2011

Un'analisi sociologica dei mercati finanziari

Marco Betti

Introduzione redazionale

La globalizzazione economica non procede in maniera uniforme, ed il grado di integrazione dei mercati finanziari è attualmente superiore a quello dei beni, e del mercato del lavoro Questo rende, dunque, cruciale analizzare i meccanismi che regolano i mercati finanziari e le ripercussioni che questi hanno sul resto del sistema economico, utilizzando una pluralità di strumenti disciplinari.

Introduzione

Nel presente articolo, la scelta di concentrare l'attenzione sul filone della sociologia dei mercati finanziari, per poi ricostruire come i processi di finanziarizzazione abbiano influenzato la struttura organizzativa e di controllo delle imprese, risponde principalmente a tre esigenze.

Anzitutto, studiare un settore che, seppur occupando un posto centrale nell'economica contemporanea rimane, soprattutto in Italia, ancora poco indagato. In secondo luogo, lo sviluppo di una sociologia dei mercati finanziari permette di aprire un nuovo dialogo interdisciplinare consentendo, e questo è il terzo elemento, la convergenza dei differenti filoni della "nuova sociologia economica".

A partire dagli anni Settanta, infatti, davanti alla crisi che aveva investito il modello fordista-keynesiano si manifesta una ripresa dell'interesse verso la sociologia. Tuttavia, se a livello macro la sociologia economica si qualifica sempre più come political economy comparata, a livello micro, accanto alle ricerche empiriche legate alle trasformazioni nell'organizzazione delle imprese e dei processi produttivi, un importante contributo proviene dal dibattito teorico. In contrasto con le spiegazioni proposte dal neoisitutuzionalismo economico, e in particolare dalla teoria dei costi di transazione di Williamson, la nuova sociologia economica propone approcci differenti. Il primo, di natura strutturale, mette in evidenza il ruolo di reti e capitale sociale, mentre il filone del neoistituzionalismo evidenzia come i fattori culturali contribuiscano a plasmare l'organizzazione delle attività produttive.

Lungo questa prospettiva, gli strumenti e i modelli proposti dalle sociologia economica, tanto a livello micro quanto a livello macro, risultano oggi utili per spiegare le recenti trasformazioni connesse con lo sviluppo dei mercati, la diffusione di nuovi strumenti finanziari e le trasformazioni della corporate governance delle imprese. Inoltre, nonostante la distinzione analitica tra i due approcci, le tendenze più recenti considerano il ruolo svolto dai fattori culturali assieme a quello delle reti sociali all'interno delle quali gli attori sono radicati. In questa prospettiva, i sistemi simbolici acquisiscono efficacia e sono in grado di dispiegare il loro potenziale performativo/generativo solo se incardinati in specifiche reti di relazioni e in azioni collettive di gruppi definiti [Barbera e Negri, 2008, 42].

I mercati finanziari nella ricerca sociologica

Fin dalle origini, la tradizione classica è riuscita a cogliere l'importanza della borsa e del gioco speculativo nello sviluppo del mercato capitalistico. Nel saggio La borsa Weber [1924; trad. it. 1985] mette in evidenza come borsa e speculazione siano fondamentali per reperire la liquidità necessaria a consentire, attraverso lo sviluppo del commercio, l'estensione del mercato e quindi il reperimento di sempre nuovi capitali. Tuttavia, affinché questi effetti positivi possano interamente manifestarsi diventano necessarie forme di governo capaci di valutare la reputazione. Non è quindi possibile comprendere la borsa soltanto in termini utilitaristici, esiste infatti un'«aristocrazia del denaro» che richiede adeguati standard etici ed esercita, anche attraverso l'ereditarietà dei posti, un forte controllo sociale [Trigilia, 2002, 186]. Accanto a Weber anche Simmel ha sviluppato alcune fondamentali riflessioni sul ruolo del denaro, della fiducia e delle reti sociali sia nel generale funzionamento del sistema finanziario sia nello sviluppo del capitalismo. Così, per svolgere la sua funzione propulsiva - e mentre modifica le relazioni sociali, i valori e gli stili di vita - il denaro necessita di un presupposto non economico fondamentale come la fiducia.

Tuttavia, nonostante l'intuizione dei classici, tra la seconda guerra mondiale e la fine degli anni Settanta, soltanto una manciata di studi hanno avuto come argomento la finanza, e solo successivamente, grazie soprattutto al contributo di Granovetter [1985], sono state messe in evidenza le opportunità per la ricerca sociologica.

Nelle economie industriali e postindustriali, infatti, una quota sempre maggiore del reddito viene accumulata da coloro che operano nel settore finanziario. Ciò in conseguenza di tre fattori. Anzitutto, in virtù della complessità delle attività di intermediazione tra coloro che nell'economia reale risparmiano e coloro che impiegano i capitali. In secondo luogo, grazie al fatto che la proprietà delle grandi imprese rivendichi - in modo sempre più insistente - i propri diritti proprietari, trascendendo così da tutte le altre forme di responsabilità sociale. Infine, grazie al maggiore impegno dei governi nella promozione di una «cultura azionaria» che dovrebbe migliorare la capacità dei soggetti nazionali di competere a livello internazionale [Dore, 2009, 17].

Abbiamo prima ricordato come lo studio delle attività finanziarie da parte della sociologia economica abbia avuto uno sviluppo minore rispetto ai temi legati al mercato del lavoro e alle attività produttive. Tuttavia, come documentano i lavori di MacKenzie [2006] e MacKenzie e Millo [2003], l'atteggiamento di sfiducia non caratterizza soltanto la sociologia italiana, prevalentemente orientata a studiare la produzione piuttosto che la finanza o il consumo. Non è quindi un caso che anche negli Stati Uniti, almeno fino agli anni Settanta, gli strumenti finanziari siano stati guardati con sospetto tanto dall'opinione pubblica quanto dagli organismi di controllo delle borse, poiché considerati alla stregua del gioco d'azzardo, come a suo tempo osservato da Keynes [1936].

Ma anche all'interno della teoria economica lo sviluppo dell'economia finanziaria è stato travagliato. Se le teorie economiche dei mercati finanziari vedono la luce negli anni cinquanta, ancora negli anni ottanta - nonostante sia trascorso un decennio da quando nel 1977, grazie alla teoria delle opzioni, Scholes e Merton si aggiudicarono il premio Nobel - la financial economics viene considerata una branca specialistica della disciplina non particolarmente rilevante, sminuendone così i contributi. La legittimazione dell'economia finanziaria arriverà soltanto negli anni novanta quando, anche grazie ai nuovi riconoscimenti - ad oggi 5 economisti finanziari hanno ricevuto il Nobel - la disciplina lascerà la posizione marginale per divenire uno dei temi centrali dell'economica contemporanea [Burlando, 2008].

Oggi, infatti, anche in virtù della proliferazione dei nuovi strumenti finanziari, non solo il fenomeno della globalizzazione ha trovato la sua maggiore realizzazione nell'ambito dei mercati finanziari [Dore, 2009] ma siamo in presenza di una congiuntura particolarmente favorevole al dialogo interdisciplinare. Da un lato, nel linguaggio degli economisti concetti sociologici come sfiducia, fiducia e reputazione sono sempre più ricorrenti; dall'altro, in maniera reciproca, si osserva il tentativo della sociologia dei mercati finanziari di formulare una spiegazione più adeguata per processi tipicamente studiati dagli economisti come la formazione dei prezzi e delle bolle finanziarie, [Mutti, 2008, pp. 7-8] o la trasformazione della struttura e delle strategie delle imprese, non soltanto in termini di efficienza [Flistein, 1990, 2001; Dobbin, 2005; Dobbin e Zorn, 2005].

I mercati finanziari come reti sociali

La struttura relazionale dei mercati finanziari viene messa al centro della ricerca di Baker [1984] che, analizzando le relazioni tra intermediari - brokers - e agenti - traders - della Borsa di Chicago, focalizza l'attenzione su un mercato particolare dei derivati finanziari, quello delle opzioni sui titoli. Dopo dieci settimane di osservazione partecipante e interviste informali Baker seleziona due gruppi di dimensioni differenti, nei quali ricostruisce le reti di partecipazione relative a dieci giorni di negoziazione. La ricerca mette subito in evidenza un'incongruenza rispetto all'approccio economico mainstream. Infatti, a differenza delle teorie neoclassiche, è proprio la rete più grande che attrae un maggior numero di speculatori e presenta un turnover più elevato tra i negoziatori, causando una maggiore volatilità del prezzo delle opzioni rispetto alla rete più piccola. In questo modo razionalità limitata e opportunismo spingono, per ridurre l'incertezza, a intrattenere relazioni faccia a faccia soltanto con gli attori più prossimi. Si formano così microreti restrittive che producono macroreti differenziate, ridimensionando la possibilità del mercato di favorire la convergenza tra domanda e offerta. Ciò si traduce in una maggiore volatilità dei prezzi.

Tuttavia, come ogni ricerca pionieristica il lavoro di Baker presenta dei limiti [Mutti, 2008]. Anzitutto essa risulta essere piuttosto datata, non essendo in grado di descrivere e spiegare quelle che sono state le successive evoluzioni dei mercati finanziari con il ridimensiomento dei rapporti interpersonali. In secondo luogo, emerge oggi una gamma di attori ben più vasta dal punto di vista numerico e molto più differenziata in termini di potere. Infine, la ricerca non indaga e descrive adeguatamente la dimensione fiduciaria e reputazionale.

I contributi successivi focalizzeranno l'attenzione soprattutto sul ruolo dell'opportunismo nelle transazioni finanziarie Da questo punto di vista, il lavoro di Abolafia [1998] evidenzia come il livello di opportunismo accettato rappresenti il prodotto di una complessa costruzione sociale. Lo studio di tre prodotti finanziari: le obbligazioni, i futures e le azioni, in un periodo particolarmente interessante - contraddistinto da volatilità dei tassi di interesse e sviluppo di nuovi strumenti finanziari - consente di evidenziare due elementi rilevanti. Esiste anzitutto una gerarchia con livelli decrescenti di opportunismo, passando dalle obbligazioni, ai futures, fino al mercato azionario. In secondo luogo, questo fenomeno genera una tensione particolare tra il perseguimento del massimo guadagno e i limiti da imporre alle forme di opportunismo. Così, a differenza delle teorie economiche, viene meno l'idea che le scelte siano riconducibili ad un'astratta efficienza legata ai mercati concorrenziali e ciò chiama in causa tanto la costruzione sociale quanto quella politica del mercato finanziario [Fligstein, 2001]. In questo senso, la prospettiva assunta da Abolafia vede il mercato non solo radicato nelle reti tra gli operatori - secondo la logica che contraddistingue l'approccio strutturale - ma integra il riferimento al radicamento culturale, su cui attira l'attenzione i neoistituzionalismo, e a quello istituzionale, tipico della political economy [Trigilia, 2009, 257-8]. Tuttavia, in maniera analoga a Baker, la ricerca rimane ancorata all'interno di un contesto dove i rapporti faccia a faccia sono prevalenti.

Nel tentativo di risolvere la questione il lavoro di Saskia Sassen [2005] cerca di superare l'approccio negoziale, mettendo in evidenza come il mercato finanziario si sia trasformato in un «mercato elettronico globale» contraddistinto da un'elevata interconnessione che, in virtù dei processi di globalizzazione, accresce il numero dei partecipanti e quindi delle transazioni. Tuttavia, nonostante una sostanziale decentramento delle opportunità di accesso, la ricerca rileva come gli elementi di coordinamento del mercato sembrino concentrarsi in pochi grandi «poli» finanziari che fornendo una serie di dati considerati autorevoli, e quindi socialmente legittimati, orientano i differenti operatori. Anche in questo caso, però, i motivi di tale concentrazione devono essere ricercati nella «connettività sociale» che consente di massimizzare i benefici della «connettività tecnica». Ciò apre interessanti scenari per indagare come le «interpretazioni autorevoli» si sviluppino e diffondano nei principali centri finanziari.

Inoltre, già la ricerca di Knorr Cetina e Bruegger [2002] aveva focalizzato l'attenzione sull'analisi dei mercati virtuali, descrivendo come, nonostante la separazione fisica, si possano sviluppare schemi comuni capaci di rendere compresenti gli attori tra loro. In altre parole, le contrattazioni, organizzate per grandi zone orarie formano «comunità di tempo», mentre i computer consentono conversazioni dirette, talvolta anche personali. Anche in questo caso però, la ricerca non esaurisce la spiegazione rispetto alla regolazione dell'opportunismo e alla formazione della reputazione [Mutti, 2008]. Nello stesso percorso si inserisce anche il lavoro di Arnoldi [2006] volto a mettere in evidenza come la complessità dell'informazione implicata nelle negoziazioni elettroniche, seppur ridotta da specifici software, richieda comunque nuove forme d'interazione diretta.

Sulla base di queste considerazioni particolarmente interessante risultano essere le ricerche di MacKenzie e Millo [2003] e Muniesa [2007]. La prima ricostruisce il processo che, agli inizi degli anni Settanta, ha condotto all'introduzione nella Borsa di Chicago dei primi due mercati per la contrattazione dei derivati finanziari, mentre la seconda descrive il successo che nella borsa di Parigi ha ottenuto l'introduzione di un particolare algoritmo volto ad evitare che i prezzi di chiusura del mercato risentissero delle manipolazioni dell'ultimo momento. Accanto a queste, il lavoro di Mutti [2008] su fiducia e reputazione così come quello di Dobbin e Zorn [2005], se spostiamo l'ottica dai soli mercati finanziari alla ricostruzione dei rapporti tra finanza e industria, rappresentano interessanti spunti di riflessione sui diversi ambiti della sociologia dei mercati finanziari.

Ciò introduce un concetto che, seppur non ancora emerso in maniera esplicita, diventa manifesto nei lavori sulla formazione e sul funzionamento dei mercati finanziari: il carattere «performativo» della teoria economica. «Callon [1998] e Steiner [1999] introducono un importante elemento di riflessione riguardo al ruolo che le teorie e le conoscenze economiche a disposizione degli attori esercitano nell'influenzare le loro decisioni» [Mutti, 2008, 24], non soltanto riducendo l'incertezza ma, soprattutto, prescrivendo un cambiamento che se ha successo, contribuisce esso stesso alla realizzazione del cambiamento descritto. In virtù di tali considerazioni, l'interazione tra lo sviluppo e il consolidamento del mercato dei derivati [Mackenzie e Millo, 2003] e la crescita della «nuova» teoria finanziaria è stata cruciale per l'affermazione di entrambi.

Questo passaggio ci consente di separare due prospettive. «Vi sono cioè contributi che guardano alla dimensione cognitiva della cultura e cercano di ricostruire l'influenza sulla formazione delle decisioni, e altri che insistono maggiormente sulle risorse di legittimazione che la cultura offre per la riproduzione dei mercati» [Trigilia, 2009, 261].

Finanza e impresa: dalla concezione finanziaria del controllo allo shareholder value

Dal punto di vista empirico, i concetti di isorfismo mimetico e normativo - propri dell'approccio neoistituzionale - risultano particolarmente utili per spiegare il processo di diversificazione produttiva delle imprese americane, considerate come campo organizzativo [Fligstein, 1990].

Lungo questo percorso, anche gli effetti che tali trasformazioni hanno avuto sulla corporate governance delle imprese possono essere analizzati con gli strumenti della nuova sociologia economica, combinando la dimensione culturale, relazione e politica. È questo il caso del lavoro di Fligstein [1990] e degli sviluppi successivi delle sue intuizioni, dove si è cercato di spiegare le trasformazioni dell'assetto proprietario e dei meccanismi di governo delle imprese, nel passaggio dalla «concezione legata al marketing» alla «concezione finanziaria» e, successivamente, alla prospettiva dello «shareholder value» [Dobbin, 2005; Dobbin e Zorn, 2005, Fligstein, 2001].

Ma poiché tali mutamenti sono il risultato di complesse interazioni tra imprese, tra coloro che esercitano il controllo e il governo, il successo di ogni nuovo modello dipende dalla sua capacità di essere propagandato e diffuso attraverso i campi organizzativi della stampa specializzata e nei rapporti informali tra manager e imprenditori. In questo senso, il lavoro di Fligstein non è può essere considerato funzionalista in quanto concepisce ogni mercato concreto come una costruzione sociale.

La concezione legata al controllo finanziario si afferma per l'effetto combinato di due fattori. Anzitutto, perché con lo sviluppo della grande impresa multidivisionale emerge l'esigenza di valutare le prestazioni di linee produttive diversificate. In secondo luogo, l'approvazione nel 1950 del Celler-Kefauver Act - uno strumento esplicitamente pensato per impedire ogni tipo di fusione - genera effetti inattesi che incoraggiarono le imprese a diversificarsi. Successivamente sarà il mutamento del clima culturale con le presidenze di Carter e Reagan a favorire la concentrazione produttiva. Così, mentre la concezione finanziaria del controllo sottolineava l'impiego di strumenti finanziari per valutare le linee di prodotto e le divisioni, la forma multidivisionale divenne la struttura organizzativa standard e il controllo si otteneva decentralizzando il processo decisionale e dedicando un'attenzione più ravvicinata alla performance finanziaria. Le linee di prodotto e le divisioni che non soddisfacevano le aspettative societarie di crescita o di guadagno venivano smantellate [Fligstein, 1990, 252]. Inoltre, «poiché la performance finanziaria era l'unica a contare, i manager che avevano una concezione di controllo di tipo finanziario portavano la propria azienda alla crescita in qualsiasi settore industriale ci fossero delle opportunità» [ibidem]. Fu così che entro il 1970, grazie a diversificazioni realizzate principalmente attraverso fusioni, le aziende maggiori diventarono multiproduttive e multisettoriali. Furono proprio le complesse interazioni tra manager con background finanziario a favorire la trasmissione del nuovo modello all'interno dello stesso campo organizzativo che, un volta affermato, si diffuse nell'intera popolazione di grandi aziende.

Tuttavia, anche la concezione finanziaria dell'impresa subisce una crisi a partire dagli anni Settanta quando si diffonde la percezione della scarsa redditività delle imprese per i loro azionisti [Fligstein, 2001]. Alla base di questo fenomeno vi sono due cause oggettive. Anzitutto, la crescente concorrenza da parte di imprese estere - principalmente giapponesi - assottiglia quote di mercato dei produttori americani, soprattutto nei campi dell'elettronica e delle auto. In secondo luogo, non meno importanti sono state le condizioni economiche generali degli Stati Uniti nel corso degli anni Settanta, che hanno visto la presenza di un alto livello di inflazione e bassi profitti per le imprese, in un quadro di lenta crescita economica.

Il passaggio dalla concezione finanziaria del controllo a quella del valore per l'azionista è comunque sottile. Così, se la concezione finanziaria già vedeva l'impresa principalmente in termini finanziari, considerandola come un'insieme di attività che i manager potevano impiegare e reimpiegare con il fine di creare portafogli diversificati di linee di prodotto da manipolare per massimizzare i profitti [Fligstein, 1990], la concezione del controllo associata al valore per l'azionista, pur essendo anch'essa un'insieme di strategie finanziarie, contiene una critica specifica alla concezione finanziaria delle imprese. La prospettiva del «valore per gli azionisti» vede infatti il principale fallimento della «concezione finanziaria del controllo» nell'incapacità di massimizzare il valore per gli azionisti attraverso la crescita del prezzo delle azioni [Fligstein, 2001].

Il lavoro di Fligstein fornisce le basi sulle quali poggeranno le ricerche più recenti [Dobbin, 2005; Dobbin e Zorn, 2005], supportando l'idea che «gli attori economici (siano) radicati in un mondo sociale che modella i loro interessi, le loro percezioni e le loro azioni» [Fligstein, 2001, 197]. La giustificazione intellettuale fornisce così di una certa visione dell'impresa e spinge attori diversi ad usare quella stessa visione per legittimare le loro azioni.

Il contributo di Dobbin e Zorn [2005] ha come punto di partenza la riflessione su come i mercati finanziari influenzino e modifichino la struttura, l'organizzazione e le strategie delle imprese. Il nuovo modello sociale emerso tra il 1960 e il 1990 e basato sullo shareholder value non può infatti essere ricondotto alla sola logica economica ma chiama in causa un network extra-organizzativo nel quale outsider come investitori istituzionali, analisti finanziari e imprese impegnate in scalate ostili - takeover firm -, promuovono, con successo, un nuovo modello di management, sviluppando quelle che erano state le intuizioni di Fligstein [2004].

La tesi centrale è che ruolo dei tre gruppi esogeni prima richiamati sia stato fondamentale per costruire e diffondere il nuovo modello di gestione. Così le imprese impegnate nelle scalate ostili si dedicavano alla rottura e frammentazione dei conglomerati, dimostrando che alcune parti dell'impresa potevano essere vendute ad un prezzo molto maggiore rispetto a quello delle precedenti valutazioni di mercato, mentre gli investitori istituzionali diversificavano il rischio costruendo portafogli differenziati. L'investimento in determinate aziende diventava il loro interesse professionale contribuendo così, in linea con quello che era il pensiero degli economisti finanziari, ad abbassare il prezzo azionario delle imprese conglomerate a vantaggio di altre aziende più specializzate. Determinanti furono infine gli analisti finanziari, i quali, criticando la diversificazione delle imprese, liquidavano gli affari non collegati a specifici core-businnes.

Questo nuovo portato ha implicazioni sia sulla struttura del team dei top manager sia sulle strategie di acquisizione, spingendo verso la sostituzione delle fusioni diversificate con acquisizioni orizzontali - tra imprese che operano nello stesso settore, quindi tra imprese concorrenti - e verticali - ovvero fusioni fra imprese operanti a stadi diversi del processo produttivo. Per quanto riguarda la struttura dei vertici aziendali, invece, mentre gli amministratori delegati - CEO - impegnano il loro tempo nella gestione del core-businnes, ai COO - chief operating officers - si sostituiscono i CFO - chief financial officers -. Ciò segnala l'importanza che nella nuova visione ha la gestione del prezzo delle azioni rispetto alle strategie di diversificazione promosse dai COO.

In un secondo momento, i legami tra i diversi gruppi si infittiscono. Si costituisce una rete di soggetti che definisce la direzione del cambiamento e cerca di legittimarlo e diffonderlo ulteriormente [Trigilia, 2009, 274]. In questo quadro, il ruolo della teoria economica è stato fondamentale. Anzitutto, la teoria della core-competence, prospettava risultati migliori per le imprese più specializzate rispetto ai conglomerati. Le imprese dovevano quindi focalizzarsi in «quello che sapevano fare meglio», sviluppando le loro competenze chiave. In secondo luogo, gli economisti finanziari hanno a lungo suggerito agli investitori di diversificare il loro portafoglio. Il terzo elemento chiama in causa la teoria del valore per gli azionisti. Questa illustrava come il principale obiettivo dell'impresa, e dell'intera economia, fosse quello di massimizzare il prezzo delle azioni, attraverso la creazione di valore per gli azionisti. Infine, la teoria dell'agenzia incoraggiava le imprese a legare i compensi dei loro consigli di amministrazione al prezzo delle azioni. Giustificando il collegamento della retribuzione dei manager all'andamento dei titoli della loro impresa.

In questo caso, quindi, gli agenti di cambiamento sono gruppi professionali interni ai mercati finanziari ma esterni alle imprese che, seppur con scarsi contatti diretti, attraverso il loro potere di mercato risultano comunque capaci di esprimere preferenze circa la struttura e la strategia da imporre. È quindi necessario prestare maggiore attenzione al ruolo degli outsider e alla loro forza nella costruzione delle strategie aziendali nonché all'importanza del potere nella promozione delle nuove strategie, combinando assieme interessi, reti e cultura economica [Swedberg, 2003].

Globalizzazione, finanziarizzazione e futuro dei capitalismi

Il terzo contributo vede il tentativo di integrare le dimensioni micro con quella macro, illustrando come l'evoluzione delle ricerche sulla political economy comparata abbia spostato il proprio focus di analisi: non viene più indagata la risposta dei differenti sistemi nazionali alla crisi generata dagli effetti perversi della regolazione keynesiana, ma la capacità di adattamento dei diversi capitalismi al processo di globalizzazione, nonché la maggiore o minore convergenza delle risposte nazionali [Barbera e Negri, 2008; Triglia, 2009]. Abbiamo prima richiamato il contributo di Dore [2009] sul ruolo crescente di movimenti, mercati e attori finanziari nel funzionamento delle economie nazionali e internazionali; il processo di globalizzazione vede infatti nell'integrazione dei mercati finanziari uno dei principali indicatori. Sembrerebbe dunque confermata la tendenza all'allontanamento dal tradizionale rapporto di lunga durata tra imprese, banche e stakeholder che contraddistingue il modello giapponese e tedesco, a favore del modello finanziario anglosassone.

Lo stesso Dore [2000] mette in evidenza come tale processo trovi origine in due condizioni particolari. La prima, di natura strutturale, riguarda l'apertura e la crescente liberalizzazione dei mercati internazionali. Come avevano già messo in evidenza Knorr Cetina e Bruegger [2002] e Sassen [2005], grazie al miglioramento delle comunicazioni si riducono i costi di transazione agevolano così il rapido movimento di capitali e l'integrazione reale tra le varie piazze finanziarie. La seconda, invece, ha natura culturale. Se nelle pagine precedenti abbiamo richiamato la funzione catalizzatrice svolta dagli economisti, allo stesso tempo l'internazionalizzazione della cultura economica ha spinto i manager, sia per motivi lavorativi che di formazione, a partecipare ad esperienze all'estero. In questa maniera essi hanno finito per condividere la dottrina economica «dominante», promuovendo così forme di isomorfismo normativo. Emblematico, in questo caso, è il ruolo giocato dalle busines schools nonché dalle società di consulenza e valutazione internazionali [Mutti, 2008]. Ciò consente di osservare gli effetti a livello macro delle tendenze già analizzate nei paragrafi precedenti. Emerge infine la dimensione politica. In particolare l'idea della democrazia azionaria, promossa sorattutto nei paesi anglosassoni dai partiti conservatori, è di fatto cominciata negli anni ottanta con i governi Thatcher e la presidenza Reagan. Ciò ha prodotto un' inasprimento della «disciplina di mercato» che, grazie all'egemonia neoliberale, «ha indotto una attenzione sempre maggiore nei confronti degli azionisti e ha fatto sì che le risorse manageriali fossero sempre più dedicate a mantenere le «relazioni con gli investitori» [Dore, 2009, 44].

In conclusione, il lavoro di Dore analizza le conseguenze economiche, organizzative e sociali connesse con il «crescente» ruolo dei mercati finanziari. L'innovazione finanziaria, che ha creato modalità sempre nuove per inserire elementi speculativi, il passaggio al dominio degli investitori nel controllo delle grandi imprese e la promozione della cultura azionaria come strumento di correzione degli errori nel mercato, rappresentano gli elementi che spiegano la dimensione e il potere dei mercati finanziari. A ciò dobbiamo aggiungere l'isomorfismo normativo promosso dalle teorie economiche dominanti che, richiamandosi alla perfetta efficienza dei mercati finanziari, si sono unite alla retorica antistatalista. Nonostante questo, gli eventi dell'ultimo anno hanno rappresentano la dimostrazione del ruolo cruciale dello stato durante le emergenze economiche.

Conclusioni

I contributi prima richiamati aprono spazi di ricerca rispetto allo sviluppo e la formazione dei mercati finanziari, la performatività delle teorie economiche, i meccanismi di legittimazione e costruzione sociale della fiducia e i collegamenti tra finanza e industria per indagare i possibili mutamenti tra i diversi modelli nazionali di organizzazione dell'economia. La nuova sociologia economica dispone già di utili riflessioni sulla volatilità dei prezzi delle azioni, così come sulla dinamica delle cognizioni, delle emozioni e delle asimmetrie informative nonché sul ruolo della fiducia e della reputazione nei rapporti tra operatori e nei processi di crisi e regolazione dei mercati [Swedeber, 2010]. Da questa prospettiva, e soprattutto in virtù delle caratteristiche particolari dei mercati finanziari, si possono interessanti spazi di confronto tra sociologi, economisti e psicologi.

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