2009

Gli stereotipi della "sicurezza"
ovvero come la Giustizia "tratta i nomadi" invece che incontrare i Rom (*)

Sabrina Tosi Cambini (**)

Sommario: 1.Politiche discriminatorie 2. Gli stereotipi della sicurezza. Riflessioni a partire da una ricerca

1. Politiche discriminatorie

La storia del popolo rom è - come ben ha illustrato Leonardo Piasere (1) - la storia di un 'popolo' da secoli europeo. Ma, come afferma ancora l'autore: "Ci sono due modi di guardare e descrivere i rom e gli altri gruppi detti 'zingari'. Il primo ruota intorno ai concetti di integrazione e anomia, anche quando tali termini non sono apertamente pronunciati. Tale approccio vede essenzialmente i rom appunto come 'zingari', come marginali che vanno recuperati socialmente e riconciliati con il resto della popolazione facendo in modo che da essi vengano assimilati. Il secondo considera il rapporto tra rom e non zingari come fortemente radicato nel continuum spazio-temporale della modernità europea e come suo momento strutturale di fondo" (2). E' il primo modo, purtroppo, ad essere diffusamente e profondamente radicato. I rom sono visti e descritti come qualcosa di estraneo, un perenne straniero interno, la cui condizione di vita è letta come autoevidente. Le loro esistenze sono imbrigliate all'interno delle maglie invalidanti della cosiddetta marginalità e, come tradizione delle politiche verso le fasce definite attraverso tale categoria, le azioni nei loro confronti oscillano tra atteggiamenti 'educativi' e atteggiamenti repressivi, che si combinano e prevalgono l'uno sull'altro a seconda delle circostanze. Approccio, questo, che si radica nel solco dello storico atteggiamento della società verso le persone definite povere, che ha oscillato tra un'idea dei poveri come classe pericolosa e una idea dei poveri come persone che hanno avuto un destino sfortunato, e che quindi vi è il dovere morale di aiutare.

I rom non solo non godono di un riconoscimento da parte della società che li svincoli dalle nozioni di povertà, emarginazione ed esclusione, ma si ritrovano a diventare - come sono stati definiti nella confusione del dibattito sulla sicurezza urbana - un'emergenza nazionale: "l'emergenza rom".

In questo momento siamo di fronte ad una crescente presenza di gruppi di immigrati costretti a una condizione abitativa estremamente precaria, che da transitoria sta sempre più divenendo una condizione strutturale. Tra queste persone, un vasto numero è rappresentato da cittadini neo-comunitari provenienti dalla Romania (rom e non-rom).

L'andamento di questo fenomeno nelle nostre città mostra con chiarezza come si vadano affermando in prevalenza, sia a livello nazionale che locale, politiche basate sull'azione repressiva, il cui strumento privilegiato è l'allontanamento coatto dei gruppi che abitano negli insediamenti cosiddetti abusivi. Ne deriva una sorta di nomadismo urbano a cui tali gruppi, famiglie e persone sono obbligate. Un nomadismo costretto, che le Amministrazioni cercano di sospingere fuori dai propri confini territoriali, nonostante sia assodato che gli sgomberi non producono niente di più che un dislocamento altrove della presenza - un altrove che spesso si concretizza appena al di là del confine comunale - , e che la ragione prevalente è l'effetto di 'rassicurazione' per gli abitanti locali.

La natura repressiva e discriminatoria della gran parte dei provvedimenti adottati in questo senso caratterizza anche interventi che prospettano il superamento degli attuali campi: fra gli interventi approvati nei "Patti per la sicurezza" di Roma e di Milano, ad esempio, l'eventuale realizzazione di insediamenti diversi - come i "villaggi" - appaiono subordinati più ad una esigenza di ordine pubblico che a un cambiamento di prospettiva delle politiche insediative nei confronti dei rom.

Nel "Patto per Roma Sicura" (3), firmato il 18 maggio del 2007, si conviene la costituzione - da parte del Prefetto d'intesa col Sindaco - presso la Prefettura di "una Commissione intesa a promuovere interventi risolutivi delle esigenze di contenimento delle popolazioni senza territorio (4), nonché inclusione sociale". Gli interventi prevedono: 1. la costruzione su aree comunali o demaniali di quattro "villaggi di solidarietà" in aree attrezzate per circa 1.000 persone, "disciplinati da specifici regolamenti di gestione"; 2. "programmi di abbattimento di insediamenti abusivi" e riqualificazione delle aree liberate; 3. "servizi di vigilanza mirata effettuati delle Forze di polizia" nei nuovi villaggi e intensificazione della vigilanza negli attuali insediamenti autorizzati; 4. "programma di prevenzione e di recupero delle situazioni di illegalità e di degrado" rispetto agli insediamenti abusivi; 5. assegnazione di ulteriori 75 carabinieri e 75 agenti di polizia per i servizi di vigilanza e intervento previsti nel punto precedente.

Nel patto di Milano (5), firmato nello stesso giorno, all'art. 2 (Campi Nomadi) le parti convengono di formulare al Governo "una proposta per il conferimento di poteri straordinari ad un Commissario Straordinario", individuato nella persona del Prefetto, il quale successivamente istituirà un "Gruppo di Lavoro" con rappresentanti del Comune, della Provincia, della Regione e "di ogni altro soggetto ritenuto necessario per la gestione del fenomeno del nomadismo". Tale "Gruppo di Lavoro" - si legge al punto 3 del medesimo articolo - dovrà focalizzarsi in maniera particolare nello "studiare il fenomeno del nomadismo e quello relativo a etnie stanziali, distinguendo le due realtà operando, ai fini della dislocazione degli insediamenti, anche in relazione alle capacità di assorbimento di ciascun territorio" (6).

Ancora nel patto che riguarda la città di Milano, troviamo un'altra voce (art. 4) riguardante le "occupazioni abusive di aree ed edifici dismessi", per le quali si prevede un'azione congiunta tra il Prefetto e il Sindaco per "contenere e ridurre, con la necessaria gradualità, il numero delle occupazioni abusive". Azioni di recupero e riqualificazione degli alloggi; sgomberi ("allontanamento forzoso di persone") attuati dalla Polizia locale, con l'assistenza della forza pubblica laddove si prevedano "gravi pericoli".

E' nel "Patto per la sicurezza" del 20 Marzo 2007 tra l' ANCI e il Ministero dell'Interno, che è possibile trovare esplicitati - sia nelle 'considerazioni generali' che nell'elenco di ciò che viene 'convenuto' - quegli scivolamenti di senso che hanno spostato l'asse della sicurezza sociale verso quella intesa come sicuritaria. Tra le prime: "la sicurezza è un diritto primario dei cittadini da garantire in via prioritaria per assicurare lo sviluppo sociale ed economico del Paese ed un'adeguata qualità della vita". Un diritto da assicurare (questo il verbo utilizzato nel documento) "non soltanto in relazione ai fenomeni di criminalità organizzata, ma anche in rapporto a quelli di criminalità diffusa incidenti sul territorio e, più in generale, a quelli dell'illegalità". E "assicurare modelli di governo della sicurezza urbana" che coniughino "prevenzione, mediazione dei conflitti, controllo e repressione". Tra le linee di intervento, la nostra attenzione cade sull'affermazione che riguarda le iniziative volte al "recupero del degrado ambientale e delle situazioni di disagio sociale, che contribuiscano ad elevare i livelli di sicurezza e vivibilità urbana e di coesione sociale". In queste parole sembra di sentire fortemente l'eco dell'equazione classi povere uguale classi pericolose. Siamo immersi in quella che l'architetto Giovanni Michelucci definì la "città-carcere", dove gli equilibri militari e del terrore sovrastano le persone tutte, alla quale egli oppose una città ancora da costruire: la "città-tenda", la sfida che egli proponeva alla città, quella di saper accogliere i diversi di ogni tipo, non per dovere di ospitalità, ma come speranza progettuale; una città 'regolata' da un modello di società civile che accetta dentro di sé il diverso come ipotesi positiva di cambiamento.

Il successivo decreto-legge del 1 novembre 2007, n. 181 "Disposizioni urgenti in materia di allontanamento dal territorio nazionale per esigenze di pubblica sicurezza" (GU n. 255 del 2.11.2007) che ha modificato il D. Lgs. 30/2007, introducendo una fattispecie vaga quanto potenzialmente arbitraria - "motivi imperativi di pubblica sicurezza" - per l'allontanamento dal territorio nazionale, apre la strada all'utilizzo di questo strumento non solo per casi mirati e motivati, ma come strumento di prevenzione generale (7).

Orientando l'azione delle agenzie di polizia su determinate situazioni spaziali e insediative, si rendono inevitabilmente oggetto di specifiche azioni di controllo e repressione determinati gruppi socio-cuturali. Un processo che si fa limpido col decreto del 21.5.2008, attraverso cui il Governo dichiara lo stato di emergenza in relazione agli "insediamenti di comunità nomadi" sui territori della Campania, Lazio e Lombardia. Qui la connessione fra "nomadi", "extracomunitari" irregolari, allarme sociale e problemi di ordine pubblico e di sicurezza per le popolazioni locali si fa esplicita: e la sua autoevidenza si fonda sulla connessione tra la presenza stessa di "nomadi", "extracomunitari" irregolari e l'estrema precarietà degli insediamenti (8).

Le precarie condizioni di vita e di abitazione di questi gruppi non solo rappresentano una diminuzione di diritti da rimuovere o almeno da limitare, ma diventano la base stessa si cui fondano provvedimenti legislativi e ordinanze applicative.

La disparità di trattamento rispetto a tali gruppi si ravvisa chiaramente nella nota Legge 15 luglio 2009, n. 94 "Disposizioni in materia di sicurezza pubblica" (9), non solo per quanto riguarda le misure direttamente indirizzate a tutti gli immigrati (10) (nei confronti dei quali molti pareri autorevoli si sono espressi in maniera critica), ma anche per quegli articoli che colpiscono gruppi specifici di popolazione, tra cui gli immigrati che versano in condizioni di vita più difficili (art. 3 comma 16, art. 1 comma 18) e i rom (art. 3 comma 19). In quest'ultimo caso, per aggirare le disposizioni europee sulla discriminazione "etnica", il legislatore semplicemente utilizza (o inasprisce, come in questo caso) norme inerenti determinati comportamenti. Alessandro Simoni (11) spiega molto bene questo modus operandi, esaminando le norme contro la mendicità e il vagabondaggio e dimostrando come esse siano state a lungo in Italia "uno strumento potentissimo di controllo della presenza zingara" (ibidem). L'articolo 3, comma 19 (sull'impiego di minori nell'accattonaggio), sembra svolgere la stessa funzione, prevedendo le seguenti modifiche al codice penale:

a) dopo l'articolo 600-septies è inserito il seguente:
«Art. 600-octies. - (Impiego di minori nell'accattonaggio). - Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque si avvale per mendicare di una persona minore degli anni quattordici o, comunque, non imputabile, ovvero permette che tale persona, ove sottoposta alla sua autorità o affidata alla sua custodia o vigilanza, mendichi, o che altri se ne avvalga per mendicare, è punito con la reclusione fino a tre anni»;

b) dopo l'articolo 602 è inserito il seguente:
«Art. 602-bis. - (Pene accessorie). - La condanna per i reati di cui agli articoli 583-bis, 600, 601, 602, 609-bis, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies comporta, qualora i fatti previsti dai citati articoli siano commessi dal genitore o dal tutore, rispettivamente:
1) la decadenza dall'esercizio della potestà del genitore;
2) l'interdizione perpetua da qualsiasi ufficio attinente all'amministrazione di sostegno, alla tutela e alla cura»;

E', inoltre, opportuno attirare l'attenzione sull'art.1 comma 18, che va a limitare il diritto all'insediamento delle persone in un territorio, modificando la legge 24 dicembre 1954, n. 1228. Si prevede, infatti, che: "l'iscrizione e la richiesta di variazione anagrafica possono dar luogo alla verifica, da parte dei competenti uffici comunali, delle condizioni igienico-sanitarie dell'immobile in cui il richiedente intende fissare la propria residenza, ai sensi delle vigenti norme sanitarie" (corsivo nostro). In tal modo si snatura il diritto alla residenza, rendendo quest'ultima uno strumento di controllo territoriale e, in sostanza, la concessione di un privilegio per l'accesso ai diritti di cittadinanza (12).

In questi documenti di legge, possiamo vedere agire gli stereotipi che sono stati costruiti su questi gruppi. Herzfeld definisce lo stereotipo come uno strumento destinato a mascherare interessi e strategie, e il ricorso ad esso è inseparabile dalle situazioni dove sono in gioco le identità. Secondo l'autore lo stereotipo sottolinea sempre l'assenza di una proprietà supposta desiderabile, in questo senso costituisce un'arma del potere - lo abbiamo visto sopra -: fa qualcosa, priva l'altro di un certo attributo senza che colui che lo sta usando si riconosca colpevole (13). A mio avviso, siamo di fronte ad un utilizzo certamente non ingenuo delle stereotipo, prima di tutto quello sul nomadismo - lo si è sottolineato in nota precedentemente - che pone fuori dalla società questi gruppi. Al quale, con la stessa funzione di estromissione, vi sono da aggiungere quelli riguardanti i bambini (14) - il grande tema dell'attacco all'infanzia.

2. Gli stereotipi della sicurezza. Riflessioni a partire da una ricerca

Nella ricerca che ho condotto sui presunti rapimenti di infanti non-rom da parte di rom (15), e di cui adesso andremo a parlare, lo stereotipo è stato trattato come schema mentale. Si può dire, sintetizzando, che uno schema permette ai soggetti di:

  • identificare rapidamente uno stimolo
  • inserirlo in una unità conoscitiva più ampia
  • colmare i vuoti di informazione
  • far scegliere la strategia migliore

Uno schema crea aspettative:

  • rispetto alle caratteristiche che deve avere un soggetto o una situazione sociale
  • come debba svolgersi un evento

E ci fa decidere e comportare di conseguenza. "I prodotti dell'attivazione degli schemi stereotipici - scrive Arcuri - difficilmente riescono a mettere in crisi il sistema di aspettative dell'individuo. Le persone sono per larga parte inconsapevoli dell'attivazione dei propri schemi e ingenuamente sono portate a considerare ciò che hanno 'visto' non tanto come il frutto di una loro interpretazione della realtà, quanto come un dato di fatto condivisibile da tutte le persone che abbiano occhi per vedere e testa per ragionarci sopra. Quello che nella maggior parte delle situazioni si verifica è allora una coerenza tra aspettative, schemi e prodotti della elaborazione" (16).

Come vedremo, l'analisi dei casi di presunto rapimento mostra chiaramente in azione lo schema "gli zingari rubano i bambini", che produce racconti sulla realtà.

Nell'analisi si prendono in considerazione ventinove casi, oltre undici di sparizione di minori (17) (dunque, 40 in tutto), sui quali è da subito opportuno indicare il risultato principale della ricerca, e cioè che non esiste nessun caso in cui sia avvenuta una sottrazione del bambino: nessun esito, infatti, corrisponde ad una sottrazione dell'infante effettivamente avvenuta, ma si è sempre di fronte ad un tentato rapimento, o meglio, ad un racconto di un tentato rapimento.

Alla confusione che generano i media al momento della denuncia del fatto, dando come provato e "vero" il tentato rapimento, se non vi è un arresto non corrisponde quasi mai la notizia dell'esito dell'azione delle Forze dell'ordine. Nei pochi casi in cui questo accade, la notizia non è per comunicare che i rom non c'entrano niente, ma è perché l'esito scioglie in sé altri eventi: truffe, fatti drammatici, situazioni che suscitano ilarità.

In maniera random si è cercato anche di verificare se per i casi in cui era stata sporta denuncia, ma in cui i presunti rapitori si erano dati alla fuga, le indagini avessero risolto la vicenda in qualche modo: si tratta di un ulteriore accertamento rispetto al fatto che se non c'è stata più nessuna notizia in merito questo ci può far dire che non si era poi svolto nessun arresto. D'altra parte - come dicevo sopra e come alcuni casi dimostrano - laddove le Forze dell'ordine tramite le proprie indagini verificano che è stato solo un equivoco, una percezione errata della situazione, la stampa ne dà poca o nessuna notizia.

La comparazione dei casi ha aperto a strade particolarmente significative, attraverso le quali si sono potuti individuare gli elementi cardine dei racconti dei tentati rapimenti, che sono pochi e si ripetono come un frame, un canovaccio concettuale con poche varianti: ad esempio, nella grande maggioranza, si tratta di 'donne contro donne' ossia è la madre ad accusare una donna rom di aver tentato di prendere il bambino; non ci sono testimoni del fatto, tranne i diretti interessati; gli eventi accadono spesso in luoghi affollati come mercati o vie commerciali; nessuno interviene in soccorso della madre; non di rado appare la paura che vi sia uno 'scopo oscuro del rapimento' per cui alcune persone presenti nelle vicinanze vengono interpretate dalle madri (o da altre figure) come complici della zingara (ma i controlli lo smentiscono regolarmente).

L'analisi comparativa dei casi, infine, ci porta a poter affermare che laddove vi è la presenza di un infante, l'avvicinamento di una persona rom è subito vissuto come un pericolo per il proprio figlio: lo stereotipo "gli zingari rubano i bambini" risulta essere molto più potente di qualsiasi altro. Non si ha paura, infatti, che sottraggano il portafogli o la borsa (secondo lo schema mentale "gli zingari rubano"), ma che portino via il bambino.

Dei ventinove casi considerati, i sei che hanno portato all'apertura del procedimento e dell'azione penale rappresentano il cuore del lavoro di ricerca (18).

Lo sguardo critico proprio della disciplina antropologica fa emergere dalle carte e dalle aule del tribunale l'utilizzo delle categorie del senso comune da parte degli operatori del diritto come base attraverso cui adattare la categorizzazione prevista nei codici alle circostanze del caso e la costruzione della credibilità dei testimoni nella quale assume un forte peso la capacità retorica delle due parti, intesa anzitutto come coerenza interna del discorso quale testimonianza dell'accaduto. Il tutto retto anche da un 'ragionevole' assunto iniziale: la madre non avrebbe nessun motivo per accusare la zingara di un atto non compiuto, in pratica non avrebbe alcun senso che la madre si fosse inventata tutto, per cui quello che ella dice è di partenza da considerarsi in qualche modo "vero".

Non dobbiamo scordarci che ci troviamo davanti a persone appartenenti a gruppi socialmente e giuridicamente deboli: non solo persone immigrate, ma soprattutto e in primo luogo rom (ma chiamati sempre nomadi) e nella maggior parte dei casi "sedicenti". Addirittura nella sentenza di Brescia si legge che la pericolosità sociale della donna è "in una con la sua condizione di nomade". Allo stesso modo per il caso di Roma, non ha nessun peso il fatto che il certificato dei carichi pendenti dell'imputata risulti negativo: la sua condizione di nomade sedicente basta - secondo il giudice - a renderla pericolosa e capace di commettere azioni criminose. Il fatto di essere definite nomadi giustifica di per sé nei confronti delle imputate qualsiasi decisione a tutela della collettività. Le pagine del fascicolo del caso di Roma illuminano bene anche la colpevolezza data per implicita dell'imputata che nel corso del processo non deve che trovare una via giuridicamente adeguata per essere esplicitata. Leggendo le trascrizioni delle udienze, ad esempio, si nota una chiara 'comprensione' del giudice nei confronti della madre del bambino), quasi una 'naturale' propensione a mettersi nei suoi panni. Ad esempio, alla fine dell'esame del teste S. L. - la denunciante -, il giudice circa l'affermazione della teste sui problemi causatile dal fatto - dice: "Lo capisco, però si deve sforzare, perché altrimenti non si riprendono nemmeno i figli", e conclude:"Va bene, si può accomodare, grazie, è stato un po' penoso, ma lo dovevamo fare".

E' importante riprendere in questa sede la chiave di lettura suggeritaci da Piercarlo Pazé (19); all'interno della forzatura degli strumenti giuridici riferiti a categorie deboli che emerge dalle carte dei Tribunali, vi si possono annoverare non solo l'arresto in flagranza e l'applicabilità delle misure cautelari, ma anche - ed è qui che la lettura di un magistrato diviene preziosa - il fatto che gli elementi di corredo dell'accusa sono capovolti, più semplicemente: non ci si chiede che cosa l'imputata avrebbe fatto del bambino. In nessun caso, infatti, troviamo affrontata tale - invece, imprescindibile - questione. Vi si fa riferimento nella sentenza di II grado emessa dalla Corte d'Appello di Milano sul caso di Lecco il 22 gennaio 2009, ponendola in un inciso di una frase, che vale la pena riportare: "Sottrarre un neonato alla madre, appropriandosene per farne cosa propria, forse - non s'intravede più benevola finalità - da esibir nella questua (magari in altra città od altro Paese), spettacolo peraltro non infrequente, può ben ritenersi gesto criminale tra i più odiosi e meritevole di severa sanzione, certamente lontana dal minimo edittale".

In conclusione, in nessun caso da noi esaminato - anche quando siamo di fronte ad una sentenza di colpevolezza per tentato sequestro o sottrazione (20) - emergono quegli indizi "gravi, precisi e concordanti" richiesti dall'art.192 comma 2 del c.p.p.


Note

*. Il presente contributo riproduce il testo della lezione tenuta dall'autrice il 14 luglio 2009, durante UNIDEA - Università d'estate antirazzista 13-15 luglio 2009 - XV Meeting antirazzista internazionale, Cecina, ARCI.

**. Fondazione Michelucci, Università di Firenze. Della stessa autrice si veda la ricerca: Gli insediamenti rom e sinti in Toscana 2008, Coordinamento della ricerca N. Solimano, Fondazione Michelucci, Fiesole 2008.

1. L. Piasere, I Rom d'Europa. Una storia moderna, Roma-Bari, Laterza, 2004 e Id., "Storia dei rapporti tra rom e gagé in Europa", in A. Simoni, Stato di diritto e identità rom, Torino, L'Harmattan Italia, 2005, pp. 13-25.

2. L. Piasere, I Rom d'Europa. Una storia moderna, cit., p.VII

3. Patto per Roma sicura. Le parole e le frasi tra virgolette sono citate dal documento.

4. La sinonimia zingaro-nomade presente nei discorsi di senso comune e in quelli politici/pubblici ha portato a considerare i rom come persone senza nazionalità, come se fossero di fatto degli apolidi. Essere considerati "senza territorio" significa privare queste persone della cittadinanza. Si ricorda, per inciso, che gli ebrei prima di essere deportati venivano 'denazionalizzati'. La sinonimia zingaro-nomade, il trattamento differenziale e la considerazione di queste persone come senza patria, aprirebbero alla più grande questione della stato-nazione che qui non possiamo certo affrontare, ma che è importante tenere in mente. Si veda almeno L. Piasere, I Rom d'Europa. Una storia moderna, cit., e Id., "Storia dei rapporti tra rom e gagé in Europa", cit.

5. Patto per Milano sicura. Le parole e le frasi tra virgolette sono citate dal documento.

6. Questo punto, in particolare, pone questioni importantissime quanto gravi riguardo all'utilizzo del tutto inadeguato e inappropriato di termini e concetti (e delle relazioni tra le realtà rappresentate da tali concetti) quali quelli di "nomadismo", "stanzialità", "etnia".

7. Cfr. anche l'intervento di S. Briguglio inviato al Consiglio dei Ministri, consultabile sul sito Sucar Drom.

8. Per un'analisi approfondita del decreto E delle prassi adottate, e per una comparazione internazionale, si rimanda a A. Simoni, "I decreti 'emergenza nomadi': il nuovo volto di un vecchio problema", in Diritto immigrazione e cittadinanza, 10 (2008), 3-4, pp. 44-56.

9. Il Disegno di Legge n. 733 - approvato in Senato il 5/02/2009, trasmesso alla Presidenza del Parlamento il 9/02/2009, approvato con modificazioni alla Camera (C. 2180) il 14 maggio 2009 - è stato approvato definitivamente il 2 luglio 2009, divenendo Legge. Nella presente versione scritta dell'intervento, possiamo aggiungere che la Legge 15 luglio 2009, n.94 è stata promulgata dal Presidente della Repubblica il 15/07/2009 e pubblicata sulla G.U. n.170 del 24 luglio 2009.

10. Come, l'introduzione del reato di ingresso e/o soggiorno illegale, l'obbligo di certificazione (da parte del Comune) dell'idoneità abitativa dell'alloggio ai fini del ricongiungimento, l'"accordo di integrazione" che prevede il permesso di soggiorno 'a punti', etc.

11. A. Simoni, Stato di diritto e identità rom, cit.

12. E' da notare che nel DDL 733 l'articolo sulla residenza anagrafica (art. 16) subordinava totalmente quest'ultima alla verifica ("l'iscrizione anagrafica è subordinata alla verifica, da parte dei competenti uffici comunali, delle condizioni igienico-sanitarie dell'immobile...", corsivo nostro). La modifica introdotta nella Legge pone una questione né ingenua né innocua: quando, con quali criteri e - dunque - per quali richieste viene ordinata la verifica?

13. M. Herzfeld, Intimità culturale, Napoli, L'Ancora, 2003.

14. Per ciò che riguarda, l'elemosina, ad esempio, esiste una decodificazione errata da parte dei non-rom di ciò che sta accadendo al bambino rom in quel momento e alla sua famiglia. Si veda, a proposito, C. Saletti Salza, "I minori 'nomadi' e le relazioni economiche e sociali con i gagé. Qualche riflessione sull'accattonaggio tra i romá", in MinoriGiustizia. Rivista interdisciplinare di studi giuridici, psicologici, pedagogici e sociali sulla relazione fra minorenni e giustizia, (2008), 3.

15. Lo studio, da me pubblicato nel 2008 presso l'editore CISU col titolo La zingara rapitrice. Racconti, denunce, sentenze (1986-2007) fa parte di una più ampia indagine commissionata dalla Fondazione Migrantes al Dipartimento di Psicologia e Antropologia culturale dell'Università di Verona, a cui hanno partecipato Leonardo Piasere, quale direttore della ricerca, e Carlotta Saletti Salza, curatrice dello studio sugli affidamenti e adozioni di minori rom o sinti. La ricerca che ho condotto ha riguardato tutto il territorio nazionale dal 1986 al 2007. I casi sono stati individuati e analizzati partendo dall'archivio Ansa e arrivando alla consultazione dei fascicoli dei Tribunali, dividendo così lo studio in tre fasi: individuazione nell'archivio Ansa dei fatti di nostro interesse; studio del corpus ricavato dall'archivio Ansa per individuare i casi; lavoro sui casi: consultazione dei fascicoli processuali, ricostruzione, comparazione. Quest'ultima fase - che partiva, appunto, dalle informazioni contenute nelle notizie Ansa - ha avuto la sua attività principale nel contatto con le Forze dell'ordine, Procure e Tribunali al fine di verificare se il fatto avesse avuto un prosieguo significativo in termini penali. In caso affermativo, si è cercato di ottenere i permessi per la visione dei fascicoli. Alcune volte, è stato possibile avere un colloquio con il PM e con gli avvocati; in altre, la distanza temporale ha complicato questi passaggi. Per molti è stato possibile anche raccogliere gli articoli apparsi sui giornali e sul web. In due casi - Lecco e Firenze - è stato possibile assistere alle udienze.

16. L. Arcuri, Conoscenza sociale e processi psicologici, Bologna, Il Mulino, 1985, p. 178.

17. Per quanto riguarda gli episodi di sparizione di bambini (11 casi analizzati), nella maggioranza molto noti all'opinione pubblica, ho ricostruito i vari momenti in cui i rom e sinti entravano tra i soggetti sospetti e gli esiti degli accertamenti che derivavo dall'attività investigativa (sempre negativi). La drammaticità delle vicende di queste sparizioni si rende ancora più acuta in quelle narrazioni di cui si conosce l'epilogo: l'opposizione fra ciò che è accaduto realmente a questi bambini e l'immaginario stereotipico del rapimento da parte dei rom emerge con una forza squassante. Questi bambini, infatti, sono stati vittime di una violenza brutale tutta interna ai contesti dove vivevano: pedofili, conoscenti, parenti.

18. Nel testo vengono presentati e discussi uno ad uno in particolar modo attraverso i fascicoli processuali. Si tratta di Desenzano del Garda (Brescia), 1996; Castelvolturno (Caserta), 1997; Minturno (Latina), 1997; Roma 2001; Lecco 2005; Firenze 2005; a questa lista potremmo ora aggiungere il caso di Ponticelli.

19. Piercarlo Pazé, Ex-procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni di Torino e direttore Direttore della rivista "Minori e giustizia", intervento al seminario "La zingara rapitrice. Presentazione di uno studio di casi di presunto rapimento dal 1986 al 2007 in Italia", Torino, Università di Torino, Dipartimento di Studi Politici, 28 gennaio 2008.

20. Come abbiamo detto sopra, si tratta sempre di "delitto tentato" (art. 56 c.p.). Con sequestro, si intende l'art. 605 c.p. "sequestro di persone"; con sottrazione, ci si riferisce all'art. 574 c.p. "sottrazione di persone incapaci".