2005

Le promesse tradite della globalizzazione
Intervista a Joseph Stiglitz (*)

a cura di Chiara Pallanch

La diagnosi è nota: per milioni di persone la globalizzazione non ha funzionato, molti hanno visto peggiorare le proprie condizioni di vita, hanno perso il lavoro, il reddito, la sicurezza. Dal crollo di Wall Street, alla recessione economica degli Stati Uniti e alla guerra in Iraq, la crisi è evidente, ma anche prima c'è stata una sequenza pesante di avvenimenti gravi: dal 1997 l'instabilità economica ha governato l'economia internazionale con i casi dell'Argentina, del Brasile, della Corea, della Turchia e della Russia. Forte dell'esperienza maturata alla Casa Bianca, come capo del consiglieri economici durante l'amministrazione Clinton e presso la Banca Mondiale, come vicepresidente e responsabile per la ricerca, il premio nobel per l'economia, Joseph E. Stiglitz, in Italia all'università di Urbino per parlare della "La politica economica ai tempi della globalizzazione" riflette con Lo Straniero sul futuro "della globalizzazione e dei suoi oppositori", come recita il titolo del suo best seller, che, tradotto orami in venti lingue, ha conquistato il pubblico.

Professor Stiglitz, possiamo dire che la globalizzazione, ha tradito le sue promesse di prosperità e di stabilità economica?

Si, al contrario di quanto affermano i sostenitori della globalizzazione, soprattutto statunitensi, l'integrazione economica dei mercati, come è stata configurata fino ad ora negli accordi commerciali internazionali e nelle politiche delle istituzioni economiche internazionali, non solo non ha generato un benessere diffuso, ma spesso ha portato ad un aumento della povertà in molte parti del mondo, soprattutto a livello dei paesi sottosviluppati. Malgrado le ripetute promesse di ridurre la povertà, il numero effettivo di poveri è invece aumentato di dieci milioni negli ultimi decenni del XX secolo, e allo stesso tempo, il reddito mondiale complessivo è cresciuto in media del 2,5 per cento annuo. L'America Latina, ad esempio, ha visto negli ultimi decenni un peggioramento significativo del proprio quadro economico e sociale: il dislivello tra le classi sociali è aumentato in modo rilevante, con l'effetto che un numero sempre più crescente di categorie sociali si sta impoverendo. Le politiche decise dal FMI e da Washington hanno fallito e le critiche alla globalizzazione, nella maggior parte dei casi, si sono rivelate corrette. Se si vuole delineare un bilancio, si scopre che nell'ultimo decennio il mondo è stato caratterizzato da una elevata instabilità: forti crisi economiche con cadenza praticamente annuale sono diventate la regola e la stabilità economica è ormai una rarità. In questo quadro continuano ad esserci distorsioni spaventose in mercati che dovrebbero essere invece perfettamente efficienti, perché le regole economiche attuali riflettono e preservano l'interesse particolare dei paesi industrializzati. Prendiamo ad esempio l'agricoltura, su cui si basa l'economia della maggior parte dei paesi del sud del mondo. I paesi occidentali hanno spinto la liberalizzazione del commercio per i loro prodotti di esportazione, premendo i paesi poveri ad eliminare le proprie barriere commerciali, ma hanno mantenuto le proprie impedendo così ai paesi in via di sviluppo di esportare i loro prodotti agricoli, privandoli di fatto del reddito delle esportazioni di cui hanno invece disperatamente bisogno. In questo modo i primi hanno mantenuti i sussidi ai prodotti agricoli, mentre i secondi sono stati forzati ad aprire i loro mercati ai prodotti industriali: il risultato è che per una mucca negli Stati Uniti si stanziano 2 dollari al giorno, mentre gli agricoltori in Africa vivono sotto la soglia del dollaro al giorno. Il caso della produzione cotoniera è ancora più lampante: negli Stati Uniti i sussidi alla produzione di cotone (4 miliardi annui) superano addirittura il suo valore effettivo totale (3,5 miliardi annui) e per ottenere i sussidi è necessario produrre sempre più cotone, che ha come effetto di fare crollare il prezzo. I questo modo 25.000 coltivatori di cotone americani si arricchiscono mentre 10 milioni di coltivatori africani perdono reddito. L'ondata di proteste di Seattle ha rivelato proprio l'ingiustizia di regole commerciali che miravano a proteggere solo gli interessi specifici dei paesi industrializzati. Insomma bisogna considerare l'effetto della liberalizzazione e delle politiche imposte dal FMI sulla povertà, e cercare di correggere le dinamiche commerciali inique e sbilanciate.

Il suo libro ha sollevato un grande dibattito, ma è cambiato qualcosa nelle politiche del Fondo Monetario Internazionale?

Anche dietro le porte chiuse delle istituzioni economiche internazionali come il Fondo Monetario si inizia a intravedere un atteggiamento diverso. Recentemente è stato pubblicato, proprio sul sito del Fondo Monetario, uno studio di Kenneth Rogoff, responsabile delle politiche economiche, in cui viene riconosciuto che la liberalizzazione dei mercati dei capitali produce effetti negativi, sia sulla crescita economica che sulla stabilità economica dei paesi. Sono rimasto molto impressionato quando l'ho visto, poiché rappresentava un ripensamento senza precedenti nell'approccio tradizionale del Fondo monetario, da sempre basato sull'affermazione del fondamentalismo del mercato. Questa è stata per vent'anni il fondamento delle politiche economiche imposte dal FMI: l'ideologia del libero mercato, secondo cui i mercati funzionano perfettamente e che il libero scambio porti necessariamente ad un allocazione efficiente delle risorse, grazie alla mano invisibile, e che quindi sia necessario eliminare l'interferenza del governo sui mercati finanziari e dei capitali e togliere le barriere al commercio. Poco dopo la pubblicazione è arrivata la notizia che Rogoff ha lasciato il suo incarico al Fondo Monetario, come dire che chi critica poi viene buttato fuori. Malgrado avessi cercato di capire come sia stata possibile questa critica interna, ho concluso che probabilmente si è trattato di un fatto isolato. Ma, contemporaneamente, il settimanale britannico "the Economist" - il cantore della globalizzazione - ha sostenuto anch'esso che la liberalizzazione dei mercati dei capitali non solo non produce stabilità economica, ma che questa è addirittura controproducente. Anche l'establishment comincia a cambiare idea.

Allora la globalizzazione è finita?

È evidente che la globalizzazione, così come è stata praticata finora, non ha realizzato nulla di ciò che avrebbe dovuto. Sicuramente il processo di integrazione economica che è stato sostenuto fino ad oggi, non ha un futuro nella promozione dello sviluppo, ma, al contrario, continuerà a creare povertà e instabilità. Alla base del fallimento del Fondo Monetario e delle altre istituzioni economiche internazionali che governano la globalizzazione c'è il problema della governance, cioè il modo con cui sono organizzate. Le istituzioni non solo sono dominate dai paesi industrializzati più ricchi, ma le politiche che sostengono riflettono e proteggono gli interessi specifici di questi ultimi a scapito dei paesi in via di sviluppo. È arrivato il momento di cambiare le regole alla base dell'ordine economico internazionale e operare un ripensamento radicale del modo in cui la globalizzazione è stata gestita. Senza riforme la reazione violenta che è già cominciata si farà ancora più aspra e il malcontento nei confronti della globalizzazione non potrà che crescere.

Se la vecchia strada è finita, quali possono essere i nuovi percorsi?

Iniziamo dai protagonisti più importanti della globalizzazione: le istituzioni internazionali.

L'Organizzazione Mondiale del Commercio

In materia ambientale ad esempio, il Tribunale d'Appello dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, pronunciatosi nel caso Stati Uniti contro Tailandia, ha creato un precedente che ha delle potenzialità di applicazione proprio nella direzione di un cambiamento importante delle regole commerciali. Nel 2002 le pressioni dei movimenti ambientalisti spinsero l'amministrazione statunitense a sollevare una controversia commerciale in sede dell'OMC contro la Tailandia: le modalità di pesca dei gamberetti da parte tailandese metteva in pericolo la sopravvivenza delle tartarughe marine, che morivano a centinaia intrappolate nelle reti. I giudici della Corte d'Appello dell'OMC hanno ribaltato una precedente sentenza del Comitato per la soluzione delle controversie commerciali che aveva rigettato l'istanza statunitense. Risultato: la Tailandia è stata costretta a modificare la attività di pesca utilizzando reti particolari che salvaguardano le tartarughe. Considerando che il principio base tradizionale degli accordi commerciali internazionali era di ritenere qualsiasi restrizione alle attività produttive di un paese come illegittima, questa sentenza potrebbe avere delle conseguenze enormi. Nel caso Stati Uniti contro Tailandia per la prima volta è stato possibile criticare il processo di produzione di un bene, sulla base di considerazioni legate all'impatto ambientale della sua produzione. Ma questo principio potrebbe essere utilizzato in molte direzioni diverse e le possibili applicazioni di questa decisione sono ancora largamente inesplorate: sulla base di questo principio potrebbe diventare legittimo ad esempio porre delle restrizioni commerciali alle importazioni di beni, in base alle loro modalità di produzione. In questa prospettiva ad esempio l'Unione Europea potrebbe usare questo meccanismo per porre delle restrizioni commerciali alle importazioni di beni statunitensi, che vengono prodotti con tecnologie inefficienti da un punto di vista energetico. Questo sarebbe uno strumento per costringere gli Stati Uniti ad applicare il Protocollo di Kyoto usando le politiche commerciali.

Rallentata la globalizzazione, può tornare un ruolo importante dei governi nazionali e delle loro politiche economiche?

Innanzi tutto i governi nazionali possono riprendere il controllo delle istituzioni internazionali in cui sono rappresentati. C'è un'esigenza di cambiamento degli orientamenti, di maggior trasparenza e di apertura alla società civile di cui i governi nazionali più avanzati possono farsi portatori.

Per prima cosa è necessario fare pressione per rendere le istituzioni economiche internazionali più sensibili alle tematiche politiche e sociali d'interesse per la società civile, costringendole a operare con maggiore apertura e trasparenza. Ad esempio, i governi europei dovrebbero insistere affinché il FMI inizi ad agire come un'istituzione pubblica, quale dovrebbe essere. Si potrebbe iniziare dal rendere pubblici i documenti dell'operato del FMI. Questo romperebbe l'aura di segretezza che avvolge le dinamiche di questa istituzione poco trasparente e poco democratica e iniziando di riflesso a trasformarla in un'istituzione pubblica. Naturalmente le difficoltà non sono poche, dal momento che non tutti i governi sono disposti a farlo: per molti paesi in via di sviluppo, in particolare, i rappresentanti politici vogliono evitare la trasparenza sulla propria politica economica per sottrarsi alle critiche e alle reazioni della società civile. Questo è facilmente comprensibile: l'accessibilità da parte della società civile ai documenti del FMI darebbe inizio ad un dibattito aperto e informato sulle azioni di questa istituzione internazionale e, allo stesso tempo, permetterebbe ai cittadini di valutare meglio il comportamento dei propri rappresentanti politici di fronte alle scelte economiche dei governi. Se in molti paesi si aprisse lo spazio per discussioni pubbliche di questo tipo, la società civile conquisterebbe una voce di critica concreta rispetto alla politica economica del proprio governo, e indirettamente un'influenza indiretta rilevante rispetto alle istituzioni economiche internazionali.

Un secondo modo con cui i governi possono influenzare il Fondo monetario internazionale è quello di premere affinché i suoi economisti, ogni volta che "propongono" un intervento economico ad un paese, includano nelle loro previsioni le conseguenze economiche sulla povertà e sulla occupazione delle loro raccomandazioni. Se il FMI fosse infatti obbligato a rivelare ai governi i prevedibili effetti sociali dei programmi che adotteranno, allora sarebbe costretto a prestare maggior attenzione a questi temi. Questo perché le misure economiche adottate non dovrebbero essere basate su fattori strettamente economici, ma anche su quelli sociali: la globalizzazione deve necessariamente assumere un volto più umano dove fattori come la disoccupazione, l'istruzione e la salute abbiano un ruolo rilevante nelle scelte economiche.

Che dire dell'Europa?

Per collocazione geografica, e soprattutto per tradizione storica i paesi europei possiedono sensibilità e consapevolezza sui temi sociali e dello sviluppo di gran lunga superiori rispetto agli Stati Uniti. Il passato coloniale e la vicinanza all'Africa hanno dato all'Europa una natura molto più internazionalista degli Stati Uniti, famosi al contrario per il loro isolazionismo e unilateralismo. Per queste ragioni l'Unione Europea potrebbe agire in modo molto incisivo all'interno delle istituzioni internazionali nella direzione di una riequilibrio delle regole commerciali, che sia più bilanciato rispetto alle esigenze dei paesi in via di sviluppo. Nel caso, ad esempio del Fondo Monetario, se si creasse un'alleanza strategica tra i paesi europei e i paesi in via di sviluppo, si otterrebbe una efficace forza di opposizione agli Stati Uniti, che per peso relativo sono ancora l'unico stato ad avere un potere di veto interno.

L'Europa può giocare un ruolo chiave soprattutto nel ridimensionare il potere del FMI rispetto alla Banca Mondiale: puntando a togliere ai prestiti della Banca Mondiale la condizione dell'approvazione del Fondo, annullerebbe uno dei principali strumenti a sua disposizione per imporre le proprie decisioni. In questo modo le due istituzioni potrebbero proporre ai paesi soluzioni alternative ai problemi posti dallo sviluppo e dalle transizioni, migliorando la risposta alle crisi economiche. Non si ripeterebbero ad esempio situazioni come dell'Argentina, dove gli aiuti finanziari della Banca Mondiale sono stati bloccati a causa dell'opposizione del Fondo Monetario.

Naturalmente i primi a denunciare i problemi della globalizzazione neoliberista sono stati i movimenti globali che da Seattle a Genova a Porto Alegre hanno criticato gli effetti perversi delle politiche economiche e i meccanismi iniqui del commercio internazionale. Che effetti hanno avuto sul dibattito? Quali strumenti hanno a disposizione i movimenti per cambiare effettivamente le cose?

L'ondata di proteste iniziate a Seattle contro l'imposizione di accordi commerciali ingiusti ha generato un aumento di consapevolezza ed ha aperto la strada ad un processo di riconoscimento dei disastri generati dalle politiche del FMI. Il progressivo riconoscimento di queste ingiustizie, insieme alla risolutezza di alcuni paesi in via di sviluppo, hanno fatto sì che all'ordine del giorno del development round di Doha fosse inserita la correzione di alcuni squilibri del passato. Ma la strada da percorrere è ancora molto lunga, non è sufficiente infatti cambiare l'ordine del giorno dei forum internazionali, perché i cambiamenti significativi avvengono solo se gli stati trovano un accordo concreto sulle questioni in discussione. E questa è la parte più delicata e difficile.

Malgrado questo, la società civile può comunque giocare un ruolo di rilievo nella ridefinizione dei processi della globalizzazione. La pressione delle critiche dei movimenti dal 1999 in avanti è servita principalmente ad indebolire la credibilità del FMI a livello internazionale e lo ha costretto a mettere dei limiti ai suoi interventi. Le pesanti obiezioni sollevate sull'inefficienza delle raccomandazioni del Fondo Monetario, lo hanno costretto ad esempio ad abbandonare la linea dura con il governo argentino e a scendere a compromessi, pur di evitare l'imbarazzo di apparire come incompetente. Nonostante l'opposizione iniziale il Fondo ha acconsentito infatti a ripristinare i flussi creditizi verso il paese. La cosa peggiore che possa accadere ad un organismo internazionale come il FMI è che i paesi lo considerino irrilevante, e questo è stato un punto che ha giocato molto a favore del governo argentino.

Oggi la società civile può frenare gli abusi del passato. La sua forza è illustrata molto bene anche da un altro caso: la questione della cancellazione del debito ai paesi in via di sviluppo. Il Movimento della società civile "Giubileo 2000" ha creato una forte mobilitazione internazionale per l'eliminazione del debito pubblico dei paesi poveri ed è riuscito a far impegnare molti paesi su questo fronte. Personalmente rimango ottimista sul futuro e credo che i movimenti della società civile abbiamo potenzialmente la capacità di indirizzare la globalizzazione e trasformarla in una forza finalizzata al benessere collettivo.


*. Da Lo Straniero, luglio 2003.