2007

La pena di morte, fra passato e presente (*)

Pietro Costa

Il 30 novembre è una data solenne. È un'occasione per ricordare un evento importante - l'abolizione in Toscana della pena di morte - ma è al contempo un invito a progettare il nostro futuro. L'esercizio della memoria e la tensione verso il futuro sono peraltro operazioni che si sostengono a vicenda, anche se, come storico, dovrò soffermarmi sulla prima, piuttosto che sulla seconda.

La data del 30 novembre è una data solenne, ma farò del mio meglio per preservare il mio 'esercizio di memoria' dall'enfasi della celebrazione. Occupandomi del passato e non del presente, peraltro, il rischio della esaltazione retorica è, a ben vedere, piuttosto basso. Dal passato, infatti, è difficile trarre conclusioni ottimistiche e consolatorie. Rimarremmo delusi se ci attendessimo un sicuro e forte messaggio 'abolizionista' dalla storia dell'Occidente, considerata nel suo complesso. In essa infatti è assai più costante e insistito il richiamo alla legittimità e all'utilità della pena di morte che non l'appello alla sua abolizione.

So di far uso di brutali semplificazioni, non potendo addentrarmi in analisi più dettagliate. Posso però tentare di rendere più chiaro il mio assunto riferendomi a una metafora: la metafora dell'organo malato e della sua amputazione chirurgica. È una metafora notevolmente longeva e ubiquitaria; è una di quelle grandi metafore che attraversano i secoli e passano di testo in testo, e di contesto in contesto, comunicando un messaggio accolto sempre di nuovo come attuale e persuasivo.

L'arto malato deve essere reciso, pena la rovina e la distruzione dell'intero organismo. Il grande criminale, il responsabile di gravi e imperdonabili trasgressioni, è il membro infetto del corpo sociale, una vivente minaccia per la sua integrità, e deve quindi essere eliminato. La pena di morte non è l'unico mezzo idoneo a questo scopo, ma è certo il mezzo più efficace. Esprime questa tesi con la consueta precisione Tommaso d'Aquino. Ogni individuo è parte di un tutto e quindi se un individuo è, nei confronti della comunità, «periculosus» e «corruptivus», se mette a rischio la salute del corpo sociale, «laudabiliter et salubriter occiditur, ut bonum commune conservetur» (1): è un merito e una misura sanitaria ucciderlo, per preservare il bene comune. È vero, aggiunge Tommaso, che è male uccidere. Il criminale però «decidit a dignitate humana», perde la sua 'dignitas', il suo valore di uomo, e ucciderlo è «sicut occidere bestiam».

Il criminale come un arto malato da recidere; il criminale come un animale feroce da eliminare. Queste immagini, e le strategie argomentative nelle quali si traducono, non sono un patrimonio esclusivo del lontano medioevo. Lasciamo l'Italia medioevale e guardiamo alla culla della modernità, all'Inghilterra di Locke e del primo Settecento. Quasi tutto è cambiato e pure un'immagine, ormai consolidata, del criminale e la legittimità della sua eliminazione resistono ai mutamenti e vengono riformulate all'interno del nuovo universo culturale. Ogni essere umano, per Locke, è il titolare, per natura, di diritti fondamentali. Il criminale, però, con il suo comportamento, «dichiara lui stesso di abbandonare i principî della natura umana...». «Decidit a dignitate humana», aveva scritto Tommaso, e Locke sembra tradurre puntualmente il testo dell'Aquinate. Il criminale cessa di essere uomo, «ha dichiarato guerra all'intero genere umano; e perciò può essere distrutto come un leone o una tigre, cioè come una di quelle bestie feroci con cui gli uomini non possono avere società o garanzia» (2).

Il criminale, con il suo atto, si pone per sua scelta fuori dal consorzio umano. È questa l'immagine che continua a circolare nel discorso pubblico, nella pubblicistica di basso cabotaggio così come in molti 'grandi testi' dell'Europa moderna; ed è un'immagine che si impone tanto più facilmente quanto più forte è il senso dell'unità del corpo sociale. Agli inizi dell'Ottocento Fichte esprime con particolare chiarezza questo assunto. L'atto criminale è la rottura di quel contratto sociale che fa dei soggetti un corpo politico unitario. Trasgredendo ai principî fondamentali della convivenza, il reo perde «tutti i propri diritti come cittadino e come uomo». Il criminale «diventa bandito» (3), nell'antico, medievale senso del termine: un soggetto privato dei suoi più elementari diritti, tanto da essere dichiarato, dopo la condanna, «cosa, capo di bestiame».

Il criminale degradato a un essere non umano; il criminale come un elemento nocivo da eliminare. Questa sorta di 'metafora ossessiva' torna a presentarsi nei più diversi contesti. Concedetemi un ultimo, pindarico volo o svolazzo fra testi e contesti profondamente diversi. Guardiamo all'Italia di fine Ottocento e a una famosa scuola di diritto penale: la Scuola positiva, che con Lombroso e Sergi cerca le radici antropologiche, biologiche, della criminalità e fa del criminale l'espressione di una degenerazione atavica. Le premesse teoriche non potrebbero essere più lontane dal contrattualismo lockiano. E tuttavia le conseguenze che ne trae un esponente di quella scuola, Garofalo, ci suonano ormai familiari: se il criminale è un 'delinquente nato', la pena serve non tanto alla prevenzione di futuri reati, quanto alla neutralizzazione del criminale e, in ultima istanza, alla sua «eliminazione» (4). Il 'grande malfattore' che lede gli interessi fondamentali «dell'aggregato» deve essere escluso dalla società perché il suo «adattamento alle condizioni dell'ambiente si è rivelato incompleto ed impossibile» e la pena più consona è dunque la pena di morte.

L'antica metafora continua a mostrarsi viva e vitale e a trasmettere, nei più diversi contesti, il medesimo messaggio, riassumibile in tre punti principali: il primato del tutto sulla parte, del corpo sociale sulle sue parti componenti; l'esigenza, presentata come essenziale per la conservazione della società, dell'eliminazione del grande criminale; la sua degradazione da essere umano a essere dis-umano o sub-umano.

Questo messaggio mostra una notevole capacità di reggere nel tempo. Ed è proprio la sua lunga durata a impedirci di cadere in un errore di prospettiva e di vedere nella pena di morte soltanto l'espressione di un'umanità arcaica, primitiva, insomma, 'pre-moderna'. In effetti, è vero che le società pre-moderne prediligono la pena di morte, ma non è vero il reciproco: non è vero cioè che il processo di modernizzazione emargini la morte dall'orizzonte del penale.

Le mie erratiche citazioni hanno avuto appunto lo scopo di richiamare l'attenzione sul carattere non già arcaico, ma (anche) moderno della pena di morte. Un esempio impressionante di continuità è offerto, da questo punto di vista, dal magistero della Chiesa cattolica. Dai grandi papi medievali fino a Pio XII, la strategia nei confronti della pena di morte resta, al fondo, la medesima. La vita umana è intangibile - è questa la tesi ancora ribadita da Pio XII nel secondo dopoguerra - ma è il criminale stesso che si priva, in conseguenza del suo crimine, del diritto alla vita, tanto che il pubblico potere si limita, per così dire, a trarre le conseguenze di questa scelta comminando la pena di morte. Tiene in sostanza ancora la tesi tomistica del criminale che «decidit a dignitate humana». È semmai il Concilio Vaticano II che, anche in questo settore, introduce una discontinuità, con una forte tematizzazione dei diritti umani. Sono poste le premesse per una condanna della pena di morte, anche se non si arriva esplicitamente ad essa. Ancora nel Catechismo della Chiesa cattolica pubblicato nel 1992 si raccomandano sanzioni alternative, senza però arrivare a «escludere, in casi di estrema gravità, la pena di morte» (5). E solo a partire dall'enciclica Evangelium Vitae, del 1995, e dalla successiva edizione del Catechismo, del 1997, diviene netto il rifiuto della pena di morte.

La morte come pena è insomma profondamente, durevolmente connessa con l'intera storia dell'Occidente. Certo, di questa complicata storia è parte anche una tradizione diversa, che tenta di mettere in questione il potere di morte del sovrano sui propri sudditi: la tradizione 'abolizionistica', quella tradizione con la quale il nostro incontro vuol essere idealmente collegato. Ripercorriamone alcuni momenti, a partire dal piccolo grande libro di Cesare Beccaria, comparso nell'estate del 1764; un libro che si è imposto immediatamente all'attenzione dell'intera Europa. Leggiamo il paragrafo XXVIII. Per Beccaria, la pena di morte deve essere bandita per due motivi: in primo luogo, perché la sua efficacia deterrente è inferiore alla pena del carcere a vita (i cittadini saranno più impressionati dal «lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà» e «divenuto bestia di soma» che non dal «terribile ma passeggero spettacolo della morte»); e in secondo luogo, perché gli uomini sanno in cuor loro che la loro vita non deve essere «in potestà di alcuno» e non può essere consegnata, per decisione contrattuale, nelle mani del sovrano (6).

L'impressione provocata dall'opera di Beccaria è enorme: emerge una nuova visione del diritto penale e del processo penale, in continuità con la prospettiva già delineata, nel 1748, dall'Esprit des lois di Montesquieu. E non è soltanto la nascente 'opinione pubblica' a mostrarsi colpita dalle argomentazioni del Dei delitti e delle pene. Di lì a pochi anni, infatti, sembra realizzarsi l'auspicio di Beccaria, che si attendeva nuove leggi da quei «monarchi benefici, animatori delle pacifiche virtù» che «veggiamo riposti su i troni di Europa» (7). Il monarca benefico atteso da Beccaria si materializza nella persona di Pietro Leopoldo, granduca di Toscana, che provvede ad una coraggiosa riforma del diritto penale: una riforma di cui il granduca traccia le linee principali, vincendo le perplessità dei suoi stessi consiglieri; una riforma che include, oltre al divieto della tortura nel processo, anche l'abolizione della pena di morte. È appunto la Leopoldina, pubblicata il 30 novembre del 1786.

Siamo di fronte a una vera e propria frattura storica, a un evento di grande valore simbolico, che sembra incarnare il mito settecentesco della felice collaborazione fra il filosofo illuminato e il sovrano riformatore. Dobbiamo però guardarci, ancora una volta, dal rischio della semplificazione ed evitare troppo facili contrapposizioni. Non stiamo assistendo a una battaglia dove ciascuno dei due eserciti in campo si presenta compatto e unitario al suo interno: da un lato, il trono e l'altare, alleati nel difendere l'arcaico e feroce patibolo, dall'altro lato, una ragione laica che, finalmente emancipata dai pregiudizi della metafisica, come un sol uomo reclama la 'dolcezza delle pene', l'umanizzazione del sistema penale. È vero che il trono e l'altare stentavano a separare l'obbedienza dei sudditi dal potere di vita e di morte attribuito al sovrano; ma è altrettanto vero che le posizioni 'abolizioniste' non trovavano affatto concorde quel vasto movimento di opinione che, in diversi modi, stava auspicando e progettando un nuovo ordine politico-sociale fondato sui diritti fondamentali dei soggetti.

Guardando anche solo al dibattito italiano, se Beccaria aveva lanciato il sasso nello stagno, un altro grande riformatore, Gaetano Filangieri, per tanti aspetti vicino alle proposte dell'illuminista lombardo, non ne sottoscrive la condanna della pena di morte, sostenendo piuttosto che con il delitto il criminale, nello stato di natura come nella società civile, perde il suo diritto alla vita. Né si pensi che la tesi (anti-abolizionista) dell'illuminista napoletano fosse isolata: a favore della pena di morte si era pronunciato Rousseau, appena due anni prima della formulazione dell'eversiva tesi beccariana, e a favore della pena di morte, con diverse argomentazioni, si esprimerà, a fine Settecento, Kant.

Certo, la Leopoldina aveva tagliato il nodo gordiano delle discussioni teoriche. La riforma di Pietro Leopoldo non era un'opinione: era una decisione, era una legge, che intendeva dimostrare in concreto la possibilità di governare senza ricorrere alla morte come pena. Occorre però non dimenticare che la decisione granducale, pur mantenendo intatto il suo valore simbolico, avrebbe avuto una vita assai breve. Sarà lo stesso Pietro Leopoldo a far presto marcia indietro. Vi erano stati disordini in varie zone della Toscana e il granduca, poco tempo dopo aver lasciato la Toscana per Vienna, nel 1790, appena quattro anni dopo il varo della sua riforma, si dichiara costretto a reintrodurre la pena di morte contro coloro «i quali ardiranno di sollevare il popolo, o mettersi alla testa del medesimo per commettere eccessi e disordini» (8). Ed è solo l'inizio di una 'controriforma' che reintrodurrà la pena di morte per la sedizione politica e per alcuni reati comuni: è quanto avviene con la riforma del 1795, promulgata dal successore di Pietro Leopoldo, Ferdinando III, e poi ancora con la legge del 1816 (la Legge contro i delitti di furti violenti).

Non è il caso di drammatizzare questa piccola correzione di rotta in Toscana, che segue lo straordinario exploit leopoldino. La Toscana resta un'isola (relativamente) felice in Europa. Eppure l'Europa sta prendendo a sperimentare, nel corso dell'Ottocento, le nuove forme della modernità politico-giuridica. È un'Europa che ha alle spalle la rivoluzione francese e sta facendo di alcuni diritti, la libertà e la proprietà, il perno dell'ordine. È un'Europa che, anche per quanto riguarda il diritto e il processo penale, accoglie i suggerimenti del riformismo illuministico e vede nel carcere il principale (perché flessibile e graduabile) strumento punitivo. E tuttavia in questa Europa ormai orgogliosamente consapevole della sua trionfante modernità la pena di morte continua ad essere, per così dire, la valvola di chiusura della repressione penale.

È stata dunque inutile, improduttiva di conseguenze, la sfida di Beccaria? Certamente no. Per cogliere l'importanza decisiva dell'abolizionismo di alcuni riformatori settecenteschi suggerirei di ricorrere a questa formula: è a partire da quel momento storico, da quel testo, da quei testi, che la pena di morte, per la prima volta, cessa di essere una rassicurante certezza per divenire un problema. La pena capitale non può essere più presentata come una garanzia indiscutibile perché auto-evidente dell'ordine sociale, come un appannaggio costitutivo della sovranità, ma deve essere sempre di nuovo legittimata, deve guadagnarsi sul campo un ruolo di cui prima godeva senza sforzo. Il mantenimento o l'abolizione della pena di morte diviene una delle poste in gioco (sul piano simbolico forse la principale) di quel complicato processo di 'incivilimento' del penale, per usare un'espressione romagnosiana cara a Mario Sbriccoli, che, lungi dall'essere ormai compiuto, coinvolge anche il nostro presente e il nostro futuro.

Di questo processo, l'emarginazione e infine l'abolizione della pena di morte sono state tappe particolarmente faticose. Lo sono state anche in Italia, come dimostra una pur sommaria rassegna degli episodi principali. La pena di morte resta in vigore nella legislazione degli Stati pre-unitari (e anche nello Stato pontificio, dove è ampiamente utilizzata). Nella stessa Toscana la pena di morte è ancora prevista dal pur innovativo codice penale del 1853. Dopo la cacciata del Granduca, tuttavia, il governo provvisorio abolisce nel 1859 la pena capitale, lasciando in eredità al nascente Stato italiano un problema complicato. Si intendeva infatti estendere a tutta la nazione il codice penale sardo-piemontese, che però includeva la pena di morte. Si davano allora due soluzioni: estendere quel codice anche alla Toscana, reintroducendo in essa la pena da morte da poco abolita; oppure al contrario cancellare da tutto il territorio nazionale la pena di morte, riformando su questo punto il codice sardo-piemontese.

È intorno a questa secca alternativa che divampa un dibattito che vede mobilitati personaggi di grande spessore intellettuale e morale: si pensi soltanto ai nomi di Francesco Carrara e di Pietro Ellero, e a iniziative di respiro europeo come il «Giornale per l'abolizione della pena di morte». La vicenda si chiude senza vinti e senza vincitori ed è proprio il mancato accordo sull'abolizione della pena di morte che impedisce l'unificazione del paese sul terreno della legislazione penale. A un codice penale unitario si giunge soltanto nel 1890, quando entra in vigore il codice Zanardelli; ed è questo codice che sancisce il bando della pena morte dal sistema delle sanzioni penali. Non siamo però di fronte a un bando definitivo. Con l'avvento del regime fascista e con le leggi del '26 'per la difesa dello Stato' (e poi con il codice Rocco) la pena di morte viene reintrodotta ed effettivamente applicata (il 'Tribunale speciale per la difesa dello Stato' commina, fra il '26 e il '43, 42 condanne a morte). Nemmeno la caduta del fascismo, comunque, basta a indurre un'immediata abrogazione della pena di morte. Per arrivare a una solenne sconfessione della pena capitale occorre attendere la costituzione del '48, che all'art. 27 dispone che «non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra»

Siamo nel secondo dopoguerra e dalla pubblicazione del Dei delitti e delle pene sono trascorsi quasi due secoli. Eppure l'Italia, almeno su questo fronte, non appare affatto distratta o ritardataria rispetto ad altre nazioni europee. Si tengano presenti soltanto alcune date: in Francia, l'abolizione della pena di morte è del 1981 e in Inghilterra l'ultima condanna a morte è del 1965. Ed è appena il caso di ricordare che, fuori d'Europa, in uno dei paesi dove si è sviluppata una delle principali declinazioni del 'paradigma democratico' - gli Stati Uniti d'America - la pena di morte continua ad essere prevista e il problema della sua abolizione è ancora sostanzialmente aperto.

Vorrei quindi di nuovo insistere su un dato emerso con evidenza in questa mia sommaria ricognizione: la difficoltà con la quale la tesi abolizionista si è fatta strada nella modernità europea e occidentale.

La più semplice conseguenza da trarre da questa constatazione è l'impossibilità di pensare come spontanea, 'automatica', la graduale rimozione della pena capitale dalle pratiche penali delle società 'civili'. La scomparsa della pena di morte non è l'inevitabile effetto di una storia ascendente, che dall'arcaica barbarie conduce al trionfo della civiltà, come pretendeva una filosofia o mitologia del progresso cara a tanta letteratura ottocentesca. La modernità è forse una condizione necessaria, ma certo non è una condizione sufficiente della messa al bando della pena capitale. Della modernità peraltro fanno parte integrante i totalitarismi del Novecento, che hanno fatto della morte una componente importante delle loro strategie di dominio. Se però il disprezzo per la vita è perfettamente coerente con l'annullamento della soggettività caratteristico dei regimi totalitari, appare certo più sorprendente la tenace permanenza della pena di morte in ordinamenti che pongono al centro il soggetto e i suoi diritti fondamentali.

Occorrerebbe chiedersi perché, occorrerebbe interrogarsi sul fascino indiscreto che la morte come pena ha esercitato per lungo tempo e in certi contesti esercita tuttora. Non pretenderò certo di dare una qualche plausibile risposta in poche battute. Mi limiterò soltanto a raccogliere, a guisa di conclusione, qualche impressione suggerita proprio da quella onnipresente metafora chirurgica dalla quale ha preso l'avvio il mio intervento.

Il primo messaggio comunicato da quella metafora è il primato del corpo sociale. E in effetti il sì o il no alla pena di morte ci pone, con una forza simbolica ineguagliata, di fronte a un'alternativa radicale: scegliere il primato del tutto sulle parti oppure attribuire al singolo un valore assoluto, un'importanza ultimativa, un primato non negoziabile. Si tratta di una scelta solo apparentemente semplice, che rivela la sua radicalità nei momenti di crisi. E non si dimentichi peraltro che lo stesso Beccaria bandiva la pena di morte nel tempo della normalità, «durante il tranquillo regno delle leggi», ma ne considerava plausibile la reintroduzione nello 'stato di eccezione', quando fosse in questione «la sicurezza della nazione» o si temesse «una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita» (9). Combattere la pena di morte è dunque in realtà una decisione impegnativa: la decisione di non rinunciare al valore assoluto dell'individuo anche quando questa opzione sembri entrare in rotta di collisione con gli obiettivi (pur importanti) dell'ordine e della sicurezza.

Il secondo messaggio della metafora chirurgica è l'immagine dell'espulsione. Espellere, cancellare, eliminare qualcosa che ci minaccia è una strategia tanto antica quanto (perennemente) rassicurante. Il criminale diviene, in questa prospettiva, il concentrato di una negatività che la pena, qualsiasi pena, contribuisce a esorcizzare. Sono percepibili in filigrana, nei dispositivi penali, quelle pulsioni vendicative, espiatorie e infine espulsive tematizzate efficacemente da René Girard: pulsioni arcaiche, ma non per questo cancellate dal processo di modernizzazione, che trovano nella pena di morte la loro più sicura soddisfazione.

La morte come pena appare allora l'estrema conseguenza di una politica criminale dominata da una precisa strategia: la strategia della dis-umanizzazione del reo, la sua riduzione a cosa o ad animale, a un essere non-umano. È questo il gesto decisivo e al contempo più subdolo e meno facile da avvertire: il gesto che getta fuori il criminale dalla civitas, lo bandisce, nel senso medievale del termine, lo relega in un luogo esterno, lo crea come una figura 'aliena'. Certo, la pena di morte non coincide con questo gesto e tuttavia è immanente in esso, è separata da esso per gradi ma non per qualità.

È appunto per questi motivi che la battaglia contro la pena di morte è attuale e importante. È attuale non solo perché la pena capitale è ancora effettivamente comminata in molti paesi, ma anche perché essa, lungi dall'essere solo un residuo del passato, è una possibilità sempre aperta, una tentazione immanente anche nelle nostre società. È importante perché la lotta contro la pena di morte non può limitarsi a rimuovere il sintomo senza toccare la causa e deve quindi mettere in questione le sempre diverse ma ricorrenti strategie di dis-umanizzazione dell'altro, la tendenza, di cui il nostro presente offre inquietanti testimonianze, a inventarsi nuove figure di estraneità e di minaccia e a trasformarle nelle nostre prossime vittime sacrificali.


Note

*. Si riproduce il testo di un intervento tenuto in occasione della V giornata mondiale contro la pena di morte, organizzata a Roma il 29- 30 novembre 2006 dalla Comunità di Sant'Egidio, dal Comune di Roma e dall'Università di Roma Tre.

1. Tommaso d'Aquino, Summa teologiae, Editiones Paulinae, Roma 1962, II, II q. 64, a.2; II, II, q.11, a.3.

2. J. Locke, Secondo Trattato sul governo, cit., pp. 245-246.

3. Fichte, Fondamento del diritto naturale secondo i princìpi della dottrina della scienza (Seconda parte), cit., p. 227.

4. R. Garofalo, Criminologia, cit., p. 214.

5. Catechismo della Chiesa cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1992, pp. 558-558.

6. Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di Franco Venturi, Einaudi, Torino 1970, pp. 62-70

7. Ivi, p. 69.

8. Mario Da Passano, Il diritto penale toscano dai Lorena ai Borbone, Giuffrè, Milano 1988, p. 111.

9. Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., p. 62.