2005

Il fondamento dei diritti:
i poteri degli individui e i paradossi dell'universalismo (*)

Luca Baccelli

Le moderne carte dei diritti, dalla Dichiarazione d'indipendenza della Virgina del 1776, alla Déclaration du droits de l'homme et du citoyen del 1789, alla Dichiarazione universale del 1948, attribuiscono a 'tutti' gli individui una serie di fondamentali diritti soggettivi. Gli uomini, per il fatto stesso di essere uomini, godono di diritti inviolabili ed inalienabili, indisponibili al potere degli Stati. Come si esprime il 'corpo rappresentativo del buon popolo della Virginia', "Tutti gli uomini sono da natura egualmente liberi ed indipendenti, e hanno alcuni diritti innati". Ancora più chiaramente, la Déclaration del 1789 recita: "Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti"; "lo scopo di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell'uomo". La Dichiarazione del 1948 afferma che "Tutti gli esseri umani nascono liberi e eguali in dignità e diritti".

Queste dichiarazioni mostrano evidenti i tratti dell'individualismo e dell'universalismo. La moderna affermazione del linguaggio dei diritti soggettivi manifesta - ha osservato Norberto Bobbio - una radicale mutamento nell'approccio ai fenomeni politici: mentre la considerazione ex parte principis del rapporto fra governanti e governati si esprimeva nella preminenza della figura deontica del dovere, l'affermazione della modernità segna un rovesciamento. La figura deontica originaria diviene quella del diritto soggettivo, e questo esprime la prospettiva ex parte populi: i fenomeni politici vengono considerati dal punto di vista dei governati (1). Altrettanto innovativa è l'assunzione di una prospettiva universalistica, che considera l'umanità, nel suo insieme, in quanto composta da singoli individui, come soggetto di diritti: i diritti non sono più il privilegio di un singolo gruppo politico, più o meno esteso, ma ineriscono alla stessa 'natura' dell'uomo. La moderna diffusione del linguaggio universalistico dei diritti, e in particolare il successo della Dichiarazione del 1948, misura l'estensione di questo cambiamento. Virtualmente, ogni comunità politica del globo riconosce e fa sua la dichiarazione del 1948 e dunque si impegna nella tutela dei diritti umani. Il linguaggio dei diritti umani appare l'esperanto della politica mondiale, esprime valori e principi che si possono eventualmente interpretare e magari distorcere, ma mai contraddire. Nessun governante del globo parlerà in un contesto internazionale in modo esplicito contro i diritti umani. Antonio Cassese - già presidente del tribunale internazionale per i crimini nella ex Yugoslavia e nel Ruanda - ha definito la Dichiarazione del 1948 un 'decalogo' per l'uomo moderno (2).

1. Da ius a right

Quali sono le radici di questa affermazione? Qual è la genealogia del linguaggio dei diritti? Tutti noi sappiamo che la nozione di diritto soggettivo era sconosciuta in ciascuna delle due fonti originarie della cultura occidentale: quella greca e quella ebraica, come è estranea alle grandi tradizioni giuridiche cinese, indiana, islamica. Il termine ius è invece ben presente nel linguaggio giuridico romano, fin dalla Legge delle XII tavole. Esprime il concetto di diritto soggettivo?

Michel Villey lo ha escluso. In primo luogo, infatti, il termine ius non corrisponde a tale nozione: gli jura sono res, una specie all'interno del genere delle cose incorporali, e dunque tutt'altro che poteri, facoltà, libertà, immunità o pretese del soggetto (3). Con ius si indicano fattispecie che prevedono obblighi (jus non altius tollendi, o stillicidium non avertendi) e non si indicano né le varie potestates né le varie libertà: in particolare, né il domunium - il 'diritto di proprietà', oggi considerato l'archetipo del diritto soggettivo - né il credito, né i diritti su cosa altrui sono designati dal termine ius. In secondo luogo, argomenta Villey, ius non può connotare né un potere né una libertà del soggetto, perché indica id quod iustum est, e cioè il suum cuique tribuere, il dare a ciascuno il suo che rimanda ad una nozione di giustizia come espressione di un ordine cosmico, di un'armonia generale nella quale lo stesso mondo umano è 'naturale' (4). Villey non nasconde la radice platonico-aristotelica di questa idea. Sostiene anzi che vi è stata una forte influenza della filosofia aristotelica sui giuristi romani, assai superiore a quella - generalmente riconosciuta - dello stoicismo (5).

Altri autori propongono valutazioni differenti (6). Richard Tuck, ad esempio, dà credito all'idea che ius nei giuristi classici si riferisse a relazioni bilaterali private fra parti legate da un'obligatio (7). Per contro, il dominium esprimeva l'idea di un pieno controllo unilaterale sul proprio mondo fisico (8). Ma questa netta distinzione finì per attenuarsi nelle mutate condizioni politiche ed economiche del tardo impero. Il controllo assoluto sui beni divenne di fatto impossibile, lo stesso dominium finì per inscriversi nei rapporti fra ogni singolo suddito e l'imperatore. La proprietà divenne così un tipo di ius (9).

A partire da queste diverse interpretazioni, Villey e Tuck ci forniscono due differenti ricostruzioni del modo in cui la nozione di diritto soggettivo si è affermata nel pensiero giuridico medievale e protomoderno. La tesi di Villey è che l'affermazione del concetto di diritto soggettivo non è che la conseguenza della rottura della visione ontologica aristotelica, poi ripresa e rilanciata da Tommaso d'Aquino. Una volta smarrita la concezione del mondo come un tutto ordinato secondo differenti gradi di essere, come un organismo nel quale ogni ente ha il suo posto e di conseguenza gli spetta uno ius, una 'giusta parte', è aperta la via alla nozione dei diritti soggettivi come poteri e libertà (10). Tuck contesta molte delle tesi interpretative di Villey, e propone un'accurata interpretazione alternativa, che ad esempio assegna un ruolo importante anche a Tommaso nel processo di elaborazione della natural right theory.

Non c'è spazio per seguire nei dettagli queste differenti ricostruzioni. Qui di seguito utilizzerò liberamente - e temo sommariamente - le indicazioni dei due autori. Propongo solo un'avvertenza preliminare: è certamente il caso di prendere le distanze dai giudizi di valore di Villey; la sua considerazione dell'intera vicenda del pensiero giudico moderno come una secolare decadenza, come lo smarrimento dell'autentica concezione giuridica rappresentata dalla (sua interpretazione della) filosofia pratica aristotelico-tomistica è difficilmente accettabile. Ma che vi sia un nesso fra affermazione della teoria dei diritti naturali soggettivi ed elaborazione di un'ontologia e di un'etica individualistica rimane un'indicazione valida.

Nel corso del medioevo gruppi, comunità, corporazioni, ordini, ceti, comunità cittadine avanzano una serie di rivendicazioni, chiedono ad autorità - locali od universali che siano - il riconoscimento giuridico di franchigie, libertà, privilegi, che si sono attribuiti di fatto. Riconoscerli significa conferire ad essi lo status di iura. Il concetto di diritto soggettivo appare così segnato da una connotazione fortemente particolaristica. Il medioevo, dopo l'età carolingia - a cominciare dall'Italia - conosce anche le prime redazioni di chartae, nelle quali i titolari formali di poteri feudali su dati territori riconoscono a determinati gruppi - abitanti di città o località - una serie di 'diritti'. L'origine pattizia di tali documenti è evidente, anche se la loro forma è quella della concessione unilaterale. E' comunque da notare che tali carte non riguardano solo i feudatari ed i vassalli, ma anche l'insieme degli abitanti di un territorio o dei cives di una comunità cittadina, e che in tali documenti i titolari dei poteri si impegnano al rispetto dei 'diritti' conferiti. Di notevole rilievo è anche la menzione dei diritti dei cittadini negli statuti dei comuni italiani e delle città libere nelle altre aree europee più urbanizzate. Si tratta delle prime forme di attribuzione di un significato giuspubblicistico agli iura.

In questa prospettiva una vicenda particolare è rappresentata dall'evoluzione del diritto inglese. La dialettica fra centralizzazione del potere regio e difesa dei propri privilegi da parte dei baroni, delle comunità locali, delle corporazioni, degli enti ecclesiastici (con la significativa presenza di un ceto contadino indipendente) avviene in un contesto in cui si afferma fin dalla conquista normanna una lex terrae comune a tutti i sudditi; la giurisdizione di common law assume una precoce indipendenza e - effetto paradossale dell'azione di un potere monarchico relativamente forte - si forma un ceto di giudici relativamente indipendenti. A questo si aggiungono determinate caratteristiche strutturali degli istituti di common law che favoriscono l'elaborazione di una peculiare nozione di rights (11).

Il sistema giuridico dell'Inghilterra medievale presenta dunque una serie di caratteristiche specifiche, sia per quanto riguarda le peculiarità tecniche del medium giuridico, sia per ciò che attiene al suo ambiente di sviluppo ed allo status sociale degli operatori giuridici. E' in questa situazione specifica che si avvia la graduale 'costituzionalizzazione' dei rights: i diritti divengono dei peculiari attributi dei sudditi inglesi, tali da poter essere azionati anche contro i poteri sovrani; concetti elaborati nell'ambito del diritto privato, assumono un significato giuspubblicistico.

Per tutta l'epoca medievale e protomoderna la fonte di legittimità dei diritti tutelati dalla iurisdictio rimane comunque la consuetudine. Ed è in reazione ai tentativi 'assolutistici' dei Tudor e degli Stuart che a partire dal 1550 si afferma una common-law mind tipicamente inglese, alternativa al civil law continentale. In The Ancient Constitution and the Feudal Law John Pocock ha mostrato come la credenza nell'esistenza di una costituzione 'immemoriale' abbia svolto un ruolo ideologico fondamentale nel dibattito politico-giuridico inglese e britannico, dal medioevo fino alle soglie del XVIII secolo. L'idea chiave è che "The law which the judges declare is unwritten and immemorial" (12). In questa ottica i diritti che il parlamento o le corti vogliono affermare nel presente vengono rivendicati come già goduti fin da un passato remoto, sulla base dell'idea - ovviamente mitica - che il diritto consuetudinario inglese è rimasto immodificato fin da tempi che risalgono al di là della memoria (13). Il mito dell'ancient constitution è espresso nella Petition of Right, trionfa nella Glorious Revolution, e rimane viva nell'ideologia Whig del XVIII secolo. Un testo relativamente moderno come il Bill of Rights non fa altro che 'dichiarare' "the true, ancient, and indubitable rights and liberties of the people of this kingdom".

Il processo di costituzionalizzazione dei diritti individuali si afferma precisamente entro questa mentalità, consapevolmente 'insulare', fondata cioè sulla rivendicazione delle specificità del diritto inglese rispetto al diritto romano ed agli ordinamenti continentali. I diritti costituzionalizzati, dall'habeas corpus al no taxation without representation, non sono affatto diritti naturali ed universali dell'uomo. Sono tali perché è possibile trovare precedenti che attestano come siano stati goduti, 'fin da tempi immemorabili', da quel particolare popolo con quel particolare sistema giuridico e quelle particolari istituzioni. Se dunque nell'Inghilterra del Seicento si è ben affermata la nozione di diritto soggettivo - l'Inglese è l'unica grande lingua europea che presenta un termine (right) che indica il diritto soggettivo senza l'ambiguità di espressioni come ius, droit, derecho, diritto, Recht - e soprattutto l'idea che i diritti soggettivi costituiscono una tutela dei cittadini nei confronti dello Stato: siamo assai distanti dall'ideologia universalistica o dall'idea che il fondamento dei diritti risieda nella natura umana razionalisticamente intesa.

2. I paradossi dell'universalismo

Da dove proviene, dunque, l'universalismo della dottrina dei diritti di natura? Per individuarne le origini occorre ritornare al pensiero medievale. In questa ricostruzione incontreremo una serie di paradossi.

Primo paradosso: proprietà e povertà. Molti interpreti rintracciano le origini dell'elaborazione teorica della nozione di diritto soggettivo nella 'controversia sulla povertà', che nel XIV secolo contrappose l'ordine francescano a papa Giovanni XXII. Vi sono ricostruzioni differenti: secondo Villey, sono i francescani, e in particolare Guglielmo di Occam, ad elaborare compiutamente il concetto di diritto soggettivo. Secondo Tuck, più attento al rapporto fra ius edominium, già Tommaso aveva superato l'impostazione romanistica classica, ed è Giovanni XXII a fare il passo teorico decisivo, attribuendo definitivamente a ius il significato di diritto soggettivo. In ogni caso, Giovanni XXII sostiene che la finzione giuridica in base alla quale i Frati minori si proclamano ancora fedeli al voto di povertà prescritto dalla regola - la distinzione fra dominium e usus - è infondata. Se i francescani esercitano di fatto tutte quelle azioni che sono normalmente collegate alla proprietà dei beni, essi godono il diritto di proprietà. Per contro, i francescani enfatizzano il fattore soggettivo nel concetto di ius: identificano il diritto con un potere del soggetto, in modo che il soggetto possa rinunciarvi.

In particolare, Occam fa coincidere la nozione di diritto con quella di potere. E' Dio, titolare della summa potestas, a conferire agli uomini gli iura poli, dalla potestas appropriandi, alla potestas instituendi rectores, alla potestas condendi leges et iura humana. Di qui l'istituzione dei diritti positivi, iura fori, dotati di sanzione. Ma se i diritti si identificano con i poteri del soggetto, è evidente che il soggetto può liberamente rinunciare ad essi.

Tuck ricostruisce in modo almeno parzialmente differente questa vicenda, ed attribuisce un ruolo più significativo a Jean Gerson che a Occam. Ma è difficile dissentire da Villey almeno su un punto: l'importanza che per l'affermazione della moderna concezione soggettiva dei diritti hanno il nominalismo e l'individualismo ontologico degli scolastici francescani, e in particolare di Occam. Se solo gli individui sono enti reali, è ben difficile riproporre quell'organicismo cosmico, quella ontologia essenzialista entro la quale si inscriveva la nozione oggettivistica di ius come 'giusta parte' attribuita all'individuo. E in ogni caso rimane un paradosso di fondo: la nozione di diritto soggettivo viene elaborata da un lato dai francescani, che intendono teorizzare la possibilità di riununciare a tali diritti, e d'altro lato dal papa, che vuole imporre a determinati soggetti la titolarità di tali diritti. E' evidente che il concetto di diritto come potere e facoltà del soggetto non è stato affatto introdotto con l'intenzione di perfezionare la funzione di tutela degli individui.

Secondo paradosso: i diritti degli Indios e i diritti dei Conquistadores. La nozione di diritti naturali soggettivi, ripresa dalla scolastica francescana, viene universalizzata dagli autori della cosiddetta 'seconda scolastica' spagnola. Anche a proposito di questi autori le interpretazioni di Villey e di Tuck divergono. Villey considera i filosofi della scuola di Salamanca come degli interpreti molto infedeli dell'opera di Tommaso, fortemente influenzati dall'occamismo. Tuck tende invece a limitare il soggettivismo dei teologi spagnoli: la scuola di Gerson aveva già spinto l'identificazione del diritto con una facoltà ed un potere fino al punto di sostenere che il soggetto ha diritto di alienare la sua libertà - della quale è proprietario - e farsi schiavo. Ma nel XVI secolo la conquista dell'America pone in termini ben più attuali e drammatici il problema della schiavitù. In questa situazione Francisco de Vitoria sostiene che la libertà non è una proprietà alienabile del soggetto, ma è data dalle leggi di Dio, e può essere ceduta solo per salvare la vita. Di conseguenza non è legittimo acquistare schiavi se le ragioni della loro schiavitù non sono chiare. La vita e la libertà degli individui vengono dunque tutelate in maniera molto più efficace facendo ricorso alla priorità della legge divina sui diritti individuali di quanto avvenisse in teorie più radicalmente soggettivistiche (14).

D'altra parte, nell'ambito dello ius gentuim, lo stesso Vitoria ci propone la prima esplicita universalizzazione dei diritti soggettivi. Nelle sue Relectiones de Indis Vitoria elenca una serie di diritti soggettivi goduti da tutti gli individui: lo ius communicationis, lo ius peregrinandi et degendi, lo ius migrandi, lo ius praedicandi et annuntiandi Evangelium (15). Tali diritti sono goduti "ex iure gentium, quod vel est ius naturale vel derivatur ex iure naturali". Ma è precisamente attraverso l'estensione di questi diritti a tutti gli individui umani che Vitoria legittima la conquista spagnola dell'America e l'imposizione manu militari del Cristianesimo. In altri termini, laddove Vitoria difende i diritti degli Indios, o comunque cerca di limitare gli effetti violenti della conquista, si allontana dalla teoria individualistica dei diritti naturali. Laddove è compiutamente individualista ed introduce, forse per primo, l'universalizzazione a tutti gli uomini dei diritti soggettivi di natura, lo fa per legittimare la conquista.

Terzo paradosso: radicalizzazione e neutralizzazione. E' Ugo Grozio, nel De Iure Belli ac Pacis, a dare la classica definizione del diritto soggettivo come "qualitas moralis personae competens ad aliquid juste habendum vel agendum". Ma si tratta solo di una delle accezioni di jus: una prima accezione, più generale, identifica lo jus con "id quod iustum est", e in una terza jus è sinonimo di lex. Ma soprattutto in Grozio è a partire dalla legge di natura, fondata sulla naturale socievolezza degli uomini, che si possono individuare i principi del diritto di natura: un orizzonte 'oggettivo' di giustizia naturale è logicamente antecedente alla stessa definizione soggettiva di ius. All'eclettismo dei riferimenti filosofici presenti nella teoria groziana corrisponde un'ambivalenza nelle sue implicazioni giuridiche: in Grozio troviamo sia la giustificazione della schiavitù e dell'assolutismo, sia la tesi che in extremis siano legittima la resistenza (16).

Hobbes scioglie questa ambiguità. Il nominalismo, il materialismo ed il convenzionalismo hobbesiano caratterizzano un compatto sistema filosofico radicalmente ed esplicitamente antiaristotelico. Per quanto rimangano nel pensiero di Hobbes significativi spazi per la libertà individuale e istanze garantistiche, non c'è dubbio che, come scrive Bobbio, l'obiettivo centrale della sua teoria politica è la dimostrazione dell'unità e dell'assolutezza della sovranità (17).

I principali obiettivi polemici di Hobbes sono precisamente le teorie che indeboliscono il potere sovrano (18): l'idea che esistano obblighi religiosi superiori a quelli civili e tali da legittimare la disobbedienza e la resistenza; la teoria della divisione del potere fra re e parlamento (19); e infine la tesi del primato del common law sulla legge promulgata dal sovrano (20). In tutta la sua opera politica, dagli Elements of Law al Dialogue, è costante la polemica contro la common law mind e contro Coke. Hobbes si applica con cura a negare l'autonomia delle corti, a destituire di ogni valore la consuetudine non ratificata dal potere sovrano (21), a proporre una nozione di razionalità opposta a quella tipica della mentalità giuridica (22).

E' in particolare sul tema dei diritti individuali che Hobbes mette in opera quello che, con felice espressione, Bobbio ha definito un "un geniale e malizioso gioco di ritorsione" (23). Di fronte alla diffusa mentalità che vedeva i rights come una tutela dell'individuo nei confronti dello Stato, Hobbes attua una sorta di radicalizzazione/neutralizzazione. Egli, infatti, porta a compimento la concettualizzazione del diritto soggettivo come libertà e potere dell'individuo. Hobbes, contro Aristotele, afferma con forza l'idea della naturale uguaglianza degli uomini e nega l'idea della loro naturale socievolezza. Distingue, ed anzi contrappone ius e lex, rights e law come libertà e obbligo (24).

Altrettanto chiara è la priorità, logica ed assiologica, del diritto sulla legge. Mentre il diritto di natura è per così dire una immediata traduzione deontica del principio di autoconservazione, e ne mutua la forza (25), le leggi di natura - ad esclusione delle prime due, che prescrivono le condizioni necessarie per l'affermazione dello stesso diritto di autoconservazione - hanno uno status molto più debole: non sono che precetti e suggerimenti della ragione (26); e in tutte le sue opere Hobbes introduce una sorta di clausola dissolvente, che revoca la validità delle leggi di natura quando esse contrastino con il supremo diritto all'autoconservazione (27).

Ma questa robusta fondazione del diritto di natura ha precisamente lo scopo di legittimare la completa rinuncia da parte del soggetto ai suoi diritti di natura per fondare lo Stato e conferire potere al sovrano (28). I residui di questo trasferimento del diritto sono indubbiamente significativi, e probabilmente il loro spazio aumenta nel corso dell'itinerario intellettuale hobbesiano. Ma altrettanto decisiva è la completa neutralizzazione della funzione dei diritti soggettivi come argine e limitazione del potere sovrano. Il suddito hobbesiano non ha alcuna possibilità di azionare i suoi diritti nei confronti del sovrano - unica fonte e unico interprete della legge - per tutelare la sua libertà. Rimane solo il suo pieno diritto - naturale - a cercare di sottrarsi al suo potere, nel caso estremo in cui minacci la sua vita e dunque si ritorni allo stato di natura (29). Hobbes insiste particolarmente su un punto: non vi è alcun diritto 'naturale' di proprietà che il suddito possa rivendicare per limitare il potere sovrano di imposizione fiscale (30). Anche il no taxataion without representation è visto da Hobbes come una dottrina sovversiva che minaccia l'integrità dello Stato (31).

3. I diritti naturali: troppo concreti o troppo astratti?

Le interpretazioni contemporanee hanno ridimensionato l'influenza di Hobbes su pensiero di Locke. Ma credo sia difficile cancellare l'idea che Locke tenta un rilancio della tradizionale funzione garantistica dei rights, cercando di ricollocare le tesi tradizionali all'altezza della nuova, potente teoria hobbesiana dei diritti di natura. Le argomentazioni ricavate dalla common law mind non sono più sufficienti; occorre assumere l'idea hobbesiana dei diritti come attributi della natura umana, espressione dell'essere stesso degli individui e della loro pulsione ad autoconservarsi, e rilegittimarli su questa base come argini del potere statuale. Il contratto sociale non rappresenta più lo strumento giuridico dell'alienazione dei diritti individuali, ma diviene l'istituto che permette di difenderli attraverso il trasferimento condizionale dei poteri (32).

Nessuna revisione storiografica potrà negare il ruolo svolto dalle dottrine lockiane - o da riletture più o meno fedeli di tali dottrine - nella formazione di quella standard view del giusnaturalismo illuministico che condiziona l'elaborazione delle carte settecentesche (e non solo settecentesche) dei diritti. E' a Locke che ci si è rifatti per ritrovare l'enunciazione dell'idea che gli individui allo stato di natura godono di una serie di diritti che non possono essere alienati. La rinuncia al diritto di farsi giustizia da soli e la formazione dello Stato hanno per scopo la protezione dei diritti inalienabili. Ed è legittima la ribellione allo Stato che non tutela questi diritti e per conseguenza smarrisce la sua funzione.

Questo tipo di fondazione dei diritti 'dell'uomo' è andata incontro a critiche serrate. Perspicuamente, Bobbio ha distinto fra i critici che accusano i diritti dell'uomo di eccessiva astrattezza e quelli che li considerano anche troppo concreti. Fra i primi si può includere tutta la critica storicistica, da Burke, ai teorici della Restaurazione, a Hegel. I secondi - da Olympe de Gouges a Marx, fino ai contemporanei critici dell''occidentalizzazione del mondo' - mostrano come l''uomo' delle dichiarazioni dei diritti sia in realtà maschio, borghese, occidentale (33). Nella replica dello stesso Bobbio c'è molto da condividere: anziché astratti, sostiene Bobbio, i diritti delle dichiarazioni settecentesche sono l'espressione di rivendicazioni molto concrete, veri e propri 'atti di guerra' contro privilegi intollerabili e abusi di potere. E se l'attore dell'affermazione di queste rivendicazioni è stata una classe determinata in un determinato contesto storico e geografico, ciò non significa di per sé che tali rivendicazioni non abbiano valore universale (34).

Ma già nell'epoca dell'Iluminismo si susseguono le critiche al fondamento teorico dei diritti individuali. Mentre il riferimento alla volontà divina rivelata - tipico della scolastica nominalistica - è messo fuori causa dalla laicizzazione del diritto di natura, il riferimento alla 'natura umana' astorica e sovratemporale diviene sempre più problematico. Com'è noto, già Hume segnala quella che è stata poi definita la 'fallacia naturalistica', implicita nella tendenza a dedurre la legge di natura da una determinata concezione della natura umana. La filosofia politica e la teoria giuridica del XIX e del XX secolo conoscono una lunga serie di critiche alla nozione di diritti naturali affermata dal giusnaturalismo moderno.

Jeremy Bentham, com'è noto, definì il diritto soggettivo come "a nonsense upon stillts": se i diritti legali o giuridici, per quanto entità fittizie, sono comunque nozioni utili, i diritti naturali, o diritti umani, sono delle chimere: non esprimono altro che l'opinione o il desiderio che la legge prenda in considerazione una richiesta o una situazione. Per i teorici tedeschi, da Bernard Windscheid a Rudolf von Jhering, che nel corso del XIX secolo elaborano le categorie del diritto pubblico moderno, i diritti soggettivi esprimono sì i poteri degli individui, ma in quanto sono riconosciuti dall'ordinamento giuridico oggettivo, per mezzo di una sorta di autolimitazione. Ciò che prevale è comunque der Wille der Rechtsordnung, ed è l'ordinamento a stabilire quali interessi sono 'meritevoli di tutela' e dunque esprimibili in diritti soggettivi.

La 'teoria pura del diritto' di Hans Kelsen espunge dall'ambito della scienza giuridica ogni riferimento a entità e situazioni anteriori o indipendenti rispetto alle norme giuridiche positive. In questa prospettiva il dovere precede il diritto, e il diritto soggettivo si riduce al diritto oggettivo (35). Nell'ambito del 'realismo giuridico' scandinavo, Karl Olivecrona considera il diritto soggettivo come una nozione immaginaria, che esprime l'oggettivazione del senso di sicurezza sperimentato dall'individuo in virtù della protezione che gli offre l'ordinamento giuridico (36). Alf Ross mostra che concetti come quelli di 'proprietà' - a lungo considerato diritto naturale sacro e inviolabile - sono privi di un riferimento empirico dei termini con cui le popolazioni polinesiane indicano gli oggetti del tabù (37).

Ma neppure il positivismo giuridico e il realismo giuridico dicono l'ultima parola. Da un punto di vista epistemologico, la critica del diritto soggettivo si fonda negli autori citati su una approccio neopositivistico, che pretende dalla scienza giuridica un empirismo ormai improponibile anche per le scienze naturali. Ma c'è di più: il riferimento ai diritti 'naturali', 'umani', 'fondamentali' o 'inviolabili' non è più soltanto materia filosofica o di teoria morale. I processi di Norimberga e di Tokio per i crimini di guerra tedeschi e giapponesi sono stati possibili solo attraverso il riferimento ad un orizzonte normativo ulteriore rispetto agli ordinamenti giuridici positivi dei singoli Stati. Come già abbiamo accennato, la Dichiarazione Universale del 1948 è stata ratificata da pressoché tutti gli stati del globo, e soprattutto sono state approvate convenzioni per la tutela dei diritti umani che vincolano gli Stati aderenti. Il contenuto dei diritti umani è poi stato specificato attraverso una serie di atti internazionali, dalla Dichiarazione dei diritti del fanciullo alla Convenzione contro il genocidio. Ma soprattutto non si può non riconoscere la valenza dell'inclusione dei diritti fondamentali nelle costituzioni elaborate nel dopoguerra. Si prenda l'art. 2 della Costituzione italiana: "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità". Se si 'riconoscono' dei diritti, vuol dire che già 'ci sono', che un qualche codice normativo viene considerato preesistente e assiologicamente superiore alla stessa Costituzione. Emerge dunque una sorta di paradosso del positivismo conseguente, costretto ad attribuire validità ai diritti fondamentali 'ulteriori' rispetto al diritto positivo, dato che sono stati 'positivizzati': sono fatti propri dal diritto positivo.

4. Ri-fondare i diritti?

Molti filosofi giuridici contemporanei hanno cercato di rendere conto di questa situazione. Alcuni autori ripercorrono, per così dire, la via di Grozio: cercano di individuare un orizzonte normativo superiore, una qualche riedizione della legge di natura, su cui fondare i diritti. La New Natural Law Theory di Michael Finnis si ripropone di compiere questa operazione rispettando la legge di Hume. Per Finnis non si tratta di dedurre doveri e diritti da una certa concezione della natura umana, secondo l'impostazione del naturalismo etico. Si tratta piuttosto di riconoscere dei principi della legge naturale - come tali, già collocati nel dominio del dover essere - indimostrabili ed evidenti e dedurne le implicazioni. Finnis individua un catalogo di beni umani fondamentali, differenti aspetti dell'human flourishing: vita, conoscenza, gioco, esperienza estetica, amicizia, ragionevolezza pratica, religione. Il moderno linguaggio dei diritti è il modo consueto per esprimere le esigenze della ragionevolezza pratica e il rispetto dei differenti forme di bene nella loro incommensurabilità e nella loro pluralità (38).

Finnis mantiene quello che promette? La sua fondazione del diritto sui beni umani fondamentali rispetta la legge di Hume? Si può dubitarne, e chiedersi se lo stesso catalogo dei beni non individui in realtà un definito modello di natura umana o di human flourishing, da cui viene poi inferito un preciso orizzonte normativo. Le implicazioni di questa concezione - a cominciare dall'idea che si danno una serie di norme morali inderogabili, di 'assoluti morali', come le norme che vietano l'aborto, l'adulterio, l'omosessualità, la contraccezione e la blasfemia - possono corrispondere o meno ai nostri orientamenti etici e giuridici, ma non è questo il punto. Piuttosto, è evidente che una nozione di natura umana che fonda queste deduzioni è una nozione connotata assiologicamente e segnata culturalmente.

Anche John Rawls percorre, pur con intenti profondamente diversi, la via groziana. In A Theory of Justice (39) i principi di giustizia, scelti nella posizione originaria [position originelle]sono prioritari rispetto ai diritti soggettivi. Sulla base di questi principi, viene fondato il catalogo delle libertà e dei diritti liberaldemocratici, a cominciare dalla libertà di coscienza, dai diritti politici, dalla proprietà e dalle tutele del rule of law. Il problema è che la fondazione rawlsiana presuppone alcuni impegnativi assunti di antropologia morale. Le parti nella posizione originaria sono dotati di uno spiccato 'senso di giustizia': vogliono essere giuste e vogliono costruire una società giusta; esprimono cioè un'opzione morale di cui non si dà giustificazione. Ma soprattutto Rawls finisce per autoconfutarsi: nei saggi degli anni ottanta, confluiti in Political Liberalism (40), riconosce che quella proposta in A Theory of Justice è un'impegnativa teoria etica 'comprensiva' e come tale non può ottenere un consenso generalizzato in società pluralistiche. E' invece possibile individuare una serie di principi del 'liberalismo politico' tali da guadagnare l'appoggio di differenti dottrine comprensive 'ragionevoli'. Ma la distinzione fra dottrine politiche e dottrine comprensive, e la diffusione di dottrine comprensive ragionevoli, è pensabile solo entro società che hanno consolidato da tempo una cultura politica liberale.

Rawls ritiene però che sia le società liberaldemocratiche, sia le 'società gerarchiche bene-ordinate', in una posizione originaria sovranazionale, elaborerebbero una comune 'legge dei popoli', tale da tutelare i diritti umani. Rawls riconosce che i diritti umani non possono essere fondati su una dottrina morale generale o su una concezione della natura umana: le società gerarchiche rifiuterebbero questa fondazione come culturalmente connotata in senso occidentale. Ma questo tentativo di sfuggire al rischio dell'etnocenstrismo costringe Rawls a postulare una 'giusta società politica dei popoli' ed a presupporre una diffusione globale di quel senso di giustizia mai ulteriormente specificato (41).

Altri filosofi contemporanei, come Ronald Dworkin, ripropongono la via di Locke: considerano i diritti prioritari rispetto alle norme giuridiche positive. Per Dworkin i diritti sono trump cards, carte che prevalgono su tutte le altre e per questo tutelano l'individuo nei confronti dello Stato. Come tali, paiono precedere l'opera del legislatore. Su cosa si fondano? Nei suoi scritti degli anni settanta Dwokin aveva rimandato ad una norma fondamentale di tipo morale, che attribuisce a tutti il diritto a pari libertà. Si tratterebbe di un 'diritto naturale' di cui sono titolari tutti gli individui umani in quanto esseri in grado di 'fare progetti ed esercitare giustizia' (42). Ma nel più recente Law's Empire tale impostazione sembra superata, o comunque modificata. Non si tratta tanto di individuare principi di sapore giusnaturalistico e di valenza universale e sovrastorica, quanto di ricostruire attraverso un percorso interpretativo i paradigmi giuridici di una comunità, in modo tale da resistuirne la vicenda in termini di integrity. Le leggi, e anche i principi, possono mutare, ma nell'ambito di una sostanziale continuità di senso. I mutamenti e gli sviluppi delle norme recepiscono la trasformazione storica dei valori morali, delle convinzioni diffuse, delle ideologie, ed evidentemente rimandano ad un orizzonte normativo ulteriore rispetto al diritto positivo, che integragisce con esso. Ma è altrettanto evidente che un approccio - in senso lato storico-ermeneutico - di questo tipo non può alludere ad una fondazione universalistica (43).

Recentemente, è stato Jürgen Habermas a tentare una fondazione dei diritti umani che riconosca le aporie del giusnaturalismo razionalistico ma garantisca una base più ampia del riferimento ad una singola cultura giuridica e politica. In Faktizität und Geltung i diritti fondamentali risultano (1) il 'precipitato' della sostanza normativa un tempo ancorata nell'ethos tradizionale, oggi differenziato nei codici normativi della morale post-convenzionale e del diritto positivo; (2) la condizione necessaria perché si costituisca il codice diritto, che richiede la garanzia dell'autonomia privata e pubblica; (3) l'implementazione, attraverso una 'genesi logica dei diritti', del principio normativo generale della teoria del discorso - il 'principio D' (44) - per quanto riguarda l'ambito politico-giuridico. Ciò riconduce in ultima istanza i diritti fondamentali alle strutture quasi-trascendentali del discorso. Su questa via, Habermas attribuisce ai diritti dell'uomo una validità tendenzialmente universalistica. Per Habermas, infatti i vari cataloghi storici dei diritti sono letture differenti del medesimo sistema di diritti (45).

Credo si possa sostenere che la fondazione habermasiana rimanda ad un contesto storico, sociale e culturale ben definito. Habermas tratta dell'evoluzione dei sistemi sociali, politici e giuridici occidentali. E' in Occidente che si realizza la 'genesi cooriginaria' di diritti fondamentali e sovranità popolare, Stato di diritto e democrazia, cui Habermas allude. E quando considera i diritti come il presupposto necessario del codice giuridico, si riferisce non a ogni ordinamento giuridico come tale, ma al diritto positivo moderno (cioè a un sottosistema sociale e a un codice normativo tipicamente occidentali, autonomizzatisi progressivamente a partire dal diritto romano e gestiti un ceto da operatori specifici, che adopera un sapere particolare) in senso specifico, non in un'accezione lata come nelle teorie istituzionalistiche (ubi societas ibi ius).

In realtà, in tutti i luoghi in cui Habermas argomenta il carattere universale dei presupposti inevitabili del discorso, aggiunge una clausola del tipo 'per tutti coloro che vogliano intendersi reciprocamente'. Ma il'mettersi d'accordo', l'impegnarsi nell'interazione comunicativa, il porre la propria verità a disposizione dell'interlocutore, costituisce in realtà il gesto decisivo. Accettare di discutere e confrontarsi è già quasi tutto. E' un atteggiamento cui la cultura occidentale è pervenuta gradualmente, con molta fatica ed in modo incompleto.

5. Il linguaggio del repubblicanesimo e la 'lotta per i diritti'

Sembra dunque che le aporie dell'universalismo rimangano anche dopo i tentativi contemporanei di ri-fondazione. Del resto, come abbiamo visto, nella storia del pensiero giuridico non sempre ad una visione più universalistica dei diritti ha corrisposto una migliore tutela degli individui. Paradossalmente, si può sostenere, la regola è l'opposto. L'universalismo occidentale presenta un lato oscuro, che giustifica la diffidenza dei gruppi e dei popoli che si impegnano in una resistenza ai processi di occidentalizzazione, di genocidio culturale, di impoverimento. Con molta efficacia, Maurizio Iacono ha ripreso a questo proposito il virgiliano "Timeo Danaos et dona ferentes" (46). Tutto questo non può peraltro far dimenticare la reale forza espansiva che pure il linguaggio dei diritti presenta, e della quale abbiamo parlato all'inizio. Né credo siano soddisfacenti le proposte contemporanee di rinunciare al linguaggio dei diritti per sostituirlo con altri codici giuridici e morali.

Richard Rorty tenta di argomentare questa forza espansiva a partire da un franco riconoscimento dell'etnocentrismo di partenza. Per Rorty attribuire 'all'uomo' determinati diritti non è ancora risolutivo, perché coloro che violano i diritti umani ritengono precisamente 'non umani' coloro (neri, donne, appartenenti ad altre religioni o ad altre etnie, omosessuali e così via) i cui diritti sono negati. La garanzia dei diritti aumenta solo quando si modificano i sentimenti morali, in un processo graduale nel quale grande rilievo ha l'aumento della sicurezza del gruppo e il superamento dell'indigenza (47). L'atteggiamento adeguato al confronto interculturale non è allora considerare 'irrazionali' le culture che non hanno sviluppato una concezione liberaldemocratica dei diritti. E' preferibile, piuttosto, essere 'onestamente etnocentrici', ed abbandonare l'universalismo. Affermare che l'Occidente è diventato quello che è anche perché ha abolito la schiavitù, superato la discriminazione della donna, distinto Stato e Chiesa, e proporre alle altre culture le stesse scelte.

La franchezza etnocentrica di Rorty mi pare da apprezzare. Ma nella sua idea di mite confronto interculturale l'Occidente, e gli Stati Uniti in particolare, rimangono nella posizione paternalistica di chi ha una ricetta normativa già pronta. Ma, storicamente, i diritti sono emersi 'dal basso': sono "nati in certe circostanze, contrassegnate da lotte per la difesa di nuove libertà contro vecchi poteri" (48). Nel tentativo di rendere conto di questo aspetto, vorrei riconsiderare le tesi di Cass Sunstein e Frank Michelmann, criticati da Habermas, che tentano una riattualizzazione in chiave di teoria costituzionale della tradizione repubblicana del pensiero politico. L'interpretazione di Habermas delle loro posizioni si fonda su un'immagine standard della tradizione repubblicana, che fonde elementi della ricostruzione di John Pocock in The Machiavellian Moment (49) e del pensiero di Hannah Arendt. Secondo questa immagine, il pensiero politico repubblicano si ispirerebbe alla concezione aristotelica dell'individuo come zoon politikon, che solo nella partecipazione politica riesce a sviluppare appieno la sua natura morale e razionale. In quest'ottica, i diritti individuali verrebbero subordinati all'etica organicistica che esprimerebbe l'identità comunitaria.

Questa immagine della tradizione repubblicana è stata messa in questione da Quentin Skinner, che ha introdotto una distinzione fra civic humanism - aristotelico - e classical republicanism (50) ispirato a fonti romane. A differenza che per gli umanisti civili, che vedono la politica come un fine essenziale dell'uomo/zoon politikon, per i repubblicani classici, sostiene Skinner, la partecipazione politica è un mezzo per difendere le libertà civili, e la politica non è più vista come l'espressione dell'essenza umana: gli individui hanno molteplici fini. Coerente con questa impostazione è la concezione machiavelliana della libertà, ricostruita da Skinner in termini tali da distinguerla sia dalla libertà 'positiva' degli antichi sia dalla moderna libertà 'negativa' come mera assenza di impedimenti (51). Philipp Pettitt ha parlato di una peculiare concezione repubblicana della libertà: freedom as non domination (52).

Alla luce di questa interpretazione è possibile valutare il contributo del repubblicaneismo giuridico in modo differente da Habermas. Piuttosto che costituire la traduzione politica del comunitarismo, il filone 'machiavelliano' del repubblicanesimo può suggerire un originale approccio ai diritti soggettivi. Non c'è dubbio che il linguaggio dei diritti è estraneo ai repubblicani romani o a Machiavelli. Ma già per gli autori 'neo-romani' del XVII secolo la libertà viene intesa nel senso del godimento effettivo di un insieme specifico di diritti civili (53).

Nei testi di Sunstein e di Michelmann il linguaggio dei diritti è ben presente. Nella loro argomentazione i diritti politici godono di uno status analogo a quello che lo stesso Habermas attribuisce loro: la loro particolarità è nell'essere autoreferenziali, nel permettere cioè l'avvio di procedure democratiche attraverso le quali si possono conquistate e tutelare ulteriori diritti. Né i diritti civili sono trascurati; sono piuttosto considerati come le precondizioni o come gli esiti di un processo deliberativo (54). Per Sunstein molti dei diritti tutelati nella costituzione americana, che difendono l'autonomia privata dallo Stato "can be justified in a republican fashion" (55). Quello che stride con la concezione repubblicana è la teoria dei diritti di natura (56). Secondo Michelmann la tradizione repubblicana attribuisce particolare valore all'ordine legale ed alle condizioni socioeconomiche che permettono l'active citizenry e la vigilanza contro il dominio. Di qui deriva a republican attachment to rights:

These include, most obviously, rights of speech and of property. They may also include privacy rights - perhaps stronger ones than many contemporary liberals would welcome. Yet republican thought is no less committed to the idea of the people acting politically as the sole source of law and guarantor of rights, than it is to the idea of law, including rights, as the preconditions of good politics. Republican thought thus demands some way of understanding how laws and rights can be both the free creation of citizens and, at the same time, the normative givens that constitute and underwrite a political process capable of creating constitutive law. [Questi includono ovviamente la libertà di espressione e il diritto di proprietà. Possono anche includere diritti di privacy, forse più estesi di quanto auspicherebbero molti liberali contemporanei. Tuttavia la concezione repubblicana non è meno legata all'idea dell'attività politica popolare come sola fonte e garanzia dei diritti, che all'idea del diritto, compresi i diritti soggettivi, come precondizione della buona politica. La visione repubblicana pertanto richiede una qualche concezione del modo in cui leggi e diritti possono essere le libere creazioni dei cittadini e, allo stesso tempo, i dati normativi che costituiscono e sottendono un processo politico capace di creare diritto costitutivo.] (57)

Il fondamento dei diritti va dunque ricercato in "a fund of normatively effective material - publicly cognizable, persuasively recollectible and contestable" (58). E questa idea ha forti affinità con l'immagine del diritto come integrity proposta da Dworkin. Michelmann allude a un processo di political jurisgenesis cui partecipano i corpi deliberativi istituzionalizzati, la giurisdizione (in primis quella costituzionale), e tutte le arene di dibattito pubblico aperto ai cittadini (59). E' in questo processo che si realizza una dialettica di foundership e citizenship, un'"endless interplay between the principles of legality [...] and self-government" (60).

A me pare che qui non emerga una concezione comunitaristica che - come viene ipotizzato da Habermas - vedrebbe il diritto come il prodotto di una comunità eticamente integrata. Piuttosto, il riconoscimento del carattere irriducibilmente contestuale di ogni fondazione - anche della morale universalistica, del sistema dei diritti e del diritto moderno - indica una via interessante per rendere conto del valore che attribuiamo ai diritti fondamentali. Ricollegarsi alla tradizione repubblicana del pensiero politico permette di evitare le aporie degli approcci universalistici.

C'è però un aspetto della tradizione repubblicana cui questi autori accennano, ma che a mio avviso sviluppano in maniera insufficiente e non 'prendono sul serio' abbastanza. In molti luoghi degli scritti di Michelmann e di Sunstein emerge un'istanza attivistica e conflittuale, che però finisce per andare dispersa nel modello della 'politica deliberativa' proposto dai repubblicani. Invece, una maggiore consapevolezza della centralità che il conflitto assume in un ampio settore della tradizione repubblicana potrebbe favorire un'elaborazione teorica originale.

Machiavelli, com'è noto, sostiene che, in determinate condizioni, il conflitto può avere effetti virtuosi. A Roma, il conflitto fra i due 'umori' fondamentali, che contrappose nobili e plebei, produsse "leggi e ordini in beneficio della pubblica libertà" (61). E' possibile individuare, nella tradizione repubblicana, una famiglia di teorie - da Algernon Sidney a Montesquieu - che rinunciano a proporre una nozione sostantiva di 'bene comune', mentre "attribuiscono un ruolo positivo ai conflitti politici che si mantengono entro certi canali istituzionali" (62). Da questo punto di vista, è significativo che l'apologia repubblicana del conflitto si incontri con il linguaggio dei diritti. Cito un passo da Adam Ferguson:

Ogni contadino ci dirà che un uomo ha dei diritti e che violare questi diritti costituisce una ingiustizia. Se gli domandiamo che cosa intenda con il termine diritto, lo costringiamo probabilmente a sostituire ad esso un termine meno espressivo e meno appropriato; oppure gli chiediamo di spiegare quello che è un modo originario della sua mente e un sentimento al quale egli, in ultima istanza, si riferisce quando vuole spiegare a se stesso un suo particolare modo di esprimersi.

I diritti degli individui possono riferirsi a una molteplicità di oggetti ed essere compresi sotto differenti capitoli. [...] Non è qui compito mio seguire la nozione di diritto in tutte le sue applicazioni, ma solamente ragionare sul sentimento di predilezione con il quale questa nozione viene accolta nella mente. (63)

Qui i diritti non sono 'naturali' in senso razionalistico, nel senso che il loro contenuto corrisponda alla natura dell'uomo come tale; piuttosto esprimono un sentimento ed un atteggiamento generalmente umano di affermazione della propria dignità. Qualcosa di analogo al sentimento di ostilità al dominio, al profondo desiderio umano di dignità, di cui parla Pettit (64). E' da questo punto di vista che la concezione repubblicana della libertà ha un appeal tendenzialmente universalistico: costituisce un ideale "capable of commanding the allegiance of the citizens of developed, multicultural societies, regardless of their more particular conceptions of the good" (65).

All'inizio di questo intervento ho contrapposto due differenti strategie di fondazione dei diritti: la common law mind e la teoria universalistica dei diritti di natura. Qui vorrei suggerire che nella prima modernità emerge anche una terza via al linguaggio dei diritti. Su questa via, la tutela degli individui non viene riconnessa né alla riproposizione di una tradizione immemoriale né ad una concezione razionalistica della natura umana, ma alla loro attiva resistenza al dominio. Che alle radici della cultura politica moderna vi siano anche impostazioni di questo tipo può avere qualche significato per chi condivide l'idea - suggerita da Bobbio - di un'origine conflittuale dei diritti fondamentali. E' possibile rileggere la storia dell'affermazione del diritto moderno anche come una storia di 'lotte per il riconoscimento' da parte di individui e gruppi, che hanno affermato e rivendicato i propri diritti in quanto hanno reagito a situazioni di oppressione. E quell'insieme di principi che si è sviluppato in due secoli di storia costituzionale europea, cui Habermas fa riferimento, non può essere visto come l'effetto di un lineare processo di evoluzione, ma piuttosto come il risultato di una 'lotta per i diritti'. Se c'è qualcosa di universale nei diritti, consiste forse proprio nel gesto di affermarli, di mobilitarsi per ottenerli, di reagire a condizioni di sfruttamento ed oppressione prendendo coscienza di un'identità, affermandola, rivendicando poteri e libertà.

A ben vedere, è probabilmente proprio per questo aspetto che il linguaggio occidentale dei diritti mantiene una forza espansiva. Nel linguaggio dei diritti, in modo ben più significativo che in altre tradizioni giuridiche legate all'idea di un ordine cosmico immutabile o ad una nozione gerarchica della società, si trova l'espressione di questa istanza e l'elaborazione di tecniche giuridiche per tutelarla. Nel confronto interculturale non ha molto senso presentare i diritti come un attributo della natura umana, come il linguaggio dello Spirito del mondo, come l'espressione di un universale senso di giustizia o dei presupposti ineliminabili del linguaggio. E' più utile vederli come duttili concetti - elaborati dal moderno diritto positivo - attraverso i quali si è cercato di esprimere determinate concezioni etico-politiche; concezioni che nel corso della modernità hanno chiesto dignità e riconoscimento, fino ad affermarsi come una parte integrante della cultura etico-politica ereditata dall'illuminismo. Su questa via, i diritti sono divenuti uno strumento per difendere gli individui più deboli dal dominio e dall'oppressione. Essi rappresentano i termini-chiave di un linguaggio giuridico la cui origine è temporalmente e culturalmente ben definita, ma che può - proprio a partire dal riconoscimento di questa connotazione - proporsi con qualche chance al confronto interculturale. Niente di più, ma anche niente di meno.


Note

*. Collége International de Philosophie / Dipartimento di Filosofia dell'Università di Pisa, Consensus, conflits et déconnexions dans les relations et les systemes politiques: les 'pouvoirs' de l'universel, Paris, 13 marzo 1999.

1. Cfr. N. Bobbio, L'età dei diritti, Torino, Einaudi, 1992, in part. pp. 51-61.

2. Cfr. A. Cassese, I diritti umani nel mondo contemporaneo, Roma-Bari, Laterza, 1994.

3. Per un'analisi dei differenti significati del termine 'diritto soggettivo' il riferimento obbligato è W.N. Hohfeld, Fundamental Legal Conceptions as Applied in Legal Reasoning, Yale 1919.

4. M. Villey, "Les origines de la notion de droit subjectif", in Id., Leçons d'histoire de la philosophie du droit, Paris, Dalloz, 1962, pp. 234-35.

5. "Si le jus est ce qui est juste (objectivement), il y a un juste de chaque chose et de chaque personne: precisement le statut juridique, la place precise que dans l'ordre général la justice donne à chacun, non point du tout cet avantage, cette faculté, ce pouvoir que nous appellons droit. [...] il n'est point de terme romain qui corresponde à droit réel; point de définition romaine d'un pretendu 'droit' de proprieté; point de terme qui signifie vraiment droit de créance" Ivi, p. 233

6. G. Pugliese, "'Res corporales', 'res incorporales' e il problema del diritto soggettivo", in Studi in onore di Vincenzo Arangio-Ruiz, III, Napoli, Jovene, 1954, pp. 223-60.

7. Cfr. R. Tuck, Natural Rights Theories. Their Origin and development, Cambridge, Cambridge University Press, 1979, p. 8.

8. Ivi, p. 10.

9. Ivi, p. 11. Tuck si basa qui su E. Levy, West Roman Vulgar Law. The Law of Property, Philadelphia 1951.

10. Cfr. M. Villey, La formation de la pensée juridique moderne, Paris, Montchretien, 1975

11. "The peculiarly English notion of 'ascriptive rights' - rights grounded not in philosophical abstractions but in a process of slowly broadening out from precedent to precedent, was reinforced by an elite of reforming judges. As enforcement agents, they were positioned by various procedural characteristics of the legal system, for example, the writ of habeas corpus, to make good on their judicial independence by hampering an executive action. Moreover, English judges enjoyed a new level of popularity among developing English and colonial middle class because the old common law doctrines of property, contract, and torts favoured stable economic development by permitting the accumulation of surplus resources for investment. The common law concepts of trespass, negligence, and liability offered men opportunities under the label of rights to exercise their talents and enjoy the fruits of their efforts". R. P. Claude, "The Classical Model of Human Rights Development", in Id. (a cura di), Comparative Human Rights, Baltimore and London, The Johns Hopkins University press, 1976, p. 17.

12. J. G. A. Pocock, The Ancient Constitution and the Feudal Law. A Study of English Political Thought in the Seventeenth Century (1957), A Reissue with a Retrospect, Cambridge, Cambridge University Press, 1987, p. 35.

13. Questa impostazione "made it possible to claim, with sincere and entire conviction, that many of the privileges or rights which parliament, or the courts of common law under a vigorous chief justice, desired to possess in the present had been theirs in the remote past. [...] When Elizabeth I's parliaments began to claim rights that were in fact new, they indeed produced precedents, but they did much more. They made their claim in the form that what they desired was theirs by already existing law - the content of English law being undefined and unwritten - and it could always be claimed [...] that anything which was in the existing law was immemorial. [...]The search for precedents resulted in the building-up of a body of alleged rights and privileges that were supposed to be immemorial, and this, coupled with the general and vigorous belief that England was ruled by law and that this law was itself immemorial, resulted in turn in that most important and elusive of seventeenth-century concepts, the fundamental law". Ivi, pp. 47-48.

14. "Once again (and this is a recurrent, perhaps the recurrent theme in the history of right theories), a theory of rights permitted practices which an anti-subjectivist theory prohibited". R. Tuck, op. cit., p. 49.

15. Cfr. F. de Vitoria, De Indis recenter inventis, III.2. L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno, cit., pp. 12-18

16. Cfr. R. Tuck, op. cit., pp. 79-81.

17. Cfr. N. Bobbio, "Introduzione" al De cive (1959), ora in Thomas Hobbes, Torino, Einaudi, 1989, p. 74.

18. Cfr. T. Hobbes, De Cive, XII; Leviathan, XXIX

19. Leviathan XVIII.16

20. T. Hobbes, A Dialogue Between a Philosopher and a Student of the Common Laws of England, in The English Works of Thomas Hobbes of Malmesbury, vol. VI, Aalen, Scientia, 1962 (trad. it. Scritti politici, Torino, UTET, 1959, pp. 438, 448, 484, 524).

21. Cfr. Ivi, pp. 459-60; Id., The Elements of Law Natural and Politic, cit., II.x. 10. Leviathan, XXVI.1-24.

22. T. Hobbes, Dialogue, cit., pp. 395-97.

23. Cfr. N. Bobbio, Thomas Hobbes, cit. p. 93.

24. Cfr. T. Hobbes, Elements II.x.5; De Cive XIV.3; Leviathan XIV.1-3, Dialogue, p. 422

25. Cfr. Id., Elements I.xiv.6-7, 10; De Cive I.10. Leviathan, XIV.4ss.

26. Cfr. Id., De Cive III.27, 31, 33; Leviathan, XV.41;XVII.1-2

27. Cfr. Id., Elements I.xvii.10.

28. Cfr. Id., De Cive: II.3; II.4.

29. Cfr. Id., Leviathan, XXI.11-16.

30. Cfr. Id., De Cive VI.15; Leviathan XXIV.5; Dial 421

31. Cfr. Id., Elements II.vii.8; Leviathan XXIX.10.

32. Sono comunque stati riconosciuti anche effetti perversi e paradossali della concezione lockiana dei diritti. James Tully ha mostrato come la concezione lockiana dei diritti 'di natura' sia stata efficacemente utilizzata negli Stati Uniti per spossessare i nativi delle loro terre, (J. Tully, "Placing the 'Two Treatises'", in N. Phillipson, Q. Skinner, Political Discourse in Early Modern Britain, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, pp. 266-75).

33. Su questo tema rimando a T. Pitch, "L'antropologia dei diritti umani", in A. Giasanti, G. Maggioni (a cura di), I diritti nascosti. Approccio antropologico e prospettiva sociologica, Milano, Cortina, 1995.

34. Cfr. N. Bobbio, L'età dei diritti, cit., pp. 135-36.

35. Cfr. H. Kelsen, General Theory of Law and State, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1945, cap. VI.

36. Cfr. K. Olivecrona, Law and Fact, London 1939.

37. Cfr. A. Ross, "Tû tû", Harvard Law Review, LXX (1957), pp. 812-25.

38. Cfr. M. Finnis, Natural Law and Natural Rights, Oxford, Oxford University Press, 1992.

39. J. Rawls, A Theory of Justice, Cambrighe (Mass.), Belknap, 1971.

40. J. Rawls, Political Liberalism, New York, Columbia University Press, 1993.

41. Cfr. J. Rawls, "Peoples's Law", in in S. Shute, S. Hurley (a cura di), On Human Rights. Oxford Amnesty Lectures 1993, New York, Basic Books, 1993.

42. R. Dworkin, Taking Rights Seriously, London, Duckworth, 1977, p. 242.

43. Cfr. Id., Law's Empire, Cambridge (mass.), Belknap, 1986.

44. Il principio D è formulato in questi termini: "sono valide soltanto le norme d'azione che tutti i potenziali interessati potrebbero approvare partecipando a discorsi razionali". J. Habermas, Faktizität und Geltung. Beiträge zur Diskurstheorie des rechts und des demokratischen Rechtsstaats, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1992, p. 138.

45. Ivi, p. 163. "'Das' System der Rechte gibt es nicht in transzendentales Reinheit. Aber nach mehr als zweihundert Jahren europäischer Verfassungsrechtsentwicklung stehen uns genügend Modelle vor Augen; sie können eine verallgemeinernde Rekonstruktion jenes Verständnissen anleiten, das die intersubjektive Praxis einer mit Mitteln des positiven Rechts vorgenommenen Selbstgesetzgebung notwendigerweise anleitet. [Non esiste 'il' sistema dei diritti sul piano della purezza trascendentale. Tuttavia, più di due secoli di sviluppo costituzionale europeo ci forniscono ormai un numero sufficiente di modelli. Essi possono guidarci ad una ricostruzione generalizzante delle intuizioni su cui poggia la prassi intersoggettiva di una legislazione intrapresa con strumenti di diritto positivo]."

46. Cfr. A.M. Iacono, Tra individui e cose, Roma, Manifestolibri, 1995, pp. 95-110.

47. R. Rorty, "Human Rights, Rationality and Sentiment", in S. Shute, S. Hurley (a cura di), Human Rights Oxford Amnesty Lectures 1993, cit.

48. N. Bobbio, L'età dei diritti, cit., p. xiii: "la libertà religiosa è un effetto delle guerre di religione, le libertà civili, delle lotte dei parlamenti contro i sovrani assoluti, la libertà politica e quelle sociali, dalla nascita, crescita e maturità del movimento dei lavoratrori salariati, dei contadini con poca terra o nullatenenti, dei poveri che chiedono ai pubblici poteri non solo il riconoscimento della libertà personale e delle libertà negative, ma anche la protezione del lavoro contro la disoccupazione, e i primi rudimenti d'istruzione contro l'analfabetismo, e via via l'assistenza contro l'invalidità e la vecchiaia" (ivi, pp. xii-xiv).

49. Cfr. J.G.A. Pocock, The Machiavellian Moment. Florentine Political Thought and the Atlantic Republican Tradition, Princeton University Press, Princeton 1975.

50. Cfr. Q. Skinner, Ambrogio Lorenzetti. The Artist as a Political Philosopher, Proceedings of the British Academy 72 (1986), pp. 1-56; Id., Machiavelli's Discorsi and Pre-Humanist Origins of Republican Ideas, in G. Bock, Q. Skinner, M. Viroli (a cura di), Machiavelli and Republicanism, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, pp. 121-41.

51. Cfr. N. Machiavelli, Discorsi, I. xvi; Q. Skinner, The Paradoxes of Political Liberty, in S. McMurrin (a cura di), The Tanner Lectures on Human Values, VII, Salt Lake City, The University of Utah Press - Cambridge, Cambridge University Press, 1986, pp. 225-50; cfr. anche Id., Machiavelli on the Manteinance of Liberty, Politics, 18 (1983), pp. 3-15; Id., The Idea of Negative Liberty: Philosophical and Historical Perspectives, in R. Rorty, J.B. Schneewind, Q. Skinner (a cura di), Philosophy in History. Essays on the Historiography of Philosophy, Cambridge, Cambridge U.P., 1984; Id., "The Italian City Republics", in J. Dunn (a cura di), Democracy: The Unfinished Journey 508 BC to AD 1993, Oxford, Oxford U.P., 1992.

52. "Freedom as the social status of being relatively proof against arbitrary interference by others, and being able to enjoy a sense of security and standing among them. The approach casts freedom as non-domination: as a condition under which a person is more or less immune, and more or less saliently immune, to interference on an arbitrary basis". Philip Pettit, Republicanism. A Theory of Freedom and Government, Oxford, Clarendon Pres, 1997, pp. vii-viii.

53. Q. Skinner, Liberty before Liberalism, Cambridge, Cambridge University Press, 1997, p. 18.

54. "Republican approaches are often said to be antagonistic to private rights [...]. Republican theories are not, however, hostile to the protection of individual or group autonomy from state control. Indeed, legal rights have quite consistently accompanied republican systems. What is distinctive about the republican view is that it understands most rights as either the preconditions for or the outcome of an undistorted deliberative process. Thus, for example, the principle of deliberation argues in favour of liberty of expression and conscience and the right to vote; these are the basic preconditions for republican deliberation. Liberal systems could be, and have in fact been, founded on premises of this sort; but understandings that point to prepolitical or natural rights are entirely foreign to republicanism. On the republican point of view, the existence or realms of private autonomy must be justified in public terms". C. Sunstein, "Beyond the Republican Revival", The Yale Law Journal, 97 (1988), 8, p. 155.

55. Ivi, p. 1562; cfr. anche pp. 1569, 1575-76.

56. Ivi, pp. 1579-80.

57. F. Michelmann, "Law's Republic", cit., p. 1505.

58. Ivi, p. 1514.

59. Michelmann fa riferimento agli "encounters and conflicts, interactions and debates that arise in and around town meetings and local government agencies; civic and voluntary organisations; social and recreational clubs; schools public and private; managements, directorates and leadership groups of organisations of all kinds; workplaces and shop floors; public events and street life; and so on. Those are all arenas of potentially transfornmative dialogue". Ivi, p. 1531.

60. Ivi, p. 1518.

61. Cfr. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, I.4

62. M. Geuna, Il linguaggio del repubblicanesimo di Adam Ferguson, in E. Pii (a cura di), I linguaggi politici delle rivoluzioni in Europa, Firenze, Olschki, 1992, p. 156; cfr. anche Id., "La tradizione repubblicana e i suoi interpreti: famiglie teoriche e discontinuità concettuali", Filosofia politica, XII (1998), 1, pp. 101-32.

63. A. Ferguson, op. cit., p. 43.

64. "People in some traditions may display an ideologically nurtured desire to subject themselves to this or that subgroup: to those, for example, of noble birth, priestly role, or patriarchal status. But to my eyes this requires the suppression of a deep and universal human desire for standing and dignity, and the elimination of a robust and healthy disposition to feel resentment at such pretensions of superiority. And even if I am wrong about that, what is certainly true, as I argued in the last section, is that someone who is content to live in the mainstreams of a contemporary, pluralistic society is bound to treasure the ideal of not being dominated by others". P. Pettit, Republicanism, cit., pp. 96-97.

65. Ivi, p. 96.