2009

Commento a Islam in Europa/Islam in Italia

Nicola Fiorita (*)

Dopo alcuni anni in cui si è discusso fin troppo di Islam, questi primi mesi del 2009, così densi di angosce finanziarie e di duelli tra cultura laica e gerarchie cattoliche, sembrano aver cancellato il "problema mussulmano" dall'elenco delle priorità pubbliche. Questa minore attenzione mediatica permette comunque di sganciarsi dalle pressioni dell'attualità e di accostarsi al "tema Islam" con una visione più pacata e più meditata. Il volume curato da Alessandro Ferrari fornisce a chi si voglia cimentare in questa operazione una solidissima base di partenza, non tanto e non solo per le conoscenze e gli approfondimenti che lo connotano ma anche e soprattutto per il modo con cui propone questi elementi al dibattito.

Già nelle primissime pagine del volume viene scandito l'impianto su cui si innestano tutti i contributi che poi si susseguono. Vi è, nitida, l'indicazione di privilegiare nello studio dell'Islam l'interdisciplinarietà, la contaminazione tra saperi e sensibilità, alla ricerca evidentemente di una ricchezza di linguaggio e di metodologia che possa riflettere la ricchezza dell'oggetto studiato. Vi è la condivisibile individuazione dei profili maggiormente problematici dell'Islam che attraversa questi nostri tempi, con la conseguente perimetrazione di tre spazi strategici entro cui far confluire le analisi: la famiglia, la scuola e il problema della rappresentanza, specie nella delicata versione relativa alla scelta e alla formazione degli imam. Vi è, ancora, la consapevolezza che tali profili non possono essere affrontati con lo sguardo miope che si posa solo sulle cose vicine, richiedendo invece una comparazione continua tra le scelte compiute dall'ordinamento giuridico di casa nostra e quelle proprie di altri Stati. E, infine, vi è la richiesta rivolta a tutti gli operatori giuridici, ma principalmente al legislatore, di compiere uno sforzo che consenta di mantenere la questione islamica all'interno di una prospettiva complessiva. Una prospettiva che non può che risultare orientata dai principi costituzionali e che deve accompagnare la riconduzione della regolamentazione dell'Islam nell'alveo del diritto generale, ponendo fine alla tendenza a trattare in forma eccezionale le controversie che riguardino i musulmani e restituendo così assoluta centralità al fondamentale principio di uguaglianza.

La crisi di quest'ultimo principio, che è evidentemente crisi che travalica la questione islamica ma che proprio qui si produce nelle sue forme più manifeste, genera infatti un gravissimo pericolo: il pericolo che per le più diverse motivazioni l'Islam venga confinato in un angolo buio dell'ordinamento giuridico, in uno scantinato normativo dove i principi generali non valgono più e dove le soluzioni sono cercate caso per caso sull'onda delle emozioni, delle tensioni o comunque di istanze emergenziali.

Un rischio accentuato dallo iato enorme che oramai separa le riflessioni dei giuristi dalle reazioni dell'opinione pubblica e della politica (che peraltro sempre di più finiscono con il divenire indistinguibili). Basti pensare al caso aretino richiamato nelle sue conclusioni da Margiotta Broglio e che ho avuto modo di seguire da vicino. Per quanto incredibile possa sembrare, il rifiuto del Consiglio della circoscrizione di Rigutino di concedere la possibilità ai musulmani di essere seppelliti nel cimitero comunale, in ragione delle regole confessionali che impongono la sepoltura perpetua, ha costretto la giunta aretina ad accantonare le proprie proposte di regolamentazione della materia in spregio a qualsiasi principio giuridico e, direi, a qualsiasi principio di umana ragionevolezza.

Ma è soprattutto la conoscenza della legislazione degli altri ordinamenti, la cui ricostruzione è operata da Felice Dassetto, a dimostrare quanto peculiare sia la difficoltà italiana ad allargare le maglie del proprio diritto fino a farvi rientrare l'Islam. Una difficoltà che ovviamente non è sconosciuta a tutti gli Stati occidentali ma che solo nel nostro Paese sembra progressivamente trasformarsi in una inopinata e pericolosissima indifferenza. Da questo punto di vista, occorre segnalare come la nuova fase apertasi con la legislatura in corso si sia contraddistinta, almeno fino ad ora, per la totale rimozione del problema Islam dall'agenda di governo. Il problema Islam - ovvero quali risposte fornire alle domande scaturenti dalla presenza massiccia nel nostro territorio di fedeli di una confessione religiosa così peculiare, come collocarla all'interno del quadro giuridico che è venuto sin qui delineandosi - è stato semplicemente cancellato, sostituito silenziosamente dal problema delle persone che lo incarnano, ovvero dagli immigrati.

Non si discute più di un'intesa con l'Islam o con una parte dell'Islam, si è accantonata l'idea di una legge generale sulla libertà religiosa che prenda il posto della legge sui culti ammessi e intervenga a regolamentare la vita delle confessioni senza intesa, si è tacitamente affossata la Consulta islamica che pure era stata istituita dalla medesima maggioranza che oggi governa il Paese e finanche la Carta dei Valori sembra miseramente abbandonata al suo destino.

La questione religiosa, con tutti suoi principi costituzionali di riferimento, è sostanzialmente scomparsa e ciò sembra funzionale al contestuale deterioramento della condizione giuridica degli immigrati, attraverso disposizioni allarmanti come quella che istituisce le ronde o quella che dispone la denuncia degli irregolari da parte dei medici o attraverso provvedimenti semplicemente ridicoli come quello che introduce il divieto di consumare kebab all'interno della cinta muraria di Lucca.

Occorre, dunque, restituire visibilità alle esigenze e alla richieste religiose dei musulmani che vivono in Italia e, più in generale (e riprendo qui un passo del contributo di Tariq Ramadan) occorre ridare visibilità all'Islam, immettere l'Islam nel circuito democratico, ovvero creare le condizioni perché i musulmani possano pienamente partecipare alla vita pubblica e così fidarsi dello Stato e la restante popolazione possa sbarazzarsi della diffidenza verso chi non si conosce e così fidarsi del nuovo arrivato.

In questo senso non può non convenirsi con quanto affermato da tutti gli autori che sono intervenuti in questo libro, ovvero che la soluzione del problema Islam passa da una disponibilità reciproca che permetta di coniugare il rispetto dei principi generali con l'accoglienza della diversità islamica, separando dal grande insieme delle tradizioni e delle narrazioni di una esperienza millenaria e plurale ciò che sarà accoglibile da ciò che inevitabilmente non lo potrà essere. Ma, come ricorda Silvio Ferrari, questa opera di selezione non passa necessariamente per la creazione di organi ad hoc o per la predisposizione di documenti appositi. Per quanto l'Islam si presenti al nostro ordinamento con una cifra di complessità inedita, la vera sfida è piuttosto quella di sciogliere i nodi senza operare stravolgimenti di fondo del nostro sistema. Il modello italiano di regolamentazione del fenomeno religioso può (e, a mio avviso, deve) resistere a questa tensione, trattandosi semplicemente di predisporre gli adattamenti funzionali a governare le speciali difficoltà indotte dal consolidamento della presenza islamica nel nostro paese.

E venendo proprio alla situazione italiana, estremamente utile mi sembra il lavoro di Stefano Allievi che nel suo contributo procede ad un aggiornamento della struttura organizzativa dell'Islam che agisce nell'ambito dei nostri confini, fornendo materiale di grande interesse per future riflessioni. Ma già da adesso possiamo chiederci se l'affossamento della Consulta islamica e il ridotto fascino sprigionato dalla Carta dei Valori - indipendentemente dal giudizio che ognuno di noi si è formato su queste esperienze - non abbiano scontato in buona parte la recente scelta di isolare l'U.C.O.I.I., ovvero l'organizzazione islamica maggioritaria nel panorama nazionale. La determinazione, chiaramente percepibile nella Relazione sull'Islam predisposta dal Consiglio scientifico nominato dal ministro Amato, di agevolare la formazione di un Islam italiano coeso e malleabile ha inevitabilmente prodotto delle fratture che hanno indebolito la Consulta, organo nato con l'opposto scopo di garantire la rappresentanza più ampia dell'Islam italiano, ma ha anche debilitato la Carta dei valori accentuandone il carattere politico ed escludente rispetto a quello giuridico ed inclusivo. Considerazioni su cui occorrerà ritornare quando, e prima o poi dovrà accadere, anche l'attuale Ministro dell'Interno intenderà abbozzare una sua politica ecclesiastica.

In questo contesto, comunque, è ovvio che la questione dell'intesa - cui pure sono dedicati i due pregevoli saggi di Colaianni e Casuscelli - diviene meno urgente e meno attraente, non apparendo credibile che nell'attuale clima sociale e politico si possa giungere alla stipulazione di un accordo - più o meno esteso, più o meno soddisfacente - tra il Governo e una qualche rappresentanza dell'Islam. Ciò non toglie che la realtà continui a premere e che i lavoratori musulmani rivendichino il diritto di interrompere la propria attività per pregare, che i genitori chiedano che i propri figli possano accedere a menu religiosamente compatibili nelle mense scolastiche, che sorgano qua e là delle scuole islamiche, che giungano in Italia famiglie poligamiche, che i fedeli si riuniscano in qualche garage per esercitare il culto e così via. In questo senso, merita richiamare l'avvertenza contenuta nello scritto di Werner Menski, laddove si rimarca come il semplice disconoscimento di esigenze nuove e specifiche non disinnesca di certo i conflitti, rischiando al contrario di condurre alla predisposizione di un diritto inefficace e di agevolare il confinamento di determinati comportamenti e pratiche nell'invisibilità giuridica, in quegli scantinati di cui parlavo in precedenza dove il diritto non vede e l'ordinamento non duole ma anche là dove non arriva l'integrazione e alligna il rischio che nascano società parallele, ghetti, comunità chiuse e impermeabili alla modernità che sono - come evidenzia ancora Margiotta Broglio - il vero rischio che le società europee devono neutralizzare.

Tra le tante questioni aperte ne scelgo due su cui soffermarmi brevemente, quella delle moschee e quella degli imam, ritenendo che esse rappresentino le sfide più urgenti per il nostro ordinamento.

Scrive nel suo intervento Paolo Branca, che la funzione sociale aggregante e politica, naturalmente propria delle moschee, è destinata a divenire ancora più marcata in terra di emigrazione, per la tendenza di questi luoghi a fungere da principali se non esclusivi punti di riferimento delle neonate comunità locali di immigrati di fede islamica. Se ciò è vero, le moschee si collocano necessariamente al centro di ogni riflessione sull'Islam che vive attorno a noi. E come sempre, quando si parla di Islam occorrerà evitare ogni tipo di forzatura. Non si dovrà cioè negare l'esistenza di problemi connessi a questa dimensione - uno per tutti, che le moschee divengano luogo di reclutamento o comunque di diffusione di un Islam astorico e politico - ma allo stesso modo non si dovrà strumentalizzare qualche elemento di criticità per giungere a negare ai musulmani quanto riconosciuto a tutti gli altri, come per l'appunto avviene nelle proposte giuridicamente aberranti di sottoporre all'esperimento di un previo referendum popolare l'apertura di una moschea.

I medesimi problemi, peraltro, si erano presentati con qualche anno di anticipo anche in Francia, eppure oggi - come apprendiamo dall'intervento della Basdevant-Gaudemet - in questo Paese si contano 1.700 luoghi di culto islamici, di cui almeno la metà vere e proprie moschee, la questione è stata al centro di uno studio approfondito da parte di una apposita commissione governativa e le istituzioni cercano di garantire il rispetto delle regole vigenti superando le diffuse resistenze locali. Fatta la tara di tutte le differenze di tempo e di luogo, di tutte le diversità di contesto e di storia, delle specificità nazionali, di eventuali rimasugli di cattiva coscienza coloniale (che pure dovrebbero condizionare anche noi italiani) e di ogni altra circostanza rilevante resta il fatto che in un sistema improntato alla cosiddetta laïcité de combat e fermo nel ribadire il divieto di finanziamenti pubblici per la costruzione di edifici di culto le moschee si costruiscono e si aprono, mentre nel nostro sistema improntato al favor religionis e alla laicità positiva, prodigo di finanziamenti pubblici per tutto ciò che abbia anche la minima parvenza di religioso, le moschee non si costruiscono e i luoghi di culto islamici si chiudono per l'una o per l'altra ragione.

Quanto agli imam, ancora una volta si tratta di una questione che si propone in tutti gli ordinamenti europei senza che vi siano a disposizione soluzioni magiche o esperienze collaudate. Al contrario, non vi è dubbio che in Europa questa funzione sia attualmente esercitata da un ceto di funzionari religiosi complessivamente inadeguato al ruolo cruciale che la prassi gli consegna, essendo essi chiamati a svolgere una delicatissima attività di mediazione tra la comunità religiosa e le istituzioni pubbliche, a guidare quella medesima comunità in un contesto sociale improntato a valori non islamici, ma anche a traghettare verso sponde ignote un Islam europeo che cambia giorno dopo giorno, assecondandone l'ibridazione permanente o, al contrario, negandone la vitalità. Un ceto che si rivela inadeguato di fronte a sfide così impegnative perché almeno in parte composto da soggetti che non conoscono sufficientemente il sistema giuridico del paese di accoglienza, che a volte ne ignorano addirittura la lingua, che magari non possono dedicarsi a queste funzioni a tempo pieno dovendo svolgere altre attività lavorative e che in alcune occasioni accedono a questa carica senza una formazione specifica e senza aver maturato in precedenza alcuna esperienza significativa.

Certo, come scrive ancora Paolo Branca, il compito dei poteri pubblici deve essere quello di agevolare la nascita di una nuova generazione di leader religiosi resistendo alla tentazione di plasmare le organizzazioni islamiche e rinunciando alla pretesa che l'Islam si strutturi secondo il nostro modello tradizionale di confessione religiosa, gerarchica e verticistica, ma resta ancora incerto quale possa essere il punto di equilibrio di ogni intervento statale in materia; quali azioni possano essere assunte per favorire la formazione degli imam ed esercitare i controlli che si rivelino necessari sulla loro attività senza ledere l'autonomia confessionale garantita dall'art. 8, secondo comma, della Costituzione.

Come è opportuno che sia, il volume curato da Alessandro Ferrari non fornisce risposte certe e preconfezionate, ma stende sapientemente sul tappeto dell'analisi giuridica tutte le più significative questioni che si agitano intorno all'Islam italiano. Le traiettorie che il nostro ordinamento deciderà di percorrere restano ancora imperscrutabili, ma quelle che assumeranno le ricerche future degli studiosi e le proposte degli specialisti dipenderanno non soltanto dalle risposte che ciascuno maturerà per suo conto quanto piuttosto dalla capacità di porsi e di porre alla comunità scientifica le domande giuste. Che poi è proprio quello che avviene in questo volume.


*. Università di Firenze.