2009

Educare ai diritti, tutelare i diritti, negare i diritti
Quale destino per i migranti di fede islamica?

Orsetta Giolo

Il volume curato da Alessandro Ferrari ha il pregio, a mio parere, di aiutare il lettore a de-mitizzare l'Islam. L'approccio che caratterizza, in modo trasversale, i diversi saggi contenuti nella raccolta mira infatti a relativizzare e contestualizzare molte delle questioni che tradizionalmente si affrontano con riferimento alla religione islamica. Vi sono alcuni termini che ritornano spesso in tutto il volume: de-mitizzare, de-islamizzare, de-eccezionalizzare.

L'intento, estremamente salutare, probabilmente risiede nello svelamento, e nello svuotamento, delle retoriche sul mondo islamico che ormai sembrano essersi "calcificate". Si tratta, a mio avviso, di una prospettiva assolutamente condivisibile.

Molte sono le questioni interessanti approfondite dai diversi autori (il matrimonio, la scuola, le vicende europee) ma due sono in particolare i temi che vorrei, seppur brevemente, affrontare: l'esperienza della Consulta per l'Islam italiano e la tutela dei diritti dei musulmani migranti.

1. La Consulta per l'Islam italiano e la Carta dei valori della cittadinanza e dell'integrazione

Mi chiedo: non è possibile professare l'Islam al di fuori della diretta gestione statale? E' davvero necessario che anche in Italia, come avviene del resto in tutti i paesi a maggioranza musulmana, sia lo Stato a dover decidere "chi sta dentro" e "chi sta fuori", "chi è buono" e "chi è cattivo"? La Consulta per l'Islam italiano ha prodotto come suo primo, e forse unico, effetto, quello di dividere in meritevoli e non meritevoli i membri della Consulta stessa, scatenando una durissima polemica attorno alla presenza e alle dichiarazioni dell'UCOII. Mi pare che fino ad ora la Consulta, dunque, abbia saputo solo stigmatizzare ulteriormente comportamenti e posizioni, ignorando, come ricorda Allievi, "la maggioranza silenziosa dei musulmani" che non si riconosce in nessuno dei membri nominati dal Ministro dell'Interno. Forse i musulmani silenziosi non interessano allo Stato italiano? Non pongono problemi? Sono da considerare "integrati"?

Mi chiedo, ancora: è possibile che la Carta dei valori, redatta in seno alla Consulta, debba essere considerata una carta utile per l'integrazione? Questo documento non istituisce piuttosto, come ricorda Stefano Allievi nel suo saggio, un trattamento differenziato per le comunità islamiche, sancendo, nemmeno in modo tanto implicito, l'esistenza di una presunzione di colpevolezza collettiva di tutti i cittadini di fede musulmana? Ironicamente, il titolo completo della Carta dei valori è "Carta dei valori della cittadinanza e dell'integrazione". Ma non è chiaro in che senso si usi il termine "integrazione", poiché se l'intento della Carta è quello di imporre l'adesione ad un sistema di diritti e principi considerati fondamentali, va quantomeno sottolineato il fatto che poi, tuttavia, questi stessi diritti e principi non sono applicati e rispettati universalmente nei confronti di tutti i musulmani che, in Italia, sono per lo più migranti.

2. I musulmani "migranti"

L'analisi di Felice Dassetto sulle mutazioni della presenza "musulmana" in Europa è estremamente interessante, ed è innegabile che in Italia questa sia aumentata esponenzialmente negli ultimi anni, con la crescita dell'immigrazione verso il nostro paese. Ciò comporta che oggi, in Italia, ci sia una coincidenza tra soggetti che produce effetti dirompenti. Per ora, nel nostro paese, il musulmano è ancora il migrante, ed è cosa nota che la legislazione italiana vigente in tema di immigrazione sia fortemente lesiva di molti diritti fondamentali, riconosciuti a livello nazionale (la Corte Costituzionale è già intervenuta più volte sul Testo Unico sull'immigrazione) e internazionale (penso alle ultime sentenze della Corte europea di Strasburgo in tema di espulsioni). Quali cortocircuiti può creare un progetto che chiede a qualcuno di aderire ad un sistema dal quale poi dovrà rimanere sistematicamente escluso?

Il saggio di Letizia Mancini contiene alcuni accenni importanti a questo tema: l'autrice cita il caso delle donne provenienti da paesi musulmani grazie ad un provvedimento di ricongiungimento familiare. Queste, come tutte le donne migranti, in caso di divorzio, non possono convertire il permesso per ricongiungimento in un altro titolo di soggiorno ad hoc, in ragione della vigente legislazione italiana sull'immigrazione - di chiara impronta famigliocentrica –, e non in base alla religione islamica!

Allora, quale "integrazione" delle donne musulmane si va predicando? Poniamo il caso di una donna migrante di fede islamica che subisce maltrattamenti ad opera del coniuge: se questa riesce in qualche modo a sfuggire al marito-aguzzino, casomai portando con sé i figli, non troverà alcun tipo di sostegno specifico sul piano giuridico. Questa donna integrata rispetto ai c.d. "nostri valori" (o piuttosto alle nostre "retoriche", visto che la violenza sulle donne è una pratica transculturale e i dati in Italia sull'argomento sono sconcertanti) non troverà il modo di ottenere un permesso di soggiorno in cui convertire quello avuto con il ricongiungimento familiare e dovrà, entro sei mesi, necessariamente, trovare un lavoro (ma chi ci potrà riuscire? Casomai nemmeno parlando bene l'italiano, essendo sempre rimasta a casa, avendo dei figli da badare, essendo arrivata da poco in Italia...), altrimenti riceverà l'espulsione. Si tratta di un caso paradigmatico poiché da anni esiste questa lacuna legislativa evidente, e da anni nessuno provvede a colmarla.

E' chiaro che in tal modo si finisce per costruire programmaticamente l'esclusione, scatenando reazioni identitarie dagli effetti imprevedibili. La politica delle identità l'ha ben spiegato: se tu sei il mio oppressore, io non vorrò assomigliare in nulla a te che mi opprimi, e chi vorrà adeguarsi al modello culturale dominante dovrà essere considerato un collaborazionista.

3. Diritti condivisi, diritti negati

Vale la pena citare, a questo punto, i bellissimi e significativi documenti prodotti di recente dalle organizzazioni non governative indipendenti del Nord Africa in materia di immigrazione.

Sono documenti che sfatano clamorosamente quell'immagine stereotipata che la xenofobia europea, in alleanza alla c.d. "vulgata islamica" (quella, secondo alcuni autori, dettata dall'Islam globale, standardizzato, semplificato attorno a pochi dogmi indiscutibili), concorre a dare dei cittadini di fede islamica, dipingendoli come una massa di rozzi, analfabeti, violenti.

Le società civili nordafricane si esprimono da tempo in decine di documenti molto significativi sui temi dello jus migrandi, delle politiche repressive europee, della prassi dell'esternalizzazione dei controlli.

Ciò che più colpisce di questi testi è il ricorso a quel linguaggio dei diritti che ormai l'opinione prevalente considera di esclusivo dominio occidentale. Non solo si utilizzano le stesse parole e gli stessi concetti, che del resto appartengono al diritto internazionale, ma si ripropongono gli stessi dibattiti che abitualmente si ritengono confinati esclusivamente in occidente. Il consenso sui diritti, stando a simili documenti, sembrerebbe appartenere trasversalmente alle culture, e a Sud il problema principale risiederebbe nelle violazioni dei diritti fondamentali che i migranti patiscono ad opera dei governi nazionali (europei e nord-africani) e della comunità internazionale, che ancora non riconosce il diritto di immigrare. Vale la pena riportare, a titolo esemplificativo, il Manifeste non gouvernemental euro-africain sur les migrations, les droits fondamentaux et la liberté de circulation (Rabat, 1 luglio 2006), l'appello "Face à la directive de la honte, le mutisme coupable des dirigeants maghrébins!", il Rapport relatif au naufrage de migrants au large des côtes d'Al-Hoceima dans la nuit du 28 au 29 mars 2008, e il Rapporto del 14 maggio 2008 dell'Association des amis et des familles des victimes de l'immigration clandestines (documenti consultabili sul sito web e-Joussour).

Anche in tema di immigrazione e di integrazione-inclusione occorre allora "de-islamizzare" il dibattito, relativizzando la componente religiosa e sottolineando la dimensione umana del migrante.

Se vogliamo discutere attorno ai diritti e ai principi da porre come basi della convivenza civile, è necessario ridurre i margini di ipocrisia il più possibile. Non è credibile chi vuole "educare ai diritti" (per usare un'espressione forte) violandoli.

Non è nemmeno da sottovalutare il fatto che l'identità musulmana dei migranti sia rimasta per lungo tempo un elemento marginale dell'immigrazione quando, negli anni sessanta e settanta, non si era ancora ricorsi alla chiusura delle frontiere (come sottolinea Felice Dassetto) poiché rimaneva contenuto il numero degli arrivi. Se l'islamizzazione avviata negli anni settanta nei paesi di arabi ha sicuramente influito sulla costruzione delle personalità e delle identità culturali dei migranti che cominciavano più numerosi a partire, la chiusura delle frontiere europee, pressoché contemporanea, ha sicuramente contribuito a rafforzare l'"islamità " dei migranti stessi. E questo rapporto funziona tutt'ora: nell'era di Al-qaeda, del fondamentalismo e del terrorismo di matrice islamista, la chiusura violenta delle frontiere della Fortezza Europa sta contribuendo a radicalizzare l'identità religiosa dei migranti in termini oppositivi rispetto ai c.d. valori europei. Non a caso è più facile riconoscere pluralismo, dinamismo, vivacità nelle società civili dei paesi di origine dei migranti musulmani (penso all'attivismo dell'associazionismo civile, alla letteratura, al cinema, alle università...) piuttosto che nelle comunità musulmane residenti in Europa, le quali ci appaiono come più chiuse e tradizionaliste.

Del resto, è cosa nota: l'emarginazione produce radicalizzazione dei conflitti (delle banlieues parigine ancora si discute) e reazioni identitarie. La nostra esclusione sistematica dei musulmani migranti in primo luogo dal godimento dei diritti fondamentali non farà altro che produrre ostilità, e l'Islam europeo non potrà che costruirsi in termini oppositivi rispetto all'Europa stessa. Se i diritti, del resto, servono solo a tutelare il più forte, chi si trova in una condizione di precarietà e debolezza non potrà fare altro che rifiutarli, riconoscendovi solamente l'altra faccia dell'oppressione.