2007

Femminismo e Islamismo
Pratiche politiche e processi di identificazione in epoca post-coloniale (*)

Ruba Salih

Se per lungo tempo femminismo e Islam sono apparsi come pratiche e discorsi inconciliabili, nel corso dell'ultimo ventennio, il cosiddetto "femminismo islamico" ha guadagnato una crescente legittimità, sia in Europa che nel mondo musulmano, come terreno attraverso cui le donne musulmane aspirano a rivendicare i propri diritti, senza deviare da quello che è considerato il proprio retaggio culturale e religioso, seppur soggetto a negoziazioni e rinegoziazioni spaziali e temporali inevitabili e continue. In questi anni, una crescente letteratura ha infatti cominciato a fare lue sulla nascita e attecchimento di nuove soggettività femminili islamiche in gran parte del Medio Oriente e del Nord Africa. In Egitto le donne partecipano attivamente a gruppi islamici che propongono una agenda di trasformazione politica e sociale come quello della Fratellanza Musulmana e, più recentemente, le donne hanno iniziato a prendere parte attiva anche in gruppi come i Salafi, Zahra o il Tabligh, gruppi con un orientamento più mirato alla trasformazione islamica della società, che alla opposizione nei confronti del regime. Molti studi che in questi anni si sono occupati di analizzare l'emergere delle donne come testimoni della nascita di una nuova moderna soggettività musulmana sottolineano che il crescente riferimento all'Islam come quadro all'interno del quale rivendicare diritti nasce in opposizione ad un femminismo di stampo laico, occidentale, élitario, composto prevalentemente da donne delle classi medio alte, e che ha fatto sua la retorica occidentale e coloniale della modernizzazione, concepita come acquisizione di un modello di società occidentale (1). Molte ricerche decifrano la crescente attitudine ad indossare il velo da parte di giovani donne in gran parte del mondo musulmano ed europeo come simbolo di una moderna identità musulmana (2). In Marocco, un numero sempre maggiore di donne urbanizzate e acculturate, soprattutto tra la popolazione studentesca delle università, sceglie di indossare il velo come simbolo che garantisce loro una sorta di separazione simbolica tra sfera pubblica e privata, pur non impedendo loro una certa libertà di movimento nella sfera pubblica. Sempre in Marocco, è stato sottolineato come l'attivismo delle donne in partiti islamici come Al-adl wa al Ihsan sia un mezzo per acquisire strumenti, conoscenza, competenze e un tipo di identità compatibili con uno stile di vita moderno (3). L'attivismo delle donne nelle associazioni o nei partiti, o più semplicemente nelle moschee, o finanche nei dormitori studenteschi, prende la forma di una forte attitudine alla trasformazione e alla crescita individuale, attraverso precise "tecnologie del sé" e pratiche del corpo che si pongono in una relazione dinamica con la trasformazione e la promozione di riforme sociali. Sebbene gran parte della letteratura ponga l'accento sulla agency femminile, è stato opportunamente sottolineato come il terreno su cui l'islamismo guadagna crescente popolarità tra le fasce giovanili e le donne sia quello della crescente insoddisfazione e insicurezza economica dovuta ai fallimenti dei processi di modernizzazione e ai programmi di aggiustamento strutturale e di liberalizzazione (4). Una ricerca tra le donne delle classi medio-basse egiziane ha mostrato per esempio che il velo per molte donne significa maggiore garanzia di trovare marito, ma non si traduce necessariamente in una condivisione delle agende sociali o politiche dei movimenti islamici (5).

Questi processi di islamizzazione sono altamente contestati in Europa e nel mondo arabo e/o musulmano da studiose e attiviste che mirano a de-naturalizzare termini e pratiche come "femminismo islamico" al fine di svelarne il carattere prettamente politico. Molte studiose denunciano il multiculturalismo e il relativismo culturale di stampo europeo come terreni su cui in questi anni si sono rafforzati disegni politici neo-conservatori e fondamentalisti.

Tra queste due posizioni estreme, che sovente condividono una tendenza a privilegiare un registro ideologico nella discussione sulla compatibilità tra Islam e femminismo, si collocano tutta una serie di posizioni "intermedie" le quali, affrontando il tema da un punto di vista storico- antropologico, giocano un ruolo critico assai importante nel dibattito. Queste analisi condividono una impostazione che vede la produzione di "discorsi" e "pratiche" come il femminismo e lo stesso islamismo non tanto come "dati" ma piuttosto come frutto di quell'interminabile flusso di prestiti, di intrecci tra culture e società a cui, pur in un contesto di totale asimmetria di potere, la modernità (e lo stesso colonialismo che ne è un aspetto centrale) ha dato luogo. Il femminismo islamico non è visto semplicemente come un percorso più culturalmente autentico ed incontaminato attraverso cui rivendicare determinati diritti, ma come frutto di una dinamica post-coloniale. Tuttavia, non si tratta di celebrare semplicemente l'emergere di nuovi femminismi come modernità alternative, ma piuttosto di comprenderne la genealogia al di là della retorica. Nelle parole di Lila Abu-Lughod, significa sottolineare che "tutte queste forme di femminismo sono il prodotto di storie complesse e di progetti di modernità che sono stati centrali in Medio Oriente". (6)

Questo saggio si propone di mostrare alcuni tratti di questo complesso dibattito. Il presupposto è che mai come ora è necessario trovare delle concettualizzazioni di femminismo che si pongano in un'ottica di superamento nei confronti di quell'approccio etnocentrico con cui molta parte del pensiero femminista occidentale ha per lungo tempo guardato ad altre esperienze di emancipazione, soprattutto nel mondo islamico. Il saggio quindi si interroga sulle questioni poste dal tentativo di superare una unica epistemologia femminista per avviare una nuova concezione del femminismo che sia in grado di cogliere le specificità culturali all'interno delle quali una molteplicità di movimenti femminili in diverse società avanzano richieste di diritti e di riconoscimento. Da una parte, pare giusto prestare attenzione alle voci critiche che sottolineano come una diffusa retorica multiculturalista in Europa abbia portato alla progressiva marginalizzazione delle voci laiche e progressiste nel mondo islamico, (così come in Europa). In taluni casi, nell'urgenza di produrre contro-discorsi che facessero da contrappeso alle rappresentazioni orientaliste frutto di una sempre più diffusa e pericolosa islamofobia, si è finito con lo sposare visioni totalmente a-critiche anche nei confronti di aspetti deplorevoli delle società e dei regimi musulmani. Tuttavia, queste giuste considerazioni corrono un rischio uguale e di segno opposto a quello da loro denunciato, cioè di marginalizzare come estremista e fondamentalista una vastità di soggettività e movimenti estremamente diversificati al loro interno, che, nelle proprie pratiche così come nei propri discorsi, propone la piena compatibilità tra la propria cultura e religione e i principi di uguaglianza tra i generi.

Femminismo e femminismi: nuovi paradigmi e nuove retoriche

La questione da cui muove questo saggio è che vi sono indubbiamente nel mondo diversi tipi e diverse pratiche del femminismo che corrispondono ai diversi tipi di oppressione che le donne subiscono nel tempo e nello spazio. Storicamente, una prima asse di tensione tra femminismo "occidentale" e altre pratiche femministe è emersa attorno alla in/compatibilità tra femminismo e nazionalismo. Molti movimenti femministi in paesi del cosiddetto 'sud del mondo' sono nati all'interno di sollevazioni popolari contro i colonialismi e, per lungo tempo, hanno trovato difficile, se non impossibile, separare la questione nazionale da quella di genere. Per esempio, il tipo di femminismo che molte palestinesi vivono non è in contrasto con il nazionalismo, in quanto l'oppressione che deriva dalla loro identità nazionale come palestinesi non è scindibile dalla oppressione cui sono soggette nella società patriarcale in cui sono cresciute. Il nazionalismo, d'altra parte, è osteggiato o considerato come incompatibile con il perseguimento di una agenda femminista da molte femministe europee le quali ritengono che lo stato-nazione sia una costruzione artificiale e oppressiva nei confronti delle donne. Oggi, questa tensione si gioca piuttosto sulla compatibilità tra "femminismo" o diritti delle donne e Islam e non oppone semplicemente donne musulmane a donne occidentali: voci che sostengono la compatibilità tra femminismo e Islam, così come quelle che ritengono il "femminismo islamico" un ossimoro sono trasversali al mondo occidentale e a quello musulmano.

Ovviamente, non si vuole qui affatto sostenere che il femminismo occidentale o europeo sia un monolite da contrapporre ad altre pratiche e pensieri del femminismo non-europeo. Basti pensare alle profonde differenze che caratterizzano il "pensiero della differenza" rispetto al femminismo di stampo marxista, solo per fare un esempio, differenze che sono peraltro presenti in varie forme anche nelle pratiche e nelle elaborazioni dell'attivismo femminile di altre parti del mondo (7). Tuttavia, è innegabile che eventi come la schiavitù, il colonialismo, le lotte di liberazione nazionale abbiano "posizionato" le donne in modo diverso nel mondo e ne abbiano segnato profondamente e in modo diverso i linguaggi, le pratiche, e le problematiche. Fatta questa importante precisazione, va pure sottolineato che mai come oggi si assiste ad un dibattito assolutamente trasversale al mondo occidentale, europeo, e al mondo arabo e islamico, dibattito al cui centro si pongono questioni sulla conciliabilità tra uguaglianza di genere e Islam. Mentre in Europa il dibattito si è articolato soprattutto in termini di domanda di riconoscimento di differenza e di rivendicazioni di nuovi modelli di cittadinanza, nel mondo islamico si è accentuata la necessità di produrre un discorso sul femminismo e sui diritti delle donne di segno indigeno, cioè non tacciabile di essere imposto dall'esterno e quindi di rottura con la percezione del femminismo come forma di imperialismo culturale. La necessità di ancorare la lotta per i diritti delle donne alla propria "cultura" risente in parte di un più ampio mutamento che investe l'analisi delle forme di oppressione cui le donne, così come pure le "minoranze", sono soggette: nel linguaggio e nelle agende di lotta di movimenti sociali attraverso il globo il paradigma "culturale" ha rimpiazzato quello "economico", il riconoscimento della differenza e la politica dell'identità sono divenuti terreni di lotta fondamentali nell'epoca post-coloniale.

Reciprocità di sguardi e questione femminile

Un ruolo non trascurabile nel progetto di ricerca di un femminismo "autoctono", spesso denominato come "islamico", è giocato dal desiderio simultaneo di liberarsi dalle e ribellarsi alle rappresentazioni coloniali e neo-coloniali che hanno visto nella cultura locale, (cioè l'Islam) la causa principale della supposta arretratezza della società musulmane e della subordinazione femminile. La "questione femminile" è stata un elemento centrale dell'incontro - scontro con la civiltà europea che si è venuto affermando soprattutto a partire dal 19 secolo. Come molti studiosi hanno mostrato è in relazione ed in opposizione ad un Oriente costruito e rappresentato nel corso degli ultimi tre secoli come barbaro e retrogrado che si è storicamente affermata l'identità europea ed occidentale (8). Ma lo sguardo sull'Oriente non è solo quello del soggetto occidentale, è lo sguardo di un soggetto maschile. L'oriente non è infatti solo una costruzione culturale, come sostiene Edward Said nel suo celebre Orientalismo ma è anche una costruzione sessuale, è una fantasia costruita sulla differenza sessuale. Non a caso la "missione civilizzatrice" degli amministratori coloniali e dei missionari cristiani basava ampiamente la sua retorica discorsiva sulle abitudini sessuali e sulle tradizioni familiari dei musulmani. La donna, rappresentata come reclusa da una molteplicità di muri e veli, fu vista come la concreta incarnazione delle tradizioni islamiche oppressive e barbare di cui l'Oriente si doveva assolutamente liberare se voleva raggiungere il livello di sviluppo acquisito dalla civiltà dei colonizzatori europei. La subordinazione della donna nella società musulmana ed orientale veniva letta dai colonizzatori come conseguenza diretta della religione islamica e pratiche come il velo, l'harem e la poligamia erano viste come gli strumenti atti a preservare i tratti essenziali della tradizione e della religione islamica (9).

Non sorprende quindi che, nella lunga storia di relazioni tra Islam e mondo cristiano-occidentale, le donne e la famiglia abbiano finito con l'incarnare un'area di resistenza culturale, divenendo l'ultimo e inviolabile simbolo depositario della identità musulmana. E, come vedremo, è questo uno dei principali motivi dell'ancoraggio dei codici della famiglia di quasi tutti i paesi arabo-musulmani ai principi delle legge islamica contenuti nella shari'a. (10). La retorica coloniale sulla "liberazione" delle donne musulmane viste come oppresse ha infatti favorito l'idea, diffusa tra molti musulmani, di una sovrapposizione tra femminismo e imperialismo culturale. I movimenti femminili in molte società musulmane post-coloniali sono stati spesso tacciati di importare idee aliene, non indigene e di fare il gioco degli imperialisti culturali, denigrando la propria cultura agli occhi dell'Occidente e sposando cause marginali, nel tentativo di imitare le donne occidentali. In questo contesto, Leila Ahmed ha riassunto molto efficacemente i dilemmi affrontati dalle donne nel mondo mediorientale nel corso delle loro battaglie per i loro diritti. "E' solo quando si considera che è l'identità sessuale ad incarnare l'identità di un soggetto più della sua identità culturale che si può forse apprezzare quanto dolorosa è la piaga delle donne mediorientali, lacerate tra due lealtà in contrasto tra loro, costrette quasi a scegliere tra tradimento e tradimento" (11).

Femminismo islamico e femminismo musulmano

Una definizione abbastanza accreditata è quella che distingue i diversi tipi di attivismo femminile nel mondo musulmano (sia in Medio Oriente che nella diaspora) in islamista, musulmano, e laico di cui parleremo più approfonditamente nella parte conclusiva di questo saggio (12). Va sottolineato, tuttavia, che nonostante le scienziate sociali si ostinino a definire "femministi" questi diversi movimenti e soggettività, la stragrande maggioranza delle attiviste nel mondo musulmano rifiuta il termine movimento femminista (al-haraka al -nassa'wiyya) preferendovi quello di movimento delle donne al (haraka al-nissa'wiyya) (13). Come si può intuire, al di là della tipizzazione che ha una sua utilità ai fini analitici, i confini tra i gruppi di attivismo femminile musulmano sono porosi e molte donne si muovono a cavallo tra diversi tipi di retoriche e strategie, mettendo in evidenza il carattere complesso e finanche contraddittorio di questo terreno.

Azza Karam sostiene che le "femministe islamiste" (anche se loro stesse non userebbero mai questo termine per autodefinirsi) sono così definite in quanto esse sono consapevoli di una certa oppressione che colpisce le donne e cercano di lottare contro questa oppressione attraverso principi islamici. Esse sono convinte che i problemi delle donne siano da attribuire in parte al tentativo di eguagliare gli uomini, mentre il concetto da loro proposto è quello di "complementarietà" tra i sessi piuttosto che di uguaglianza. Per questo tipo di militanti è la realizzazione della società islamica nel suo insieme che porterà benefici alle donne. Molto diverso è invece il discorso delle femministe musulmane, le quali possono o meno definirsi femministe, ma pongono come centrale il raggiungimento dell'eguaglianza tra i generi nella società, che esse vedono non solo come valido nell'Islam ma, addirittura, come auspicato dallo stessa religione islamica. Le femministe laiche, d'altro canto, sostengono che il femminismo islamico è un'ossimoro. Esse fanno riferimento alle convenzioni internazionali e ai diritti delle donne come diritti umani, mentre ritengono che la religione debba rimanere confinata alla sfera privata.

Mentre per molte femministe laiche i codici della famiglia dovrebbero basarsi sulle convenzioni internazionali, per le femministe musulmane e islamiste gli strumenti per riformarli sono già presenti in alcuni principi della giurisprudenza islamica (14). I principi della giurisprudenza, peraltro ampiamente riconosciuti, su cui si basano molte femministe musulmane nel promuovere le riforme dei codici della famiglia sono tre, ovvero che le leggi islamiche sono suscettibili di cambiamento nel tempo e nello spazio, devono evitare di danneggiare le persone e devono mirare a promuovere l'interesse pubblico. Secondo Azizah Al Hibri (15) per lungo tempo i concetti di danno e di pubblico interesse sono stati formulati a partire da un punto di vista patriarcale, e quindi indirizzati alla preservazione dell'ordine sociale gerarchico tra i generi, con la conseguenza che l'autodeterminazione delle donne è stata rappresentata come in antitesi col "pubblico interesse". Più recentemente, a partire dagli anni novanta, questi stessi principi sono stati utilizzati dalle donne per legittimare la propria richiesta di diritti (16). Molte studiose musulmane, tra cui numerose teologhe, nel corso degli anni 80 e 90 si sono poste l'obiettivo di mostrare che i diritti delle donne e l'Islam sono tutt'altro che incompatibili: la promozione della condizione delle donne era anzi parte del messaggio dell'Islam alla sua origine. Leila Ahmed, per esempio, è estremamente chiara nel sostenere che le ingiunzioni etiche che suggerivano un imparziale trattamento della donna erano aspetti del messaggio islamico non ascoltati, almeno come riflesso nel corpo di leggi che ha preso forma nell'epoca Abbaside e nelle epoche successive: "lo specifico contenuto delle leggi derivate dal Corano dipendeva fortemente dall'interpretazione che i legislatori scelsero di adottare e dagli elementi delle complesse espressioni a cui scelsero di dare più peso". Secondo Ahmed ed altre studiose femministe, il Corano e molti passaggi nei hadith enunciano l'identica posizione davanti a Dio di uomini e donne, e gli identici obblighi morali che gli individui detengono indipendentemente dal sesso. In altri passaggi del Corano e dei hadith traspare una prospettiva ugualitaria della biologia umana, in termini di contributo maschile e femminile al concepimento. Questi ed altri elementi hanno dato vita ad una diffusa convinzione che vi sia insito nell'Islam un messaggio spirituale ed etico che si ispira ad un concetto di eguaglianza tra i generi. Sembrano quindi esservi due voci distinte all'interno dell'Islam che danno luogo a interpretazioni delle relazioni di genere fortemente in contrasto tra loro. La prima espressa nelle regole e regolamentazioni sociali, la seconda nell'articolazione di una visione etica. Mentre la prima voce si è tradotta in un corpo di pensiero politico e legale che costituisce la "dimensione tecnica dell'Islam", la seconda "voce" che è quella a cui si ispira la stragrande maggioranza dei musulmani, ha lasciato poche tracce nell'eredità politica e legale dell'Islam. Sarebbe questa dimensione etica, ugualitaria dell'Islam a fornire una spiegazione sul motivo per cui molte donne musulmane argomentano con convinzione che l'Islam non è sessista.

Molte attiviste, sociologhe e scienziate sociali, hanno visto nel risorgere di simboli come il velo un potenziale liberatorio piuttosto che oppressivo, attraverso cui le donne, appunto, tentano di guadagnare accesso alla sfera pubblica. Particolarmente attive nella promozione di questa lettura di quello che esse definiscono il revivalismo islamico (anzichè fondamentalismo) sono le scienziate sociali di origine iraniana, molte delle quali hanno radicalmente rovesciato le loro posizioni nel corso degli anni '90. Fu proprio una antropologa di origine iraniana docente in una università americana, Afsaneh Najmabadi, negli anni ottanta autrice di saggi e volumi di stampo femminista sulle donne dell'Iran pre e post rivoluzione (17), che nel 1994 aprì per prima il dibattito sostenendo, in una lezione tenuta alla School of Oriental and African Studies di Londra, che il femminismo islamico poteva essere visto come movimento riformatore perché in grado di aprire un ponte tra femminismo laico e sfere religiose della società. Negli stessi anni, Halef Afshar (18), sulla falsariga di Najmabadi, sostenne che i gruppi che hanno avuto maggior successo nell'ottenere riforme favorevoli alle donne sono quelli che si sono mossi nella cornice del discorso politico islamico. Secondo Afshar, nel rifiutare i modelli del femminismo occidentale come irrilevanti per la vita della maggior parte delle donne nel mondo, le femministe islamiche riconoscono che l'Islam conferisce ruoli e responsabilità alle donne e fanno riferimento ad una vasta gamma di influenti figure femminili che hanno popolato la storia dell'Islam, dalle mogli del Profeta Muhammad ad altre figure come la figlia Fatima. Estremamente critiche nei confronti delle misure misogine imposte dal regime di Khomeini, che dalla fine degli anni '70 hanno mirato a escludere le donne dalla sfera pubblica ed a sottometterle al potere di padri, mariti e fratelli, le femministe islamiche in Iran hanno saputo ritagliarsi degli spazi guadagnando legittimità attingendo da un repertorio discorsivo islamista, sfidando quindi le autorità religiose sul loro stesso terreno. Alcuni degli obiettivi raggiunti dal movimento delle donne islamiste in Iran includono l'ottenimento di quote per favorire il re-ingresso delle donne in ambiti da cui esse erano state cacciate sotto il regime di Khomeini, attraverso per esempio la creazione di facoltà di medicina separate per le donne, o di scuole private miste. Inoltre, basandosi sulla retorica conservatrice che sostiene che le donne appartengono al focolare domestico le parlamentari iraniane hanno ottenuto il pensionamento dopo venti anni di lavoro per le donne contro i 25 anni di lavoro degli uomini. Infine, dopo una lunga battaglia giocata sulla interpretazione della religione e delle sue prescrizioni e facendo leva sul concetto di complementarietà tra i sessi, esse sono riuscite a essere riammesse come consulenti nei tribunali di famiglia (dopo che Khomeini le aveva escluse dalla magistratura).

Il femminismo islamico: ossimoro o nascita di una nuova soggettività dal potere oppositivo?

Come accennato nell'introduzione a questo saggio, il femminismo islamico suscita reazioni estremamente diverse tra le studiose. Una prima asse di osservazioni si focalizza sull'opportunità di definire "femministi" movimenti che si muovono dall'interno di una sfera religiosa. La maggior parte delle donne musulmane rigetterebbero il termine femminista come occidentale e neo-imperialista, ma d'altra parte, molte femministe occidentali rigetterebbero la possibilità che altre donne possano identificarsi come femministe, dal momento che lavorano con o collaborano al mantenimento di sistemi patriarcali.

Un tentativo di superare la concezione dicotomica tra femminismo e Islam è quello di Miriam Cooke (19), secondo la quale il femminismo è "molto più di una ideologia che guida movimenti politici organizzati. E' soprattutto un attitudine, una forma mentale che mette in luce il ruolo del genere (gender) nella organizzazione sociale. "Il femminismo fornisce un prisma inter-culturale (crosscultural) attraverso il quale identificare momenti di consapevolezza che qualcosa non va nelle aspettative che si hanno sui comportamenti e trattamenti delle donne, di rigetto di queste aspettative, e di attivismo per produrre un qualche cambiamento" (20). Ciò che è più interessante è che l'attivismo, nell'analisi di Cooke, può precedere la consapevolezza: "l'attivismo può anche non passare mai attraverso la negatività del rigetto e rimanere positivo e focalizzato sulla costruzione di nuovi sistemi". Cooke propone un ribaltamento della prospettiva che privilegia una alleanza sull'altra, sottolineando che il termine 'femminismo islamico' sta a significare una doppia appartenenza e un doppio impegno: verso una fede da una parte e verso la promozione dei diritti delle donne nell'ambito domestico e nella sfera pubblica dall'altra. La sovrapposizione tra i due termini enfatizza la nascita di una nuova soggettività che, secondo Cooke, celebra le appartenenze multiple. Citando Paul Gilroy, Cooke descrive le donne che occupano lo spazio tra identità che "appaiono come reciprocamente esclusive cercando di mostrarne le continuità" come impegnate in "un atto di insubordinazione politica provocatorio e perfino oppositivo". Secondo Cooke, il termine islamico si pone come una terza via rispetto all'essere semplicemente musulmani o essere militanti islamisti. Essere musulmani significa infatti partecipare ad una cultura e comunità musulmana in quanto si è nati e cresciuti in quello specifico contesto, tuttavia si può essere musulmani laici, più o meno praticanti e perfino atei. Essere islamisti, d'altra parte, significa molto spesso militare per un progetto di costruzione di una società islamica. Il termine "islamico", invece, si pone come ponte tra l'essere musulmano e l'essere islamista, "descrive uno speciale tipo di auto-posizionamento che informa le azioni e i discorsi e lo stile di vita di coloro che sono impegnati a mettere in discussione l'epistemologia islamica come espansione della propria fede, piuttosto che come rigetto della stessa". In quest'ottica, le femministe islamiche, che si possono o meno definire come tali, si muovono con un doppio messaggio che parla contemporaneamente al proprio contesto locale e alla comunità transnazionale. La loro forza risiede nel tentativo di essere quindi dei soggetti che agiscono attraverso una retorica ed un discorso che è contemporaneamente locale e globale.

Di tutt'altro avviso sono molte femministe laiche, di origine musulmana o occidentale, che esprimono critiche radicali e pungenti al femminismo islamico sia come progetto politico che come retorica e pratica. Secondo questa prospettiva, il femminismo non solo non è compatibile con la religione, ma il "femminismo islamico" non è un prodotto della agency delle donne, quanto piuttosto la conseguenza di una serie di trasformazioni interconnesse. Da una parte, la crescente islamizzazione del discorso pubblico che ha caratterizzato le retoriche dei movimenti post-coloniali successivamente al fallimento dei governi nazionalisti post-indipendenza e, dall'altra, la crescente diffusione, in epoca post-moderna, di un dannoso relativismo culturale in Europa che ha finito col favorire e legittimare le istanze più conservatrici dell'Islam.

Per molte femministe radicali, per nessuna ragione si può considerare quello religioso come un terreno su cui possano fiorire istanze di emancipazione femminile (21). "La politicizzazione post-coloniale della cultura ha creato una peculiare amnesia storica riguardo alle origini e alle cause dell'islamismo, fatto che ha portato ad una problematica incapacità di distinguere i fondamentalismi religiosi come movimenti politici di estrema destra e di riconoscere la funzione politica fondamentale di tutte le religioni in relazione alle donne" (22). In questa ottica, per quanto apprezzabili e comprensibili, le letture progressiste non sono in grado di scardinare il carattere intrinsecamente patriarcale dell'Islam in quanto religione, dal momento che la funzione ultima di qualunque religione è il controllo dell'uomo sulla donna. E' a causa del pluralismo e del multi-culturalismo che l'islamismo è stato de-stigmatizzato, e paradossalmente l'Islam nel suo insieme è stato ridotto all'islamismo.

A lato di questo tipo di critica, di stampo fondamentalmente ideologico, vi sono altre letture che forniscono analisi più complesse. Haideh Moghissi (23), per esempio, sostiene che il femminismo nel mondo musulmano non è una creazione nuova. Non solo vi furono movimenti indigeni che rivendicarono l'avanzamento dei diritti delle donne fin dalla metà del diciannovesimo secolo, ma alcuni di questi si definivano apertamente come femministi, come quello egiziano che iniziò a definirsi come tale fin dal 1923 con la creazione della Unione Femminista Egiziana, sotto la guida di Huda Sahrawi. Ciò che è più importante è che per legittimare le proprie rivendicazioni tutti i movimenti pionieri dei diritti delle donne, da quelli più laici a quelli di credenti non praticanti o praticanti, si mossero all'interno di un discorso che vedeva in un interpretazione misogina dell'Islam, e non nell'Islam stesso, la causa fondamentale della segregazione femminile nelle società musulmane. Ciò su cui ci si deve interrogare, secondo Moghissi, sono le ragioni per cui oggi questo attivismo si sia naturalizzato sotto il nome di "femminismo islamico". In particolare come mai il femminismo islamico è oggi proposto come il solo e unico terreno, il più autenticamente indigeno, sul quale la richiesta di diritti per le donne può attecchire nelle società musulmane? Il problema, per Moghissi, è che i "...discorsi laici sulla promozione dell'uguaglianza di genere sono stati screditati come elitari, modernisti o bianchi e filo occidentali..." (24).

In questo contesto, consigliare alle donne mediorientali di ancorare la rivendicazione dei propri diritti in ideologie culturalmente autentiche e "home-grown", cioè a dire all'interno di un quadro islamico, significa in ultima analisi sostenere che il femminismo è, e deve rimanere, una prerogativa e un privilegio delle donne occidentali. Questo tipo di argomentazioni infatti rafforzano gli insegnamenti fondamentalisti che sostengono che il femminismo occidentale è il nemico principale delle donne nelle società islamiche. Moghissi attacca fortemente le ragioni del femminismo islamico che vedono per esempio nel velo un atto di sfida contro la corruzione del capitalismo e del consumismo occidentale, e vi oppongono una definizione del velo come pratica che conferisce empowerment alle donne permettendole di abitare e finanche di invadere lo spazio pubblico senza incorrere in aggressioni verbali e fisiche da parte degli uomini. Così come sono criticate le posizioni, definite post-colonialiste, che vedono nel velo e nel vestito islamico semplicemente un mezzo per adornarsi alla stessa stregua del trucco per le donne occidentali. Moghissi esprime dure critiche anche nei confronti di quel filone che vede nella rilettura e reinterpretazione dei testi sacri da parte delle donne un tentativo di riappropriarsi di una sfera di potere e di sapere prerogativa degli Ulama conservatori, in cui, come abbiamo visto, sono state particolarmente attive le accademiche di origine iraniane che Moghissi vede come apologetiche nei confronti delle politiche di islamizzazione del regime iraniano.

Contrario alle spiegazioni culturaliste, questo filone critico insiste piuttosto sul fallimento dei progetti di modernizzazione di stampo occidentale nel portare benessere alle donne, come spiegazione principale dell'attecchimento di progetti di stampo "islamista" nel mondo mediorientale. "Dopo un secolo di modernizzazione guidata dall'occidente, la scelta per molti rimane tra la sicurezza e protezione che gli Islamisti promettono e lo sfruttamento crudele di una economia di mercato malgovernata e corrotta" (25). Guidati dalla legittima rivendicazione di una maggiore tolleranza nei confronti delle comunità musulmane della diaspora, soggette a crescente islamofobia e razzismo, le sostenitrici del femminismo islamico, coscientemente o meno, finiscono con il legittimare o il tollerare i più brutali stati islamici; esse chiedono di accettare pratiche degradanti per le donne semplicemente in nome del rispetto di un "diverso modo di vivere" e in questo processo ammorbidiscono gli effetti drammatici del fondamentalismo, legittimando l'immagine, cara ai fondamentalisti, delle donne musulmane come icone dell'integrità e dell'autenticità delle società islamiche.

Nella letteratura anti-orientalista post-coloniale su Islam e genere si articola una preoccupante convergenza tra punti di vista apparentemente in contrasto tra loro. Nel tentativo di sovvertire le rappresentazioni coloniali orientaliste si finisce con l'allearsi con un conservatorismo fondamentalista. Responsabile di questa alleanza sarebbe un certo relativismo culturale dilagante nel mondo accademico europeo e nordamericano caratterizzato dall'accettazione indiscriminata dell'esotico e dell'incontaminato. Una tagliente accusa va a quelle accademiche femministe di origine mediorientale che hanno iniziato ad identificarsi come "donne musulmane" pur non avendo assolutamente niente a che vedere con lo stile di vita islamico che esse difendono e pur non avendo vissuto nessuna parte della loro vita adulta in paesi musulmani., dimenticandosi che esse vivono in stati democratici sotto la protezione di istituzioni legali e democratiche, cosa che manca a molte donne che vivono sotto la legge islamica.

Essere femministe, secondo le femministe laiche, significa rifiutare di subordinare la propria esistenza ai dettati maschili delle istituzioni religiose e non religiose. L'argomento centrale del femminismo è che le donne e gli uomini sono biologicamente diversi ma questo non si deve tradurre in una valutazione negativa dell'esperienza degli uni o degli altri e, soprattutto, non deve condurre a differenze nello status legale. Secondo Moghissi, per quanto si possano ammettere diverse interpretazioni, l'idea di uguaglianza fra i generi rimane estranea agli insegnamenti coranici che vedono piuttosto l'uomo come superiore alle donne nelle cose terrene. La conclusione di Moghissi è antitetica a quella delle femministe islamiche: "Una persona può definirsi come femminista, ma non può credere contemporaneamente nella nozione islamica e in quella femminista di uguaglianza. Queste nozioni non sono compatibili" (26). La nozione di uguaglianza implicita nella leggeislamica, infatti, riguarderebbe solo coloro che sono uguali nella shari'a, cioè gli uomini, ma esclude le donne e le minoranze.

Verso una conclusione

In una condizione, quella attuale post-coloniale, di inasprimento e radicalizzazione della concezione dicotomica del mondo, promossa sia da forze islamiste radicali che da gran parte dei media e poteri politici occidentali, è quasi inevitabile che le donne musulmane, dall'Iran al Marocco, vogliano o si trovino costrette a legittimare le proprie rivendicazioni di parità e piena cittadinanza come progetti in sintonia col profondo messaggio della religione islamica. Rappresentazioni e discorsi facenti riferimento a nozioni di autenticità e estraneità, sovente sovrapposte a rappresentazioni dicotomiche che oppongono Occidente a Islam si sono infatti rafforzate piuttosto che affievolite nel periodo post-coloniale e assumono una rinnovata rilevanza nel discorso pubblico negli ultimi anni. Nonostante la globalizzazione e gli intensi movimenti di popolazione rendano semmai sempre più problematica da un punto di vista antropologico la possibilità di circoscrivere territorialmente le "culture" e i luoghi della loro produzione e trasformazione, la retorica dello "scontro di civiltà" ha contribuito a radicalizzare le posizioni di coloro che, in Occidente così come nel mondo Islamico, concepiscono l'esistenza di una "cultura e civiltà islamica" ben separata e separabile da quella occidentale. In questo contesto, non trova ostacoli chi si accanisce nel definire la lotta per i diritti delle donne come retorica discorsiva e politica aliena alla cultura islamica. Anche quando le lotte dei movimenti femminili e della società civile hanno avuto successo nell'ottenere riforme importanti in direzione di una maggior apertura nei confronti dei diritti delle donne, come è il caso della recente riforma della Mudawana, approvata nel 2004 da re Mohammed V in Marocco, questi hanno dovuto fornire una legittimità culturale alle loro rivendicazioni sottolineando il segno indigeno, islamico di tali rivendicazioni. Solo così è stato possibile sconfiggere le posizioni islamiste più radicali, contrarie alla riforma, che facevano leva sul carattere alieno e importato dall'Occidente di discorsi sulla parità dei sessi, visti come estranei alla "cultura islamica".

Tuttavia, la mera celebrazione della nascita di una nuova soggettività o modernità islamica, in grado di offrire alle donne un percorso di emancipazione più culturalmente autentico e incontaminato, rischia di rafforzare l'idea secondo cui le culture esistono separatamente ed in autonomia le une dalle altre. La rappresentazione in termini di culture rigide e chiuse, che informa le idee sulla maggiore 'autenticità culturale' del femminismo islamico, è estremamente limitante per una comprensione dell'evoluzione delle soggettività politiche post-coloniali, siano esse musulmane, islamiste o laiche. Se è vero che la modernità occidentale è sfidata, a livello discorsivo, dall'emergere di modernità alternative, una storia globale della modernità svela come le istanze post-coloniali e le agende di trasformazione politica e/ o sociale da loro promosse si siano sviluppate attraverso un processo di interiorizzazione, di selezione, di contaminazione e di indigenizzazione continua rispetto ai termini imposti dal discorso coloniale prima e "occidentale" poi, pur segnato da una drammatica relazione di dominio. In questo senso, alcune suggestioni fondamentali provengono dalle analisi di storiche ed antropologhe che si sono occupate di ricostruire la genealogia del "femminismo" o del movimento femminile nel mondo musulmano come movimento dedicato all'acquisizione di diritti economici, politici e sociali per le donne che si è formato a partire da concettualizzazioni e idee di persona, di politica, di legge e di comunità che sono parte di una modernità la cui storia è globale, nel senso che è frutto dell'incontro-scontro dell'Europa col resto del mondo.

Molti dei riformisti islamici che vissero a cavallo tra la fine dell'ottocento e l'inizio del novecento, da Jamal al Din al Afgani a Muhammad Abduh, furono accesi sostenitori di un processo di modernizzazione delle società musulmane, visto come fondamentale per resistere il dominio dell'occidente. Queste figure, che sono di riferimento per alcune frange del cosiddetto femminismo islamico contemporaneo, sostenevano che il rinnovamento della società dovesse partire dalla acquisizione della conoscenza, degli strumenti e degli sviluppi generali della modernizzazione europea a dalla elevazione dello status delle donne, considerato come passo necessario per la rinascita della società musulmana. Essi svilupparono le loro idee attraverso viaggi e interazioni continue con l'Europa. Jamal Al Din al Afgani si formò inizialmente nell'India Britannica, viaggiando successivamente attraverso Istanbul, il Cairo, Parigi e Londra. Questa genealogia di intrecci non può essere trascurata e apre una alternativa a quella degli schemi binari che oppongono Islam a occidente. Per esempio, la nozione moderna di domesticità che informa oggi le rappresentazioni della famiglia e della donna di molti movimenti islamici è emblematica di questa genealogia. Fin dalla fine del diciannovesimo secolo, dalla Turchia all'Egitto, l'introduzione di tecniche più scientifiche e moderne di "domesticità", dalla sfera dell'educazione dei figli a quella dell'istruzione delle madri fu vista come fondamentale per rendere la nazione "moderna". A partire dal loro ruolo come procreatrici ed educatrici degli uomini che avrebbero composto e guidato le nascenti nazioni e ne avrebbero conferito il carattere moderno o retrogrado, alle donne fu concesso di accedere all'istruzione in modo massiccio. Questo impeto a "rimodellare" e a razionalizzare la domesticità femminile fu profondamente influenzato dalle rappresentazioni occidentali che attribuivano il carattere retrogrado delle società musulmane alla presunta inferiorità delle donne nella loro cultura. Successivamente, nazionalisti e riformisti islamici non poterono fare a meno di prendere a prestito, ma indigenizzando, traducendo, e quindi ibridizzando le categorie attraverso cui essi in quanto colonizzati o ex colonizzati furono rappresentati, nel tentativo di capovolgere o resistere quelle stesse rappresentazioni. Furono, quelli, dei tentativi di produrre delle contro-modernità o modernità alternative, che nondimeno affondavano le loro radici nella storia di quell'incontro-scontro.

In questo senso, il femminismo e l'islamismo, nonché l'evoluzione della loro relazione, vanno intese come pratiche politiche e processi di identificazione profondamente intrecciati alle dinamiche coloniali e post-coloniali che hanno storicamente segnato significati e pratiche discorsive ad essi associati in Europa così come nel mondo arabo-islamico.

Bibliografia

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Note

*. Pubblicato in: "Altri Femminismi. Corpi, Culture, Lavoro" a cura di Bertilotti T. et al., Roma: Manifesto Libri, 2006. Questo saggio contiene alcune riflessioni che sono affrontate più ampiamente in un volume che l'autrice sta ultimando, dal titolo Donne e Islam. Discorsi, Miti, Immagini, che sarà pubblicato dalla casa editrice Carocci nel 2006.

1. Si veda tra gli altri; Duval Soraya New Veils and New Voices: Islamist Women's Groups in Egypt' in K. Ask and M. Tjomsland (eds) "Women and Islamization. Contemporary Dimensions of Discourse on Gender Relations". Oxford and New York: Berg. pp.45-73, 1998; Hessini Leila Wearing the hijab in contemporary Morocco: choice and identity' in F. M. Göçek and S. Balaghi (eds) Reconstructing Gender in the Middle East. Tradition, Identity, Power. New York: Columbia University Press, pp.40-57, 1994, Jansen Wilhelmina Contested Identities: Women and Religion in Algeria and Jordan in K. Ask and M. Tjomsland (eds) "Women and Islamization. Contemporary Dimensions of Discourse on Gender Relations" Oxford and New York: Berg, pp.73-103, 1998.

2. Gole Nilufer Musulmanes et Modernes. Voiles et Civilisation en Turquie. Paris: La Découverte, 1993; Salih Ruba Genere e Islam. Politiche culturali e culture politiche in Europa in "Studi Culturali" Anno II, n 3 giugno, pp. 121-129, 2005, Salih Ruba Shifting Meanings of Islam and Multiple Representations of Modernity: the case of Migrant Women of Muslim Origin in Italy in J. Andall, (ed.) "Gender and Ethnicity in Europe", Oxford: Berg Publishers. pp. 119-138, 2002 (a), Salih Ruba The Gender of Modernity. Narratives of Muslim and Islamist Migrant Women in Journal of Mediterranean Studies Volume 12, n. 1 pp.147-169, 2002 (b)

3. Christiansen Connie.C. Women's Islamic Activism: Between Self-Practices and Social Reform Efforts in Esposito, J.L. e Burgat, F. (a cura di) "Modernizing Islam. Religion and the public Sphere in Europe and the Middle East" New Brunswick New Jersey: Rutgers University Press. pp.145-163, 2003

4. Bennani-Chraïbi Munia I giovani 'urbani' del Marocco mediterraneo: una sfida in AA.VV. "Città e società nel mondo arabo contemporaneo. Dinamiche urbane e cambiamento sociale". Torino. Fondazione Giovanni Agnelli. pp. 173-183, 1997; Bennani-Chraïbi Munia Soumis et Rebelles: les jeunes au Maroc. Paris: Editions du CNRS, 1994.

5. MacLeod Arlene Accomodating Protest: Working Women, the New Veiling and Change in Cairo. New York: Columbia University Press, 1991

6. Abu-Lughod, Lila. Introduction. Feminist Longings and Postcolonial Conditions in L. Abu-Lughod (ed.) "Remaking Women. Feminism and Modernity in the Middle East". New Jersey: Princeton University Press. pp.3-33, 1998.

7. Si veda per esempio: Al-Ali Nadje Secularism, Gender and the State in the Middle East: The Women's Movement in Egypt, Cambridge: Cambridge University Press, 2000.

8. Loomba Ania. Colonialismo/Postcolonialismo, Roma Meltemi Editore, 2000.

9. Yegenoglu Maya Colonial Fantasies. Towards a feminist reading of Orientalism. Cambridge, Cambridge University Press, 1998.

10. Aluffi Roberta La Modernizzazione del Diritto di Famiglia nei Paesi Arabi. Milano: Giuffrè, 1990

11. Ahmed Leila Women and Gender in Islam. New Haven & London: Yale University Press, 1992.

12. Karam Azza Women, Islamisms and the State: Contemporary Feminisms in Egypt. London: MacMillan, 1998.

13. Si veda Al-Ali op. cit.

14. Al-Hibri Azizah A study of Islamic herstory: or how did we ever get into this mess? in "Women's Studies International Forum", Volume.5, n.2 pp 207-221, 1982.

15. Al-Hibri Azizah Marriage laws in Muslim countries in "International review of comparative public policy". Volume 4, pp. 227-244, 1992.

16. Salih Ruba Le donne palestinesi fra Corano e Costituzione in "Democrazia e Diritto. Rivista del Centro per la Riforma dello Stato". N.2-3, anno XXXIV, pp.177-192, 2004.

17. si veda per esempio Najmabadi Afsanjaneh Hazards of Modernity and Morality: Women, State and Ideology in contemporary Iran" in Kandiyoti Denize. (a cura di) "Women, Islam and the State". London: MacMillan. pp.48-77, 1991

18. Afshar Halef Islam and Feminism: An Analysis of Political Strategies in Yamani May (a cura di) "Feminism and Islam. Legal and Literary Perspectives". Reading: Ithaca Press. pp.197-217, 1996.

19. Cooke Myriam. Multiple Critiques: Islamic Feminist Rhetorical Strategies in: "Nepantla: Views from South" Volume1, numero 1, pp.91-110, 2000.

20. Cooke, op. cit. p.92.

21. Winter Bronwin Fundamental Misunderstanding: Issues in Feminist Approaches to Islamism in "Journal of Women's History" 13.Vol. 1. pp. 9-14, 2001

22. Winter, op. cit. p.33

23. Moghissi Haideh Feminism and Islamic Fundamentalism. The Limits of Post-modern Analysis. London and New York: Zed Books, 1999. Si veda anche Moghadam Valentine Patriarchy, the Taleban and the Politics of Public Space in Afghanistan in "Women's Studies International Forum" Volume 25, n. 1, pp.19-31, 2002.

24. Moghissi, p.135

25. Moghissi, op. cit. p. 44

26. Si veda Moghissi, op. cit. p.140