2005

La prossima crisi mondiale del petrolio

Angelo Baracca

Il N. 96 di Guerre e Pace (febbraio 2003) si è occupato ampiamente del problema delle risorse e delle forniture petrolifere, in riferimento alla crisi irachena: tuttavia, a giudizio di chi scrive, l'impostazione è ancora carente, e non fornisce tutti i criteri necessari per rendersi conto della dimensione e dell'urgenza del problema (indubbiamente complesso). Il punto di vista più diffuso nell'opinione pubblica, infatti - che si è affermato nei decenni passati ad opera soprattutto delle multinazionali del settore, supportate come sempre dal servile allineamento degli organi di (dis)informazione - centra l'attenzione sul conteggio delle riserve di petrolio e di gas naturale esistenti nel mondo, quelle accertate, quelle probabili e quelle possibili (e soprattutto sulle due ultime categorie sono possibili molte mistificazioni), e conclude che esse saranno sufficienti per molti decenni. Questa sembra essere l'interpretazione anche della Monthly Review ("Usa, ambizioni imperiali", G&P, n.96, pp. 5-8) e di Middle East Report ("All'ombra della guerra", G&P, n. 96, pp. 11-13), che insistono appunto sul controllo delle riserve, la sicurezza energetica, l'egemonia petrolifera e la "presenza militare avanzata" degli Usa: la domanda di petrolio crescerà, e vanno difesi strenuamente gli interessi delle multinazionali a guida statunitense. In questo quadro, il petrolio sarebbe quindi "l'affare del futuro" (Gustavo Castro Soto, "La lotta per le risorse", G&P, n.96, pp. 29-32). Ci sembra francamente un'interpretazione per lo meno parziale, e riduttiva: per garantirsi questa egemonia nel futuro si spenderebbero 100, o forse 200 miliardi di $ per occupare l'Iraq.

In realtà si sta facendo strada da molto tempo un'impostazione molto diversa del problema, ripresa ormai anche da autorevoli organi quali Scientific American, Science, Nature, la International Energy Agency al G8 di Mosca del 1998, ma singolarmente assente su tutti gli organi di (dis)informazione nostrani: il che non stupisce. Purtroppo si registra un certo ritardo della nostra "sinistra" nel recepire un tema che potrebbe avere una rilevanza epocale nel determinare il futuro della società industrializzata ed i rapporti e le strategie mondiali: secondo questa impostazione, infatti, il problema del petrolio e del gas naturale sarebbe ben più drammatico e, letteralmente, catastrofico.

Il "picco del petrolio" è prossimo

Questo punto di vista non si basa sul conteggio delle riserve, ma sull'andamento con il tempo del ritmo di estrazione, cioè del numero di barili di petrolio (con questo termine ci riferiremo anche al gas naturale) che si possono estrarre annualmente: la "crisi del petrolio" diviene assai più drammatica e vicina. Quest'analisi risale a quasi mezzo secolo fa, quando il geologo statunitense M. K. Hubbert, ricercatore della Shell, nel 1956 predisse che il ritmo di estrazione nell'area petrolifera denominata US-48 (il territorio degli USA escluse l'Alaska e le Hawaii), che era in continua crescita, avrebbe raggiunto un massimo nel 1970 e poi avrebbe cominciato a diminuire rapidamente ed inesorabilmente. Hubbert venne deriso, ma questo picco si verificò realmente nel 1971 (fig. 1): si vede bene che l'estrazione di petrolio all'interno degli Usa sta precipitando e che tra pochi anni il paese dipenderà totalmente dalle importazioni.

L'estensione dell'analisi di Hubbert al petrolio e al gas naturale esistenti sul pianeta porta appunto alle conseguenze drammatiche che dicevamo. Tale analisi si fonda sul fatto che, quando si sfrutta un pozzo, o un giacimento, o un'area petrolifera, all'inizio il tasso di estrazione aumenta rapidamente, ma raggiunge un massimo quando la consistenza del giacimento si riduce circa alla metà, e poi incomincia a diminuire rapidamente (fig. 2): questo dipende dal fatto molto semplice che inizialmente si estrae il petrolio più superficiale e abbondante, con minore apporto di mezzi tecnici complessi e di energia, ma poi rimane via via il petrolio sempre più difficile da estrarre, la sua estrazione è più costosa, e richiede sempre più mezzi tecnici e più energia. Quest'ultimo fattore diviene alla fine cruciale, poiché si raggiunge un limite - quando il giacimento contiene ancora tra il 20 e il 40 % della sua riserva - in cui l'energia necessaria per estrarre il petrolio è maggiore dell'energia che questo contiene: a questo punto, chiaramente, non conviene più estrarre il petrolio, anche se lo si vendesse a mille dollari il barile! È necessario sottolineare che questo andamento è stato puntualmente verificato per i giacimenti di petrolio e di gas naturale conosciuti e sfruttati da un tempo sufficiente.

Questa analisi è stata estesa a tutte le riserve mondiali ed è stata condotta tenendo conto di tutti i fattori. Per esempio, si parla spesso dei depositi di petrolio che rimangono da scoprire: ma il ritmo delle scoperte di nuovi giacimenti petroliferi ha raggiunto il massimo nel lontano 1965, di gas naturale poco dopo, poi entrambi sono rapidamente diminuiti, ed il saldo rispetto ai consumi è diventato negativo e crescente dal 1980 per il petrolio e dal 1990 per il gas (fig. 3: si noti che è difficile ormai aspettarsi in questo senso dei "miracoli", visti i mezzi tecnici e scientifici che sono stati utilizzati a questo fine); e lo scarto tra il petrolio nuovo che viene scoperto e quello che viene consumato, che era inizialmente positivo, è divenuto stabilmente negativo ed aumenta inesorabilmente.

La prossima fine dell'"economia del petrolio"

Bene, la conclusione di questa analisi è agghiacciante. Tenendo conto di tutte le riserve mondiali, analizzando separatamente con il metodo di Hubbert tutte le aree petrolifere del pianeta, la loro natura e le loro prospettive future, la conclusione è che il ritmo di estrazione del petrolio raggiungerà un massimo attorno alla fine del presente decennio, e poi incomincerà a diminuire (fig. 4): e verso il 2050 si ridurrà all'incirca alla metà di quello attuale! Per il gas naturale l'andamento è analogo, il picco di estrazione è semplicemente spostato in avanti di 10 - 20 anni (fig. 5), ma la diminuzione successiva è inesorabile (i). Un'obiezione che viene spesso sollevata è che vi sono ingenti giacimenti di "petrolio non convenzionale" (sabbie e scisti bituminosi. idrocarburi pesanti o in acque profonde), il cui sfruttamento però non solo è problematico dal punto di vista tecnologico, ma soprattutto, ancora una volta, per la resa energetica.

Quello a cui saremmo di fronte, allora, non sono tanto (o solo) giganteschi interessi, una lotta per la supremazia petrolifera, ma la sopravvivenza stessa delle società industriali, dell'"economia del petrolio". Si tenga presente che il grado di dipendenza di queste società dal petrolio si aggira sull'80 %. Il tutto è aggravato dal fatto che, come ricordano anche gli articoli citati di G&P, si prevede inoltre un enorme incremento della domanda mondiale di questi combustibili fossili: secondo l'ultimo "Annual Energy Outlook" del Dipartimento dell'Energia nordamericano, del 61 % nei prossimi 25 anni, quando invece si estrarrà già annualmente meno petrolio rispetto ad oggi.

Queste fosche prospettive sono state occultate con ogni mezzo dalle compagnie petrolifere, ma oggi la loro evidenza incomincia a fare inevitabilmente breccia: il 25 agosto del 2002 la Shell ha ammesso in una dichiarazione al Sunday Times che "Potremmo vedere scarsità di petrolio dal 2025".

Vi è poi un'ulteriore conclusione che complica il quadro e spiega l'importanza cruciale dell'area mediorientale. Infatti il tasso di estrazione del petrolio nei paesi non-OPEC (che fino ad oggi è stata superiore alla produzione dei paesi OPEC) è già arrivata al massimo in questi anni ed incomincerà a diminuire, per venire superata dalla produzione dei paesi OPEC intorno al 2007. Ricordiamo che all'OPEC (fondato nel 1960) aderiscono attualmente i seguenti paesi: Algeria, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran, Iraq, Kuwait, Libia, Nigeria, Qatar, Venezuela (Ecuador e Gabon ne sono usciti).

Fino all'ultima goccia

In questo quadro si capisce molto meglio la caparbietà degli Usa nel volere sferrare questa guerra, costasse anche mille miliardi di $, e ridisegnare la geografia politica e l'assetto del Medio Oriente. Non vi è dubbio che gli obiettivi di questa guerra, e di tutta la strategia messa in atto da Washington dopo il crollo dell'Urss con le colossali spese militari connesse, sono molteplici: l'esigenza di supremazia ed egemonia planetaria, le istanze e il ricatto del sistema militare-industriale, il sostegno dell'economia interna, l'indebolimento e la divisione dell'Europa (ii), lo sbarramento della Cina, l'emarginazione della Russia, i giganteschi e di solito taciuti interessi legati al mercato internazionale della droga, uno dei più grossi giri d'affari a livello mondiale (iii). Il problema delle forniture energetiche comunque diviene vitale, non solo per gestire gli enormi interessi futuri, ma per la stessa sopravvivenza di questo sistema: del resto, tutti questi obiettivi, lungi dall'essere in contraddizione, si integrano tra loro. Direi addirittura che George W. Bush, dal suo punto di vista, non può fare altro! Washington ha stracciato il Protocollo di Kyoto; ha stabilito che non vuole (o non può) rallentare la propria locomotiva davanti a nulla; che non ammette problema ambientale, umanitario, globale che possa anche lontanamente ostacolarla. L'America continuerà come ora, o peggio, costi quel che costi, a dispetto di tutto e di tutti: se sarà necessario, "Muoia Sansone e tutti i Filistei".

Ma tra poco non ci sarà petrolio per tutti, ed è vitale stabilire un'assoluta egemonia mondiale, occupare militarmente le regioni strategiche ed accaparrarsi tutto il petrolio che verrà estratto, fino all'ultima goccia. Su queste basi si inquadra tutta la politica di Washington degli anni '90: l'estensione della sua egemonia sul Caucaso e sulle repubbliche ex-sovietiche dell'Asia centrale (G. R. Capisani, "Uzbekistan a stelle e strisce" G&P, n. 86, p. 17; A. Lodovisi, "Povertà senza fine, G&P, n. 95, p.9) e l'occupazione del relativo corridoio dell'Afganistan (G. Monbiot, "Sognando un oleodotto", e F. Schlosser, "Alla conquista dell'eldorado petrolifero", G&P, n. 85, pp. 25, 26), perché l'obiettivo dopo l'Iraq sia l'Iran, la sua politica in America Latina, la sua penetrazione, anche se per ora più discreta, in Africa (C. Jampaglia, "L'Africa cambia", G&P, n. 91, p. 14).

Quello che proprio non si capisce, invece, è l'Europa: possibile che i nostri governanti non capiscano che non potranno stare all'infinito all'ombra, e al servizio del potente alleato di oggi, che quando sulla zattera non ci sarà più posto per tutti verranno buttati a mare senza tanti complimenti anche loro? Come suol dirsi, ... ci sono o ci fanno?

Siamo veramente nelle mani di un gruppo di ladri, furfanti, affaristi senza scrupoli che reggono i destini del mondo e dell'umanità. Perché "un mondo diverso sia possibile" è assolutamente necessario cambiare radicalmente, e al più presto, il modello di produzione e di consumi, i concetti di benessere e di sviluppo: l'"economia del petrolio" non è più sostenibile. Molti sarebbero i problemi connessi al "picco del petrolio" che dovrebbero essere affrontati (le alternative energetiche; le emissioni di CO2, soprattutto se aumenterà il ricorso al carbone; le concomitanti crisi ambientali), ma in questa sede ci premeva soprattutto porre il problema centrale in relazione alla crisi irachena e mediorientale.

Fonti

  • A Di Fazio, "Questioni strategico-militari, negoziati UN e problema energetico", in: Scienziate e Scienziato contro la Guerra, Contro le Nuove Guerre (a cura di M. Zucchetti), Odradek, 2000.
  • K. S. Deffeyes, Hubbert's Peak: The Impending World Oil Shortage, Princeton University Press, 2001.
  • C. A. Campbell e J. H. Laherre, "The end of cheap oil", Scientific American, marzo 1998, p. 78.
  • C. B. Hatfield, "Oil back on the global agenda", Nature, Vol. 387, 08.05.1997, p. 121.
  • R. A. Kerr, "The next oil crisis looms large, and perhaps close", Science, Vol. 281, p. 1128 (1998).
  • Relazione dell'International Energy Agency (ente tecnico-scientifico consultivo dell'OCSE) al G8 di Mosca del 1998.

Esistono molti siti Internet in cui si esamina questo problema ed aspetti correlati. L'ASPO (Association for the Study of Peak Oil) pubblica un aggiornamento mensile, con analisi specifiche delle diverse aree. Altri siti: Hubbert Peak of Oil Production; The Coming Global Oil Crisis. Autorevoli relazioni recenti: Oil & Gas Situation.


Note

i. Se qualcuno rimanesse scettico di fronte alle considerazioni precedenti, conclusioni analoghe si ottengono anche con ragionamenti più intuitivi, come il seguente. Attualmente il petrolio totale che rimane da scoprire si valuta attorno a 163 Gb (Giga-barile = un miliardo di barili) e fornisce un aumento annuo del tasso di estrazione di 6 Gb/anno; mentre le riserve totali certe e probabili si valutano attorno a 821 Gb e quelle possibili a 150 Gb, e forniscono insieme il tasso di estrazione attuale di 23 Gb/anno: le nuove scoperte non ricostituiscono quindi il petrolio che si estrae, per cui il ritmo di estrazione dovrà inevitabilmente diminuire.

ii. B. Cassen, "Un'Europa sempre meno europea", Le Monde Diplomatique, gennaio 2003. L'indebolimento dell'Europa è perseguito da Washington anche attraverso la Nato: D. Achcar, "La nato alla conquista dell'Est", ibidem.

iii. Un mercato che sembra sempre più saldamente nelle mani della Cia: il "plan Colombia" e il bombardamento dell'Afganistan hanno molto a che vedere con questo mercato (senza contare il suo rigoglioso proliferare nell'area balcanica dopo gli interventi militari del decennio passato). I giganteschi interessi legati al commercio dell'oppio si consolidarono nel secolo XIXº (non si scordi che l'eroina altro non è che il nome commerciale di un prodotto lanciato dalla Bayer nel 1898). Essi si concentrarono nelle mani degli Stati Uniti; furono poi gestiti dai servizi segreti francesi quando il paese controllava l'Indocina; durante la guerra del Vietnam passarono nelle mani della Cia, e furono una dei componenti fondamentali della successiva strategia di Washington in Laos e Cambogia. La contraddizione tra questi interessi e la "lotta alla droga" sono solo apparenti, giacché quest'ultima e gli enti ad essa preposti (come la Dea) hanno il solo scopo di eliminare la concorrenza.