’uomo egoista o dell’immagine dell’uomo sociale e collaborativo: si
fronteggiano concezioni diverse dell’essere umano cui corrispondono
altrettanto diverse rappresentazioni della politica (ed è aperto semmai
soltanto il dibattito sulla coerenza interna delle rispettive
‘visioni’).
Zolo intrattiene dunque un rapporto complesso con la
tradizione del realismo politico: fa proprio il nesso (da essa
ampiamente coltivato) fra antropologia e politica, ma preferisce far
leva non sull’immagine (più diffusa) dell’uomo machiavelliano, bensì
sul nesso (hobbesiano) fra paura e ordine; valorizza il tema
(machiavelliano) dell’autonomia della politica, ma lo riformula dalle
fondamenta potenziandone la portata con l’innesto della sociologia
luhmanniana; trova congeniale la svalutazione degli ‘ideali’ e dei
‘principî’ (di contro alla dura lezione delle cose) e la rafforza (e
rifonda) alla luce degli esiti giusrealistici dell’epistemologia
riflessiva; ed è infine proprio in conseguenza di una siffatta scelta
epistemologica che egli si vede costretto a lasciar cadere o almeno a
indebolire notevolmente (anche senza dichiararlo apertis verbis)
le pretese di verità del realismo ‘classico’: il realismo cessa di
presentarsi come la squillante rappresentazione delle ‘cose stesse’ per
divenire semplicemente uno stile intellettuale, la forma di una
narrazione, un approccio metodico e una visione della politica.
È questo il programma euristico cui Zolo si attiene nello
sviluppare la sua analisi della democrazia; e torna di nuovo, anche su
questo terreno, il confronto con una tradizione, lunga e articolata,
che si presenta appunto come realistica; una tradizione che nasce su
impulso di Mosca e di Pareto, prosegue con Weber e con Kelsen (con il
Kelsen teorico della democrazia), trova la sua più celebre fondazione e
sistemazione in Schumpeter e influenza a fondo la politologia del
secondo Novecento (si pensi a Robert Dahl).
In questa prospettiva, se analizziamo, senza pregiudizi e
senza forzature ideologiche, la concreta dinamica degli attori sociali,
ci accorgiamo che i principî e i simboli che avevano sorretto le
concezioni sette-ottocentesche della democrazia sono destinati a cadere
come aspirazioni illusorie o impossibili modelli normativi.
La democrazia (che Schumpeter chiama ‘classica’) – la
democrazia di Rousseau (e anche la democrazia di Marx) – coincideva con
l’idea di un popolo capace di porsi come un soggetto attivo e
propositivo, detentore di una volontà sovrana che trascende il
particolarismo dei gruppi e degli interessi e rende possibile la
coincidenza fra governanti e governati. Certo, il modello rousseauviano
era molto diverso dalla visione di Sieyès, per il quale la democrazia
moderna si realizzava necessariamente nella forma della rappresentanza.
Resta comunque indubbio che nel corso dell’Ottocento si sarebbe diffusa
l’idea di un ordine politico che poteva dirsi legittimo solo in quanto
fondato sul consenso dei cittadini, sulla libera espressione della loro
volontà, sulla loro partecipazione (diretta o indiretta) al potere.
Sono appunto queste convinzioni a vacillare sotto i colpi
di un’analisi che si presenta come realistica in quanto decisa a
scendere dal cielo dei principî allo scopo di comprendere la più
terrena dinamica del comando e dell’obbedienza. In questa prospettiva,
il demos come unitario centro di volontà si dissolve,
sostituito da gruppi ristretti, da élites politico-sociali impegnate ad
assicurarsi una posizione di comando: non sono i ‘tutti’, o almeno i
‘molti’, a decidere, ma i ‘pochi’, i membri delle élites. Il
meccanismo democratico-rappresentativo è soltanto una finzione
giuridica, utile non perché assicuri la partecipazione del popolo al
processo decisionale, ma perché rende possibile una regolamentata
competizione fra leader rivali, che mirano ad accaparrarsi il voto
elettorale e influenzano gli elettori impiegando tecniche simili a
quelle adottate dagli esperti pubblicitari.
È questo il quadro di riferimento che Zolo accoglie. Nei
confronti del realismo di Schumpeter egli avanza però due riserve
importanti: in primo luogo, la sua analisi della democrazia non fa
eccezione (come il suo autore pretenderebbe) alla regola
dell’insopprimibile dimensione valutativa di ogni teoria; in secondo
luogo (e di conseguenza), la sua visione della democrazia (e in
particolare le successive concezioni pluralistiche à la Dahl)
peccano di un eccesso di ottimismo nel considerare ancora ‘democratico’
il funzionamento odierno delle istituzioni rappresentative. Per Zolo
infatti la crescente auto-referenzialità dei partiti politici, la
persistente invisibilità di numerosi processi decisionali, l’incidenza
della macchina multimediale sul processo decisionale dei cittadini,
sempre più lontani dall’immagine idealizzata di soggetti compiutamente
autonomi e razionali, sono fenomeni che inducono a dubitare della
possibilità di tener fermo il concetto di democrazia e autorizzano
l’ipotesi di una possibile diffusione di ciò che Zolo chiama il
‘modello Singapore’: un tipo di società dove la centralità del mercato
e l’incremento della produttività coesistono con un sistema politico
autoritario, quali che siano le foglie di fico
democratico-rappresentative di cui esso voglia eventualmente adornarsi21.
Un’analisi realistica della democrazia (un’analisi dove
il lascito della tradizione elitistica si intreccia con il lessico
teorico della sociologia sistemica) non sembra dunque poter individuare
forze capaci di impedire la trasformazione dell’«elitismo democratico»
nell’«elitismo tout court», ovvero della «democrazia» nel «suo
contrario»22.
Dissolti i parametri della rappresentanza e del pluralismo, restano, a
caratterizzare i moderni regimi ‘democratici’, le articolazioni
istituzionali che «corrispondono all’esigenza di conservare il livello
di differenziazione e di complessità raggiunto dalle moderne società
industriali»: è questa «la promessa che la democrazia deve
mantenere»23.
Rispettata questa promessa, però, la democrazia non sembra distinguersi
essenzialmente da quel modello liberal-costituzionale che essa aveva
preteso (o promesso) di trasformare in nome dell’eguaglianza.
In effetti, le promesse che la democrazia aveva formulato
nella sua traiettoria sette-ottocentesca erano molte e impegnative. Che
fossero troppe e troppo arrischiate è una tesi che Bobbio aveva già
formulato negli anni Ottanta: per un verso, egli esortava a ridurre le
aspettative, a tener fermo il ‘contenuto minimo’ della democrazia senza
inseguire destabilizzanti chimere; per un altro verso, però, egli era
convinto che alcune promesse erano inseparabili dalla democrazia e
attendevano ancora la loro integrale realizzazione. «Le promesse non
realizzate della democrazia»: è questa la famosa, e dolente, accusa
formulata da Bobbio nel 198424. Attraverso una
disincantata, ‘schumpeteriana’, analisi della società contemporanea
Bobbio denuncia l’incompiutezza di una democrazia che ha promesso, ma
non ha realizzato, la sovranità del popolo, la partecipazione eguale,
il rafforzamento del potere decisionale dei cittadini, la trasparenza
del potere.
Con il realismo di Bobbio (come con il realismo di
Schumpeter) Zolo è simpatetico, ma ritiene anche che occorra procedere
(con maggiore intransigenza) sulla medesima strada e sostenere che «le
promesse non mantenute della democrazia sono, senza alcuna eccezione,
promesse non mantenibili»25. È la realtà stessa
(la realtà ‘costruita’ attraverso il gioco combinato dell’antropologia
gehleniana e della sociologia sistemica) a rendere le promesse della
democrazia «promesse da marinaio»26. Né vale il ricorso a
un qualsiasi, divergente, discorso normativo, dal momento che esso non
gode di una rilevante autonomia e si esaurisce nella razionalizzazione
di valori e aspettative contingenti.
4. Il realismo politico: la teoria
dell’ordine internazionale
L’elaborazione di una teoria della democrazia aveva
offerto a Zolo l’occasione di mettere a punto la sua prospettiva
realistica e al contempo di approfondirne i fondamenti epistemologici.
Al realismo politico Zolo giungeva infatti al termine di un lungo
percorso che lo aveva indotto a rifiutare i principali assunti della
tradizione neopositivistica (dalla teoria della verità come
corrispondenza all’immagine di una scienza meramente descrittiva) e a
contestare le pretese universalistiche del discorso normativo. Le
preoccupazioni epistemologiche non erano però destinate a restare sulla
soglia del dibattito politologico: anche su esso il neopositivismo
aveva esercitato un influsso rilevante ed era quindi indispensabile
verificare, sul terreno dell’analisi filosofico-politica, la tenuta e
gli effetti della prospettiva post-empiristica in cui Zolo si
riconosceva.
Non era però sufficiente ribadire il nesso fra
l’epistemologia riflessiva e il realismo politico. Occorreva definire
la propria collocazione entro un settore disciplinare – la scienza
politica e la filosofia della politica – dove il ‘realismo’ poteva
contare su una lunga ed illustre tradizione. Con essa Zolo ha dovuto
fare i conti, per così dire, due volte: prima segnalando le sue
consonanze e dissonanze con la visione machiavelliana e hobbesiana
della politica, poi valorizzando in particolare, della tradizione
realistica, la prospettiva elitistica e scegliendo di muoversi nel suo
alveo sviluppandone criticamente gli assunti.
È un analogo modus procedendi, attento a
coniugare le premesse epistemologiche generali con le ‘epistemologie
locali’ e con le prospettive e le acquisizioni proprie di uno specifico
settore disciplinare, che Zolo segue quando si addentra in un diverso
(ma complementare) territorio di ricerca: l’analisi dell’ordine e della
politica internazionale.
Il mutamento dello scenario – dalla politica interna alla
politica internazionale – è netto, ma non sorprendente, data la
crescente rilevanza della dimensione sovrastatuale e la conseguente
difficoltà di chiudere l’analisi dei fenomeni politici entro i confini
delle singole realtà nazionali27. La decisione di
affrontare il problema delle relazioni internazionali potrebbe
addirittura essere presentata come il naturale sviluppo di una
filosofia politico-giuridica consapevole di tutte le sfaccettature e
della crescente complessità del proprio oggetto. Zolo continua a
muoversi entro un’area, almeno in ultima istanza, omogenea e ha quindi
buon gioco nel riproporre non solo (come è ovvio) la sua epistemologia
riflessiva, ma anche quel realismo politico che aveva trovato negli
assunti epistemologici generali il suo fondamento, ma si era riempito
di contenuti ulteriori nel vivo di un’analisi dedicata alla teoria
della democrazia. Anche sul terreno della politica internazionale, Zolo
continua a sviluppare la sua prospettiva realistica. Occorre però
tentare di capire se il suo realismo acquisisca determinazioni
ulteriori nel nuovo campo di indagine, coltivato da tradizioni
disciplinari specifiche e diverse (quali la teoria delle relazioni
internazionali e il diritto internazionale).
Nella teoria delle relazioni internazionali un
orientamento (che si definiva) realistico aveva avuto un ruolo in
qualche misura fondativo. Secondo una diffusa auto-rappresentazione
della disciplina, è proprio il realismo che nel secondo dopoguerra, con
le opere di Edward Hallet Carr28 e di Hans Morgenthau29,
domina il campo, ‘inventa’ come proprio antonimo l’idealismo e apre la
serie dei grandi dibattiti che avrebbero scandito il successivo
sviluppo della disciplina stessa30.
Per i realisti, la tragedia della guerra aveva spazzato
via le illusioni ‘idealistiche’ di matrice wilsoniana e imponeva il
recupero di una tradizione che poteva vantare come propria matrice
addirittura la Guerra del Peloponneso di Tucidide e il famoso
dialogo fra i Mèli e gli Ateniesi. L’aspirazione di Morgenthau è
offrire una rappresentazione fredda e disincantata della politica
internazionale, cogliendo le leggi che ne regolano i fenomeni.
L’esistenza di oggettivi e inalterabili principî capaci di spiegare il
comportamento degli attori internazionali rinvia, per Morgenthau, alla
natura stessa dell’essere umano e alle sue costanti determinazioni.
Ancora una volta, un’analisi realistica della politica trova il suo
fondamento in precisi assunti antropologici. Come ogni essere umano è
caratterizzato da un’originaria libido dominandi, così gli
Stati – unici attori sulla scena internazionale – perseguono
sistematicamente il proprio interesse, la propria conservazione e la
propria affermazione. A un’antropologia hobbesiana corrispondono
puntualmente tanto un rapporto di analogia fra l’individuo e lo Stato
quanto un’immagine ‘anarchistica’ delle relazioni internazionali. Se
pure è ipotizzabile una morale impegnata a contrastare l’egoismo
auto-affermativo dell’individuo, è comunque indiscutibile l’autonomia
della sfera politica e quindi la sua impermeabilità a criteri etici e
ad aspirazioni universalistiche.
Nei confronti del realismo di Morgenthau (impressionato
tanto dal conflitto mondiale quanto dalla successiva ‘guerra fredda’),
Zolo può essere solo moderatamente simpatetico: pronto ad accoglierne
le generiche istanze anti-normativistiche e anti-eticistiche e a
sottoscrivere la tesi (per intendersi machiavelliana) dell’autonomia
della politica, ma lontano tanto dai suoi assunti antropologici (troppo
impressionati dal pessimismo del realismo politico ‘classico’) quanto
dalle sue coordinate epistemologiche (troppo esposte al rischio di
incorrere nella fallacia del ‘realismo ingenuo’).
Interessato a far tesoro degli apporti di una disciplina
– la teoria delle relazioni internazionali – che si viene costruendo
come una vera e propria scienza dedicata all’analisi della politica
nella sua proiezione sopranazionale, Zolo non può identificarsi con il
realismo degli anni Cinquanta e guarda piuttosto agli sviluppi
successivi del medesimo paradigma.
Spicca fra questi la proposta neorealistica di Kenneth
Waltz, che accoglie l’immagine ‘anarchistica’ della politica
internazionale, ma intende superare le ingenuità metodologiche e le
pregiudiziali antropologiche del realismo à la Morgenthau per
elaborare una visione strutturale e sistemica dell’ordine internazionale31.
Sul terreno epistemologico, le coordinate che sorreggono l’analisi di
Waltz sono in sostanza solidali con la filosofia del neopositivismo
(anche se non mancano, nelle sue considerazioni metodologiche, tensioni
e spunti che sembrano rendere meno ‘ortodossa’ la sua scelta); né il
quadro di riferimento sembra cambiare in modo significativo nemmeno con
Robert Keohane32:
un autore – valorizzato e ricondotto da Zolo al paradigma realista –
che in realtà perviene a una proposta originale (che è stata detta
neoliberale o neo-istituzionalista) e tuttavia resta complessivamente
fedele alla received view neopositivistica. Una dimostrazione è
offerta dal suo intervento33 nel dibattito che
negli anni Ottanta investe la teoria delle relazioni internazionali; un
intervento nel quale egli usa la coppia opposizionale rationalism/reflectivism
per distinguere la tradizionale epistemologia neopositivistica dalla
prospettiva post-empiristica, convinta del carattere valutativo e
‘riflessivo’ delle scienze politico-sociali, e mostra di riconoscersi
nel primo, piuttosto che nel secondo, orientamento34.
Può apparire singolare che Zolo si accinga a utilizzare
gli apporti di alcuni teorici neorealisti (e neo-istituzionalisti)
delle relazioni internazionali senza riservare loro il medesimo
trattamento precedentemente inflitto agli scienziati della politica,
dal momento che tanto i primi quanto i secondi si riconoscevano in
quell’epistemologia neopositivistica dalla cui contestazione Zolo
traeva il fondamento stesso del suo realismo.
Occorre però tener conto di due elementi: in primo luogo,
Zolo poteva dare per conclusa la propria revisione critica del
paradigma neopositivistico e ritenere sufficiente una semplice conferma
dell’epistemologia riflessiva delineata nel corso degli anni Ottanta;
in secondo luogo, se è vero che egli non mette in questione le premesse
epistemologiche del neorealismo (e del neo-istituzionalismo) né entra
in rapporto con la nutrita compagnia dei teorici post-positivistici
delle relazioni internazionali, è altrettanto vero che la sua adesione
alle conclusioni sostantive di Waltz o di Keohane è solo parziale e
selettiva.
Ne è una prova il suo riferimento (apertamente
simpatetico) alla ‘scuola inglese’ e a Hedley Bull, che accoglie da
Martin Wight35
il suggerimento di guardare alla storia delle dottrine distinguendo fra
un indirizzo realistico-hobbesiano, idealistico-kantiano e groziano e
dichiara la sua appartenenza a quest’ultimo. Dalla riflessione di
Hedley Bull Zolo trae non pochi spunti importanti36.
In primo luogo, Bull tiene fermo il principio secondo il quale l’ordine
internazionale ruota intorno alla pluralità (‘anarchica’) degli Stati e
non mostra nessun cedimento di fronte alle sirene universalistiche, che
anzi anch’egli (realisticamente) sospetta al servizio degli interessi,
inevitabilmente particolaristici, dell’uno o dell’altro Stato37.
In secondo luogo, l’anarchia internazionale (che pure dà il titolo al
libro) non è affatto il bellum omnium temuto da Hobbes.
L’ordine internazionale è, sì, riconducibile allo stato di natura della
tradizione giusnaturalistica (salvo che i soggetti in esso operanti non
sono gli individui ma gli Stati), ma deve essere compreso ricorrendo
non già a Hobbes, ma a Locke; e lo stato di natura lockiano manca di un
sovrano e di un giudice delle possibili controversie, ma ha una sua
intrinseca strutturazione, è organizzato secondo regole, è già, in
quanto tale e indipendentemente da un centro coattivo, un ordine. Allo
stesso modo, nelle relazioni internazionali non esiste l’alternativa
secca fra una cosmopoli convergente su un centro o su un vertice e il
disordine provocato dall’incoercibile scontro dei Leviatani; è esistita
e può continuare ad esistere una società internazionale in grado di dar
vita a regole di varia natura (pre-giuridiche e anche giuridicamente
formalizzate) e capace di raggiungere un suo equilibrio (un ordine),
pur in presenza di una molteplicità di centri di potere38.
Certo, la prospettiva di Bull resta fortemente ancorata
alla tesi della centralità dello Stato ed è attraverso una lente
statocentrica che egli coglie le capacità auto-ordinanti della società
internazionale. Rispetto a questo orientamento, l’approccio
neo-istituzionalista di Keohane è indubbiamente più flessibile e pronto
a registrare la varietà e la complessità odierne delle istituzioni
capaci di favorire la cooperazione ponendo vincoli agli Stati e
attenuando il loro tradizionale protagonismo. Al contempo però è forte
il rapporto che Keohane intrattiene con la teoria sistemica di Waltz e
con le radici neopositivistiche che ne costituiscono la premessa
epistemologica, di contro alla sensibilità storicistica di cui dà prova
la ‘scuola inglese’. È comprensibile quindi che Zolo, pur senza
pronunciarsi apertamente al riguardo, mostri di trovarsi a suo agio con
la prospettiva ‘neo-groziana’, aliena dalle ambizioni, ma anche dalle
rigidità, teoriche e metodologiche dei neorealisti e dei
neo-istituzionalisti (pur essendo al contempo disposto a servirsi dei
loro apporti, senza preoccuparsi troppo delle loro matrici teoriche).
Quali sono gli spunti che dalla frequentazione dei
teorici delle relazioni internazionali trae Zolo nell’orchestrazione
della sua prospettiva realistica?
Una prima, rilevante acquisizione mi sembra la
valorizzazione della molteplicità dei centri di potere e il conseguente
attacco a qualsiasi ipotesi di cosmopolitica reductio ad unum
dell’ordine internazionale. Le tesi post-positivistiche da tempo messe
a punto da Zolo trovano nel nuovo ambiente una conferma e uno sviluppo:
la politica è il luogo dove interessi e progetti necessariamente
particolaristici si scontrano e si compongono secondo una logica
propria che non può essere forzata dall’applicazione di criteri
normativi (etici o giuridici) che, lungi dal favorire l’ordine o
addirittura rendere possibile un ordine ‘giusto’, operano come indebite
razionalizzazioni di aspirazioni contingenti. È quindi utile la lezione
dei teorici realisti delle relazioni internazionali nella misura in cui
dimostra la possibilità di pensare l’ordine politico, anche nello
scenario internazionale, come convivenza (fragile, locale, spontanea)
del molteplice.
Se il realismo coincide con la valorizzazione
dell’insuperabile molteplicità degli Stati, dei popoli, delle culture,
il suo antonimo è una prospettiva che assuma come obiettivo la
creazione di un ordine globale, capace di includere come proprie
componenti i diversi centri di potere. Quali che siano le
manifestazioni dell’istanza ‘globalistica’ (l’esigenza di un giudice
come arbitro delle controversie, l’idea kelseniana di un unitario
universo normativo), esse incorrono comunque nell’errore di voler
imporre alle concrete dinamiche politiche una regolamentazione forzosa
ed estrinseca che non tiene conto della loro irriducibile complessità.
Il globalismo giuridico è insomma vittima di un’immagine ancora
verticistica e piramidale dell’ordine, che invece, in una prospettiva
realistica, deve essere rappresentato come «un reticolo normativo
policentrico», come «una ragnatela», o «una serie di ragnatele disposte
a frattale», compatibile con «processi diffusi di interazione
strategica e di negoziazione multilaterale»39.
Contro il globalismo giuridico interviene anche un’altra
componente del realismo: l’anti-normativismo. Anche in questo caso,
trova conferme e applicazioni il programma euristico messo a punto da
Zolo già in occasione delle sue letture neurathiane. L’analisi di un
apparato normativo, secondo il filosofo viennese, può anche avere una
valenza ‘interna’ e servire a saggiare la coerenza e la tenuta del
sistema (è in questa prospettiva, credo, che Zolo denuncia la torsione
o la flagrante disapplicazione che alcuni grandi principî del diritto
internazionale – quali l’eguaglianza, l’imparzialità del giudice, la
condanna della guerra – subiscono sotto la pressione dei poteri
prevalenti). Ancora più importante però è guardare il discorso
normativo dall’esterno, rapportandolo alla prassi cui esso resta
effettivamente collegato.
Continua dunque, sul terreno dell’analisi della politica
internazionale, la denuncia della ‘fallacia deontologica’: lo
smascheramento delle pretese universalistiche del discorso normativo,
che occulta, razionalizzandoli, interessi e posizioni di potere
particolaristici. È in questa prospettiva che Zolo contrappone alla
pretesa ‘terzietà’ del giudice internazionale la sua effettiva
dipendenza dalla potenza egemone (quali che siano state le
realizzazioni istituzionali – da Norimberga a Baghdad, come recita il
sottotitolo di un suo libro40 – di una siffatta
istanza giurisdizionale).
Occorre infine procedere applicando anche nei confronti
del diritto internazionale i canoni del realismo: spezzando l’involucro
formalistico dell’universo normativo e riconducendolo alla dinamica
politico-sociale di cui esso è funzione41. Non manca però,
accanto alla conferma della prospettiva giusrealistica, uno spunto
ulteriore, congruente con la varietà politica e culturale dello
scenario internazionale: l’esortazione a prendere sul serio, di contro
alla kelseniana civitas maxima, la molteplicità degli
ordinamenti, opponendo una prospettiva pluralistica all’idea di «un
solo, onnicomprensivo, ordinamento giuridico»42.
L’anti-normativismo; la denuncia degli interessi
particolaristici soggiacenti alla retorica dei ‘principî’; il rifiuto
del cosmopolitismo: sono questi i tratti principali che caratterizzano,
secondo Zolo, una filosofia ‘realistica’ dell’ordine internazionale; e
sono questi gli stimoli principali che una siffatta filosofia può
trarre, per un verso, dai teorici (da alcuni teorici) delle relazioni
internazionali, e, per un altro verso, dalla riflessione
politico-giuridica di Carl Schmitt.
Di Schmitt Zolo apprezza la «critica corrosiva» nei
confronti del normativismo kelseniano, dandola però al contempo in
qualche modo per acquisita43. È piuttosto una
seconda componente del realismo schmittiano che egli sottolinea e
valorizza: lo smascheramento della volontà di potenza soggiacente agli
irenismi e agli universalismi geneticamente riconducibili
all’‘idealismo’ wilsoniano. Non a caso un motto schmittiano (e
proudhoniano) viene scelto da Zolo come titolo di un suo libro; un
libro che invita appunto a diffidare «di chi usa la parola ‘umanità’
nel contesto di una guerra»44 e denuncia le crociate
(sedicenti) umanitarie come l’espressione di una strategia retorica che
legittima la propria guerra come ‘giusta’ e delegittima l’avversario
trasformandolo in un nemico ‘dis-umano’. Ancora una volta, il realismo
si accredita come un esercizio di ‘critica dell’ideologia’, capace di
demistificare la pretesa oggettività e neutralità dell’etica
universalistica.
Infine, il rifiuto del cosmopolitismo; un rifiuto che
percorre l’intera analisi storico-teorica del Nomos della terra.
Schmitt continua a far leva, in nome del suo «realismo polemologico»45,
sulla sovranità degli Stati nazionali e a guardare (con qualche
nostalgia conservatrice) al sistema dello ius publicum europaeum;
e la lezione che ne trae Zolo è, in sostanza, la conferma di quell’idea
di ordine internazionale delineata da alcuni teorici realisti delle
relazioni internazionali (in particolare da Hedley Bull); l’idea di un
ordine caratterizzato da «un regionalismo policentrico e multipolare» e
dal «rilancio della negoziazione multilaterale fra Stati»46.
Non sono cambiati, a contatto con la tematica
politico-internazionalistica, ma si sono solo arricchiti adattandosi al
nuovo contesto, i profili che hanno caratterizzato il realismo di Zolo
fino dalla sua prima formulazione. Fra questi, un elemento tanto
suggestivo quanto importante è la dimensione antropologica. Il
riferimento a un retroterra antropologico è ricorrente nella tradizione
realistica. Zolo accoglie questa eredità, ma la sviluppa in una
direzione che non ha molto a che fare con l’antropologia pessimistica
(e rudimentale) di Morgenthau. Sono piuttosto le riflessioni
antropologiche ed etologiche sulla guerra che egli mette a frutto: una
guerra che deve essere considerata non un’episodica ‘deviazione’, ma un
comportamento iscritto, se non nella ‘naturale’ aggressività
dell’essere umano, certo nella sua organizzazione culturale, nella
strutturazione territoriale e solidale delle più diverse comunità
politiche47.
Fenomeno intimamente ‘culturale’ (in senso
antropologico), la guerra non può essere bandita una volta per tutte,
come vorrebbe la generosa illusione del pacifismo assoluto, e nemmeno
può essere riconosciuta come ‘giusta’, perché così facendo si
incorrerebbe ancora una volta nella fallace universalizzazione di una
scelta contingente e particolaristica. Certo, la guerra, in quanto
legata agli interessi e ai progetti di un determinato gruppo sociale,
può essere, per esso, «una scelta inevitabile». Chi però – aggiunge
Zolo – «al suo interno si impegna a legittimarla come ‘giusta’ si rende
moralmente responsabile di ciò che è inevitabile» e si dispone a
scomodare «i valori più alti […] per giustificare moralmente il mondo
così com’è»48.
In una prospettiva realistica, dunque, la guerra può
apparire, in certe circostanze, come una soluzione obbligata: si può
fare la guerra; ciò che però non si ‘deve’ fare è combatterla al grido
di ‘Dio è con noi’. In effetti, però, chiunque guardi (realisticamente)
alla storia dell’umanità si rende facilmente conto della ricorrente
tendenza a fondare eticamente, a giustificare (a rendere giusta) la
guerra, la propria guerra; e non sembrerebbe impossibile attribuire a
questa tendenza profonde radici antropologico-culturali. Potrebbe
allora profilarsi la possibilità di un ‘altro’ realismo; un realismo
che assume come (antropologicamente) inevitabile una qualche fondazione
etica della guerra.
Questa ipotesi non sembra però poter trovar posto
nell’argomentazione di Zolo. Il suo realismo include un divieto:
compiere il salto mortale dal particolarismo degli interessi
all’universalismo dei valori. È però anche vero che quel divieto è
costantemente disatteso dalla ‘realtà’. Nella rappresentazione della
‘realtà’ sembra allora aprirsi una tensione. È come se Zolo dicesse:
succede, ma non ‘deve’ succedere, perché quel passaggio (dall’interesse
al valore) viene, sì, costantemente effettuato, è, sì, ‘reale’, ma non
è ‘vero’. Potremmo allora trarre due conseguenze: il ‘momento della
verità’, nel realismo di Zolo, viene forse a trovarsi su un gradino più
alto del ‘momento della volontà’. E poi: è la volontà che si impossessa
strumentalmente dei «valori più alti». E allora denunciarne
l’interessata e particolaristica utilizzazione può forse divenire (per
una singolare eterogenesi dei fini) la strategia più efficace per
preservarne l’incontaminata purezza.
1
Danilo Zolo, Il principato democratico. Per una teoria realistica
della democrazia, Feltrinelli, Milano 1992.
2
Danilo Zolo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale,
Feltrinelli, Milano 1995.
3
Danilo Zolo, Scienza e politica in Otto Neurath. Una prospettiva
post-empiristica, Feltrinelli, Milano 1986.
4
Ivi, p. 14.
5
Cfr. Silvana Castignone, Diritto, linguaggio, realtà. Saggi sul
realismo giuridico, Giappichelli, Torino 1995.
6
Cfr. Vittorio Villa, Costruttivismo e teorie del diritto,
Giappichelli, Torino 1999; Gerard Delanty, Social Science. Beyond
Constructivism and Realism, Open University Press, Buckinham 2000.
Cfr. Alessandro Pagnini (a cura di), Realismo/antirealismo: aspetti
del dibattito epistemologico contemporaneo, La Nuova Italia,
Scandicci 1995; Christopher B. Kulp (ed.), Realism/antirealism and
Epistemology, Rowman & Littlefield, Lanham 1997; Michele
Marsonet (ed.), The problem of realism, Ashgate, Aldershot
(Hampshire) 2002.
7
Danilo Zolo, Il principato democratico, cit., p. 25.
8
Danilo Zolo, La democrazia difficile, Editori Riuniti, Roma
1989, p. 35.
9
Danilo Zolo, La teoria dell’estinzione dello Stato, De Donato,
Bari 1974; Id., Stato socialista e libertà borghesi, Laterza,
Roma-Bari 1976; Id., I marxisti e lo Stato, Il Saggiatore,
Milano 1977.
10
Danilo Zolo, Scienza e politica in Otto Neurath, cit., pp. 154
sgg.
11
Norberto Bobbio, Scienza politica, in Scienze politiche, 1.
Stato e politica, in Enciclopedia Feltrinelli-Fischer,
Feltrinelli, Milano 1970, pp. 432-41; Id., Dei possibili rapporti
fra filosofia politica e scienza politica, in Annali della Facoltà
di Giurisprudenza dell’Università di Bari, 1, 1971, pp. 23-57; Id., Considerazioni
sulla filosofia politica, in «Rivista italiana di scienza
politica», 2, 1971, pp. 367-79.
12
Danilo Zolo, Complessità e democrazia, Giappichelli, Torino
1987, pp. 157-83.
13
Ivi, pp. 167-69.
14
Ivi, pp. 180-81.
15
Danilo Zolo, Il principato democratico, cit., p. 55.
16
Un’approfondita analisi critica è offerta da Alfonso Liguori, Realismo
politico, democrazia, modernità. Il principato democratico di Danilo
Zolo, undici anni dopo, in «Bollettino telematico di filosofia
politica», 2007 (http://bfp.sp.unipi.it/).
17
Danilo Zolo, Il principato democratico, cit., p. 58.
18
Cfr. Pier Paolo Portinaro, Il realismo politico, Laterza,
Roma-Bari 1999.
19
Danilo Zolo, Complessità, potere, democrazia, in Niklas
Luhmann, Potere e complessità sociale, Il Saggiatore, Milano
1989, pp. IX-XXX; Id., Complessità e democrazia, in «Problemi
della transizione», 1982, 9, pp. 149-59; Id., Funzione, senso,
complessità. I presupposti epistemologici del funzionalismo sistemico,
in Niklas Luhmann, Illuminismo sociologico, Il Saggiatore,
Milano 1983, pp. XIII-XXXIV.
20
Danilo Zolo, Il principato democratico, cit., pp. 61-62.
21
Ivi, p. 212.
22
Ivi, p. 120.
23
Ivi, pp. 209-210.
24
Norberto Bobbio, Il futuro della democrazia, in Il futuro
della democrazia: una difesa delle regole del gioco, Einaudi,
Torino 1984, pp. 3-28. Cfr. Pier Paolo Portinaro, Introduzione a
Bobbio, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 117 sgg.
25
Danilo Zolo, Il principato democratico, cit., p. 134.
26
Danilo Zolo, L’alito della libertà. Su Bobbio, Feltrinelli,
Milano 2008, p. 18.
27
Cfr. Furio Cerutti, Filosofia politica e relazioni internazionali,
in Id. (a cura di), Gli occhi sul mondo. Le relazioni
internazionali in prospettiva interdisciplinare, Carocci, Roma
2000, pp. 109 sgg.
28
Edward Hallet Carr, The Twenty Years’ Crisis. An Introduction to
the Study of International Relations [1939], Macmillan, London
1995.
29
Hans Morgenthau, Politics among Nations: The Struggle for Power and
Peace, Knopf, New York 1948. Cfr. Martin Griffiths, Realism,
Idealism and International Politics. A Reinterpretation, Routledge,
London-New York 1992; Benjamin Frankel (ed.), Roots of Realism,
Frank Cass, London-Portlan (Or.) 1996; Roger D. Spegele, Political
Realism in International Theory, Cambridge University Press,
Cambridge 1996.
30
Cfr. Mark A. Neufeld, The Restructuring of International Relations
Theory, Cambridge University Press, Cambridge 1995; Paul R. Viotti,
Mark V. Kauppi, International Relations Theory. Realism, Pluralism,
Globalism, and Beyond, Allyn and Bacon, Needham Heights (MA) 19993.
31
Kenneth Waltz, Teoria della politica internazionale [1979], il
Mulino, Bologna 1987
32
Cfr. in particolare Robert Keohane, After Hegemony: Cooperation and
Discord in the Worlsd Political Economy, Princeton University
Press, Princeton 1984; Id. (ed.), Neorealism and its Critics,
Columbia University Press, New York 1986.
33
Robert O. Keohane, International Institutions: Two Approaches,
in «International Studies Quarterly», 32, 1988, 4, pp. 379-96.
34
Cfr. Milja Kurki, Colin Wight, International Relations and Social
Science, in Tim Dunne, Milja Kurki, Steve Smith (eds.), International
Relations Theory. Discipline and Diversity, Oxford University
Press, Oxford 2007, pp. 19 sgg.
35
Martin Wight, International Theory. The Three Traditions,
Leiceester University Press, London 1991.
36
Fra cui anche la critica della domestic analogy. Su questa
nozione cfr. Chiara Bottici, Uomini e Stati. Percorsi di un’analogia,
ETS, Pisa 2004.
37
Hedley Bull, La società anarchica. L’ordine nella politica mondiale
[1977], Vita e Pensiero, Milano 2005, pp. 102-103.
38
Ivi, pp. 63 sgg.
39
Danilo Zolo, Cosmopolis, cit., p. 130.
40
Danilo Zolo, La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad,
Laterza, Roma-Bari 2006.
41
«Una teoria moderna e realistica del diritto internazionale dovrebbe
quindi tematizzare anzitutto il rapporto che esiste fra le forme del
diritto e, per così dire, le deformità o l’assenza di forme degli arcana
imperii (Danilo Zolo, I signori della pace. Una critica del
globalismo giuridico, Carocci, Roma 1998, p. 138).
42
Danilo Zolo, I signori della pace, cit., p. 139.
43
Danilo Zolo, Cosmopolis, cit., p. 124.
44
Danilo Zolo, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine
globale, Einaudi, Torino 2000, p. 44.
45
Danilo Zolo, I signori della pace, cit., p. 121.
46
Danilo Zolo, La profezia della guerra globale, in Carl Schmitt,
Il concetto discriminatorio di guerra, a cura di Stefano
Pietropaoli, Laterza, Roma-Bari 2008.
47
Danilo Zolo, Cosmopolis, cit., pp. 173 sgg.
48
Ivi, p. 107.