2008

Processare il nemico
L'istituzione del Tribunale speciale iracheno (*)

Danilo Zolo

1. Nell'istituire il Tribunale iracheno contro Saddam Hussein e altri esponenti del deposto regime non è stata presa in considerazione la possibilità che fosse il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a dar vita a un Tribunale penale internazionale ad hoc, sul modello dei Tribunali per la ex Jugoslavia e per il Ruanda (è stata ovviamente esclusa sia la competenza di questi due tribunali ad hoc, sia quella della Corte penale internazionale dell'Aja, non avendo le autorità irachene aderito allo Statuto di Roma (1)). D'altra parte, come è noto, il potere del Consiglio di Sicurezza di creare Tribunali internazionali speciali, sulla base della dottrina dei suoi 'poteri impliciti', è molto controverso (2). E' stata scartata anche l'ipotesi che venisse istituita, in cooperazione con le Nazioni Unite, una corte mista - composta di giudici nazionali e di giudici internazionali -, secondo il modello praticato in Sierra Leone e a Timor Est (3). E non è stata accolta neppure l'idea che le indagini e l'accusa venissero affidate alle potenze occupanti, come pure è stato proposto.

Se si deve dar peso, oltre che agli auspici del Presidente Bush, alle previsioni di Salem Chalabi, uomo di punta e consigliere legale del Governing Council, Saddam Hussein verrà ritenuto colpevole di genocidio, di crimini contro l'umanità e di crimini di guerra, e verrà perciò condannato alla pena capitale e giustiziato. A questo proposito, il solo elemento di incertezza sembra costituito dall'alternativa fra l'impiccagione e la fucilazione. Saddam finirà sulla forca se verrà considerato un criminale civile, sarà fucilato se verrà processato come capo supremo delle forze armate del suo paese (4).

2. E' diffusa in Occidente l'opinione che la condanna dell'ex-dittatore iracheno e dei suoi collaboratori da parte del Tribunale speciale - come avvenne con i gerarchi nazisti a Norimberga, a conclusione della seconda guerra mondiale - segnerà un importante successo del diritto e della giustizia, e sarà un passo avanti decisivo verso la pacificazione e la ricostruzione democratica di un paese che le potenze occidentali hanno liberato da un regime dispotico e sanguinario.

Ovviamente, questo punto di vista può non essere condiviso. Personalmente non nego che l'ex dittatore iracheno e i suoi principali collaboratori debbano essere sottoposti a processo. Lo richiede qualsiasi progetto di costruzione di un nuovo ordine politico che possa essere realizzato con il concorso di tutte le componenti del popolo iracheno. Il processo di pacificazione e riunificazione del paese - probabilmente nelle forme di una federazione interetnica e interconfessionale - non sembra poter passare attraverso modalità non giudiziarie di rielaborazione critica e di superamento del passato. Un processo penale da parte della normale magistratura irachena, che fosse rispettoso non solo per principio della irretroattività delle legge penale, ma anche di quello del giudice 'naturale' precostituito per legge, sarebbe sul piano formale la soluzione più corretta ma, molto probabilmente, non la più efficace sul piano politico. Anche l'esempio, spesso evocato, del Sud Africa, che nel 1995 diede vita alla celebre Truth and Reconciliation Commission, non sembra pertinente in un contesto di altissima conflittualità nel quale continuano ad intrecciarsi la guerra civile, la guerra di resistenza e il terrorismo. Altrettanto vale per l'ipotesi, che oggi appare del tutto impraticabile, dell'amnistia politica.

Dunque, non sembrano esserci alternative al ricorso a un Tribunale speciale, nonostante i gravi limiti che ogni tribunale di questo tipo presenta, a partire dalla compressione dei diritti della difesa e dalla sostanziale violazione del principio nulla culpa sine iudicio. Questo principio esige una rigorosa presunzione di innocenza degli imputati, che in questo caso appare del tutto inoperante, come prova se non altro il trattamento riservato all'imputato principale, Saddam Hussein, che è tenuto prigioniero in un luogo segreto non da autorità irachene ma direttamente da forze di polizia statunitensi (e illegalmente sottoposto a pesanti interrogatori).

Ritengo tuttavia che lo Statuto del Tribunale approvato dall'Iraqi Governing Council vada molto oltre l'anormalità giuridica propria di qualsiasi tribunale speciale: nonostante che presenti in modo evidente le impronte normative della cultura giuridica occidentale, lo Statuto viola alcuni principi fondamentali di rule of law che sono normalmente praticati entro gli Stati occidentali e che sono stati adottati dallo Statuto della Corte penale internazionale dell'Aja. Per fare solo un esempio, l'art. 24 autorizza i giudici delle Trial Chambers, tutte le volte in cui un crimine previsto dagli artt. 11, 12 e 13 dello Statuto non trovi alcuna corrispondenza nell'ordinamento penale iracheno, a determinare per proprio conto l'entità della pena (tenendo presenti la gravità del crimine, le caratteristiche individuali dell'imputato e la giurisprudenza internazionale) (5). Qui, a mio parere, siamo in presenza di una lesione del principio della irretroattività della legge penale, poiché si ammette apertamente la possibilità che gli articoli 11, 12 e 13, relativi al crimine di genocidio, ai crimini contro l'umanità e ai crimini di guerra, contengano figure di reato non previste dal diritto penale iracheno.

3. Al di là delle anomalie e delle distorsioni normative che si possono ravvisare leggendo lo Statuto del Tribunale, ritengo che ci siano buone ragioni per mettere in dubbio la legalità internazionale, la legittimità politica e l'indipendenza del Tribunale speciale iracheno, essendo stato istituito nel contesto di una occupazione militare e per volontà della potenza occupante che vi svolge un ruolo egemone.

A poco vale invocare la Risoluzione 1511 del Consiglio di Sicurezza che, secondo alcuni interpreti occidentali, avrebbe 'sanato' l'illegittimità originaria dell'occupazione militare. In realtà quel documento non ha cancellato a posteriori - e non avrebbe comunque potuto farlo - la lesione del diritto internazionale di cui si sono resi responsabili gli Stati Uniti e i loro alleati. Non solo: la Risoluzione 1511 ha imposto agli occupanti dei termini temporali precisi, come condizione di legittimità del potere esercitato in Iraq, entro i quali definire l'agenda per l'approvazione di una Costituzione e l'organizzazione di elezioni democratiche.

Sul piano formale la fonte politica di questo Statuto è l'Iraqi Governing Council, istituito dalla Coalition Provisional Authority e cioè, nella sostanza, dal governatore militare statunitense, Paul Bremer 3rd. Nessuno può pensare che il Governing Council, che non ha alcuna autorità legislativa e non dispone di autonome fonti di finanziamento, sia il potere reale che ha voluto, che sosterrà e finanzierà questo Tribunale speciale. E dunque è stata una potenza occupante a decidere l'istituzione del Tribunale. E' perciò ragionevole pensare che i membri di questo tribunale, nonostante che lo Statuto ripeta più volte che dovrà trattarsi di persone di high moral character, impartiality and integrity, non offriranno sufficienti garanzie di autonomia rispetto alle potenze occupanti e di imparzialità verso gli accusati. Questa presunzione negativa è confermata dal fatto che sarà sicuramente il governo provvisorio a designare i giudici, i procuratori e gli eventuali esperti internazionali da usare come assistenti del Tribunale. E non è un caso, come riferiscono Hanny Megally e Paul van Zyl, che il governo provvisorio abbia già steso la bozza di un documento che definisce in dettaglio la strategia investigativa e processuale che dovrà essere seguita dal Tribunale, con in appendice un elenco di persone attualmente imprigionate che dovranno essere processate per prime (6).

4. E' naturale che il popolo iracheno percepisca questo Tribunale non come un'espressione della propria sovranità politica, ma come uno strumento del potere degli Stati Uniti. E si tratta di un potere che, non solo agli occhi dei cittadini iracheni, non si presenta con le carte in regola per erigersi a paladino della causa dei diritti dell'uomo, solo se si consideri la sua ostinata opposizione alla Corte penale internazionale e il trattamento riservato ai prigionieri politici detenuti nella base militare di Guantánamo. Una sicura garanzia di legittimità politica e di indipendenza potrà essere offerta soltanto da un Tribunale che sia effettiva espressione della volontà politica del popolo iracheno, che sia cioè l'esito di un compromesso fra le sue tre principali componenti etnico-religiose.

Al popolo iracheno - e a nessun altro - spetta il diritto e la competenza a giudicare l'ex-dittatore. Il problema delicato è di consentire alla constituency irachena di esprimersi liberamente e pacificamente. L'ovvia condizione perché questo possa avvenire è la cessazione dell'occupazione militare straniera, incluse le sue modalità politiche ed economiche, e la sostituzione degli occupanti con forze neutrali, in parte provenienti da paesi arabo-islamici, poste sotto l'egida delle Nazioni Unite. Questo processo dovrebbe portare piuttosto rapidamente e nel modo più trasparente possibile alla restituzione al popolo iracheno della sua sovranità politica e del suo potere costituente, entrambi negati dalle potenze occupanti non meno che dalla precedente dittatura del partito Ba'ath. Ma, rebus sic stantibus, le probabilità che questo processo si realizzi sono molto scarse, data l'opposizione delle potenze occupanti persino alla formazione di una assemblea costituente sulla base di elezioni generali (7).

5. Infine, in termini di filosofia del diritto penale internazionale, ritengo che non si debba aderire a quello che propongo di chiamare il "paradigma di Norimberga", un paradigma al quale molti osservatori occidentali oggi si richiamano per giustificare l'istituzione del Tribunale speciale iracheno. Sulle orme di Hans Kelsen, penso che si debba respingere l'idea che il processo di Norimberga possa essere invocato come un precedente di diritto internazionale tutte le volte in cui una potenza occidentale intenda "processare il nemico" dopo averlo sconfitto militarmente.

Hans Kelsen, che pure era stato favorevole all'istituzione di un Tribunale penale internazionale a conclusione del secondo conflitto mondiale, fu un critico molto severo del Tribunale di Norimberga (8). Dopo la conclusione del processo, in un saggio dal titolo significativo, Will the Judgment in the Nuremberg Trial Constitute a Precedent in International Law?, Kelsen sostenne che il processo e la sentenza di Norimberga non potevano avere il valore di un precedente giudiziario. Se i principi applicati nel giudizio di Norimberga fossero diventati un precedente, allora al termine di ogni guerra futura i governi degli Stati vittoriosi avrebbero potuto giudicare i membri degli Stati sconfitti per aver commesso delitti definiti tali unilateralmente e con forza retroattiva dai vincitori (9).

Secondo Kelsen la punizione dei criminali di guerra avrebbe dovuto essere un atto di giustizia e non la prosecuzione delle ostilità in forme apparentemente giudiziarie, in realtà ispirate da un desiderio di vendetta. Per Kelsen era un fatto incompatibile con la funzione giudiziaria che solo gli Stati sconfitti fossero stati obbligati a sottoporre i propri cittadini alla giurisdizione di una corte penale, per di più in violazione del principio di irretroattività della legge penale. Anche gli Stati vittoriosi avrebbero dovuto accettare che i propri cittadini, responsabili di crimini di guerra, venissero processati da una corte internazionale. E questa avrebbe dovuto essere una vera corte internazionale e cioè un'assise indipendente, imparziale e con una giurisdizione ampia e non un tribunale di occupazione militare con una competenza fortemente selettiva (10).

Se si accoglie il punto di vista kelseniano, il significato profondo del Tribunale militare di Norimberga (e di quello di Tokyo) non è stato dunque quello di 'fare giustizia'. Fare giustizia significa tentare di interrompere la sequenza politica della divisione, dell'odio e dello spargimento del sangue per decostruire il conflitto e tentare di esorcizzarlo attraverso l'uso di mezzi giudiziari. La giustizia, in questo senso, si oppone alla faziosità della politica e alla violenza della guerra perché è la ricerca di uno spazio di imparzialità, è il ricorso a principi giuridici capaci di dirimere e neutralizzare il conflitto. Se la metafora della politica è la spada, quella della giustizia è la bilancia. E' proprio per questo che l'istituzione di tribunali speciali a conclusione di una guerra - internazionale o civile - può essere, non diversamente dall'amnistia, il primo passo verso la pacificazione della memoria collettiva e l'inibizione della vendetta generalizzata.

Il processo di Norimberga (assieme a quello di Tokyo) ha stravolto l'idea di giustizia internazionale, annullandone ogni distinzione rispetto alla politica e alla guerra. E' stato una resa dei conti, il regolamento delle pendenze, la vendetta dei vincitori sui vinti. E' stata una parodia della giustizia con una letale valenza simbolica. Essere sconfitti e uccisi in guerra è cosa normale, a volte persino onorevole. Ma essere giustiziati dopo essere stati sottoposti alla giurisdizione del nemico è una sconfitta irreparabile, è la degradazione estrema della propria dignità e identità (11). Hedley Bull, Bernard V.A. Röling e Hannah Arendt hanno condiviso questo rifiuto della 'giustizia politica' e della sua manichea contrapposizione della moralità dei vincitori alla malvagità degli sconfitti (12).

Oggi gli Stati Uniti stanno allestendo un processo contro Saddam Hussein che di fatto riproduce la logica della stigmatizzazione e della vendetta che ha dominato il processo di Norimberga. L'anomia giuridica e il vuoto di potere legittimo provocati dalla guerra sono tali che il processo rischia di finire in una teatralizzazione propagandistica della giustizia con il solo scopo di coprire i misfatti dei vincitori, di disumanizzare l'immagine del nemico e di legittimare nei suoi confronti, in quanto nemico dell'umanità, comportamenti ostili sino all'estrema disumanità.

6. Un'ovvia esigenza di legalità internazionale esigerebbe la consegna di Saddam Hussein e dei suoi collaboratori, attualmente prigionieri delle forze occupanti, ad una autorità internazionale neutrale, sotto la responsabilità delle Nazioni Unite, e la loro custodia in condizioni di dignitosa detenzione preventiva. Al momento opportuno dovrebbe essere decisa la loro consegna alle autorità irachene, a condizione, come ho accennato, che queste autorità siano sostenute dalla maggioranza della popolazione e rappresentino democraticamente le sue principali componenti etnico-religiose. E a condizione che a carico dell'ex dittatore (come di ogni altro imputato) sia esclusa la sanzione capitale, una sanzione che i tre Tribunali internazionali penali oggi operanti hanno abolito. Lo spargimento rituale del sangue di Saddam Hussein offrirebbe un contributo non alla pacificazione dell'Iraq, ma alla causa dell'odio e del terrore.


Note

*. Journal of International Criminal Justice, 2 (2004), 313-318.

1. La Corte Penale Internazionale non potrebbe comunque esercitare la sua giurisdizione retroattivamente: l'Articolo 11 del suo Statuto le attribuisce una competenza ratione temporis solo sui crimini commessi dopo l'entra in vigore del suo Statuto (luglio 2003).

2. Si veda G. Arangio-Ruiz, The Establishment of the International Criminal Tribunal for the Former Territory of Yugoslavia and the Doctrine of the Implied Powers of the United Nations, in F. Lattanzi, E. Sciso (a cura di), Dai Tribunali Penali Internazionali ad hoc ad una Corte Permanente, Napoli, Editoriale Scientifica, 1995; A. Bernardini, Il Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, 'I diritti dell'uomo', 21 (1993), pp. 15-25; P. Palchetti, Il potere del Consiglio di Sicurezza di istituire il Tribunale Penale Internazionale, 'Rivista di diritto internazionale', 79 (1996), 2, pp. 143 ss.

3. Si veda ad esempio la lettera inviata il 22 dicembre 2003 da Michael Posner, direttore del Lawyers Committee for Human Rights, con sede a New York, ad Abdel Aziz al-Hakim, presidente dell'Iraqi Governing Council; si veda inoltre F. McKay, Give Hussein Due Process, 'Miami Herald', 17 dicembre 2003.

4. Si veda l'intervista di Salem Chalabi all'inviato del 'Corriere della sera' (19 dicembre 2003, p. 13).

5. L'art. 24, al comma e), recita: "The penalty for any crimes under Articles 11 to 13 which do not have a counterpart under Iraqi law shall be determined by the Trial Chambers taking into account such factors as the gravity of the crime, the individual circumstances of the convicted person and relevant international precedents".

6. Cfr. H. Megally, P. van Zyl, U.S. justice with an Iraqi face?, 'International Herald Tribune', 4 dicembre 2003, p. 8.

7. Cfr. J. Brinkley, I. Fisher, Top Iraqi Shiite steps in to oppose U.S. plan for indirect elections, 'International Herald Tribune', 27 novembre 2003, p. 4; si veda anche, ivi, l'informazione di agenzia: U.S. pressing Iraqis to write constitution, 10 novembre 2003, p. 5.

8. Nel 1944 Kelsen aveva concepito il progetto di una 'Lega permanente per il mantenimento della pace', mutuando da Kant sia l'ideale della pace perpetua, sia il modello federalistico. Il progetto innestava sul vecchio modello della Società delle Nazioni un'importante novità: attribuiva un ruolo centrale alle funzioni giudiziarie rispetto a quelle esecutive e legislative. La Corte avrebbe dovuto sottoporre a processo singoli cittadini responsabili di crimini di guerra e gli Stati avrebbero dovuto metterli a sua disposizione. Nonostante queste premesse, in Peace through Law Kelsen aveva duramente criticato le Potenze Alleate per il proposito, da esse espresso a più riprese fra il 1942 e il 1943, di dar vita a un Tribunale penale internazionale composto di giudici appartenenti alle nazioni vincitrici. Cfr. H. Kelsen, Peace through Law, Chapel Hill, The University of North Carolina Press, 1944 (seconda ed.: New York, Garland Publishing, Inc., 1973), p. 88 e seguenti.

9. Cfr. H. Kelsen, Will the Judgment in the Nuremberg Trial Constitute a Precedent in International Law?, 'The International Law Quarterly', 1 (1947), 2, p. 115. Sul tema Kelsen ritorna anche in Principles of International Law, New York, Holt, Rinehart and Winston, Inc., 1967, 3a ed., pp. 215-20.

10. Cfr. H. Kelsen, Peace through Law, cit., pp. 110-15. Non c'erano dubbi per Kelsen che anche le potenze alleate avessero violato il diritto internazionale. In particolare, Kelsen riteneva che l'Unione Sovietica, invadendo la Polonia e muovendo guerra al Giappone, avesse commesso crimini di guerra punibili da un Tribunale internazionale.

11. Cfr. P.P. Portinaro, Introduzione a A. Demandt (a cura di), Processare il nemico, Torino, Einaudi, 1996, pp. XXI-XXIV (ed. originale: Macht und Recht. Große Prozesse in der Geschichte, München, Oscar Beck, 1990).

12. Cfr. H. Arendt, Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, New York, The Viking Press, 1963, trad. it. La banalità del male, Milano, Feltrinelli, 1964, p. 263. Bert Röling ha sostenuto che i processi internazionali del dopoguerra sono stati utilizzati dai vincitori a fini propagandistici e per nascondere i misfatti da loro stessi commessi; cfr. B.V.A. Röling, The Nuremberg and the Tokyo Trials in Retrospect, in C. Bassiouni, U.P. Nanda (a cura di), A Treatise on International Criminal Law, Springfield, Charles C. Thomas, 1973. Per parte sua Hedley Bull (The Anarchical Society, London, Macmillan, 1977, p. 89) ha sostenuto che la funzione simbolica dei processi è stata offuscata dal carattere 'esemplare' e selettivo delle loro pronunce.