2005

Stato competitivo e impresa (ir)responsabile (*)

Luciano Gallino

1. Nel luglio del 2001 la Commissione Europea (CE) ha pubblicato un Libro verde (LV) dal titolo "Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale dell'impresa" (acronimo internazionale CSR, per Corporate Social Responsibility). Il LV definisce la CSR come "l'integrazione su base volontaria dei problemi sociali e ambientali delle imprese nelle loro attività produttive e nella loro interazione con gli altri portatori di interesse (stakeholders). Essere socialmente responsabile significa non soltanto far fronte alle attese della legge, ma anche andare al di là del soddisfacimento degli obblighi e investire 'di più' nel capitale umano, nell'ambiente e nelle relazioni con i portatori di interessi. L'esperienza fatta con gli investimenti in tecnologie ambientalmente responsabili e buone pratiche d'affari suggeriscono che andare oltre gli obblighi legali può contribuire alla competitività di un'impresa". (1)

Il LV illustra la nozione di CSR distinguendo tra responsabilità interne all'impresa e responsabilità esterne ad essa. I temi interni riguardano la gestione delle risorse umane; la salute e la sicurezza sul lavoro; la gestione del mutamento organizzativo e tecnologico; la formazione continua per tutto l'arco della vita; nonché la gestione dell'impatto sull'ambiente e sulla risorse naturali delle attività produttive. Tra tali temi non figura, si può notare, l'impegno a pagare buoni salari. I temi esterni coprono vari aspetti dei rapporti tra l'impresa e la società nel suo insieme, incluse le comunità locali, i partners economici, i fornitori e i consumatori. Filo conduttore del suddetto LV è l'idea che le imprese hanno un interesse economico ad andare al di là dei requisiti minimi legali nel loro rapporto con gli "stakeholders", comprendenti tutti coloro che in modo diretto o indiretto sono toccati dalle attività dell'impresa; tuttavia, una volta resi evidenti i suoi vantaggi, l'esercizio della CSR come sopra definita non deve essere imposto. Un'istituzione come la CE può suggerire la convenienza a praticarla, ma la decisione di far fronte alle proprie responsabilità sociali deve essere lasciato al libero arbitrio della singola impresa.

2. Le sollecitazioni della CE contenute nel LV affinché le imprese europee si facessero maggiormente carico delle suddette responsabilità stava a indicare che la situazione di fatto era percepita, almeno da Bruxelles, come piuttosto lontana da quella auspicata. In effetti esistevano già all'epoca rilevazioni "sul campo" che mostravano come la "responsabilità sociale dell'impresa", concetto ch'era divenuto da tempo universalmente noto sotto la sigla CSR, fosse in gran numero di casi non molto di più di una dichiarazione d'intenti. Ad esempio, il preambolo di un dossier che riportava i risultati dei test in tema di CSR cui erano stati sottoposti 30 gruppi francesi recitava: "La responsabilità sociale delle imprese è alla moda, ma lo scarto tra i discorsi e la pratica è impressionante. La partecipazione dei dipendenti alle decisioni non progredisce affatto, la presenza delle donne nei posti direttivi è scheletrica, l'applicazione di norme sociali e ambientali resta marginale e il ricorso ai paradisi fiscali permane massiccio". (2)

Giudizi del genere non paiono idonei a confutare l'ipotesi che la CSR fosse un'espressione retorica largamente utilizzata dalle direzioni Comunicazione & Immagine delle corporations per sottolineare che essa giova agli affari. Si veda che cosa si leggeva nel rapporto della Enron Statement of Environmental, Health, and Safety Principles, presente in Internet ancora alcuni mesi dopo la bancarotta della medesima nel dicembre 2001: "i principi che guidano il nostro comportamento ... includono il rispetto, nel senso che noi vogliamo lavorare per promuovere il rispetto reciproco tra noi e le comunità ed i portatori di interessi che sono toccati dalle nostre attività; noi trattiamo gli altri come vorremmo essere trattati noi stessi". Come noto, i top managers che hanno firmato detto rapporto hanno intascato milioni di dollari qualche settimana prima del crollo della Enron, ben sapendo che sarebbe crollata, mentre decine di migliaia di dipendenti e di piccoli risparmiatori in tale crollo hanno perso il lavoro, i risparmi e il fondo pensione.

Al LV della CE va in effetti riconosciuta una certa capacità premonitrice. Poco più di un anno dopo la sua pubblicazione scoppiavano in Usa gli scandali Enron (energia), già ricordato, e subito dopo quelli di Worldcom, Qwest, Global Crossing (telecomunicazioni) e numerosi altri. Nell'estate del 2002 le società americane sotto inchiesta erano circa 160. In ambito Ue, pure nell'estate 2002, crollava in Francia il titolo Vivendi (un gigante delle comunicazioni nato dalla straordinaria trasmutazione di una vecchia società che si occupava di tutt'altro, la Société Générale des Eaux). Causa ne furono le acrobazie finanziarie del suo PDG. Un personaggio indicato di frequente, dalle sue iniziali, con la sigla M2M; il quale però ambiva definirsi modestamente come M6M: J.-M. Messier moi-même maître du monde. Quasi contemporaneamente si apriva in Olanda lo scandalo Ahold (gigante della grande distribuzione: un miliardo di euro inesistenti inseriti nella contabilità della sola divisione Usa). In Italia nell'autunno 2002 crollava la Cirio. Altri dodici mesi ed è arrivato il disastro Parmalat. Su una scala minore pare essere entrata nell'occhio del ciclone, a fine 2003, anche la Finmatica. In Germania vari dirigenti della Mannesmann sono al presente (febbraio 2004) sotto inchiesta in relazione alla cessione della medesima alla Vodafone, avvenuta qualche anno fa (da cui i giudici sospettano che abbiano tratto sostanziosi vantaggi personali).

3. Una simile sequenza internazionale di eventi catastrofici coinvolgenti grandi gruppi economici, eventi che hanno tutti una base finanziaria, non può essere casuale. Né appare imputabile a una mera carenza di controlli, per quanto questo fattore possa aver pesato. Una ipotesi meglio fondata scorge in essa gli effetti di una transizione decennale dal "capitalismo produttore" al "capitalismo predatore", per usare l'espressione di un ampio servizio di Der Spiegel dell'estate 2002. In termini un po' più analitici si può sostenere che detta sequenza sia da includere tra gli effetti perversi - nel senso di non essere né voluti né previsti - di un ritorno in forze del potere assoluto della proprietà nella direzione delle grandi imprese. Di fatto questa era la norma tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento. Ma per circa mezzo secolo, a partire dagli anni '30 del Novecento, il controllo operativo sulle corporations era passato nelle mani dei managers. La proprietà coglieva i frutti della loro attività ma non interveniva direttamente in essa, non possedendone la competenza. Dove per managers si intendono coloro - detti anche "dirigenti esecutivi": direttori generali, direttori di produzione, sovrintendenti agl'impianti, e i loro associati - che "si occupano del processo effettivo della produzione", quelli il cui compito consiste nell'"organizzare i materiali, gli arnesi, le macchine, gli impianti, l'attrezzatura e la mano d'opera in modo da produrre effettivamente" qualcosa. Così affermava uno scrittore politico americano, James Burnham, in un libro diventato presto notissimo, anche se non di alto livello scientifico, La rivoluzione manageriale apparso nel 1941. (3) Esso faceva seguito ad opere fondate su approfondite ricerche quali il classico di Berle e Means sul trasferimento del controllo delle corporations dalla proprietà ai dirigenti (4). Nel libro di Berle e Means. si affermava, ad esempio: "Il titolare della proprietà che investe in una moderna corporation cede la sua ricchezza a coloro che controllano la corporation nella misura in cui ha scambiato la posizione di proprietario indipendente per quella di uno che può diventare un mero percettore della remunerazione del capitale". (5) Una generazione dopo Burnham, sono arrivate le dettagliate analisi di J. K. Galbraith in merito a quello che egli considerava un nuovo genere di "stato industriale": "Negli ultimi trent'anni si è avuta una continua accumulazione di prove dello spostamento di potere dai proprietari ai dirigenti, all'interno delle grandi società per azioni. Il potere degli azionisti ... è apparso sempre più tenue." Il gruppo di dirigenti che gestisce l'impresa "sebbene la partecipazione azionaria dei suoi membri sia di solito trascurabile, detiene saldamente il controllo dell'impresa. Secondo ogni evidenza, sono i dirigenti ad avere il potere". (6)

4. Pochi potrebbero oggi sostenere che una simile descrizione corrisponda ancora alla realtà. E' nuovamente la proprietà che governa l'impresa. S'intende con ciò il ritorno al potere, in senso stretto la ripresa del controllo diretto sulla gestione dell'impresa da parte dei proprietari, definiti come coloro che posseggono una quota di azioni di una società sufficiente per incidere significativamente o anzi determinare il comportamento dei dirigenti esecutivi, anche là dove tale quota non costituisca la maggioranza. Il ritorno al potere diretto dei proprietari ha avuto inizio negli anni '70, con una rapida accelerazione nel decennio successivo. Venne sospinto da fattori economici, in primo luogo la caduta dei tassi di profitto. Nei due decenni successivi alla guerra l'intensità del capitale nella produzione era continuamente salita, ma la produttività del lavoro che nel contempo era cresciuta in misura più che proporzionale l'aveva sovra-compensata. Con gli anni '70 il processo si inverte, dando origine a un aumento della composizione organica del capitale (l'accrescimento progressivo della parte costante del capitale a spese della sua parte variabile). Causa ne fu il maggior impiego di tecnologie nel processo produttivo, accompagnantesi al rallentamento o alla stasi della produttività del lavoro. (7) Di conseguenza, secondo dati Ocse, la produttività del capitale diminuì sensibilmente e con essa il tasso di profitto. Si stima che tra il 1968 e il 1980 esso si dimezzò, scendendo dal 21% in media al 10%. (8) Dalla riduzione del tasso di profitto conseguibile con la tradizionale attività produttiva derivò la volontà dei proprietari di esercitare un maggior controllo sulle imprese al fine di recuperare il terreno perduto. Essa indusse anche un crescente volume di capitali a circolare senza posa nel mondo, facilitati dallo sviluppo delle tecnologie di comunicazione, in cerca di occasioni di investimento più redditizie, quale che fosse la forma dell'investimento.

Al rafforzamento del potere della proprietà sulla condotta delle imprese contribuì indubbiamente anche un fattore politico: il crollo dell'avversario storico, l'URSS, la cui temibile presenza aveva indotto le imprese capitalistiche a concedere molto, nei trent'anni dopo la fine della II Guerra mondiale, al movimento social-democratico e ai sindacati in termini di diritto del lavoro, di stato sociale e di retribuzioni. Scomparso l'avversario, la quota dei profitti che erano stati destinati a innovazioni sociali rivolte a soddisfare le istanze delle forze di lavoro apparve eccessiva e fu, per così dire, riportata a casa. A rendere possibile un rapido rientro della quota dei profitti sul Pil concorse anche una maggior flessibilità del lavoro, il blocco prolungato dei salari reali - particolarmente accentuato in Italia - così come i piani di riforma del sistema previdenziale frettolosamente introdotti in vari paesi Ue negli anni '90.

5. Il ritorno al potere della proprietà ha coinciso con una profonda trasformazione del ruolo e della composizione della classe dei grandi proprietari. Tale trasformazione non è avvenuta nel senso che il monolitico capitalismo familiare sia quasi completamente scomparso per essere sostituito da altri soggetti diffusi - affermazione sovente ripetuta, parrebbe, senza guardare ai dati. In Usa, ad esempio, la maggioranza assoluta o relativa del capitale di grandi società quali Microsoft, Ely Lilly & Co, Wal-Mart Stores, Hewlett-Packard è tuttora detenuta dalle famiglie fondatrici o dai loro discendenti. Uno dei maggiori gruppi economici francesi, la Michelin, è pur sempre saldamente sotto il controllo, tramite una quota azionaria del 30%, della famiglia omonima che la fondò nel 1863. Gran parte delle aziende quotate in borsa in Austria, in Germania, in Italia - dove sarà superfluo ricordare i casi Fiat, Benetton, Ferrero, e perché no Parmalat - sono controllate da un singolo pacchetto di azioni che comanda un blocco maggioritario di voti. Le famiglie posseggono il 45% dei pacchetti di azioni (e di voto) in Austria, il 32% in Germania e il 30% in Italia (dati del 2000). La dimensione media dei pacchetti tocca il 26% in Austria, il 27% in Germania e il 20% in Italia. Nella Ue la sola eccezione è il Regno Unito, dove in media il maggior blocco di voti non arriva a comandarne che il 10%; inoltre solamente la metà di essi è attribuibile alle famiglie, e il pacchetto di azioni da queste posseduto pesa mediamente solo il 5%. (9)

Ciò che pare essere realmente avvenuto nel campo dell'ancor robusto capitalismo familiare è che pure le famiglie si sono adoperate, con una rinnovata presenza nelle assemblee della società e con altri mezzi, per realizzare quel ritorno al comando della proprietà osservabile negli ultimi vent'anni. Nondimeno la novità di maggior rilievo nel governo delle imprese è un'altra. In un numero crescente di imprese un pacchetto di azioni sufficiente a controllare i principali processi decisionali, a cominciare dalla nomina dei dirigenti esecutivi, è ora posseduto da istituzioni finanziarie: fondi pensione, compagnie di assicurazione, fondi comuni di investimento. Non è necessario che il pacchetto detenuto da ciascuna istituzione sia molto grande. "Una tipica quota azionaria detenuta da un investitore [istituzionale] in una grande impresa, sebbene sia relativamente piccola in termini percentuali - in non pochi casi il maggior azionista di una delle prime 250 società [qui il riferimento è ad imprese britanniche] controlla non più del 2 o 3 per cento delle azioni - è nondimeno enorme in termini assoluti." (10) E' inoltre normale che tali investitori stabiliscano "alleanze di voto" nelle assemblee delle società, capaci di determinare l'esito di qualunque votazione. Oltre che dagli elenchi delle partecipazioni azionarie nelle varie imprese, il potere acquisito dagli investitori istituzionali è desumibile, a livello aggregato, dal volume di azioni che essi posseggono sul totale delle azioni quotate nelle principali borse mondiali. Nella borsa di Londra, ad esempio, si stimava già nel 1999 che la maggioranza delle azioni fosse posseduta da istituzioni finanziarie britanniche; per la precisione, il 51,9%. (11) In Francia si stima che circa il 20% del capitale dei principali gruppi di imprese sia, in media, nelle mani di investitori istituzionali.

I nuovi investitori-proprietari si caratterizzano per un crescente attivismo nel partecipare al governo delle imprese, detto altresì corporate governance, di cui sono azionisti. Non si accontentano più, come un tempo, di comprare o vendere le loro azioni a seconda che queste vadano bene o male in borsa. Come proprietari, essi esercitano deliberatamente un elevato controllo sul comportamento dei dirigenti esecutivi utilizzando varie forme di incentivi e di minacce: talora appropriatamente definiti, negli studi sulla teoria della corporate governance, "mezzi disciplinari". Tra gli incentivi si ritrovano in primo piano compensi elevatissimi, ottenuti sommando stipendio, gratifiche collegate al raggiungimento di obbiettivi produttivi, e il conferimento di azioni a prezzo prefissato (stock options): quando salgono il dirigente può rivenderle. Mediante tali addendi i compensi dei Chief Executives Officers (CEOs) delle imprese americane - presidenti, amministratori delegati, direttori generali - risultarono nel 2001 circa 530 volte più elevati del salario medio dei loro dipendenti.

Tra le minacce si colloca in primo luogo la capacità dei proprietari di sanzionare il comportamento dei dirigenti modificando o azzerando i consigli di amministrazione e le cariche connesse tramite il voto nelle assemblee annuali delle società in cui hanno investito. (12) In un memorabile biennio, il 1992-93, gli investitori istituzionali mostrarono di voler prendere il controllo diretto delle imprese in cui avevano investito scegliendo appunto questa strada radicale, ovvero licenziando in tronco i principali dirigenti esecutivi di alcune della maggiori corporations americane: American Express, Borden, General Motors, IBM, Kodak, Westinghouse. Altri tipi di minacce consistono nel prospettare ai dirigenti la possibilità di acquisizioni ostili della loro società; di vendere di colpo grossi pacchetti di azioni; o di intervenire sui meccanismi di regolazione del debito di una società, ciò che può ridurre, a parere degli esperti, il flusso di cassa ed accrescere i rischi di bancarotta. (13)

L'uso diffuso e combinato negli ultimi due decenni dei suddetti "mezzi disciplinari" per controllare il comportamento degli alti dirigenti ha reso vieppiù evidente come la corporate governance della maggior parte delle grandi imprese o gruppi economici fosse ormai nelle mani degli investitori istituzionali, non meno saldamente che in quelle delle famiglie proprietarie da generazioni. Nella corporate governance le azioni possedute dai piccoli risparmiatori, o dai dipendenti, il cosiddetto azionariato popolare, esercita un peso trascurabile, ad onta della quantità complessiva di tali azioni sul capitale totale.

6. Il controllo riconquistato dalla proprietà tanto nelle forme tradizionali, quanto e ancor più nelle sue nuove vesti sulla gestione dell'impresa, si è espresso nei successivi decenni a diversi livelli e in differenti forme. E' osservabile direttamente nell'accresciuto potere dei dirigenti finanziari - i rappresentanti più diretti della proprietà - a scapito dei dirigenti della produzione. Peraltro esso si è espresso nel modo più radicale in una profonda modifica della concezione stessa dell'impresa. Il compito primario dell'impresa non è più quello di creare occupazione e redditi reali per tutti gli "aventi interesse" (stakeholders) - dipendenti, risparmiatori, fornitori, comunità locale, ambiente - bensì unicamente quello di "creare valore per gli azionisti" (shareholders). E' una concezione transnazionale, teorizzata tra le prime dalle scuole di amministrazione aziendale americane, per passare poi ad esercitare una presa quasi universale in tutti i paesi industriali. Nel Codice italiano di Autodisciplina delle società quotate in borsa, elaborato da un apposito comitato, si legge ad esempio all'art. 4, che tratta degli obiettivi del Codice: "Il Comitato ha individuato quale obiettivo principale di una buona Corporate Governance quello della massimizzazione del valore per gli azionisti, ritenendo che il perseguimento di tale obiettivo, in un orizzonte temporale non breve, possa innescare un circolo virtuoso, in termini di efficienza e integrità aziendale, tale da ripercuotersi positivamente anche sugli altri stakeholders - quali i clienti, i creditori, i consumatori, i fornitori, i dipendenti, le comunità e l'ambiente ...". (14)

Allo scopo di creare valore per gli azionisti, i dirigenti finanziari sono naturalmente più qualificati che non i dirigenti della produzione. Sono loro che sanno quanto sia più lucroso ottenere profitti facendo salire a forza il corso delle azioni, che non producendo beni e servizi di qualità a prezzi convenienti. Ma nell'insieme tutto il top management delle grandi imprese o gruppi di imprese, a fronte dei "mezzi disciplinari" sopra ricordati che la proprietà può applicare loro in qualunque momento, si è rivelato abile nell'escogitare molteplici strumenti atti a massimizzare il valore delle azioni. Tali strumenti includono: la corsa al gigantismo aziendale tramite qualsiasi genere di fusione e acquisizione; la diversificazione del gruppo ricercata mediante l'ingresso in settori in cui non si ha alcuna esperienza o competenza - si vedano le strategie del gruppo Fiat negli anni '80 (15); i licenziamenti detti di "convenienza borsistica", operati per far salire le azioni anche quando il mercato va bene, poiché in tal modo si darebbe a intendere agli investitori e anche ai piccoli risparmiatori che loro, i dirigenti, con l'efficienza non transigono; le ristrutturazioni organizzative realizzate chiudendo dall'oggi al domani, nel proprio paese o nel mondo, filiali, società controllate, stabilimenti, senza riguardo per nessuno; la diffusione sistematica di informazioni incomplete o false sullo stato dell'impresa; e, naturalmente, la manipolazione più o meno spinta dei bilanci aziendali.

Sono mezzi per creare valore in borsa al cui impiego spregiudicato ha fatto seguito in realtà, negli ultimi anni, una lunga serie di casi di distruzione del valore delle azioni, dalla Enron alla Parmalat. Disastri dai quali, si noti, non è derivato alcun ripensamento circa il primato "della creazione di valore per gli azionisti" tra gli scopi dell'impresa. Al contrario: a cominciare dagli Usa "gli scandali dei bilanci e il crollo di imprese furono spesso considerate altrettante prove del fatto che le imprese non erano state sottoposte in misura sufficiente agli interessi degli azionisti, che il principio del 'valore per l'azionista' non era stato affermato con sufficiente continuità". (16)

I mutamenti sin qui delineati sono altrettante ragioni per cui pare azzardato presumere che i citati disastri siano dovuti a sviluppi recenti o siano meramente accidentali; e nemmeno che la serie nera sia terminata con il caso Parmalat in Italia, il caso Vivendi in Francia o il caso Ahold nei Paesi Bassi. Al fine di diventare collettivamente bravi nelle attività con le quali si crea fittiziamente, e per lunghi periodi, valore per gli azionisti, ci vogliono anni. Ci vogliono anche revisori dei conti ciechi o complici, come si è ripetutamente scoperto, dal caso Andersen in poi; politici compiacenti; accademici che teorizzano a colpi di equazioni con mille variabili l'avvento di un'economia priva di cicli economici in quanto fondata sul valore di azioni che possono soltanto crescere. Ci vogliono anche dei media completamente asserviti alle richieste meno esplicitabili delle imprese - almeno fino a quando queste non danno a vedere di affacciarsi su un baratro. Come dimostrano i milioni di documenti presenti nel Web sulla CSR, moltissimi osservatori avevano capito da anni, in Usa come nella Ue e in Italia, che l'età dell'impresa irresponsabile stava arrivando. Però non trovarono modo di farsi sentire - o non avevano alcun interesse a farlo. Ma v'è un fattore che più di altri assicura che una continuazione della serie nera nei prossimi anni sia abbastanza probabile. E' il perseguimento a ogni costo della massimizzazione del valore per l'azionista, cui gli alti dirigenti sono da un lato incentivati e dall'altro costretti per via degli effetti disciplinari accompagnantisi al ritorno al potere della proprietà.

7. Il ritorno al potere diretto sull'impresa da parte della proprietà ha preso anche altre forme. Esse sono osservabili in una dichiarata e teorizzata non-responsabilità dell'impresa nel confronto della o delle comunità locali in cui opera e del loro territorio; nel trasferimento dei rischi di impresa ai lavoratori, tramite l'imperativo dell'occupazione flessibile; nell'impegno di spostare parecchi punti di Pil dalle retribuzioni del lavoro dipendente ai profitti e alle rendite - impegno che ha avuto particolare successo in Italia, più che in ogni altro paese Ue. Per tale via il sistema delle imprese è diventato un sistema di irresponsabilità organizzata anche in campo finanziario, per usare l'espressione che Ulrich Beck ebbe a coniare per definire la condotta delle imprese in campo ambientale. A fronte di tale situazione la CSR di cui tutti parlano rimane - pur senza ignorare le eccezioni: un certo numero di imprese responsabili esiste ancora - un argomento utile soprattutto ai fini delle direzioni Comunicazione & Immagine.

8. Per i suddetti motivi è dato presumere che esortare le imprese che non lo fanno affinché aderiscano su base volontaria ai codici della "responsabilità sociale", tipo quelli indicati nel LV della CE, non abbia molto senso. Di fronte a tale situazione sembrerebbe quindi opportuno girare la domanda allo stato: sia lui a sollecitare le imprese perché pratichino un tasso più elevato di CSR. In realtà avanzare ad esso la richiesta di una maggior democrazia nelle relazioni industriali; nella distribuzione dei redditi; nei rapporti con il territorio - giacché questo e altro implica il concetto di CSR - significa trasmetterla all'indirizzo sbagliato. Ragione di ciò è un radicale mutamento del ruolo dello stato. Esso si è trasformato, da garante delle regole che assicurano la stabile convivenza di tutti i cittadini ad un dato livello di civiltà, e promuovono l'innalzamento di questo, in un attore che si pone come scopo primario l'aumento della competitività dell'azienda-paese: è lo stato nazionale competitivo. (17) Dinanzi alla forza del ritorno della proprietà al potere e al controllo diretto di gestione delle imprese, lo stato lo ha accettato come una incontrastabile forza di natura, ed ha schierato il proprio potere a favore della sua affermazione in ogni campo della vita sociale. In tal modo lo stato è diventato il rappresentante e più ancora il produttore locale dell'insicurezza globale. Da custode della sicurezza di tutti, lo stato è diventato il soggetto primo della divisione della popolazione in vincitori e vinti della competizione mondiale; ai primi vanno le spoglie, mentre ai secondi è destinata, nel migliore dei casi, un'assistenza compassionevole, per usare l'espressione preferita dai neocons americani ed europei.

Sarà qui utile notare che laddove la nozione di stato competitivo è stata coniata in una prospettiva critica dell'ideologia neoliberale, in specie al fine di contrastare il continuo ricorso all'idea che la difesa e il miglioramento della "posizione comparata" di un paese richiedono drastici tagli allo stato sociale, esiste anche un'ampia letteratura che usa la stessa espressione con una connotazione segnatamente positiva - da un punto di vista neoliberale. Da quest'altro punto di vista appare oltremodo utile considerare lo stato come una impresa. "Gli stati, come le imprese, sono istituzioni gerarchiche che producono servizi e usano risorse scarse. ... Giusto come altre imprese, l'importanza dello stato si misura dal volume della sua produzione e dal numero di dipendenti. E sempre come le imprese, lo stato può accrescere il volume e la diversificazione della sua produzione o vendendo più servizi ad una data base di clienti, oppure vendendo un dato servizio ad una base di clienti più ampia." Con queste premesse si può affermare che la presenza di "uno stato competitivo è una buona nuova per i cittadini dei vari paesi: esso reca con sé servizi pubblici migliori, un carico fiscale più leggero, non meno che le condizioni di una pace durevole tra le nazioni". (18)

9. Fra i tratti caratterizzanti dello stato competitivo - nell'accezione critica - si possono includere i seguenti: l'importanza che assegna alla posizione comparata del paese nell'economia internazionale, con speciale attenzione al costo del lavoro; l'assunzione del compito di creare profittevoli condizioni quadro per un capitale che opera su scala globale, in cerca di nuove strade per la propria valorizzazione, inclusa la massimizzazione della quota investita in azioni: il "capitale fittizio" di cui parlava Marx; la consapevole auto-restrizione del campo delle possibilità d'azione dei governi, con il risultato che terreni decisivi per l'organizzazione sociale - per la sua qualità - vengono sottratti alle istituzioni democratiche. Va altresì sottolineata la tendenza dello stato competitivo a trasformarsi, nella Ue allargata, da nazionale in sovra-nazionale, (19) per forza propria non meno che per la spinta del capitale transnazionale. (20) Allorché tanto il governo italiano quanto altre fonti autorevoli affermano che il contenimento del costo del lavoro; la proliferazione a oltranza dei lavori flessibili; la riforma delle pensioni e della sanità "ci sono richieste dall'Europa", non formulano dopotutto una affermazione inesatta. Essa dà espressione attendibile al fatto che la Ue stessa tende a conformarsi come uno stato competitivo sovra-nazionale, i cui riferimenti sono da un lato gli Usa, dall'altro, più ancora che il Giappone - tradizionale componente della vecchia Triade mondiale - i paesi emergenti come la Cina e l'India.

10. Una questione che emerge dal quadro che abbiamo tracciato è quale futuro abbiano in esso le istituzioni ed i meccanismi democratici diretti a contrastare, e preferibilmente invertire, il processo attualmente in corso di trasferimento d'ogni forma di responsabilità dall'alto verso il basso della piramide sociale. Un processo di cui l'epicentro è l'impresa che promette a parole, ma non mantiene nei fatti, di esercitare una effettiva CSR. Occorre cioè capire quali possibilità siano ancora aperte per una politica democratica, comprendente un tasso accettabile di democrazia economica, in presenza di uno stato nazionale e sovra-nazionale trasformatosi, in nome della globalizzazione, in uno stato competitivo che ai presunti imperativi della competitività tutto subordina. Un presupposto per un rinvigorimento del processo democratico andrebbe individuato prima di tutto in una revisione critica dei modi di pensare (quel che si chiamava un tempo il piano dell'ideologia) e di agire (il piano della pratica politica) nei riguardi della globalizzazione. Sul piano ideologico, le concezioni dell'impresa come entità il cui scopo essenziale è la massimizzazione del valore delle azioni dei proprietari sia di nuovo che di vecchio tipo, e dello stato come promotore e garante della competitività internazionale secondo i canoni neo-liberali, derivano direttamente da una nozione della globalizzazione che vede in essa un movimento irrefrenabile, dotato di leggi sue proprie, a fronte delle quali nessuna azione che non sia un adattamento a posteriori è possibile. Un costrutto ideologico, in realtà, che appare oggi predominare anche in larga parte delle forze politiche di centro-sinistra.

Occorrerebbe pertanto abbandonare la predetta nozione che accetta l'esistente come un fenomeno economico irrefrenabile, a favore di un modello concettuale che interpreta piuttosto la globalizzazione come un progetto politico. Un progetto di società vasta come il mondo, caratterizzato da una economia di mercato che è stata deliberatamente sottratta alla maggior parte delle regole capaci, a un tempo, di realizzarne le potenzialità cosmopolitiche e di limitarne gli effetti locali e transnazionali perversi, che sono al presente osservabili in ogni campo dell'organizzazione sociale. Effetti perversi tra i quali si colloca in primo piano la globalizzazione della insicurezza, per mezzo della informalizzazione del lavoro; la diffusione del denaro ombra; la privatizzazione della politica. (21) Effetti che hanno come prima attrice l'impresa irresponsabile, in quanto punto di condensazione dei movimenti speculativi di capitale che danno fondamento alla pretesa dei proprietari di realizzare profitti, e in senso più lato guadagni, di entità tale da non essere realizzabili con la mera produzione di beni e servizi.

Ad un progetto politico che ha generato finora la globalizzazione della insicurezza occorrerebbe contrapporre un progetto alternativo, guidato dall'ideale di una politica della sicurezza umana, "la produzione di più sicurezza in tempi insicuri". (22) In altre parole un progetto nuovamente rivolto - per la terza volta in poco più di un secolo - all'incivilimento del capitalismo, mediante la restaurazione su basi mutate per quanto può essere necessario del processo democratico. Che potrebbe includere, tra le sue finalità minime, il tentativo di ridare spazio al capitalismo produttore in luogo del capitalismo predatore.

Sul piano della pratica politica è ovvio che un simile progetto dovrebbe venire ovviamente sostenuto da adeguate forze sociali. Al riguardo forse la storia non insegna, ma qualche idea la fa venire. Il primo contro-movimento socio-politico che contribuì a incivilire il capitalismo, e presumibilmente lo aiutò a salvarsi una prima volta dalle sue capacità autodistruttrici, è stato - pare incongruo doverlo ricordare - il movimento socialdemocratico tra Ottocento e Novecento. Il secondo si è affermato dopo il 1945, avendo come protagonisti sindacati, partiti di sinistra, una parte significativa dei cattolici democratici. Senza con ciò trascurare il contributo non disinteressato che all'incivilimento del capitalismo di metà Novecento provenne da altre parti: William Henry Beveridge, lui stesso un moderato, inventò il moderno stato sociale con un rapporto apparso in piena guerra, Social Insurance and Allied Services (1942), commissionatogli, e poi fatto proprio, dal governo conservatore di Winston Churchill. Il quale temeva, non diversamente del cancelliere Bismarck che giusto cinquant'anni prima aveva introdotto in Germania uno dei primi sistemi previdenziali universali e obbligatori, che ignorare le richieste del movimento socialdemocratico avrebbe aperto la porta a richieste ben più radicali. Timore che nel caso del governo inglese, e poco più tardi dei governi della neonata Comunità europea, si sovrapponeva, come si è già notato, allo sgradevole ricordo della crisi del 1929, ed alla preoccupazione di non far crescere nell'Europa occidentale l'influenza dell'Urss.

Quali che saranno le forze socio-politiche che vi confluiranno, e il nome che prenderà in futuro, le finalità ultime che dovrebbe assumersi il prossimo terzo movimento per incivilire il capitalismo non saranno in fondo diverse da quelli dei due precedenti, pure in presenza di circostanze profondamente cambiate. I guasti economici e sociali prodotti dalle imprese e dai governi irresponsabili potrebbero finire, dialetticamente ragionando, con il favorire il suo sviluppo.


Note

*. Apparso con diverso titolo in 'La rivista del Manifesto', n. 48, marzo 2004, pp. 10-16.

1. Commission of the European Communities, GREEN PAPER - Promoting a European framework for Corporate Social Responsibility, COM (2001) 366final, Brussels, 18.7.2001, p. 6.

2. G. Duval e Centre français d'information sur les entreprises (a cura di), Dossier: La responsabilité sociale des entreprises. 30 groupes français testés, "Alternatives Economiques", no. 196, ott. 2001, p. 37.

3. J. Burnham, La rivoluzione manageriale (New York 1941), Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 76.

4. A. A. Berle, Jr., G. C. Means, The Modern Corporations and Private Property, Macmillan, New York 1932.

5. Ibid., p. 3.

6. J. K. Galbraith, Il nuovo stato industriale (Boston 1967), Einaudi, Torino 1968, p. 45.

7. M. Candeias, Die Politische Ökonomie der USA an der Wende zum 21. Jahrhundert, paper presentato a un convegno a Berlino nell'aprile 2002. Sull'ipotesi di una caduta del tasso di profitto dovuta a un aumento della composizione organica del capitale v. anche A. Lipietz, Behind the Crisis: The Exhaustion of a Regime of Accumulation. A 'regulation school' perspective on some French empirical works, "Review of Radical Political Economics", XVIII, no. 1-2, 1988.

8. F. Moseley, The United States Economy at the Turn of the Century. Entering a New Prosperity, "Capital & Class", no. 67, 1998, p. 28.

9. M. Becht, C. P. Mayer, "Introduction" in F. Barca e M. Becht, (a cura di), The Control of Corporate Europe. Oxford University Press, Oxford 2001.

10. D. Leech, Incentives to Corporate Governance Activism, Papers del Dept. of Economics, University of Warvick, Coventry 2002, p. 4

11. Leech, op. cit., p. 2

12. Leech, op. cit., passim.

13. J. Cook, S. Deakin, Stakeholding and corporate governance: theory and evidence on economic performance, paper del ESRC Centre for Business Research, University of Cambridge, Cambridge 1999.

14. Comitato per la Corporate Governance delle Società quotate, Rapporto Codice di Autodisciplina, Borsa Italiana S.p.A., Milano 1999, p. 19. Enfasi dell'a.

15. L. Gallino, La scomparsa dell'Italia industriale, Einaudi, Torino 2004, cap. VI.

16. T. Sablowski, Bilanz(en) des Wertpapierkapitalismus. Deregulierung, Shareholder Value, Bilanzskandale, "PROKLA. Zeitschrift für kritische Sozialwissenschaft", no. 131, vol. XXXIII, 2, 2002.

17. Il concetto di stato competitivo è stato coniato tra i primi, con una accezione critica, da E. Altvater, Operation Weltmarkt oder: von souveränen Nationalstaat zum nationalen Wettbewerbsstaat, "PROKLA. Zeitschrift für kritische Sozialwissenschaft", no. 97, vol. XXIV, 4, 1994. Più ampia è la trattazione in J. Hirsch, Der nationale Wettbewerbsstaat, Edition ID-Archiv, Berlin, 1995. Cfr. spec. P. III.

18. J.-J. Rosa (professore di economia a l'Institut d'Etudes Politiques di Parigi), The Competitive State and the Industrial Organization of Nations, relazione presentata al workshop "Public Governance in the Age of Globalization", Firenze 2000.

19. M. Wissen, Der supranationale Wettbewerbstaat. Zur Rolle der Europäischen Union im Prozess neoliberaler Restrukturierung, Dossier di Jungle World, 1999.

20. D. Bohle, Erweiterung und Vertiefung der EU: Neoliberale Restrukturierung und transnationales Kapital, "PROKLA. Zeitschrift für kritische Sozialwissenschaft", no. 128, vol. XXXII, 3, 2002.

21. E. Altavater, B. Mahnkopf, Globalisierung der Unsicherheit. Arbeit im Schatten, Schmutziges Geld und informelle Politik, Westfälisches Dampfboot, Münster 2002. Sulla informalizzazione del lavoro cfr. L. Gallino, La informalización del trabajo en los países desarrollados. Cómo y por qué las condiciones de trabajo en el Norte se están aproximando, a la baja, a las del Sur, "Sociologja del Trabajo", no. 45, primavera 2002

22. Ibid., p. 354.