2005

Il particolarismo dei diritti (*)

Luca Baccelli

Il linguaggio dei diritti 'dell'uomo' viene generalmente considerato come l'espressione più tipica dell'universalismo nell'etica, nella politica e nella teoria giuridica. Per limitarmi a quest'ultima, penso ad alcune affermazioni dei due massimi filosofi del diritto italiani in attività. Un autore solitamente misurato e tendenzialmente pessimista come Norberto Bobbio, pur riconoscendo che i 'diritti dell'uomo' non possono avere un fondamento assoluto, non esita a vedere nella progressiva generalizzazione, specificazione e positivizzazione dei diritti il kantiano signum prognosticum del progresso morale dell'umanità (1). Secondo Luigi Ferrajoli l'inclusione dei diritti individuali nei testi delle costituzioni novecentesche e in documenti come la Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo - esprime un paradigma giuridico incompatibile con la tradizione del diritto interno e del diritto internazionale. Per Ferrajoli, dato che i diritti fondamentali sono ormai ius cogens, nozioni come 'cittadinanza' e 'sovranità' sono divenute obsolete. Ne consegue che l'intero catalogo dei diritti civili e sociali deve essere ascritto alla 'persona' e non più al 'cittadino' (2).

Ho l'impressione che il nesso fra titolarità dei diritti individuali e appartenenza ad una comunità giuridico-politica sia molto più stretto di quanto Ferrajoli sostenga, e che il linguaggio dei diritti individuali sia meno universale e più connotato socialmente, culturalmente e storicamente di quanto appaia a prima vista. Vorrei brevemente mostrare perché (1) per poi passare in rassegna quello che viene considerato uno dei più significativi tentativi contemporanei di fondare i diritti individuali in una propesttiva universalistica, quello di Jürgen Habermas. In conclusione (3) vorrei argomentare contro la sostituzione del linguaggio dei diritti con altri linguaggi normativi - ad esempio quello dei doveri - che alcuni vedono come la conseguenza inevitabile della critica all'universalismo.

1. I diritti di chi?

1.1. Come è noto, la nozione di diritti soggettivi è sconosciuta alla cultura greca classica. Per individuarne le origini diritto soggettivo ci si volge, in genere, alla tradizione giuridica romana. Espressioni come ius est o ius esto alludono allo stabilirsi di un legittimo rapporto giuridico piuttosto che a determinate capacità e poteri ascrivibili agli individui (3). E naturalmente la validità di questi rapporti giuridici è fondata ex iure quiritum, deriva dunque dalle consuetudini ritualizzate e successivamente razionalizzate e codificate dei cittadini dell'Urbe (4).

Sarà nel coso del medioevo che il concetto di ius verrà riferito a istituti, libertà, autonomie e privilegi goduti di fatto da feudatari, membri del clero, città, corporazioni e così via. In questo processo, come è noto, particolare rilievo ha la storia inglese. In essa, il diritto consuetudinario del regno, o Common Law, tende via via a cristallizzarsi come ordinamento normativo relativamente autonomo rispetto ai comandi positivi del potere regio, anche perché viene amministrato da un corpo di giudici relativamente indipendenti, che si rifanno autoreferenzialmente alle proprie decisioni, secondo il principio dello stare decisis. L'affermazione di un Common law ad opera di giudici relativamente autonomi, e le forme che esso assume, favoriscono un notevole sviluppo ed articolazione concettuale del linguaggio dei diritti (5). E, come è noto, è in Inghilterra che i diritti vengono costituzionalizzati. Ma anche una lettura superficiale dei fondamentali testi costituzionali inglesi - dalla Magna Charta in poi - rivela un evidente carattere 'particolaristico' ed una netta connotazione storico-culturale. Le carte inglesi dei diritti non sono altro che elenchi di privilegi e libertà goduti "fin da tempi immemorabili" dai nobili, dal clero e poi anche dagli altri sudditi della corona. Ad esempio, uno dei documenti più maturi, il Bill of Rights, non fa altro che 'dichiarare' "the true, ancient, and indubitable rights and liberties of the people of this kingdom". E il classico The Ancient Constituzion and the Feudal Law di John Pocock ha dimostrato che una componente molto significativa del pensiero politico e giuridico inglese continua, fin oltre il XVII secolo, a fondare i diritti individuali sulla credenza che la Costituzione inglese è immemorial. E' a questa visione che si riallaccerà lo stesso Edmund Burke (6).

Un carattere diverso hanno i Bill of Rights delle colonie americane che proclamano la loro indipendenza dalla Gran Bretegna e le Déclarations du droits de l'homme et du citoyen francesi, a cominciare da quelle del 1789. In esse si fa esplicito riferimento a diritti 'naturali' ed 'imprescrittibili' goduti dagli uomini, che come tali 'nascono' liberi, siano essi la vita, la libertà e la ricerca della felicità oppure la vita, la libertà, la proprietà e la resistenza all'oppressione. Giova però ricordare che questa affermazione illuministica dei diritti 'universali' dell'uomo si collega all'orgogliosa rivendicazione di un'identità nazionale. La Dichiarazione d'Indipendenza americana inizia con la solenne affermazione del diritto naturale di un popolo a recidere i legami con un altro. E la 'nazione' rivoluzionaria francese è stata l'attore fondamentale per la diffusione e la generalizzazione dei diritti civili.

Se i diritti civili nascono con una connotazione particolaristica, questo vale a maggior ragione per i diritti politici. La libertà 'positiva' ed i diritti di partecipazione al governo si sviluppano inizialmente entro gruppi chiusi di cittadini, che escludono gran parte dei residenti sul territoriodella comunità politica (donne, schiavi, meteci, plebei, popolo minuto, non proprietari, immigrati eccetera). Ma anche le moderne democrazie rappresentative si sono affermate entro sistemi politici nazionali ben individuati e coesi. Più in generale, è arduo immaginare uno Stato democratico senza un qualche senso di appartenenza ed una qualche forma di lealtà politica. Un'istanza, anche elementare, di autogoverno, una qualche forma di libertà 'positiva', rimanda ad un'identità collettiva. Insomma, ogni forma di democrazia presuppone l'identificazione di un demos, di un ambito del corpo politico (7).

Analoghe considerazioni valgono a proposito dei diritti sociali. Non solo perché essi presuppongono, assai più dei diritti civili e politici, l'erogazione di determinate prestazioni da parte dello Stato, e dunque richiedono che vi sia un sistema politico definito e funzionante. Le politiche di Welfare, da Bismarck a Beveridge, dal New Deal rooseveltiano alle socialdemocrazie scandinave, presuppongono il riferimento ad una concreta comunità politica, e spesso prevedono anche forme di protezionismo rispetto alla circolazione delle merci e della manodopera. Non è un mistero, del resto, che oggi i processi di globalizzazione dell'economia minacciano la stessa sopravvivenza dello Stato sociale.

1.2. Fino qui abbiamo parlato delle condizioni sociali, politiche e giuridiche per il godimento effettivo dei diritti civili, politici e sociali. Si potrebbe sostenere che queste considerazioni abbiano valore solo sul piano genealogico. Il nesso fra diritti e appartenenza potrebbe valere solo per l'atto di nascita della democrazia liberale. Potrebbe costituire solo un passaggio provvisorio nel processo di universalizzazione della libertà e dell'autogoverno. E fino qui non si è detto ancora nulla sul fondamento teorico dei diritti.

Se allora ci si volge alla concettualizzazione teorica, si può rilevare che la distinzione fra diritti in senso soggettivo e diritto in senso oggettivo emerge nell'ambito della scolastica francescana fra il XIII e il XIV secolo. In generale, il nominalismo di Duns Scoto e Ockham pone al centro dell'attenzione l'individuo con i suoi attributi. Se solo gli individui sono reali, perde senso l'organicismo, alla radice della filosofia politica aristotelica e tomistica. L'individuo non trova più il suo fine etico nella comunità politica, né il concetto di ius può più essere interpretato come l'attribuzione a ciascuno della 'giusta parte' nell'ambito dell'ordine politico. Così, è probabilmente proprio Ockham a superare per primo il passaggio decisivo, identificando ius e potestas. Dopo il peccato originale Dio - che ovviamente gode della piena ed assoluta potestas - ha concesso all'uomo - sostiene Ockham nel Breviloquium - una serie di poteri: la potestas appropriandi, la potestas instituendi rectores, la potestas condendi leges et jura humana. E sono le leggi umane, legittimate da questa investitura divina del potere di promulgarle, a conferire i diritti soggettivi sanzionati dall'attività statale, come il dominium, lo ius utendi gli iura fori. Si tratta di una gerarchia di poteri, che discendono dall'assoluta potestà divina, attritbuiti ad individui ed indicati con il classico termine ius (8)

Il concetto di diritto individuale verrà specificato da autori occamisti come Mair e Almain. Ma sarà la cosiddetta seconda scolastica spagnola a formulare chiaramente il concetto di diritti individuali 'naturali' ed universali. Francisco de Vitoria, nelle sue lezioni De Indis, tenute fra gli anni venti e trenta del XVI secolo, attribuisce a tutti gli uomini diritti individuali come lo ius communicationis, lo ius peregrinandi et degendi, lo ius migrandi, lo ius praedicandi et annuntiandi Evangelium (9). Tali diritti sono goduti "ex iure gentium, quod vel est ius naturale vel derivatur ex iure naturali" Ed è chiara la distinzione del significato soggettivo di ius in Suarez, De legibus ac Deo legislatore (1613): "Solet prope ius vocari facultas quaedam moralis, quam unusquisque habet, vel circa rem suam, vel ad rem sibi debitam".

Come è noto sarà Hobbes, nel capitolo XIV del Leviathan, a dare la classica distinzione fra diritto in senso soggettivo e diritto in senso oggettivo, o legge:

Benché, infatti, coloro che parlano di questo soggetto, usino confondere ius e lex, diritto e legge; pure debbono essere distinti, perché il DIRITTO consiste nella libertà di fare o di astenersi dal fare, mentre la LEGGE determina e vincola a una delle due cose; cosicché la legge e il diritto differiscono come l'obbligo e la libertà che sono incompatibili in una sola e medesima materia. (10)

Hobbes, erede del nominalismo e radicale individualista, inaugura il percorso teorico attraverso il quale gli autori del giusnaturalismo moderno fondano i diritti individuali. Si tratta di elaborare l'immagine della condizione originaria, dunque 'naturale' dell'umanità, e sulla base di essa determinare i diritti che sono propri dell'individuo in quanto tale, cioè in quanto corrispondono alla 'natura umana'. Per Hobbes il diritto di natura è la traduzione della pulsione di autoconservazione (11). Dato che la condizione naturale è il bellum omnium contra omnes, "ogni uomo ha diritto ad ogni cosa, anche al corpo di un altro uomo" (12). E di questo diritto originario c'è un nucleo inalienabile, che corrisponde al principio di autoconservazione: "un uomo non può deporre il diritto di resistere a coloro che lo assalgono con la forza per togliergli la vita" (13).

E' noto che i giusnaturalisti daranno interpretazioni differenti dello stato di natura, elaboreranno anche antropologie della socievolezza naturale e proporranno differenti cataloghi dei diritti inalienabili, a cominciare dalla classica triade lockiana di vita, libertà e proprietà. Comune è comunque l'attitudine a collocare il soggetto su una sorta di tabula rasa storico-geogafica, e in questa condizione ipotetica attribuire ad esso una serie di poteri-libertà come diritti fondamentali. C'è più di un'aria di famiglia con analoghi gesti filosofici che si sollocano alle origini della modernità, dalla eliminazione baconiana degli idola al dubbio metodico cartesiano. D'altra parte, è difficile non chiedersi se in Hobbes non sia proprio l'attribuzione all'individuo, come tale, dei diritti 'di natura', a rendere possibile quella loro totale alienazione che è condizione della costruzione del leviatano. In altri termini: di fronte ad una tradizione costituzionale inglese che vede nei diritti - goduti dagli inglesi fin da tempo immemorabile - una tutela contro le prevaricazioni del potere regio Hobbes compie u gesto radicale. Anziché, come Filmer, ricondurre tutto il potere al sovrano legittimato dall'investitura divina, considera i diritti individuali come poteri propri degli individui. Ma proprio per questo possono essere alienati ed è possibile lo Stato 'assoluto' e non limitati. Il linguaggio dei diritti, ereditato dalla tradizione del common law, viene utilizzato per negarla radicalmente.

1.3. Questo tipo di fondazione dei diritti 'dell'uomo' ritorna nelle Dichiarazioni settecentesche e si espone a critiche serrate. Perspicuamente, Norberto Bobbio ha distinto fra i critici che accusano i diritti dell'uomo di eccessiva astrattezza e quelli che li considerano anche troppo concreti. Fra i primi si può includere tutta la critica storicistica, da Burke, ai teorici della Restaurazione, a Hegel. I secondi - da Olympe de Gouges a Marx, alla critica contemporanea dell''occidentalizzazione del mondo' - mostrano come l''uomo' delle dichiarazioni dei diritti sia in realtà maschio, borghese, cristiano, occidentale (14). Non c'è dubbio che nella replica dello stesso Bobbio a queste critiche ci sia molto da condividere: anziché astratti, sostiene Bobbio, i diritti delle dichiarazioni settecentesche sono l'espressione di rivendicazioni molto concrete, veri e propri 'atti di guerra' contro privilegi intollerabili e abusi di potere. E se l'attore dell'affermazione di queste rivendicazioni è stata una classe determinata in un determinato contesto storico e geografico, ciò non significa di per sé che tali rivendicazioni non abbiano valore universale (15).

Ma già nell'epoca dell'Iluminismo si susseguono le critiche al fondamento teorico dei diritti individuali. Mentre il riferimento alla volontà divina rivelata - tipico della scolastica nominalistica - è messo fuori causa dalla laicizzazione del diritto di natura, il riferimento alla 'natura umana' diviene sempre più problematico. Già Hume pone in questione la derivazione del dover essere dall'essere (la cd. fallacia naturalistica). Gli approcci storicisti distruggono l'idea di una 'natura umana' astorica e sovratemporale. E nella teoria giuridica, dall'utilitarismo di Bentham ed Austin, alla scuola francese dell'esegesi, per arrivare alla grande stagione del normativismo, si afferma l'impostazione giuspositivistica. Nella 'dottrina pura' di Kelsen non c'èspazioper alcune considerazione metagiuridica sui diritti individuali E un realista come Alf Ross mostra come concetti come quelli di 'proprietà' - a lungo considerato diritto naturale sacro e inviolabile - hanno la stessa consistenza semantica dei termini con cui le popolazioni polinesiane indicano gli oggetti del tabù (16).

Ma anche la critica giuspositivistica non dice l'ultima parola. Da un punto di vista epistemologico, essa si fonda negli autori citati su una approccio neopositivistico certamente datato, che pretende dalla scienza giuridica un empirismo ormai improponibile anche per le scienze naturali. Sul piano del diritto positivo, non si può non riconoscere la valenza dell'inclusione dei diritti fondamentali nelle Costituzioni novecentesche. Si prenda l'art. 2 della Costituzione italiana: "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità". Se si 'riconoscono' dei diritti, vuol dire che già 'ci sono', che un qualche codice normativo viene considerato preesistente e assiologiamente superiore alla stessa Costituzione. Emerge una sorta di paradosso del positivismo conseguente, costretto ad attribuire realtà ai diritti fondamentali 'ulteriori' dato che sono fatti propri dal diritto costituzionale positivo. E anche un realista non può non riconoscere che i diritti fondamentali sono entrati a far parte della 'coscienza giuridica formale' dei giudici e sono utilizzati nella motivazione delle sentenze.

Negli ultimi decenni sono emerse una serie di posizioni che - pur evitando in genere di autodefinirsi giusnaturalistiche - ammettono l'esistenza di diritti e norme ulteriori rispetto ai testi legislativi positivi. Ronald Dworkin, ad esempio, ha ricostruito un modello che distingue nel diritto valido le 'norme' dai 'principi'. E la valiidtà dei principi rimanda a una norma fondamentale di tipo morale, secondo la quale "a ciascuno tocca un diritto a pari libertà individuali d'azione". Tale norma costituisce un "diritto naturale [...] goduto da tutti gli uomini e le donne per il semplice fatto che sono esseri umani in grado di fare progetti ed esercitare giustizia" (17). Anche per Robert Nozick l'attribuzione all'individuo di determinati diritti si collega con una considerazione quasi-kantiana del 'rispetto' che è dovuto all'individuo come soggetto morale, non ulteriormente fondata.

La critica comunitaristica si è indirizzata sul problema del fondamento dei diritti individuali, mettendo in luce in particolare l'indifendibilità teorica dell''io senza vincoli' (disencumbered self) presupposto dai liberali moderni. Questa critica ha costretto molti liberali a significativi passi indietro verso il riconoscimento del carattere storico e contestuale dei cataloghi dei diritti fondamentali. In molti casi, i liberali ammettono di non far altro che argomentare teoricamente in favore di una certa cultura politico-giuridica. A un'interpretazione contestualistica delle moderne teorie dei diritti si è recentemente opposto Jürgen Habermas.

2. Un tentativo di fondazione dei diritti: Jürgen Habermas

La fondazione Habermasiana dei dirtti individuali si inserisce in una più generale concezione del diritto che considera improponibile, nell'epoca della 'post-metafisica, sia il 'giusrazionalismo' di Hobbes, Locke, Rousseau e Kant, sia la sua riattualizzazione nelle teorie di Dworkin e Rawls. E Habermas critica anche la tesi di Robert Alexy secondo la quale il diritto sarebbe un 'caso particolare' della morale (la cosiddetta Sonderfallthese). Nella modernità non si può parlare di una derivazione del dirito dalla morale. Il diritto serve anzi a garntuire l'integrazione sociale sgravando l'individuo da alcune pretese di carattee cognitivo, motivazionale e organizzativo, tipiche della morale (18). Oltre una determinata soglia evolutiva, si differenziano parallelamente la morale autonoma ed il diritto positivo.

Ma se morale e diritto devono essere distinte, questo non significa che Habermas accetti la soluzione al problema della validità del diritto avanzata dai giuspositivisti, la riduzione weberiana della legittimità alla legalità di un ordinamento formalizzato, o la concezione luhmanniana del diritto come sistema autoreferenziale, funzionale allo stabilizzarsi delle aspettative di comportamento.

Secondo Habermas queste interpretazioni contrastano con l'evidenza empirica. Proprio per espletare le essenziali funzioni che gli sono affidate nelle moderne società complesse il diritto dove mantenere un carattere di (relativa) 'indisponibilità' rispetto alle decisioni immediate del sistema politico. In particolare, perché il sistema giuridico possa assicurare l'integrazione sociale è necessario che venga considerato legittimo e mantenga una 'risorsa di giustiuzia'. (19)

La relativa autonomizzazione del diritto da altri sottosistemi sociali - in primis l'economia - è per Habermas un dato acquisito; come pure lo è l'autonomizzazione del sistema sociale dalla Lebenswelt. Ma la specifica funzione del diritto si gioca proprio nel campo di interrelazione fra sistema e mondo di vita. Il diritto si pone fra il mondo di vita, che adopera il linguaggio ordinario, e i sottosistemi funzionali dell'economia e della pubblica amministrazione, che operano attraverso i codici funzionali del denaro e del potere amministrativo. Il diritto funge da 'trasformatore': fa sì che le istanze etiche e morali provenienti dal mondo di vita non si disperdano e - giuridicamente canalizzate - condizionino e regolino i sottosistemi funzionali dell'economia e dell'amministrazione (20). Norme e valori morali possono avere efficaicia in questi ambiti solo mediente una loro giuridicizzazione. E d'altra l'economia capitalistica e l'amministrazione burocratica hanno bisogno del diritto quale loro essenziale risorsa organizzativa. Per svolgere questa funzione il diritto deve appunto mantenere uno status di 'indisponibilità'. Un ruolo essenziale in questo senso è svolto dai diritti fondamentali.

2.1. Per fondare la validità di tali diritti Habermas segue un percorso argomentativo in cui si integrano la ricostruzione storico-sociologica e l'argomentazione teorica. Vorrei provare a distinguere, per quello che è possibile, queste due linee.

Il problema dell''indisponibilità' del diritto non si pone nelle strutture sociali elementari - identificabili con il mondo di vita - e nelle società arcaiche. In esse, anzi, non si può ancora parlare di norme giuridiche come tali. Le istituzioni sono sacralizzate e l'obbedienza alle norme è assicurata da un "intreccio di racconti mitici con azioni rituali" (21). In questa situazione "La minaccia d'un potere vendicatore e la forza della convinzione vincolante non soltanto coesistono, ma derivano da un'unica sorgente mitologica" (22).

Con l'evoluzione storica e lo sviluppo della complessità sociale le forme di vita divengono sempre più pluralistiche, le istituzioni perdono via via il loro carattere sacrale, si diffonde nella società l'agire 'egoistico', finalizzato al successo individuale. E' a questo livello che si autonomizza il sistema giuridico. Per una certa fase esso eredita la legittimazione sacrale. Questo è evidente nella tradizionale gerarchia delle fonti, per la quale le norme 'positive' poste dal sovrano sono subordinate al diritto naturale più o meno sacro. Ma con il procedere della secolarizzazione questo non è più possibile. Nel moderno processo di razionalizzazione vengono così distrutte le "garanzie metasociali dell'ordinamento giuridico" (23). Ma questo non significa la scomparsa dell'elemento di 'indisponibilità' dal diritto moderno. Proprio la sociologia del diritto di Max Weber mostra come nella condizione post-metafisica "gli ordinamenti giuridici possono ancora essere costruiti e sviluppati solo alla luce di principi razionalmente giustificati e quindi razionalistici" (24). Il punto è che per Weber la razionalità del diritto moderno è vista in termini di Zweckrationalität, si riduce in definitiva alla struttura astratta delle leggi ed alla razionalità dell'amministrazione.

Talcott Parsons, per contro, pone al centro della sua analisi quella che per Habermas è la più tipica funzione del diritto moderno: assicurare la coesione e la solidarietà sociale (rispondere, dunque, al 'problema hobbesiano dell'ordine'). Il diritto positivo moderno può stabilizzare le aspettative di comportamento di una società complessa solo se riesce a tradurre la tradizionale 'pretesa' di solidarietà in termini di 'pretesa di legittimità'. E questo è possibile "universalizzando e specificando lo statuto della cittadinanza politica" (25). Parsons si ricollega all'analisi di T.H. Marshall del concetto di cittadinanza. Nelle società moderne, secondo Parsons, il senso di appartenenza, da cui dipende la coesione sociale, tende ad autonomizzarsi dall'identità etnica ed ad esprimere quell'effettivo godimento dei diritti civili, politici e sociali che sostanzia la cittadinanza. E' solo se può far valere effettivamente i suoi diritti che il membro della comunità politica può sentirsi effettivamente parte di essa, può considerarsi 'cittadino' in senso pieno (26).

Nella modernità post-metafisica, dunque, solo la garanzia dei diritti individuali può legittimare le istituzioni giuridiche. Dunque l'ordinamento giuridico è accettato come legittimo se garantisce l'autonomia privata - attraverso i diritti di libertà - ma anche se tutela l'autonomia pubblica. E questo è possibile solo se le norme vengono elaborate dagli stessi loro destinatari (27).

Tutto ciò spiega, per Habermas, perché "i diritti umani e il principio di sovranità popolare rappresentino le uniche idee ancora capaci di dare giustificazione al diritto moderno". Essi costituiscono "il residuale 'precipitato' di quella sostanza etico-normativa che, originariamente ancorata nelle tradizioni religiose e metafisiche, è stata poi spinta attraverso il filtro della fondazione post-tradizionale" (28). E per Habermas, mentre in genere si individua una tensione fra diritti umani e sovranità popolare (riferibile al contrasto tra tradizione liberale e tradizione repubblicana), la teoria del discorso è in grado di integrare i concetti di diritti umani e sovranità popolare nella 'sostanza normativa' implicita nell'esercizio dell'autonomia politica (29).

2.2. Questa ricostruzione storico-sociologica, come abbiamo detto, si integra con - ed è ispirata da - una prospettiva teorica. Come è noto, la 'teoria del discorso' habermasiana' propone un modello che si sostiene in grado di superare le aporie della moderna 'filosofia della coscienza' (fondata sul rapporto soggetto-oggetto) sia in ambito teoretico che in ambito pratico. La 'teoria consensuale della verità' identifica la verità di una proposizione con il consenso ottenuto nelle condizioni della 'situazione linguistica ideale', nella quale i parlanti sono veritieri, è esclusa la distorsione della comunicazione e tutti partecipano all'argomentazione su un piede di eguaglianza (30). Nell'ambito della teoria dell'azione, ha validità universale la norma sulla quale, nelle medesime condizioni ideali, si potrebbe produrre un consenso dei partecipanti al discorso pratico. E' noto anche che la situazione linguistica ideale per Habermas è sì un'idealizzazione, ma non può essere ridotta ad un mero costrutto controfattuale. Attraverso una sua interpretazione della teoria degli atti linguistici, Habermas argomenta l'idea che le modalità della situazione linguistica ideale vengono presupposte ogni volta che - nel linguaggio quotidiano - si persegue un'intesa intersoggettiva. Condizione è che ogni attore assuma "l'atteggiamento performativo di un parlante che voglia mettersi d'accordo con una seconda persona circa qualcosa nel mondo" (31).

Questo uso del linguaggio implica secondo Habermas pretese incondizionate di validità, miranti a oltrepassare ogni criterio provinciale (32). D'altronde, la ricostruzione dell'evoluzione sociale che conduce dalle istituzioni arcaiche ai moderni sistemi giuridici mostra una 'trascendenza dall'interno' che supera l'orizzonte etnocentrico della propria comunità immediata. In questo modo secondo Habermas l'idealità dei principi del discorso si connette con la fattualità sociale: i principi del discorso esprimono insomma l'evoluzione che si realizza con la parallela differenziazione di morale autonoma e diritto positivo. "Da un punto di vista normativo, ciò corrisponde all'idea che autonomia morale e autonomia civica siano cooriginarie: due principi spiegabili ricorrendo a un sobrio principio di discorso esprimente semplicemente il senso delle esigenze post-convenzionali di fondazione" (33)

A questo scopo Habermas introduce in Faktizität und Geltung il "Principio D"

sono valide soltanto le norme d'azione che tutti i potenziali interessati potrebbero approvare partecipando a discorsi razionali (34).

Il principio D più generale rispetto ai principi che valgono per le questioni morali (che concernono tutta l'umanità), per le questioni etiche (riferite alla 'nostra' forma di vita per definirne l'identità) e per le questioni pragmatiche (che esprimono contrasti d'interesse) (35). Per Habermas "Introdurre un principio di discorso equivale a presupporre che le questioni pratiche possano essere imparzialmente giudicate e razionalmente decise". Si tratta poi di specificare il principio di discorso per rispondere alle questioni pragmatiche, etiche e morali. Qui ci interessa soprattutto il 'principio democratico', che "deve fissare la procedura d'una legittima produzione giuridica":

possono pretendere validità legittima solo le leggi approvabili da tutti i consociati in un processo discorsivo di statuizione a sua volta giuridicamente costituito. (36)

Il principio democratico dà per scontato che sulle questioni pratiche si possa decidere razionalmente e che sia possibile una formazione politica razionale dell'opinione e della volontà. Esso stabilisce solo che questo processo può essere istituzionalizzato "tramite un 'sistema dei diritti' che garantisca o ognuno eguale partecipazione a un processo di produzione giuridica anch'esso (a sua volta) garantito nei suoi presupposti comunicativi" (37).

A questo punto è possibile per Habermas mostrare come il sistema dei diriti "deve contenere precisamente i diritti fondamentali che i cittadini sono costretti a riconoscersi se vogliono legittimamente regolare la loro convivenza con strumenti di diritto positivo". Per Habermas, cioè, i diritti individuali, oltre a costituire il precipitato normativo di una storia culturale, politica e giuridica (che conduce alla modernità occidentale), sono un elemento tipico e fondamentale della forma giuridica, una condizione necessaria perché possa svilupparsi quel peculiare strumento di regolazione delle controversie che è il diritto moderno. Che nel diirtto moderno i diirtti individuale abbiano un posto provilegiato è implicito, per Habermas, nella stessa forma giuridica. Il diirtto, infatti, costituisce "un'integrazione della morale intesa a stabilizzare le aspettative comportamentali" e permette di sgravare gli individui dal peso della morale. Ma perché si dia il medium giuridico occorrono "diritti che definiscono lo statuto di 'soggetto giuridico' come titolare di diritti in generale" (38). O, per riprendere una formulazione più sintetica:

Gli ordinamenti politici moderni sono costruiti essenzialmente a partire dai diritti soggettivi, i quali riconoscono alla persona giuridica liberi spazi, legalmente garantiti, per agire in base alle sue proprie preferenze. In tal modo e nei termini da essi precisati, i diritti soggettivi sgravano le persone autorizzate da comandamenti morali o prescrizioni di altro tipo. In ogni caso, nessuno, che si tenga entro i limiti di quanto permesso dal diritto, è giuridicamente tenuto a giustificare pubblicamente le proprie azioni. Introducendo le libertà soggettive, il diritto moderno, a differenza degli ordinamenti giuridici tradizionali, fa valere il principio hobbesiano, secondo cui è permesso tutto ciò che non sia esplicitamente vietato. Si produce così una separazione tra diritto e morale. Mentre la morale ci dice innanzi tutto ciò a cui siamo obbligati, la struttura del diritto dà un primato a ciò che siamo autorizzati a fare. Mentre i diritti morali discendono da doveri reciproci, i doveri giuridici sono derivati dalla limitazione giuridica delle libertà soggettive. Questo privilegiamento categoriale dei diritti rispetto ai doveri si spiega con le moderne concezioni della persona e della comunità giuridica. L'universo morale, il quale non conosce limiti di spazio sociale e di tempo storico, abbraccia tutte le persone naturali nella complessità della storia delle loro vite. Di contro, una comunità giuridica, di volta in volta localizzata spazio-temporalmente, tutela l'integrità dei suoi membri solo nella misura in cui essi assumono lo status, artificialmente prodotto, di portatori di diritti soggettivi. (39)

Habermas ricostruisce la 'genesi logica dei diritti' come un processo circolare nel quale il codice giuridico e il principio democratico rimandano l'uno all'altro come cooriginari (40). In base al princio D "possono pretendere legittimità solo quelle regolazioni, cui consentirebbero tutti i possibili coinvolti in quanto partecipanti a discorsi razionali" (41). I diritti umani costituirebbero allora la garanzia perché la formazione della volontà avvenga secondo procedure che approssimano il criterio di legittimità. In questo modo viene espresso il nesso fra sovranità popolare e diritti umani. Ma Habermas precisa che queste considerazioni non valgono solo per i diritti politici di comunicazione e partecipazione. Anche i classici diritti di libertà, che tutelano l'autonomia provata, e dunque "devono garantire a ciascuno pari opportunità nel perseguimento dei fini privati e un'ampia tutela giuridica individuale, posseggono palesemente un valore intrinseco" (42). Tale valore è ricondotto da Habermas alle caratteristiche del medium giuridico: come già abbiamo accennato, la'utonomia privata delle persdone giuridiche è condizione necessaria perché si dia diritto (43).

La 'genesi logica' di Habermas fonda cinque categorie di diritti. Le prime tre corrispondonono ai classici diritti civili che tutelano l'autonomia privata. Sono (1) i diritti che tutelano il massimo grado di libertà individuale compatibile con la libertà degli altri, (2) i diritti che determinano lo status di membro associato alla comunità giuridica, e (3) i diritti che rendono azionabili gli altri, dunque rendono possibile agire in giudizio ed assicurano la tutela giurisdizionale. Vi sono poi i diritti politici, cioè (4) i "Diritti fondamentali derivanti dallo sviluppo politicamente autonomo dello status di membro associato nell'ambito d'una volontaria consociazione giuridica" (44). E infine ci sono i diritti sociali, ed i diritti di 'terza' e 'quarta' generazione, e cioè (5) "Diritti fondamentali alla concessione di quelle condizioni di vita che devono essere garantite - sul piano sociale, tecnico ed ecologico - nella misura necessaria a poter ogni volta utilizzare con pari opportunità, sulla base dei rapporti esistenti, i diritti civili" (45) dei quattro gruppi citati.

Due brevi notazioni. Riguardo alla categoria (2) l'universalista Habermas è molto chiaro. Le norme giuridiche - a differenza di quelle morali che riguardano potenzialmente tutti i soggetti capaci di linguaggio e di azione - regolano solo "i nessi d'interazione d'una società concreta" (46). La positività del diritto implica l'identificazione di uno spazio sociale e di un gruppo di consociati giuridici, la determinazione di chi è cittadino e di chi è straniero (47). Habermas si pronuncia per una interpretazione aperta dei diritti di inclusione nella cittadinanza, e in particolare per una disciplina dell'immigrazione che tuteli sia gli interessi degli associati sia di quelli che richiedono di essere ammessi. Ma il punto teoricamente importante è che per Habermas i diritti individuali presuppongono l'appartenenenza ad una comunità giuridica determinata e giuridicamenrte delimitata. Non si danno, cioè, diritti 'dell'uomo' o 'della persona' ulteriori ai diritti del cittadino (48).

Riguardo a (5), si tratta di "diritti solo relativamente fondati", che Habermas interpreta alla luce di un paradigma discorsivo del diritto che a suo avviso supera i limiti del paradigma liberale e di quello dello Stato sociale. Habermas, ispirandosi al principio di autonomia privata e pubblica, propone una rilettura attivistica dello Stato sociale, nella quale i diritti che garantiscono ad individui e gruppi di mobilitarsi per ottenere servizi e prestazioni assume una nuova centralità.

La fondazione habermasiana si colora in senso attivistico e addirittura conflittualistico. Ciò non toglie che egli continui ad attribuirle una validità tendenzialmente universalistica. Non è scritto da nessuna parte quali siano i diritti validi 'per natura'. La prassi legislatrice è libera entro i limiti stabiliti dal principio del discorso e dal medium giuridico come tale (49). Ma d'altra parte "i cataloghi dei diritti dell'uomo e del cittadino posti in apertura delle varie costituzioni storiche", in quanto messa in opera dell'autonomia politica, "possono essere intesi come letture diverse - in quanto muovono da contesti diversi - d'uno stesso sistema dei diritti" (50). Dunque

Non esiste 'il' sistema dei diritti sul piano della purezza trascendentale. Tuttavia, più di due secoli di sviluppo costituzionale europeo ci forniscono ormai un numero sufficiente di modelli. Essi possono guidarci ad una ricostruzione generalizzante delle intuizioni su cui poggia la prassi intersoggettiva di una legislazione intrapresa con strumenti di diritto positivo. (51)

In più luoghi, Habermas fa ampie concessioni al realismo politico, riconoscendo il ruolo preponderante del conflitto di interessi e della negoziazione di compromessi. Tuttavia Habermas non rinuncia alla prospettiva 'morale' universalistica. Ed afferma che essa è rintracciabile all'interno della fattualità sociale: le istituzioni moderne incorporano pezzi di 'ragione esistente' e rimandano a principi universali di giustizia (52).

Questo modello propone evidentemente un'idea di neutralità delle procedure e un certo privilegiamento della dimensione morale del giusto rispetto a quella etica del bene. Questo lo espone alle critiche comunitariste. E Charles Larmore ha posto la questione che nei conflitti fra diverse concezioni della vita buona emergono anche differenze sulla visione delle condizioni ideale di giustificazione: anche la grammatica dipenderebbe dall'immagine del mondo. Per Habermas afferma che "concetti come verità, razionalità, fondazione e consenso - per quanto interpretabili e adoperabili secondo criteri diversi - giocano lo stesso ruolo grammaticale in tutte le lingue e in tutte le comunità linguistiche", o quantomeno nelle società moderne (53).

Di nuovo, Habermas mette la mano sul fuoco sulla fondatezza della sua teoria discorsiva solo nel contesto delle società (occidentali) moderne, caratterizzate da diritto positivo, politica secolarizzata e morale di ragione. D'altra parte, riconosce che nessuna società complessa può corrispondere al modello di una socializzazione comunicativa pura. Ma la funzione del diritto positivo non si limita a quella di ridurre la complessità sociale (54). Le istituzioni dello Stato di diritto hanno "il senso sociologico di un mantenimento contro-direttivo della complessità" (55). Ma perché questa funzione contro-direttiva sia efficace, e necessario che il mondo di vita sia 'recettivo' "vale a dire caratterizzato da una cultura politica liberale e da corrispondenti modelli di socializzazione" (56). Habermas ammette che in questa concezione c'è un 'nucleo dogmatico', cioè l'idea di autonomia che rimanda all'autolegislazione. Ma si tratta di un'idea 'ineludibile' per chi ha sviluppato la propria identità entro le 'nostre' forme di vita socio-culturali (57).

2.3. Anche da queste, che sono le ultime considerazioni di Faktizität und Geltuung, risulta abbastanza chiaro che la fondazione habermasiana funziona solo nel contesto evolutivo dello Stato di diritto occidentale. O meglio: esprime un interessante modello che si fonda sui presupposti normativi che si sono via via elaborati e diffusi in questo contesto.

Se ripercorriamo la linea storico-sociologica, ci rendiamo contro che Habermas - soprattutto per quanto riguarda l'ultima fase, quella dello sviluppo di un diritto positivo e di una morale post-convenzionale - tratta dell'evoluzione dei sistemi sociali, politici e giuridici occidentali. E' in Occidente che si realizza quell'evoluzione ricostruibile in termini di genesi cooriginaria di diritti fondamentali e sovranità popolare, Stato di diritto e democrazia. I diritti - come in più luoghi Habermas dichiara esplicitamente - sono il precipitato normativo di una vicenda giuridico-culturale ben determinata (una vicenda che ha coinvolto progressivamente ampi settori della popolazione umana e investito culture altre rispetto a quella di origine). Ora, a meno di sostenere che questa storia abbia espresso un soggiacente Weltgeist, di cui oggi le liberaldemocrazie sarebbero portatrici, è evidente che questo tipo di fondazione dei diritti non può che essere legato al contesto, valere per una determinata forma di vita, per quanto egemone ed in espansione.

Nell'argomentazione habermasiana, emergono in più luoghi considerazioni che utilizzano, per così dire, elementi di funzionalismo sistemico. I diritti costituiscono il presupposto necessario del codice giuridico. In altri termini: perché si possa autonomizzare il sottosistema diritto, con la sua funzione di mediazione e 'traduzione' fra sottosistema amministrativo e sottosistema economico, da un lato, e mondo di vita, dall'altro, occorre che sia possibile individuare un soggetto giuridico e che tale soggetto abbia la libertà di svolgere come tale determinate prestazioni, goda insomma di determinati diritti. D'altra parte, solo garantendo i diritti fondamentali il sottosistema giuridico può contribuire - nelle moderne società differenziate e complesse - all'integrazione sociale. Ma considerare questa come una fondazione universalistica dei diritti significherebbe cadere in un paralogismo. 'Diritto' significa qui non ogni ordinamento giuridico come tale, ma il diritto positivo moderno (cioè un sottosistema sociale e un codice normativo tipicamente occidentali, autonomizzatisi progressivamante a partire dal diritto romano e gestiti un ceto da operatori specifici, che adopera un sapere particolare ecc.) in senso specifico, non in un'accezione lata come nelle teorie istituzionalistiche (ubi societas ibi ius).

Rimane il riferimento al principio D. Si può notare che il passaggio dall'analisi storico-sociologica della moderna differenziazione di etica, morale e diritto, all'affermazione del principio D è piuttosto brusco. Sulla base di quello che Habermas ha detto fino a quel punto, si può argomentare la tesi che nella modernità (occidentale) si arriva ad un'autonomizzazione delle differenti sfere, e che tuttavia si può individuare un principio normativo comune ad esse. Su queste basi, non può essere l'affermazione di un principio unversale, alla Kant. Il principio D può piuttosto essere visto "come un'espressione, formulata all'interno di un vocabolario controllato, delle nostre intuizioni di partecipanti alla cultura della modernità" (58). D'altra parte, Habermas non spiega perché il suo principio sia preferibile ai (numerosi) concorrenti come adeguata formulazione delle 'nostre' intuizioni morali.

Più in generale, si deve ricordare che la fondazione habermasiana presuppone una sorta di privilegiamento della funzione illocutiva del linguaggio sulle altre. E' discutibile che tale privilegiamento sia pacifico nell'ambito della teoria degli atti linguistici (59). Ma soprattutto ci si può chiedere quanto sia legittimo nell'ambito della filosofia pratica e della teoria dell'azione. Come lo stesso Habermas riconosce in più luoghi, gli atti linguistici che circolano nel sistema politico e nel sistema giuridico hanno in molti casi un carattere perlocutivo. Di più, l'uso strategico del linguaggio tende a sopravanzare quello comunicativo nella gran parte delle comunicazioni che costituiscono gli atti amministrativi, i dibattiti degli organi rappresentativi, la prassi giudiziaria. Quest'ultima, nin particolare nel campo del diritto penale, è anzi forse il caso paradigmatico dell'uso strategico del linguaggio. Si pensi al principio del diritto alla difesa e ai doveri deontologici dell'avvocato: il difensore, proprio per motivi istituzionalmente legati al suo ruolo, non intraprende una comunicazione per arrivare all'accertamento della verità ma con scopi ben diversi (60).

Occorre poi notare chela (recente) distinzione habermasiana fra questioni pragmatiche, etiche e morali non è così aproblematica come potrebbe sembrare dalla sua esposizione. Opportunamente, Alessandro Ferrara ha mostrato che, a seconda di come si interpreta 'D', o cade il crattere dialogico della teoria habermasian, o sfuma la differenza fra problemi etici e problemi morali (61). Su questioni morali fondamentali si innestano inevitabilmente questioni etiche relative all'autenticità ed al riconoscimento. Fra i giudizi morali ed i giudizi etici vi sarebbe una mera differenza di grado. Ma se le cose stanno così, gli argini teorici posti da Habermas in difesa dell'universalismo finiscono per cedere.

In realtà, in tutti i luoghi in cui Habermas si esprime per il carattere universale dei presupposti inevitabili del discorso, aggiunge una clausola del tipo "per chiunque voglia intendersi reciprocamente". Non affrontiamo la questione se in questo modo si esprime la forma più autentica di comunicazione, qualcosa come ciò cui gli atti comunicativi in ultima analisi tendono di per sé. Lo stesso Habermas, come abbiamo visto, accredita qualche dubbio sulla completa traducibilità dei linguaggi e delle grammatiche. Ma se da questo livello di alta astrazione epistemologica ci abbassiamo a quello della fondazione interculturale dei diritti (62), ci rendiamo conto che il volersi intendere, l'impegnarsi in un processo di intesa, insomma il mettere la verità e la validità a disposizione dell'interazione comunicativa e dunque in ultima analisi dell'interlocutore, costituisce in realtà il gesto decisivo. Accettare di discutere e confrontarsi è già quasi tutto. E' un atteggiamento cui la cultura occidentale è pervenuta gradualmente, con molta fatica ed in modo incompleto, dopo tragedie, genocidi, notti di San Bartolomeo e olocausti. Ed è una conquista evolutiva fragile e sempre in pericolo, come dimostra la storia di questo secolo e anche dell'ultimo decennio.

In definitiva, la pretesa universalistica che continua a riaffiorare in molte pagine di Faktizität und Geltung collide con il realismo, il contestualismo, l'utilizzazione dell'approccio sistemico che pure percorre il testo.

2.4. Di recente, Habermas è intervenuto esplicitamente sul tema della validità interculturale dei diritti umani. Egli ammette tranquillamente che "La ricostruzione del nesso intercorrente tra sovranità popolare e diritti umani [...] rivela chiaramente gli standard occidentali di legittimazione". Ma difende anche l'idea "che questi standard siano dovuti non tanto allo sfondo culturale della civiltà occidentale quanto al tentativo di rispondere a sfide specifiche della modernità, che ha conosciuto nel frattempo una diffusione globale" (63). In questo approccio la condizione moderna è vista come un 'fatto' che si impone e coinvolge via via altre culture.

Habermas ricorda che nel suo modello non si pretende di fondare normativamente la creazione di un'associazione fra persone giuridiche portatrici di diritti soggettivi. Si sostiene piuttosto che non si diano (né in Europa né in Asia) equivalenti funzionali del medium giuridico, tali da garantire le sue prestazioni sul piano dell'integrazione sociale. Inoltre "i diritti fondamentali non si presentano come precostituite datità morali" (64), ma come diritti giuridici, nel cui concetto è implicita la positivizzazione.

Ora, secondo Habermas, queste considerazioni depotenziano le critiche all'individualismo tipico dei dritti umani. I difensori degli Asian values sostengono che nelle antiche culture asiatiche diritto ed etica sono indistinguibili in un Ethos comunitario nel quale l'integrazione sociale è garantita più dai doveri che dai diritti. Per contro, il diritto moderno tutela sia l'autonomia etica individuale sia il perseguimento dell'interesse individuale. Il punto decisivo, per Habermnas, è che

tale forma giuridica è adatta alle società ad economia moderna, le quali - non solo nella sfera economica - risentono di una rete di decisioni decentralizzate prese da singoli attori. Nel quadro di rapporti economici resisi globali, anche le società asiatiche devono perciò impiegare il diritto positivo quale medium di regolazione; esse lo fanno per le medesime ragioni funzionali in base a cui, anche in Occidente, il diritto si affermò contro più antiche forme corporative di socializzazione. La certezza del diritto è, ad esempio, una tra le condizioni necessarie per quella stabilità di rapporti sociali sempre più anonimi, che richiede prevedibilità, imputabilità delle responsabilità e tutela della fiducia data. (65)

Altre critiche si appuntano sul concetto di autonomia sotteso ai diritti fondamentali, che implica una produzione normativa da parte degli stessi destinatari delle norme. Nella prospettiva di immagini del mondo come quelle del buddismo o del confucianesimo non si comprende questa centralità dell'autonomia individuale. I teorici di modelli socioeconomici come quello cinese, malese o di Singapore difendono le tradizioni nelle quali la libertà del singolo è subordinata al bene della comunità, e di conseguenza privilegiano i diritti sociali e culturali. Da un altro punto di vista - ad esempio nella prospettiva teocentrica di determinate "correnti islamiche, cristiane o ebraiche di orientamento fondamentalista" - il pericolo è rappresentato dalla secolarizzazione della politica, e dunque dalla separazione della legittimazione politica dall'autorità divina.

Per Habermas si può rispondere a queste critiche affermando che il principio dell'autonomia individuale si impone insieme con la secolarizzazione.Le basi normative delle costituzioni liberali possono essere viste come il risultato di un proceso di apprendimento: in Occidente si è imparato che di fronte a differenti concezioni religiose in concorrenza la soluzione migliore è "accordarsi su procedure discorsive per la ricerca cooperativa di decisioni e su norme per tutti vincolanti al fine di una regolazione dei conflitti sociali" (66). Il punto è che per Habermas le società che oggi criticano l'impostazione occidentale sui diritti umani si trovano in una situazione analoga: nella società planetaria tutti -- volenti o nolenti -- sono costretti a trovare forme di convivenza, e nessuna società può rimanere impermeabile al pluralismo culturale (67)

Credo si debba apprezzare la franca assunzione habermasiana di un atteggiamento 'apologetico' nei confronti di quella che viene esplicitamente definita una prospettiva occidentale. Tuttavia, gli argomenti apologetici avanzati da Habermas mi appaiono deboli e forse anche pericolosi. Essi sembrano dipendere da un'immagine olistica e aproblematica della modernizzazione (piuyttosto soprendente in chi ha cercato di introdurre elementi di distinzione nella ricostruzione weberiana della razionalizzazione), che tende a generalizzare in termini quasi weltgeschichtlich il processo storico di modernizzazione che si è realizzato in Occidente, che ha coniugato progresso scientifico, sviluppo tecnologico, tolleranza, progessiva affermazione dei diritti civili, politici e sociali, democrazia. Qui il punto non è tanto che questo modello di sviluppo non è generalizzabile in tutte le sue parti, pena la catastrofe ecologica del pianeta. La sfida rappresentata dai paesi di nuova industrializzazione - a cominciare dal paradigmatico caso di Singapore - è quella di una modernizzazione tecnologica che si accompagna a benessere e sicurezza diffusi ma esclude liberalismo e democrazia. Un liberale, non sospettabile di simpatie terzomondiste, come Ralf Daharendorf ha efficacemente utilizzato l'immagine della 'quadratura del cerchio' per esprimere l'idea che il composto chimico realizzato in Occidente è più instabile e fragile di quanto possa sembrare (68). E anzi la sfida della globalizzazione rappresenta un pericolo per la stessa sopravvivenza del modello occidentale nei nostri paesi. Inomma, Habermas non riesce a dimostrare che non siano possibili 'altre' modernità - magari tecnologicamente più efficienti ed ecologicamente più compatibili - rispetto al canonico modello occidentale.

Un elemento, evidentemente presupposto alle tesi di Habermas, mi sembra particolarmente debole: l'idea che la globalizzazione implichi lo sviluppo di una società civile mondiale. In realtà abbiamo di frontel'inquietante scenario di una globalizzazione senza integrazione politica e culturale. La mondializzazione in atto è quella del mercato delle merci e della manodopera, e dei modelli occidentali di consumo materiale e simbolico. La formazione di processi comunicativi tali da configurare una Öffentlichkeit planetaria non sembra tenere il passo con lo sviluppo delle interdipendenze funzionali fra i settori del mercato. Si assiste piuttosto ad una occidentalizzazione del mondo (per usare il termine di Serge Latouche) senza integrazione culturale. E dunque qui vacilla proprio il punto centrale della fondazione habermasiana dei diritti. Se i diritti individuali risultano un portato della globalizzazione economica (dunque vengono imposti da forze impersonali, se non addirittura da corporations multinazionali, anziché scelti consapevolmente dai cittadini per regolare la loro convivenza con strumenti di diritto positivo) si scinde il nesso fra diritti umani e sovranità popolare.

Infine, vedere i diritti umani come una sorta di correlato della globalizzazione è anche rischioso. I gruppi ed i popoli che si impegnano in una resistenza ai processi di occidentalizzazione, di genocidio culturale, ed anche di impoverimento per effetto dello spostamento dei flussi economici nelle aree forti (69), sono autorizzati a considerare i diritti umani come l'altra faccia di questi processi. Il lato oscuro dell'universalismo occidentale fornisce così per confondersi con il lato luminoso. Emerge anche qui l'ambivalenza, tipica del progetto filosofico e politico della modernità. L'affermazione dell'uguaglianza di tutti gli uomini (e poi anche delle donne) è stata, storicamente, anche l'affermazione della supremazia e del dominio di una civiltà. Con molta efficacia, Maurizio Iacono ha ripreso a questo proposito il virgiliano "Timeo Danaos et dona ferentes" (70). E del resto, come abbiamo visto, la prima chiara universalizzazione dei 'diritti di natura' si ha con Vitoria, che elabora l'apparato concettuale dei diritti di comuncazione, di residenza, di annuncio dell'Evangelo, in grado di legittimare la conquista spagnola dell'America (71). Analogamente, la concezione lockiana dei diritti 'di natura' è stata efficacemente utilizzata negli Stati Uniti per spossessare i nativi delle loro terre (72). D'altra parte, come abbiamo visto, la classica concezione hobbesiana dei diritti individuali è il fondamento di una teoria dello Stato assoluto.

3. Fra cauto universalismo ed etnocentrismo moderato: la lotta per i diritti

Non c'è dubbio che il linguaggio dei diritti abbia dimostrato una notevole forza espansiva al di là della cultura entro la quale si è originato. E' divenuto una sorta di lingua franca della comunicazione politica internazionale. Ma che nella comunicazione scientifica ed economica si utilizzi l'inglese non dipende, ovviamente, da caratteristiche grammaticali o semantiche della lingua, ma piuttosto da motivi storici, economici e militari; e d'altra parte l'inglese globale non è certo il British English parlato a Oxford e a Cambridge. Qualcosa del genere avviene al linguaggio dei diritti. E' significativo che la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, certamente segnata dalla cultura politico-giuridica occidentale, sia stata viva via di fatto accettata da tutti i governi. E particolarmente importanti sono le 'carte dei diritti' di organizzazioni internazionali che fanno riferimento ad aree geografiche a lungo rimaste estranee alla cultura illuministico-liberale (come quella islamica e quella africana). Ma le tradizioni culturali e le priorità politiche influenzano notevolmente la recezione del linguaggio dei diritti. Si trova un'enfasi accentuata sui diritti economico-sociali, sui diritti 'collettivi' dei popoli, sulla tutela delle istituzioni tradizionali e delle specificità culturali (73).

Questo significa che il linguaggio dei diritti, irrimediabilmente segnato dalla sua genesi politico-culturale, è inutilizzabile nel confronto interculturale? Dobbiamo seguire i consigli di molti comunitaristi contemporanei, che invitano ad abbandonare il linguaggio dei diritti, o comunque a relativizzarlo fortemente a favore di etiche della 'vita buona', della virtù o dei doveri?

Credo che tutti cnoi avvertiamo un qualche disagio di fronte a questa prospettiva. Se abbandonassimo il linguaggio dei diritti, per ritornare ad utilizzare al loro posto nozioni come 'vita buona', virtù, doveri, ci coglierebbe un senso di vuoto.

Tamar Pitch ha proposto, a proposito dei diritti umani, l'immagine del pharmakon, insieme veleno e medicina:

i diritti possono essere, sono stati, ancora sono, strumenti di un imperialismo culturale che apre la strada all'imperialismo economico e sociale attraverso la distruzione delle culture che sono incompatibili con lo sviluppo economico, sociale e politico di cui essi sono sia presupposto che argine. Proprio per questo sono necessari: essi sono per l'appunto anche argine e difesa. Veleno e cura. Tuttavia, l'antropologia che li sostiene deve, non può che, mutare, pena da un lato l'inefficacia, dall'altro la de-culturazione. (74)

Questa idea rimanda, secondo Pitch, alla nozione di 'diritto mite' proposta da Gustavo Zagrebelsky. Cioè a una concezione del diritto che fa propri concetti come limite, parzialità, progettualità debole e aperta. Un diritto che persegue la costituzionalizzazione di principi che granatiscano le condizioni di possibilità della vita comune, e sito di un confronto aperto (75).

Accanto a questa linea di difesa dei diritti, potremmo individuarne un'altra. E' noto che i comuinitaristi, quando propongono una traduzione politico-giuridica delle proprie tesi, si rifanno alla (loro lettura della) tradizione repubblicana del pensiero politico. Io vorrei partire da un luogo-chiave di questa tradizione, il capitolo I.4 dei Discorsi di Machiavelli, per suggerire un differente itinerario.

Machiavelli, com'è noto, non è un teorico dei diritti (anche se nei suoi scritti si affaccia l'idea, che sarà poi ripresa dalle teorie individualistiche moderne, del carattere artificiale e costruito dello Stato). Ma sostiene che, in determinate condizioni, sia sociali sia istituzionali, il conflitto può avere effetti virtuosi. A Roma, il conflitto fra i due 'umori' fondamantali, che contrappose nobili e plebei, produsse "leggi e ordini in beneficio della pubblica libertà".

L'apologia del conflitto è un tratta caratteristico di una linea della tradizione repubblicana studiata in particolare da Quentin Skinner, che ha evidenziato le sue caratteristiche specifiche rispetto all'eredità aristotelica del'umanesimo civile'. In Italia, Marco Geuna ha proposto di estendere questa distinzione, indicando due gruppi di teorie repubblicane, le prime di ispirazione 'harringtoniana' e le seconde di ispirazione 'machiavelliana'. E queste ultime rinunciano a proporre una nozione sostantiva di 'bene comune', mentre "attribuiscono un ruolo positivo ai conflitti politici che si mantengono entro certi canali istituzionali" (76).

Come abbiamo visto, lo stesso Habermas considera fondamentali i diritti politici perché sono autoreferenziali, che permettono di difendere i diritti acquisiti e conquistarne altri. Anche i diritti sociali, che purepotrebbero essere concessi paternalisticamente, sono riletti alla luce del principio di autonomia e visti nella prspettiva di un attivismo dei cittadini-utenti. E Habermas dà credito anche alla critica femminista sugli effetti di stereotipizzazione e sulle classificazioni eccessivamente generalizzanti che le politiche sociali - anche quelle efficaci - producono. Ma, riprendendo le tesi di Axel Honneth, Habermas afferma:

i concreti rapporti di riconoscimento che vengono sanciti da un legittimo ordinamento giuridico sono sempre il frutto di una 'lotta per il riconoscimento'; questa lotta è motivata dalle sofferenze causate da forme concrete di offesa [Mißachtung] e dall'indignazione che queste suscitano. Axel Honneth ha dimostrato come solo articolando esperienze che abbiano umiliato la dignità dell'uomo si possono convalidare quegli aspetti alla luce dei quali, nei rispettivi contesti, l'eguale andrà trattato in maniera eguale e il diseguale in maniera diseguale. Si tratta di controversie che, vertendo sull'interpretazione dei bisogni, non possono essere delegate né a giudici e funzionari né al legislatore politico. (77)

Ma questo significa che per rafforzare l'autonomia privata di un soggetto o di un gruppo -- a cominciare dalle donne - occorre rafforzare la sua posizione nella sfera politica e la sua partecipazione ai processi comunicativi che chiariscono quali sono gli aspetti rilevanti da tematizzare ed affrontare. Questa istanza conflittuale finisce per perdersi nel generale approccio che tende a valorizzare gli elementi comunicativi, le istanze di giustizia, le universalizzazioni. Invece andrebbe valorizzata.

E' possibile rileggere la storia dell'affermazione del diritto moderno anche come una storia di lotte per il riconoscimento da parte di individui e gruppi, che hanno affermato e rivendicato i propri diritti in quanto hanno reagito a situazioni di oppressione. E qualcosa del genere vale anche a livello interculturale. Quell'insieme di principi che si è sviluppato in due secoli di storia costituzionale europea, cui Habermas fa riferimento, non può essere visto come l'effetto di un lineare processo di evoluzione. Se c'è qualcosa di universale nei diritti, consiste forse proprio nel gesto di affermarli, di mobilitarsi per ottenerli, di reagire a condizioni di sfruttamento ed oppressione prendendo coscienza di un'identità, rivendicandola, affermando poteri e libertà.

In questa prospettiva è forse allora possibile riprendere anche alcune indicazioni di Richard Rorty, criticato con una certa asprezza da Habermas per il suo contetsualismo. Per Rorty viviamo in un'epoca nella quale il problema del fondamento dei diritti umani è ormai superato, tanto che "non ha più senso chiedersi se gli esseri umani abbiano o meno i diritti elencati nella Dichiarazione di Helsinki" (78). In realtà attribuire 'all'uomo' determinati diritti non è ancora risolutivo, perché coloro che violano i diritti umani ritengono precisamente 'non umani' coloro (neri, donne, appartenti ad altre religioni o ad altre etnie, omosessuali e così via) i cui diritti sono negati. E la soluzione di questo problema non può essere data dall'individuazione di un qualche attributo che esprima l'essenza propria o la natura dell'uomo. La garanzia dei diritti aumenta solo quando si modificano i sentimenti morali, in un processo graduale nel quale grande rilievo ha l'aumento della sicurezza del gruppo e il superamento dell'indigenza (79).

L'atteggiamento adeguato al confronto interculturale non è allora considerare 'irrazionali' le culture che non hanno sviluppato una concezione liberaldemocratica dei diritti.

Usare la parola 'razionale' per rendere encomio alle proprie scelte di fronte a tali dilemmi, è un vacuo complimentarsi con se stessi[...] la retorica che noi occidentali usiamo per tentare di persuadere tutti quanti ad assomigliarci di più migliorerebbe, se noi fossimo più onestamente etnocentrici, e smettessimo di professare universalismo. Sarebbe meglio dire: noi siamo divenuti ciò che siamo, perché abbiamo smesso di esercitare la schiavitù, abbiamo mandato le donne a scuola, abbiamo separato Stato e Chiesa, ecc. ecc.; ecco che cosa è accaduto quando abbiamo cominciato a considerare arbitrarie certe distinzioni. Cercate di fare le stesse cose e potreste scoprire che vi si addicono. Dire tali cose è preferibile a dire: guarda quanto siamo più bravi noi a distinguere quali differenze fra le persone sono arbitrarie e quali non lo sono; a quanto siamo più morali noi rispetto a voi (80).

Non c'è dubbio che Rorty cada, molto spesso, in un ottimismo eurocentrico (o meglio americanocentrico) un po' stucchevole. Il conflittualismo, il riconoscimento che i diritti sonomil risultato di lotte e conflitti, e anche la consapevolezza "di che lacrime grondi e di che sangue" l'impatto della cultura europea con le culture 'altre' è senza dubbio un utile correttivo. Nel confronto fra le culture è bene che sia vigile il ricordo delle colpe passate. Comunque, credo che la linea che Rorty indica, fra un cauto universalismo ed un etncocentrismo moderato, o - per usare il linguaggio degli antropologi - fra l'universalismo di percorso e l'etnocentrismo critico, sia proettente.

Se si colloca in questa prospettiva, la stessa teoria habermasiana dei diritti può essere considerata un'utile ricostruzione di un modello normativo, fondato sull'esperienza filosofica e giuridica della modernità. Un modello che può candidarsi in un confronto interculturale fra partecipanti che - previamente - abbiano asusnto la fondamentale decisione di accettare la discussione e mettere in questione le proprie verità. Proprio perché fondato sul dialogo, può avere più chances di successo di altri. Ma a patto che rinunci a proporsi come un modello fondato su strutture trascendentali, su presupposti inevitabili della comunicazione comuni a tutti parlanti umani.

I diritti non sono un attributo peculiare della natura umana, né il linguaggio dello Spirito del mondo, né l'espressione di presupposti ineliminabvili del linguaggio. Sono concetti attraverso i quali si è riusciti a sistematizzare e a rendere operativo un essenziale strumento di integrazione e di trasformazione sociale - il moderno diritto positivo - e si è riusciti ad esprimere (a 'riconoscere') concezioni etico-politiche che si sono via via affermate e generalizzate nel corso della modernità. Non sono niente di più; ma non si vede perché dovremmo farne a meno.


Note

*. Dipartimento di Filosofia dell'Università di Pisa / Collége international de philosophie - Paris, L'universale in questione / L'universel en question, Pisa, 1-2 dicembre 1997.

1. Cfr. N. Bobbio, L'età dei diritti, Torino, Einaudi, 1994.

2. Cfr. L. Ferrajoli, "Dai diritti del cittadino ai diritti della persona", in D. Zolo (a cura di), La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Roma-Bari, Laterza, 1994; Id., La sovranità nel mondo moderno. Nascita e crisi dello stato nazionale, Anabasi, Milano 1995; Id, "Nuove forme di sovranità e cittadinanza", in AA.VV., Challenges to Law at the End of the 20th Century, vol. II, Bologna, CLUEB 1995.

3. L'espressione "naturalia iura civilis ratio perimere non potest" in Istituzioni 3.1.11 sembra alludere all'esistenza di diritti individuali 'naturali' che precedono assiologicamente e logicamente il diritto positivo. In realtà ben difficilmente si riesce ad individuare negli iura qualcosa come i diritti di cui gli individui come tali sono titolari. Il problema dell'esistenza o meno di diritti individuali nel diritto romano è facilmente risolubile se si adotta un approccio giuspositivistico. Arangio-Ruiz, ad esempio, riprende la definizione di Perozzi del diritto soggettivo come "la facoltà accordata dal diritto obiettivo ad uno di esigere una certa condotta da altri" (Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto romano, p. 18, che cita da Perozzi ---). Michel Villey sostiene invece una - difficilemnte verificabile - forte influenza della filosofia pratica aristotelica nel diritto romano. In quest'ottica, l'espressione ius indica una cosa che consiste nel dare a ciascuno il suo, cioè nel realizzare la giustizia. Cfr. M. Villey, La formation de la pensée juridique moderne, Paris, Montchretien, 1975 (trad. it. Milano, Jaca Book, 1985, pp. 57-62, 196-203).

4. Gli storici del diritto romano hanno rilevato come sia arduo individuare nell'età repubblicana ed anche nell'età imperiale qualcosa come dei diritti a tutto tondo. Paradigmatico è il caso di quella che noi chiamiamo 'proprietà' e che risulta come un complesso fascio di relazioni derivanti da atti ritualizzati, a cominciare dalla cosiddetta mancipatio. Un'interessante operazione di antropologia storica applicata al diritto sarebbe l'indagine su come - nel processo evolutivo che conduce dal diritto sacrale amministrato dai pontefici all'autonomizzazione di una categoria di operatori del diritto e di un sottosistema giuridico relativamente autonomo - l'attribuzione dello status di ius ad un determinato rapporto abbia gradualmente modificato il suo significato, e cosa abbia mantenuto dell'originario carattere sacrale ed auratico.

5. "The peculiarly English notion of 'ascriptive rights' - rights grounded not in philosophical abstractions but in a process of slowly broadening out from precedent to precedent, was reinforced by an elite of reforming judges. As enforcement agents, they were positioned by various procedural characteristics od the legal system, for example, the writ of habeas corpus, to make good on their judicial independence by hampering an executive action. Moreover, English judges enjoyed a new level of popularity among developing English and colonial middle class because the old common law doctrines of property, contract, and torts favored stable economic development by permitting the accumulation of surplus resources for investment. The common law concepts of trespass, negligence, and liability offered men opportunities under the label of rights to exercise their talents and enjoy the fruits of their efforts" (R. P. Calude, "The Calssical Model of Human Rights Development", in Id. [a cura di], Comparative Human Rights, Baltimora, The John Hopkins University press, 1976, p. 17).

6. Cfr. J.G.A. Pocock, The Ancient Constitution and the Feudal Law. A Study of English Political Thought in the Seventeenth Century (1957), A Reissue with a Retrospect, Cambridge, Cambridge University Press, 1987.

7. Con questo non intendo assolutamente dare credito a concezioni comunitaristiche dell'appartenenza politica. Su questo mi sono espresso in "Cittadinanza e appartenenza", in D. Zolo (a cura di), La cittadinanza, cit., e in "Le ragioni dell'appartenenza", Teoria politica, 1996, n. 3.

8. Cfr. M. Villey, La formation de la pensée juridique moderne, trad. it. cit., pp. 222-23.

9. Cfr. F. de Vitoria, De Indis recenter inventis, III.2.

10. T. Hobbes, Leviathan (1651), trad. it. Firenze, La Nuova Italia, 1976, p. 125.

11. Esso è "la libertà che ogni uomo ha di usare il suo potere, come egli vuole, per la preservazione della propria natura, vale a dire, della propria vita, e per conseguenza, di fare qualunque cosa nel suo giudizio e nella sua ragione egli concepirà essere il mezzo più adatto a ciò"Ibidem.

12. Ivi, p. 125.

13. Ivi, p. 127.

14. Su questo tema rimando a T. Pitch, "L'antropologia dei diritti umani", in A. Giasanti, G. Maggioni (a cura di), I diritti nascosti. Approccio antropologico e prospettiva sociologica, Milano, Cortina, 1995.

15. Cfr. N. Bobbio, L'età dei diritti, cit., pp. 135-36.

16. Cfr. A. Ross, Tû tû, in U. Scarpelli (a cura di), Diritto e analisi del linguaggio, Milano, Comunità, 1976.

17. Dworkin cit. ivi, p. 242.

18. A differenza della morale, argomenta Habermas, il diritto si rivolge a soggetti dallo status specificamente ristretto, membri di un'astratta comunità prodotta dalle forme giuridiche. Il diritto è sistema di azione, oltre che sistema di sapere, e prevede regole secondarie. E soprattutto sgrava l'individuo da quelle pretese di carattere cognitivo, motivazionale ed organizzativo, particolarmente pesanti nel caso della moderna morale universalistica e deontologica. Infine, solo in diritto è in grado di regolare i sistemi d'azione formalmente organizzati come l'economia di mercato e l'amministrazione statale burocratizzata. Ed è solo attraverso il sistema giuridico cui resta agganciata che la morale può "irraggiarsi su tutti gli ambiti d'azione, dunque persino su quelle sfere d'interazione sistemicamente autonomizzate che - essendo controllate da media - sgravano gli attori da tutti i loro obblighi morali". J. Habermas, Faktizität und Geltung. Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaats, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1992 (trad. it. Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Milano, Guerini e associati, 1996, p. 143).

19. Se le "decisioni giuridiche discorsivamente fondate non possono essere 'giuste' nello stesso senso dei giudizi morali validi" (ivi, p. 276), per Habermas tuttavia "il diritto conserva forza legittimante solo finché può funzionare come una risorsa di giustizia. Come il potere politico si tiene a disposizione, quale risorsa di forza, i mezzi di costrizione acquartierati nelle caserme, così anche il diritto deve restare presente come risorsa di giustizia. Sennonché tale risorsa inaridisce quando il diritto viene totalmente e arbitrariamente messo a disposizione della ragion di Stato" (ivi, p. 173).

20. "Il diritto si colloca infatti tra un mondo di vita che si riproduce tramite agire comunicativo, da un lato, e quei sistemi funzionali della società formanti l'uno per l'altro degli ambienti esterni, dall'altro. La circolazione comunicativa del mondo di vita s'interrompe nei punti in cui s'incrocia con denaro e potere amministrativo. Come media, questi risultano sordi ai linguaggi formulati nel linguaggio ordinario. [...] Per poter essere tradotto nei codici speciali, esso [il linguaggio ordinario] resta dipendente da quel diritto che è in comunicazione con denaro e potere quali media di controllo. Il diritto funziona, diciamo così, da trasformatore: esso solo è in grado di garantire che non si spezzi la rete della comunicazione generale che tiene insieme tutta la società". Ivi, pp. 71-72.

21. Ivi, p. 33.

22. Ibidem.

23. Ivi, p. 90.

24. Ivi, p. 90.

25. Ivi, p. 105.

26. Nella ricostruzione marshalliana del processo di graduale inclusione delle classi e dei ceti nella cittadinanza come effetto di un progresso della mentalità egualitaria Habermas critica una sostanziale indifferenza all'aumento o alla perdita di autonomia, cioè "all'utilizzo effettivo di quello status attivo di cittadinanza che consente al singolo individuo di influenzare, modificandola, la propria posizione". Habermas fa notare come sia i diritti civili, sia i diritti sociali possano essere essere concessi 'paternalisticamente'. Per contro "solo i diritti politici di partecipazione attiva fondano la posizione giuridica riflessiva, autoreferenziale, del cittadino". Sono cioè diritti che permettono di ottenere altri diritti, mentre "Stato di diritto e Stato sociale sono immaginabili, in via di principio, senza democrazia". Ivi, pp. 97-98.

27. "Il diritto moderno sgrava gli individui dal peso delle pretese morali e trasferisce ogni pretesa normativa sulle leggi tutelanti libertà d'azione compatibili. Queste leggi traggono legittimità da una procedura legislativa poggiante, da parte sua, sul principio della sovranità popolare. La nascita paradossale della legittimità dalla legalità dev'essere spiegata ricorrendo ai diritti che assicurano ai cittadini l'esercizio dell'autonomia politica". Ivi, pp. 104-05.

Allo stesso risultato si giunge anche attraverso un'analisi dell'evoluzione delle norme morali. Con il sorgere della modernità si disgrega l''eticità sostanziale' tipica delle società tradizionali, nella quale si intrecciavano il diritto tradizionale e l'etica convenzionale. A questo livello il giusnaturalismo rifletteva un ethos sociale nel quale le strutture normative di eticità, politica e diritto si corrispondevano. In questo processo di disgregazione si autonomizzano rispettivamente il diritto positivo e la morale post-convenzionale. I processi di socializzazione e le tradizioni culturali sono messi in questione, e all'interno della ragion pratica si produce una specializzazione fra problemi 'etici' e problemi 'morali'.

A loro volta, etica e morale si trasformano. Nell'etica si tende a superare l'imitazione di modelli raccomandati, l'adempimento di direttive esemplari per la vita virtuosa. Al loro posto "si fa strada l'esigenza astratta di un'appropriazione consapevole e autocritica, vale a dire l'esigenza di assumere responsabilmente la propria personale storia di vita in tutta la sua insostituibilità e contingenza" (ivi, p. 119), affidata alla decisione esistenziale. Un processo analogo investe le norme della vita associata. Per giustificare le norme e le regole d'azione non è più sufficiente il riferimento alla tradizione. Cresce "un fabbisogno di giustificazione che, nelle condizioni del pensiero post-metafisico, solo i discorsi morali possono coprire" (ivi, p. 120). Ma mentre le riflessioni etiche sono orientate al fine di ciò che può valere come vita buona per l'individuo o per il gruppo, "le riflessioni morali esigono ci si distacchi da ogni prospettiva egocentrica o etnocentrica". In questa nuova condizione "gli orientamenti pratici diventano in ultima istanza ricavabili soltanto tramite argomentazioni" (ivi, p. 121). E anche il diritto finisce sotto pressione; ad esso vengono sempre più "accollate funzioni integrative per la società nel suo complesso". Ma perché questo sia possibile "Le ragioni di legittimità del diritto dovranno allora accordarsi - pena l'insorgere di dissonanza cognitive - con i principi morali della giustizia e della solidarietà universali, non meno che con i principi etici di una condotta di vita (sia individuale sia collettiva) coscientemente progettata e responsabile" (ivi, p. 122).

28. Ivi, p. 122.

29. Habermas ricostruisce la tradizionale tensione fra tradizione repubblicana e tradizione liberale, fra 'libertà degli antichi' e 'libertà dei moderni' in questi termini: "In base alla prima posizione, i diritti umani avrebbero ottenuto legittimità in quanto risultatanti dall'autocomprensione etica e dall'autodeterminazione sovrana di una comunità politica; nella seconda, invece, avrebbero dovuto costituire un limite, già in sé provvisto di una propria legittimità, il quale vieta alla volontà sovrana del popolo di intromettersi nelle intangibili sfere della libertà soggettiva"J. Habermas, "Legittimazione in forza dei diritti umani", Fenomenologia e società, 1997, n. 2, pp. 5-6.

Il tentativo di collegare diritti umani e sovranità popolare è stato già intrapreso da Rousseau e da Kant, ma senza successo. Per Haberams, invece, la teoria del discorso è in grado di argomentare che "il richiesto nesso interno tra sovranità popolare e diritti umani consisterà nel fatto che il 'sistema dei diritti' definisce precisamente le condizioni per cui le forme di comunicazione necessarie a una produzione giuridica legittima possono essere anche esse giuridicamente istituzionalizzate" (J. Habermas, Faktizität und Geltung, cit., p, 128). Ma l'autonomia civica deve essere stabilizzata. E questo non può essere fatto che dall'apparato statale. Il quale, a sua volta, con il disincantamento, la secolarizzazione e il superamento della metafisica, presenta un deficit di legittimazione. Che può essere colmato solo se lo Stato si organizza nelle forme del diritto, garantisce i diritti individuali e risponde alle procedure democratiche.

Sono questi nessi fra diritto, potere politico e sovranità popolare a costituire la nozione habermasiana di 'Stato (democratico) di diritto'. I "diritti individuali possono essere prodotti e imposti soltanto da organizzazioni che assumono decisioni vincolanti per tutti". D'altra parte "questa obbligatorietà per tutti delle decisioni risale proprio alla forma giuridica che le riveste" (ivi, p. 160). Solo lo Stato, dotato del monopolio della forza, può garantire l'effettività dei diritti di libertà, ed è solo l'appartato giudiziario impersonale che garantisce i diritti alla tutela giurisdizionale; d'altra parte, i diritti politici richiedono l'istituzionalizzazione delle procedure democratiche. Ma queste sostanziali concessioni all'impostazione giuspositivistica (ed anche all'idea di una contestualizzazione storico-geografica dei diritti) non implicano per Habermas che si debba accettare il nesso 'troppo immediato' fra diritti e potere organizzato, l'idea dei diritto soggettivi come autolimitazione del potere dello stato tipica della teoria tedesca del Rechtsstaat. Per Habermas, infatti, l'idea dello Stato di diritto pretende che le decisioni vincolanti debbano assumere forma giuridica nel quadro d'un diritto legittimamente prodotto: a legittimare non è sufficiente la forma politica come tale. "E al livello post-tradizionale di giustificazione vale come legittimo solo il diritto che, in una formazione discorsiva dell'opinione e della volontà, potrebbe essere razionalmente accettato da tutti i consociati giuridici" (ivi, p. 162)

30. Cfr. J. Habermas, "Wahrheitstheorien", in Vorstudien und Ergänzungen zur Theorie des komminikatives Handelns, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1984.

31. Ivi, p. 27.

32. "Anche le offerte più effimere di atto linguistico [..] rinviano sempre a ragioni potenziali, dunque a quell'uditorio idealmente allargato dell'illimitata comunità interpretativa, cui tali ragioni dovranno apparire perspicue per poter essere giustificate ovvero razionalmente accettabili". Ivi, p. 28.

33. Ivi, p. 131.

34. Si tratta di un metaprincipio, neutrale rispetto alla differenziazione fra morale e diritto, e dunque posto ad un superiore livello di astrazione rispetto al principio 'U' della Diskursethik del 1983. Esso affermava che una norma morale è 'valida', 'equa' o 'imparziale' quando "Tutti possono accettare liberamente quelle conseguenze e quegli effetti secondari che si pretendono derivare, per la soddisfazione degli interessi di ciascun singolo individuo, da un'osservanza universale della norma discussa". J. Habermas, Moralbewusstsein und kommunikatives Handeln, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1983 (trad. it. Etica del discorso, Roma-Bari, Laterza, 1985, p. 103).

35. "Nelle questioni morali, dove si tratta di fondare regole rispondenti all'eguale interesse di tutti, il sistema di riferimento è costituito dall'umanità, ovvero da una presupposta repubblica di cittadini cosmopolitici. Decisive sono le ragioni che devono poter essere accettate, in linea di principio, da ciascun individuo. Nelle questioni etico-politiche, dove si tratta di fondare regole che esprimano un consapevole auto-comprensione collettiva, il sistema di riferimento è costituito dalla forma di vita della collettività politica assunta come 'la nostra'. Decisive sono le ragioni accettabili da tutti coloro che appartengono alle 'nostre' tradizioni e ne condividono i valori di fondo. I contrasti d'interesse, infine, hanno bisogno di una razionale bilanciamento tra atteggiamenti di valore e posizioni d'interesse che sono tra loro in conflitto. In questo caso si tratta di negoziare compromessi, e sarà l'insieme dei gruppi sociali e subculturali direttamente coinvolti a costituire il sistema di riferimento. Nella misura in cui si realizzano sotto eque condizioni di trattativa, tali compromessi dovranno poter essere accettati in linea di principio da tutte le parti in causa, eventualmente anche per ragioni di tipo diverso". J. Habermas, Faktizität und Geltung, trad. it. cit., pp. 132-33.

36. Ivi, p. 134.

37. Ivi, p. 135.

38. Ivi, p. 144.

39. J. Habermas, "Legittimazione in forza dei diritti umani", cit., p. 4.

40. J. Habermas, Faktizität und Geltung, trad. it. cit., p. 147.

41. Questo principio è per Habermas direttamente applicabile ai 'discorsi' finalizzati all'intesa reciproca, ma anche alle 'trattative': è vero che in esse si ricerca un accomodamanto degli interessi, ma la loro equità "dipende a sua volta dalla procedura, discorsivamente fondata, per raggiungere tali compromessi". E dunque questo è il criterio di razionalità che ispira le procedure democratiche.

42. J. Habermas, "Legittimazione in forza dei diritti umani", cit., p. 6

43. I cittadini "partecipano alla legislazione solo in quanto soggetti giuridici; non sono quindi in grado di decidere quale linguaggio usare. Il codice diritto, in quanto tale, deve dunque essere già disponibile, prima che i presupposti comunicativi di una formazione discorsiva della volontà possano venire istituzionalizzati sotto forma di diritti dei membri della società. Per la creazione del codice diritto è comunque indispensabile che si produca lo status di persona giuridica, la quale, in quanto portatrice di diritti soggettivi, fa parte di una volontaria associazione di consociati giuridici e può, nel caso, far valere efficacemente le proprie pretese giuridiche. Non si dà diritto senza l'autonomia privata delle persone giuridiche in quanto tali. Dunque, senza i classici diritti di libertà e, in particolare, senza il fondamentale diritto a una pari libertà soggettiva di azione, non esiterebbe neppure il medium per la istituzionalizzazione giuridica di quelle condizioni che consentono la partecipazione dei membri della società alla prassi di autodeterminazione". Ivi, p. 7.

44. J. Habermas, Faktizität und Geltung, trad. it. cit., p. 148.

45. Ivi, p. 149.

46. Ivi, p. 150.

47. "Queste restrizioni nel tempo storico e nello spazio sociale sono già conseguenza del fatto che i soggetti giuridici trasferiscono i loro poteri coercitivi a un'istanza che monopolizza gli strumenti della legittima coercizione, applicandoli all'occorrenza in vece loro. Così ogni monopolio di potere esistente in terra - si trattasse pure di un governo mondiale - resta sempre una grandezza finita, destinata ad essere 'provinciale' rispetto al futuro ed allo spazio cosmico. L'istituzione d'un codice giuridico ha quindi bisogno di diritti regolanti l'appartenenza dei consociati ad un'associazione determinata, consentendo così di distinguere tra membri e non-membri, cittadini e stranieri" Ivi, p. 150.

48. Si è quasi costretti ad intervenire in senso universalistico, per ricordare che le costituzioni contemporanee riconoscono determinati diritti a 'tutti', a prescindere dall'appartenenza nazionale (v. ad es. il diritto alla salute in Cost. it.), e che il diritto privato, dall'istituzione del pretore peregrino in pi, attribuisce diritti anche allo straniero. Ma ciò che conta è che questa titolarità viene comunque attribuita da una comunità giuridica determinata, che utilizza un codice giuridico ed è dotata di poteri coercitivi.

49. "Né la sfera dell'autonomia politica dei cittadini viene preventivamente ristretta da diritti naturali o morali che aspettino solo d'essere messi in vigore, né l'autonomia privata del singolo individuo diventa strumentalizzabile agli obiettivi della sovranità popolare. Due cose soltanto la prassi di autodeterminazione dei cittadini si trova come prefissate: il principio del discorso da un lato (principio che già appartiene in generale alle condizioni della socializzazione comunicativa] e il medium giuridico dall'altro. Se, tramite pari diritti comunicativi e partecipativi, noi vogliamo implementare nelle procedure legislative il principio di discorso come principio democratico, allora non possiamo far altro che servirci del medium giuridico". Ivi, p. 154.

50. Ivi, p. 155.

51. Ivi, p. 155.

52. "Il procedimento democratico è infatti dominato da principi universali di giustizia che sono egualmente costitutivi di ogni cittadinanza. [...] Ciò che in ultima istanza associa i consociati giuridici è il vincolo linguistico che tiene insieme ogni comunità di comunicazione". Ivi, p. 363.

53. "La ricostruzione - sempre fallibile ed eventualmente anche falsa - non tocca il sapere stesso già da sempre funzionante [fungierend]. Possiamo perciò ipotizzare la prassi argomentativa come il 'focus' in cui (almeno intuitivamente) s'incontrano i tentativi d'intesa dei partecipanti all'argomentazione, al di là dei loro diversi contesti. Infatti concetti come verità, razionalità, fondazione e consenso - per quanto interpretabili e adoperabili secondo criteri diversi - giocano lo stesso ruolo grammaticale in tutte le lingue e in tutte le comunità linguistiche. Ciò è in ogni caso vero per le società moderne, le quali - essendosi poste con diritto positivo, politica secolarizzata e morale di ragione su un livello post-convenzionale di fondazione - pretendono dai loro membri un atteggiamento riflessivo nei confronti delle tradizioni culturali di volta in volta ereditate". Ivi, p. 370.

54. Ivi, p. 388.

55. "Tutti i complessi istituzionali e organizzativi rappresentano, è vero, anche degli ordinamenti per la riduzione della complessità. Tuttavia, quando si presentano come istituzioni dello Stato di diritto, questi meccanismi hanno nello stesso tempo il senso riflessivo di misure di contro-direzione, misure cioè rivolte contro una complessità sociale che minaccia le presupposizioni normativamente sostantive dello Stato di diritto". Ivi, p. 389.

56. Ivi, p. 518.

57. "Certo questa concezione, così come quella dello Stato di diritto, conserva sempre un nucleo dogmatico: si tratta di quell'idea di autonomia per cui gli uomini agiscono da liberi soggetti solo quando obbediscono alle leggi che si danno a partire da conoscenze intersoggettivamente acquisite. Quest'idea non è 'dogmatica' in senso pregiudizievole. Essa esprime semplicemente una tensione di fattualità e validità che è data insieme al 'fatto' del costituirsi linguistico di certe forme di vita socio-culturali. Il che significa che per noi - che abbiamo sviluppato la nostra identità in una forma di vita siffatta - questa tensione resta ineludibile". Ivi, pp. 527-28.

58. A. Ferrara, "Democrazia e giustizia nelle libertà complesse: per una lettura di Habermas", Filosofia e questioni pubbliche, II (1996), 1, p. 72.

59. Cfr. D. Rasmussen, Reading Habermas, Oxford, Basil Blackwell, 1990 (trad. it.Napoli, Liguori,1993).

60. E se Habermas ha molti motivi per arricchire le nozioni weberiana e luhmanniana del potere con una considerazione dell'arendtiano potere comunicativo, ho l'impressione che la prassi comunicativa non solo non valga come una rappresentazione adeguata della politica reale (su questo Habermas sarebbe d'accordo) ma neppure sia il miglior modello ideale. L'elemento fronetico, decisionale, simbolico, intuitivo, strategico sembrano qualcosa di insito nell'agire politico, a diffeenza che nei processi comunicativi finalizzati all'intesa. Il buon politico - non necessariamente il Realpolitiker o il caudillo, anche il politico ispirato da alti convincimenti etici e morali - è capace di cogliere le tendenze in atto, di interpretare il senso degli eventi, di dare 'forma' agli eventi, di individuare le possibilità aperte nelle condizioni date, più che di ottimizzare la prassi comunicativa finalizzata all'intesa. Si potrebbe rivolgere anche ad Habermas la (giusta) accusa che egli rivolge a Rawls quando parla di 'impotenza del dover essere' e afferma che i modelli normativi devono trovare un qualche riscontro nella realtà effettuale.

61. Cfr. A. Ferrara, "Democrazia e giustizia nelle società complesse", cit., pp. 76-85.

62. Su questi temi rimando di nuovo a T. Pitch, "L'antropologia dei diriti umani", cit.

63. J. Habermas, "Legittimazione in forza dei diritti imani", cit., p. 8

64. Ivi, p. 9.

65. Ivi, pp. 9-10. Dunque, secondo Habermas, la riaffermazione della tradizione non ha possibilità di riuscita: "La questione non è se i diritti umani risultino conciliabili con le proprie tradizioni culturali, ma se le forme tramandate di integrazione politica e sociale debbano venir affermate di contro agli imperativi funzionali dello sviluppo economico, cui è ben difficile opporsi, oppure adattate a questi ultimi". D'altra parte questo non significa che le critiche all'interpretazione individualistica, di ascendenza lockiana, dei diritti umani, siano da rifiutare. E' solo nella comunità giuridica che si può costituire lo status di persona giuridica, portatrice di diritti soggettivi. "E' insostenibile l'assunto secondo cui l'individuo, preesistendo a qualsiasi socializzazione, sarebbe provvisto di diritti innati". Va piuttosto rilevata l'unità fra processi di individuazione e processi di socializzazione. E "l'integrità delle singole persone risulta tutelata solo se viene al contempo tutelato il libero accesso a quei rapporti intersoggettivi e alle tradizioni culturali entro cui esse possono salvaguardare la propria identità" (ivi, p. 10).

66. Ivi, p. 12.

67. "Il conflitto delle culture si svolge infatti nel quadro di una società planetaria, in cui gli attori collettivi, indipendentemente dalle loro tradizioni culturali, sono costretti a trovare bene o male un accordo sulle norme per la loro convivenza. In effetti, nella presente situazione internazionale, la difesa autarchica della propria cultura da influssi esterni non rappresenta più una opzione possibile. In ogni caso, il pluralismo delle visioni del mondo irrompe perfino all'interno di queste società; anche quando esse presentano una relativa omogeneità culturale. Infatti, anche qui, esistono minoranze intellettuali che tentano di trasformare le dominanti tradizioni dogmatiche, nella consapevolezza del fatto che le proprie verità vanno accordate con il sapere profano pubblicamente riconosciuto e difese contro le pretese di verità di altre religioni nell'accettazione di un medesimo universo discorsivo". Ivi, p. 13.

68. Cfr. R. Dahrendorf, Quadrare il cerchio, Roma-Bari, Laterza, 1996.

69. Nonostante la crescente interdipoendenza dei mercati, oggi i tre quarti degli investimenti produttivi avvengono nei paesi ricchi del Nord.

70. Cfr. A.M. Iacono, Tra individui e cose, Roma, Manifestolibri, 1995, pp. 95-110.

71. Cfr. L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno, cit., pp. 12-18.

72. James Tully, "Placing the 'Two Tretises'", in N. Phillipson, Q. Skinner, Political Discourse in Early Modern Britain, Cambridge, CUP, 1993, pp. 266-75.

73. Cfr. F. Belvisi, "Rights, world-society, and the crisis of legal universalism", Ratio Juris, 1996, 1, in part p. 64 e n.

74. T. Pitch, "L'antropologia dei diriti umani", cit., p. 195.

75. Cfr. G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, Einaudi, 1993.

76. M. Geuna, Il linguaggio del repubblicanesimo di Adam Ferguson, in E. Pii (a cura di), I linguaggi politici delle rivoluzioni in Europa, Firenze, Olschki, 1992, p. 156.

77. J. Hanermas, Faktizität und Geltung, trad. it. cit., p. 505. Cfr. A. Honneth, Kampf um Anerkennung, Frankfurt a. M. 1992.

78. R. Rorty, "Diritti umani, razionalità e sentemento", in S. Shute, S. Hurley (a cura di), I diritti umani. Oxford Amnesty Lectues 1993, trad. it. Milano, Garzanti, 1994, p. 132.

79. "Al di fuori della cerchia europea della cultura postilluministica, una cerchia di persone relativamente tranquille per quanto riguardava la loro sicurezza personale e fisica, e abituate da duecento anni a manipolare i loro reciproci sentimenti, la grande maggioranza deli uomini è semplicemente incapace di comprendere il motivo per cui l'appartenenza a una specie biologica dovrebbe essere sufficiente a garantire l'appartenenza a una comunità morale. Se acacde ciò, la causa non è da ricercare in un difetto di razionalità; causa tipica ne è semmai il fatto che queste persone vivono in un mondo dove sarebbe troppo rischioso, se non addirittura una pericolosa pazzia, lasciare che il proprio senso della comunità morale si estenda al di là della famiglia, del clan o della tribù di appartenenza". Ivi, pp. 141-42.

80. R. Rorty, "Giustizia come lealtà più ampia", Filosofia e questioni pubbliche, 1996, 1, pp. 63-64.