Guerre giuste postmoderne (*)

Costas Douzinas

Il capitalismo neoliberale, la globalizzazione e il cosmopolitismo sono venuti alla ribalta all'incirca nello stesso periodo negli ultimi trent'anni. La loro azione combinata ha condotto al graduale declino dell'edificio moderno della politica interna e internazionale, basato sulla contesa ideologica e sul rispetto per la sovranità e l'integrità territoriale. Ciò è avvenuto quando il completamento del processo di decolonizzazione e l'aumento, a esso collegato, della sensazione di sicurezza dei paesi in via di sviluppo hanno creato per la prima volta le condizioni per una difesa effettiva dei loro interessi.

Gli apologeti dell'ordine cosmopolitico emergente dichiarano che esso è autenticamente democratico, fondato sull'uguaglianza di fronte alla legge, la protezione costituzionale dei diritti individuali, il governo rappresentativo e l'economia di mercato. Il diritto 'umanitario', il vecchio diritto bellico combinato con i diritti umani, ha creato un nuovo 'diritto dell'umanità', che limita la brutalità dei governi durante la guerra e in tempo di pace. I suoi segni sono ovunque. Sanzioni vengono imposte agli Stati per proteggere i cittadini dai loro cattivi governanti. Condizioni relative al rispetto dei diritti umani, della democrazia e del buon governo sono solitamente inserite negli accordi per il commercio e la concessione di aiuti ai paesi in via di sviluppo. Ultimo, ma non in ordine di importanza, nelle guerre umanitarie uccidiamo esseri umani per salvare l'umanità.

Nel corso della storia, re e governanti hanno sempre ammantato di elevati principi bassi fini e azioni sanguinarie. In Occidente la ricerca di giustificazioni morali ha preso la forma della teoria della guerra giusta. Ma la mancanza di un arbitro che potesse giudicare le razionalizzazioni contrastanti delle parti in conflitto ha reso la guerra giusta uno dei rompicapo morali più insolubili. Come scrive il poeta Wyndham Lewis, "ma quale guerra che sia mai stata combattuta fu 'ingiusta', eccetto ovviamente quelle dichiarate dal nemico?".

La teoria della guerra giusta fu sviluppata dalla Chiesa medievale, nel tentativo di servire Cesare senza abbandonare del tutto le sue promesse a Dio. Una guerra giusta ristabilisce l'ordine morale violato. Per questo motivo i teologi si concentrarono sulla definizione dei criteri che determinano se una guerra è buona (lo jus ad bellum). Il nuovo diritto internazionale abbandonò questa ricerca nel diciassettesimo e diciottesimo secolo, prese atto che il diritto di dichiarare guerra è una prerogativa della sovranità e sviluppò regole di proporzionalità e necessità per regolarne la condotta (lo jus in bello). Il diritto bellico assunse un minimo rispetto del nemico come necessaria precondizione per la riduzione delle atrocità. Tuttavia, i vincoli e le regole accolte dai sovrani europei non si applicavano alle guerre coloniali condotte contro i "selvaggi".

Dopo la seconda guerra mondiale i capi nazisti furono accusati di crimini contro la pace e la Carta delle Nazioni Unite stabilì una distinzione tra guerre di aggressione e guerre difensive. Questo tentativo di bandire certi tipi di guerre fu accompagnato, schizofrenicamente, dalla dichiarazione dell'inviolabilità della sovranità statuale, consentendo alle grandi potenze di levare alte condanne morali dei loro avversari, mentre si ponevano al riparo dalle critiche verso i loro abusi interni. Dopo il collasso del comunismo, il nuovo ordine mondiale ha sciolto questa contraddizione - così almeno ci viene detto - erodendo i diritti della sovranità a favore della protezione delle persone dai loro governi.

La protezione dei diritti umani e la sicurezza dei popoli sono la giusta causa postmoderna per le guerre agli Stati, per le alleanze e per la società mondiale. Ma questa erosione di sovranità ha luogo unicamente nei confronti degli Stati deboli. La devastante superiorità militare, economica e tecnologica delle potenze egemoni mette sullo stesso piano argomenti morali e uso della forza.

Il compito dei governi è sempre stato quello di governare, non di agire in modo morale. Questo dato di fatto non cambia nel momento in cui le argomentazioni legali e morali prendono il posto dei dogmi teologici. Le convenzioni sui diritti umani sono piene di concetti astratti e persino contradditori. Se in Ruanda si è compiuto un genocidio (sì, secondo le Ong sul territorio, no, secondo il Consiglio di Sicurezza) non viene stabilito dai trattati ma dai politici e dai diplomatici che li interpretano nel contesto degli interessi degli Stati. Il diritto, al pari delle priorità in politica estera, degli argomenti economici e della logistica militare è solo uno dei fattori che vengono presi in considerazione quando si deve decidere come agire. L'affermazione che il diritto può fornire risposte eque a difficili problemi politici è solo una copertura di facciata per depoliticizzare decisioni politiche impegnative.

Considerazioni simili si applicano alle istituzioni internazionali quando operano come organizzazioni intergovernative. Prima della guerra in Iraq destra e sinistra sostenevano che una risoluzione del Consiglio di sicurezza avrebbe messo a tacere le obiezioni. Però tre membri del Consiglio, Cina, Russia e Stati Uniti violavano ripetutamente i diritti dei propri cittadini. Nessun liberale avrebbe appoggiato il trattamento riservato a Tibetani e Ceceni, o il ricorso così frequente alla pena di morte in Cina e negli USA. Eppure i liberali erano contenti di avere questi tre governi come arbitri di ultima istanza della legalità internazionale. Pochi mesi prima della guerra chiesi a un alto funzionario cinese se la Cina avrebbe esercitato il diritto di veto. Mi rispose che il suo paese non aveva interessi in Iraq e appoggiando gli Stati Uniti si attendeva di essere ricompensato con agevolazioni commerciali e con maggiore tolleranza per la sua politica in materia di diritti umani. Pochi giorni dopo la Cina entrò nel WTO. Quando di recente Hilary Clinton ha auspicato che la Cina continui a cooperare con gli Stati Uniti nell'ambito economico senza fare menzione dei diritti umani non si stava discostando dagli standard abituali della politica estera. La morale e i diritti umani vengono tirati in ballo quando sono funzionali agli interessi statuali e sono facilmente messi da parte quando creano impedimenti reali o immaginari.

Le preoccupazioni popolari di carattere umanitario hanno avuto una qualche influenza sulla politica interna. Ma Ruanda, Darfur e Gaza stanno a indicare che le ragioni dell'azione e dell'inazione sono determinate dagli interessi strategici delle potenze egemoni. I diritti umani sono ancora oggi quello che erano nel diciottesimo secolo, vale a dire una difesa contro la dominazione e l'oppressione degli individui da parte del potere pubblico e privato. Nel momento in cui sono diventati strumento dell'universalismo occidentale o del localismo comunitarista la loro finalità è stata sovvertita. Gli universalisti credono che i valori culturali e le norme morali debbano superare un test che ne certifichi l'universale applicabilità e la consistenza logica. Spesso ne concludono che, se esiste un'unica verità morale e molte opinioni erronee, coloro che la posseggono hanno il dovere di imporla sugli altri. I comunitaristi partono dall'osservazione opposta: i valori sono vincolati al contesto; e spesso li impongono a coloro che sono in disaccordo riguardo al carattere oppressivo della tradizione o della cultura.

L'individualismo degli universalisti dimentica che noi tutti veniamo a esistere insieme ad altri. Essere insieme è parte integrante dell'io: l'io è esposto all'altro, l'altro è parte intima dell'io. Ma essere in comunità con altri è l'opposto di essere insieme o di appartenere a una comunità essenziale. La maggior parte dei comunitaristi, d'altra parte, definisce la comunità attraverso la comunanza di tradizione, storia e cultura, le varie cristallizzazioni passate, il cui peso inaggirabile determina le possibilità attuali. In Kosovo i serbi massacravano in nome della comunità minacciata, mentre gli alleati bombardavano in nome dell'umanità minacciata. Entrambi i principi, quando definiscono il significato di umanità in modo esauriente, trovano ogni cosa che resista loro superflua.

La retorica umanitaria segna un ritorno alla teoria della guerra giusta senza che emergano criteri universalmente condivisi a rimpiazzare la dottrina religiosa. È stato proclamato uno stato di crisi semipermanente - la "guerra al terrorismo", che non cesserà per il fatto che il nome è stato abbandonato. È accompagnato dai poteri dell'emergenza globale (come la legislazione britannica antiterrorismo e di sorveglianza e l'American Patriot Act che, secondo Human Rights Watch, "un dittatore potrebbe sottoscrivere in pieno"). Queste leggi hanno creato una società civile cosmopolitica basata non sulle libertà ma sulle misure di sicurezza, sotto il principio che la guerra al terrorismo richiede risposte dello stesso tenore. Il più grande successo del terrorismo è aver trasformato l'intera umanità in potenziali sospettati.

Il tempo migliore per demistificare l'ideologia è quando le sue premesse, assunte senza giustificazione, invisibili, vengono in superficie e diventano innaturali. La crisi del capitalismo neoliberale ci consente di mettere in questione la vasta combinazione di pratiche economiche, politiche, giuridiche e culturali che ha dominato nel recente periodo e offre l'opportunità di immaginare un mondo differente.

Il neoliberalismo cosmopolitico viene presentato come una globalizzazione dal volto umano. La maggior parte degli imperi, degli Stati e dei sistemi legali sono fondati per mezzo della violenza, della guerra o della rivoluzione. Lo stesso vale per il nostro ordine mondiale 'umanitario'. La sua violenza fondante è perpetrata in Iraq e in Afghanistan ma anche nella violenza sistemica della sua economia politica. Sotto il Washington Consensus è stata fatta pressione sugli Stati per la deregolazione e l'eliminazione delle barriere finanziarie, la privatizzazione dei servizi e la riduzione della spesa sociale. La liberalizzazione del commercio e l'imposizione da parte del WTO di controlli stringenti sulla proprietà intellettuale ha accresciuto le disuguaglianze, creando ricchi e poveri nel campo della conoscenza. La promessa che la crescita economica guidata dal mercato e decentralizzata avrebbe inesorabilmente condotto il Sud del pianeta ai livelli economici occidentali è la 'nobile menzogna' della politica internazionale. Le politiche neoliberali hanno prodotto il risultato opposto: il gap tra Nord e Sud e tra ricchi e poveri non è mai stato così grande. Secondo Oxfam più di un miliardo di persone vive con meno di un dollaro al giorno. Circa il 35% della mortalità infantile mondiale è attribuibile a malnutrizione (1).

La violenza sistemica dell'ingiustizia globale è invisibile al pensiero umanitario e viene considerata come il destino naturale e inevitabile delle regioni 'meno civilizzate' del pianeta. L'intervento umanitario non combatterà i regimi economici e giuridici che condannano milioni di persone alla morte per malattie curabili, la mancanza di cibo o delle più elementari risorse necessarie alla vita. La capacità dell'Occidente nel trasformare le libertà civili e politiche in diritti sociali ed economici era basata su ingenti trasferimenti di beni dalle colonie. La dignità umanitaria e le promesse di uguaglianza militano per un inversione di flusso dalle metropoli alle ex-colonie. Ma questo non è politicamente plausibile o ideologicamente accettabile. Gordon Brown ha censurato il Washington Consensus ma l'enfasi del G20 sul salvare le banche piuttosto che le persone sta a indicare le priorità dominanti.

Nonostante le differenze nel contenuto, colonialismo e cosmopolitismo aggressivo formano un continuo, sono episodi dello stesso dramma, che ha avuto inizio con la scoperta del nuovo mondo e attualmente continua nelle strade irakene: portare la civiltà ai barbari. La pretesa di diffondere la Ragione e il Cristianesimo dettero agli imperi occidentali il loro senso di superiorità e il loro impeto universalizzante. L'impulso è ancora al suo posto; le idee sono state ridefinite ma la credenza nell'universalità della nostra visione del mondo è salda come quella dei colonialisti. La buona governance neoliberale e la democrazia da esportazione a bassa intensità sono le espressioni attuali del pacchetto culturale dell'Occidente. Come quelle che le hanno precedute sono a un tempo mezzi di redenzione e di aggressione, promettono il meglio e spesso realizzano il peggio.


Note

*. "Are wars ever just?", The Guardian, 21 aprile 2009 (traduzione di Leonardo Marchettoni).

1. Annie Kelly, "Developing nations face malnutrition threat", The Guardian, 1 aprile 2009.