2008

Un dialogo sulla guerra, il diritto e le relazioni internazionali

Claudia Terranova (*), Danilo Zolo (**)

  1. Claudia Terranova. Nel recensire il suo testo La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad (Laterza, 2006), Francesca Borri l'ha definito «schmittiano tra i kantiani». Condivide questa definizione, lei che è considerato uno dei rappresentanti del realismo politico?

    Danilo Zolo. Francesca Borri è una giovane studiosa che stimo molto per la sua intelligenza e la sua creatività espressiva. Ciò non toglie che, secondo me, la sua valutazione non sia in questo caso accettabile. Non è un mistero che nei miei libri teoricamente più impegnati - da Il principato democratico a Cosmopolis, a La giustizia dei vincitori - io faccia professione di realismo politico e critichi l'idealismo dei moralisti kantiani, come, fra gli altri, Jürgen Habermas. In nome dei più alti valori etici Habermas ha sempre giustificato le "guerre umanitarie" - in realtà guerre di aggressione - scatenate dagli Stati Uniti e dai loro più stretti alleati europei, l'Italia compresa, nei Balcani e in Medio Oriente. E non nego di condividere alcuni aspetti importanti della filosofia del diritto internazionale di Schmitt, così come sono espressi nel suo opus magnum, Der Nomos der Erde. Condivido il realismo politico e normativo di Schmitt e in particolare il suo rifiuto della teoria cattolica della "guerra giusta", che è stato uno strumento per giustificare le guerre non per impedirle o limitarle. Ma questo non significa che io sia "schmittiano". Nel mio saggio introduttivo a C. Schmitt, Il concetto discriminatorio di guerra (Laterza, 2008) esprimo una serie di critiche molto esplicite a Schmitt, denunciando in particolare l'opportunismo della sua adesione al nazismo dal 1933 al 1936 e il suo pesante antisemitismo.

  2. C.T. Quanto conta nel suo pensiero la riflessione di Carl Schmitt?

    D.Z. Come ho già accennato, conta molto per me il realismo politico di Schmitt, applicato al tema della pace e della guerra. La profezia dell'avvento della guerra globale discriminatoria e la denuncia della vocazione imperiale degli Stati Uniti sono secondo me di grande lucidità e, purtroppo, di grande attualità.

  3. C.T. Azzardo nel sostenere che, nelle sue riflessioni riguardanti il diritto internazionale, rivive lo spirito schmittiano.

    D.Z. Ripeto che apprezzo alcuni aspetti importanti di Der Nomos der Erde, non propriamente lo "spirito schmittiano", a mio parere antidemocratico e ambiguamente pacifista. Schmitt nulla dice contro le guerre coloniali europee, che a tratti sembra addirittura giustificare come garanzia della "guerra messa in forma" in Europa.

  4. C.T. Il "Nomos della terra" di Carl Schmitt si apre con un monito: «È agli spiriti pacifici che è promesso il regno della terra. Anche l'idea di un nuovo nomos della terra si dischiuderà solo a loro». Non mi pare di intravedere oggi, nell'epoca della globalizzazione, di questi spiriti.

    D.Z. È una dichiarazione, quella di Schmitt, che personalmente ho apprezzato e citato in un mio saggio. Si tratta comunque di una dichiarazione tardiva e che non può far dimenticare l'adesione opportunistica di Schmitt al nazismo. Quanto al pacifismo contemporaneo, che lei ritiene inesistente, mi limito a ricordare che negli ultimi decenni ci sono stati militanti cattolici per la pace come Giorgio La Pira, Ernesto Balducci, Lorenzo Milani, Raniero La Valle, di grande coraggio e autenticità. Anche il laico Gino Strada è stato, per una decina d'anni, un alfiere della pace di notevole rilievo. Ma lei ha ragione nel dire che oggi il pacifismo laico e in particolare quello cattolico sono in crisi, senza visibilità ed efficacia. In alcuni momenti la chiesa cattolica si è schierata contro la guerra, in altri invece il suo ruolo è stato molto ambiguo o negativo (penso alla benedizione della guerra della NATO contro la Repubblica Federale Jogoslava del 1999). L'attuale pontefice romano si è spinto sino a celebrare il suo ottantunesimo compleanno alla Casa Bianca e a brindare con il presidente Bush, responsabile se non altro di alcune devastanti guerre di aggressione.

    C.T. A proposito della globalizzazione, lei sostiene che ci sono aspetti molto differenti in quella che noi chiamiamo sommariamente "globalizzazione", e che riguardano la dimensione economica (che può ritenersi il nucleo generativo del fenomeno), quella comunicativa, quella politica, quella giuridica e infine quella militare. Quest'ultima, a suo avviso importantissima, è poco indagata e spesso dimenticata. Perché, secondo lei?

    D.Z. Ci sono autori occidentali - penso in particolare ad Alan Dershowitz e Michael Ignatieff - che non solo non denunciano la guerra moderna in quanto devastazione sanguinaria della vita di migliaia di persone innocenti grazie all'uso sistematico di ordigni di distruzione di massa, ma ne fanno apologia come strumento provvidenziale per la tutela e la diffusione dei diritti dell'uomo a e per la lotta al terrorismo. A loro parere l'Occidente ha il compito di diffondere nel mondo, anche con la forza delle armi, i valori della libertà, della democrazia, dello Stato di diritto, dell'economia di mercato Senza la sorveglianza militare sul mondo intero e l'occupazione delle aree più ricche di risorse energetiche, il mondo occidentale non riuscirebbe a sopravvivere agli attuali livelli di potere e di ricchezza e non potrebbe quindi garantire il new world order e la global security contro il terrorismo. Questa è la funzione che gli Stati Uniti d'America si sono attribuiti e intendono continuare a svolgere - temo che Barack Obama non riuscirà a cambiare gran che sotto questo aspetto -, a partire dal crollo dell'Impero sovietico, la fine del bipolarismo e il definitivo trionfo dell'economia di mercato e della speculazione finanziaria globale.

  5. C.T. Nel suo libro Globalizzazione. Una mappa dei problemi, lei, nel delineare una sorta di cartografia concettuale della globalizzazione, non si schiera né con gli apologisti, né, tantomeno, con i critici. Suggerisce, semmai, un approccio diverso, una "terza via", capace di riconoscere gli elementi positivi di questo processo, ma capace anche di cogliere alcune contraddizioni fondamentali, sfatando alcuni miti.

    D.Z. È vero, io non mi sono schierato in assoluto né con gli apologeti né con i critici radicali della globalizzazione. Ma penso che sia chiarissimo nel testo che lei ha citato, che la mia posizione non è intermedia e neutrale, ma si avvicina assai di più a quella dei critici dei processi di globalizzazione che non a quella degli apologeti. Ritengo utopistico proporre una cancellazione dell'economia di mercato e una regressione a forme di produzione pre-capitalistiche. I sostenitori della dottrina della "decrescita" hanno un'infinità di buone ragioni ma non offrono alternative, se non sostanzialmente idealistiche e moralistiche, alla spietatezza dei rapporti economici proiettati verso una crescita continua della produzione, del commercio, della pubblicità e del consumo. Non vedo (purtroppo) alternative strutturali al capitalismo: da questo punto di vista il marxismo e il comunismo sono finiti, e finiti ingloriosamente. Si tratta piuttosto, come propone il premio Nobel per l'economia, Joeph Stiglitz, di sottoporre l'economia di mercato a regole e interventi politici di carattere globale che ne riducano drasticamente il carattere speculativo e discriminatorio. Occorre che, secondo la logica keynesiana, la produzione capitalistica non sia un meccanismo anarchico che oppone alla povertà, talora estrema, di centinaia di milioni di persone l'estrema ricchezza di una ristretta minoranza, Oggi il 20% più ricco della popolazione mondiale si accaparra l'86% della ricchezza prodotta globalmente, mentre al 20% più povero von va che l'1,3% di tale ricchezza. E giorno dopo giorno questa abissale discriminazione aumenta, anziché, come alcuni economisti fingono di credere, diminuire.

  6. C.T. Il sociologo Zygmunt Bauman ha scritto delle interessanti pagine sulla condizione dell'uomo globalizzato. Al di là degli esiti universalistici del suo pensiero che lei, coerentemente con la sua visione realistica, non condivide, non conviene, con Bauman, che la società della "modernità liquida" è una società sotto assedio? Assediata da un'etica la cui finalità è consumare, oppressa da un'insicurezza generata dalla perdita della dimensione pubblica della politica, divenuta "ancilla economiae" e, non ultimo, dal tramonto del Welfare State?

    D.Z. Il livello più alto raggiunto in Occidente da un sistema politico nel tentativo di regolare e ridurre la paura è stato senza dubbio il Welfare state o Stato sociale. Lo Stato sociale, a partire dagli anni trenta del Novecento, ha tentato di andare oltre lo Stato di diritto garantendo, sia pure in forme che sono state giudicate insufficienti o distorte, i cosiddetti 'diritti sociali': il diritto al lavoro, il diritto all'istruzione e alla salute, un'ampia serie di prestazioni pubbliche di carattere assicurativo, assistenziale e previdenziale. Si può dire che lo Stato sociale si è fatto carico dei rischi - e quindi della paura - strettamente legati all'economia di mercato, fondata su una logica contrattuale e concorrenziale che suppone la diseguaglianza economico-sociale dei soggetti contraenti o concorrenti e la riproduce senza limiti. L'economia di mercato è un potente fattore di paura per i singoli soggetti nonostante il suo eccezionale potenziale produttivo, o forse proprio per questo. Lo Stato sociale, in particolare nella seconda metà del secolo scorso, ha tentato di limitare i rischi del mercato e di diffondere sicurezza con una serie di misure destinate a compensare attraverso servizi pubblici e prestazioni finanziarie i processi di discriminazione e di emarginazione inevitabilmente connessi con la logica del profitto.

    Oggi un'opinione largamente condivisa ritiene che il Welfare state attraversi una crisi irreversibile e che al fondo di questa crisi siano i processi di trasformazione economica e politica che vanno sotto il nome di globalizzazione. Autori come Ulrich Beck, David Garland, Loïc Wacquant, Zygmunt Bauman, Robert Castel, Luciano Gallino hanno sottolineato che la globalizzazione per un verso ha celebrato il trionfo planetario dell'economia di mercato, in particolare nelle sue modalità finanziarie. Per un altro verso ha eroso le strutture sociali e politiche di gran parte degli Stati nazionali degradandone la coesione identitaria e comunitaria e limitandone drasticamente la capacità di produrre sicurezza. Altri autori - e sono la maggioranza - aderiscono alla tesi del trade-off, sostenendo che gli investimenti e le politiche assistenziali dello Stato sociale ostacolano la crescita economica. L'onere di un'ampia serie di rischi deve essere perciò posto a carico non dello Stato ma dei singoli cittadini, secondo un approccio orientato a privatizzare la responsabilità del rischio e la metabolizzazione della paura. Questo trasferimento del rischio vale in particolare per i settori della sanità, dell'istruzione e delle pensioni, nei quali le prestazioni del bilancio pubblico tendono in molti paesi occidentali ad una progressiva restrizione. Anche le politiche di sicurezza urbana - basta pensare alle guardie giurate e alle ronde di quartiere - tendono ad essere privatizzate.

  7. C.T.Ritengo che Lei si senta vicino alle posizioni di Serge Latouche, le cui riflessioni sottolineano come il processo di globalizzazione in corso coincida con un processo di americanizzazione del mondo. È così?

    D.Z. Sì, penso con Latouche che il processo di globalizzazione, sotto tutti i suoi aspetti, sia un processo si americanizzazione dell'Occidente e di simultanea occidentalizzazione del mondo, la Cina compresa. Questo non significa che io condivida tutte le posizioni di Latouche, come, ad esempio, l'ideologia della "decrescita".

  8. C.T. Ogni società, ha costruito il volto del nemico. Con la fine del bipolarismo, allo spauracchio comunista si è sostituito quello del terrorismo islamico. Può dirci quale è, oggi, il vero nemico?

    D.Z. Il vero nemico è ciò che sta alla radice del fenomeno terroristico, e cioè la tendenza degli Stati Uniti, con la cooperazione dell'Europa, a egemonizzare con la loro potenza militare le aree del mondo essenziali per lo sviluppo dell'economia di mercato e il controllo dei processi di globalizzazione, concentrandosi in particolare nell'area che essi hanno chiamato Broader Middle East, con al centro l'Iraq, l'Afghanistan, il Caspio, il Libano, l'area palestinese. Nella cultura politica occidentale si è affermata l'idea che il "terrorismo globale" esprima la volontà dei paesi non occidentali - in modo tutto particolare del mondo islamico - di annientare la civiltà occidentale assieme ai suoi valori fondamentali: la libertà, la democrazia, lo Stato di diritto, l'economia dei mercato. E si sostiene che il terrorismo esprime la volontà profondamente irrazionale di ottenere questo risultato nel modo più spietato, distruttivo e violento, senza il minimo rispetto per la vita. La figura del terrorista suicida, affermatasi in particolare in Palestina, sarebbe l'espressione emblematica dell'irrazionalità, del fanatismo e del nichilismo terrorista, perché la vita del kamikaze perde ai suoi stessi occhi ogni valore. Al fondo del terrorismo palestinese ed islamico - nucleo generatore di ogni altro terrorismo - ci sarebbe l'odio teologico contro l'Occidente diffuso dalle scuole coraniche fondamentaliste. Secondo questo punto di vista nessun'altra "causa" starebbe alla base del fenomeno e sarebbe addirittura errato andare alla ricerca delle ragioni politiche, economiche o sociali del terrorismo.

    Si tratta a mio parere di tesi infondate e cariche di rischi. Il terrorismo è un fenomeno assai meno irrazionale di quanto si pensi o si voglia far credere. Occorrerebbe anzitutto tenere presente che il terrorismo, nelle forme che si sono imposte negli anni novanta del secolo scorso, ha trovato un impulso determinante nel "trauma globale" che la guerra del Golfo del 1991 ha provocato nel mondo non occidentale, anzitutto nel mondo islamico, colpito nel cuore dei suoi luoghi sacri, della sua civiltà e della sua fede. La guerra voluta da George Bush padre è stata una delle più grandi spedizioni militari di tutti i tempi ed ha provocato non meno di 200.000 vittime, non solo irachene ma anche palestinesi, giordane, sudanesi ed egiziane. Si è trattato di una guerra, come ha sostenuto con forza Fatema Mernissi, che ha mostrato la soverchiante, invincibile potenza degli Stati Uniti e l'estrema fragilità del mondo arabo-islamico e della sua millenaria civiltà. E che ha consentito alle armate statunitensi di insediarsi stabilmente in Arabia Saudita e in altri paesi arabo-mussulmani del Golfo, a cominciare dal Kuwait, e ha definitivamente annientato le aspettative di riscatto del popolo palestinese, sottoponendolo ad un irreversibile etnocidio.

  9. C.T. Che cosa ha rappresentato per lei l'11 settembre?

    D.Z. È stato un gravissimo atto terroristico nel quale è esplosa la volontà di vendetta del mondo islamico "integralista" nei confronti degli Stati Uniti, diventati, dopo la guerra del Golfo del 1991, padroni del Medio Oriente islamico. Il luogo comune occidentale secondo il quale l'Occidente è stato aggredito dal terrorismo islamico - in particolare con l'attentato dell'11 settembre - alimenta l'idea che l'uso della forza militare da parte degli Stati Uniti e della Gran Bretagna sia soltanto una replica difensiva, necessaria per la sopravvivenza dell'Occidente e dei suoi valori di fronte all'emergere di una nuova barbarie. In radicale dissenso rispetto a questa idea, l'analista statunitense Robert Pape, nel volume Dying to Win: The Strategic Logic of Suicide Terrorism, (New York, Random House, 2005) ha sostenuto che la variabile determinante nella genesi del fenomeno terroristico, in particolare di quello suicida, non è il fondamentalismo religioso, e nemmeno la povertà o il sottosviluppo: si tratta in realtà, nella grande maggioranza dei casi, di una risposta organizzata a ciò che viene percepito come uno stato di occupazione militare del proprio paese. Per "occupazione militare" si deve intendere non solo e non tanto la conquista del territorio da parte di truppe nemiche, quanto la presenza invasiva e la pressione ideologica di una potenza straniera che si propone di trasformare in radice le strutture sociali, economiche e politiche del paese occupato. Pape sostiene che la presenza prolungata e massiccia degli eserciti occidentali nei paesi musulmani aumenta giorno dopo giorno la probabilità di un secondo, altrettanto micidiale, "11 settembre".

  10. C.T. Lei definisce monoteistica la guerra "globale". Perché?

    D.Z. La chiamo "monoteistica" perché la guerra globale contemporanea - che a mio parere è esplosa a partire dalla Guerra del Golfo del 1991 - conferma una regolarità di lungo periodo che ha contraddistinto le relazioni fra i popoli nell'area mesopotamica, mediorientale, mediterranea ed europea. È il carattere 'spazialmente discriminatorio' dell'ordine internazionale: una discriminazione che convive senza problemi con l'ideale universalistico e umanitario -- stoico, cristiano, illuministico -- dell'unità morale dell'umanità e dell'eguale dignità dei suoi membri. Dagli ordinamenti antichi allo jus gentium romano, al sijar islamico e alla dottrina cattolica del bellum justum, la disciplina giuridica dei rapporti fra i popoli -- e la regolazione della guerra -- è stata applicata soltanto entro lo spazio della 'civiltà' (israelitica, greca, imperiale, cristiana, arabo-islamica, moderna, liberal-democratica, etc.), con l'esclusione rigorosa dei 'barbari' (gentili, idolatri, infedeli, turchi, mori, neri, selvaggi, cannibali, pirati, etc.) L'universalismo umanitario, ribadito infinite volte in linea di principio, si arresta sul piano giuridico ai confini ideali del 'monoteismo' di una religione o di una civiltà.

    La nuova guerra 'globale' si può dire monoteistica, anche per il costante richiamo a valori universali da parte delle potenze (occidentali) che la promuovono: esse giustificano la guerra in nome non di interessi di parte o di obiettivi particolari, ma di un punto di vista superiore e imparziale e di valori che si ritengono condivisi o condivisibili dall'umanità intera. Il weberiano 'politeismo' delle morali e delle fedi religiose è sistematicamente negato dai teorici della guerra globale. Essi contrappongono una visione monoteistica del mondo -- in particolare quella biblica e fervidamente cristiana dell'attuale gruppo dirigente degli Stati Uniti, composto da metodisti, anabattisti, presbiteriani, episcopali e luterani --, al pluralismo dei valori e alla complessità del mondo. Dichiarando di combattere l'ideologia disumana e sanguinaria del terrorismo globale in realtà gli Stati Uniti respingono tutto ciò che si oppone all'egemonia del monoteismo occidentale e combattono in modo tutto particolare la cultura islamica che in questo momento tenta di resistere più di ogni altra al processo di occidentalizzazione del mondo al quale si riduce in larga parte ciò che chiamiamo 'globalizzazione'. E' la guerra unilaterale delle forze del bene -- secondo la retorica elementare di George Bush jr. -- contro the axis of evil, l''asse del male'. E' la 'guerra umanitaria' contro i nemici dell'umanità che negano l'universalità di valori come la libertà, la democrazia, i diritti dell'uomo e, naturalmente, l'economia di mercato.

  11. C.T. Chi ha creduto che, con la fine del bipolarismo, l'umanità si fosse lasciata per sempre alle spalle la tragedia dell'olocausto e i disastri dell'atomica su Hiroshima e Nagasaki, si sbagliava. Lo scenario internazionale, negli ultimi anni, non ci ha risparmiato nulla: dalle bombe intelligenti della Nato in Bosnia e in Serbia, alle stragi di innocenti in Palestina e Libano, alle sanguinose occupazioni militari in Iraq e Afghanistan. E l'elenco si fa lungo, se consideriamo le gabbie di Guantànamo e Abu Ghraib. È evidente come le istituzioni sovranazionali (le Nazioni Unite, anzitutto), sorte dopo i conflitti mondiali per garantire l'ordine internazionale e cancellare dalla storia le guerre, abbiano fallito. Qual è, a suo avviso, la ragione di questo fallimento?

    D.Z. Oggi rischia di apparire insensato continuare a riferirsi alle Nazioni Unite come a una sorta di baluardo istituzionale per la creazione di un ordine mondiale giusto e pacifico. C'è piuttosto da chiedersi se sia ancora proponibile quello che è stato chiamato "il modello cosmopolitico della Santa Alleanza", e cioè l'idea che una pace stabile e universale possa essere realizzata grazie alla concentrazione del potere internazionale in un organismo come il Consiglio di Sicurezza, che è titolare di una facoltà quasi illimitata di intervento politico-militare e quindi di limitazione della sovranità degli Stati. Un organismo di questo tipo non può che essere strumentalizzato o svuotato o paralizzato dalle grandi potenze.

    Un minimo tentativo di democratizzazione delle Nazioni Unite richiederebbe la soppressione dei privilegi che le cinque potenze vincitrici del conflitto mondiale si sono dispoticamente attribuiti. E richiederebbe l'emancipazione dell'Assemblea Generale dall'attuale configurazione istituzionale che le attribuisce solo funzioni di "raccomandazione", prive di qualsiasi cogenza normativa. Ma nessuno dovrebbe illudersi che le attuali grandi potenze - se non costrette da profondi cambiamenti negli equilibri politici, economici e militari del pianeta - accettino di sedersi al tavolo della "democrazia mondiale" assieme ai rappresentanti dei paesi più poveri e più deboli. Nessuno dovrebbe illudersi che esse siano disposte a prendere parte a processi decisionali democratici -- ove ciascun soggetto internazionale conti per uno --, se le decisioni riguardano questioni cruciali per gli equilibri strategici del pianeta.

  12. C.T. Lei ha criticato in modo radicale la giustizia penale internazionale, dal Tribunale dell'Aja per la ex Jugoslavia fino alla Corte Penale Internazionale, insediatasi anch'essa all'Aja nel 2003. Ne ha sottolineato il carattere selettivo ed esemplare, ritenendola una giustizia arcaica e sinistramente sacrificale. Perché?

    D.Z. Secondo numerosi teorici occidentali del diritto internazionale - anzitutto Antonio Cassese, primo presidente del Tribunale penale internazione per la ex-Jugoslavia -- dovremmo pensare che la "nuova" giustizia penale internazionale ha mostrato nell'ex Jugoslavia e in Ruanda di poter offrire un contributo prezioso alla causa della pace. E in futuro questo obiettivo sarà tanto più efficacemente realizzato dalla Corte penale internazionale (ICC) permanente. Più nessuno dovrà pensare che sia possibile scatenare conflitti o promuovere campagne nazionalistiche che finiscano in genocidio senza essere perseguiti da una polizia internazionale e incorrere nelle sanzioni di una corte di giustizia. Lo strumento penale eserciterà un'efficace funzione di prevenzione nei confronti sia della guerra, sia della violazione dei diritti individuali.

    Se le cose stessero davvero così dovremmo riconoscere che la massima kelseniana peace through law ha dato, e sta dando tuttora, buona prova di sé nei Balcani, in Palestina, nel Medio Oriente, in Africa. Saremmo perciò in presenza di un significativo successo del 'pacifismo giuridico' che da Kelsen ad Habermas ha puntato sulla repressione penale internazionale -- esercitata su singoli individui responsabili di crimini di guerra o di crimini contro l'umanità -- come sulla chiave di volta per la costruzione di una pace stabile e universale. La realtà storica sembra mostrare esattamente il contrario: sia a proposito delle effettive funzioni sinora svolte dai Tribunali penali internazionali -- da Norimberga a Tokyo, all'Aja, ad Arusha -- sia, più in generale, a proposito dell'efficacia pacificatrice del 'potere dei giudici'. Non è affatto sicuro che le sorti del mondo possano essere fiduciosamente consegnate nelle mani di una neutrale, impolitica espertocrazia giudiziaria.

    Da Norimberga all'Aja, la giurisdizione penale internazionale ha mostrato di non essere immune dal sospetto di praticare, in forme conclamate o in forme latenti, una 'giustizia politica'. Che cosa garantisce, nel contesto delle attuali istituzioni internazionali, l'autonomia della funzione giudiziaria? Che significato essa può avere fuori dello schema della divisione dei poteri propria dello Stato di diritto? È certo che togliere la vita o comunque infliggere gravi sofferenze -- sia pure nel contesto altamente simbolico di rituali giudiziari internazionali -- a un ristrettissimo numero di individui non svolge una funzione dissuasiva nei confronti della guerra e dei conflitti civili. Si profila qui l'ombra oscura di una giustizia vittimaria che punta sull'effetto rassicurante del sacrificio espiatorio e che attribuisce ai vincitori di una guerra l'aureola della giustizia e agli sconfitti un indelebile stigma di immoralità e illegalità in quanto "nemici dell'umanità"

  13. C.T. In Cosmopolis e in I signori della pace lei si scaglia anche contro i fautori del "globalismo giuridico"che, a partire da Kelsen, auspicano un nuovo diritto cosmopolitico che, escludendo del tutto l'intermediazione degli Stati, affiderebbe la giurisdizione ad un organismo centrale mondiale. Qual è, invece, la sua posizione?

    D.Z. Il dibattito sulle funzioni della giurisdizione penale internazionale rinvia ad una serie di questioni più generali. Esse riguardano anzitutto il fondamento teorico e l'accettabilità etico-politica del cosiddetto "globalismo giuridico". E riguardano in secondo luogo la legittimità politica e giuridica di una tutela internazionale dei diritti umani che assuma forme coercitive - giurisdizionali e militari - in nome dell'universalità dei diritti. Su questo tema le opinioni si dividono nettamente. Gli autori che guardano con favore all'espansione della giurisdizione penale internazionale auspicano anche l'avvento di un "diritto cosmopolitico" al posto dell'attuale diritto internazionale e sono inclini a sottoscrivere la tesi della universalità dei diritti umani. Ed è vero l'inverso: i critici della giurisdizione penale internazionale si oppongono all'idea del "diritto cosmopolitico" e a ogni forma di universalismo normativo.

    I critici del "globalismo giuridico" - in particolare i teorici del new legal pluralism come Boaventura de Sousa Santos e John Griffiths - rivendicano anzitutto la molteplicità delle tradizioni normative e degli ordinamenti giuridici oggi in vigore a livello planetario e sottolineano il loro prevalente carattere "trans-nazionale" e "trans-statale". Nel farlo essi si richiamano a ricerche classiche di antropologia del diritto, come quelle di Leopold Pospisil e Sally Falk Moore. Santos, ad esempio, ha parlato di interlegality, indicando con questo termine l'esistenza di "reti di legalità" parallele - sovrapposte, complementari o antagoniste - che obbligano a costanti transazioni e trasgressioni e che non sono riconducibili ad alcun unitario paradigma normativo preesistente alle controversie. La complessità è tanto maggiore se si considera la dimensione globale: la cosiddetta società globale è una sorta di galassia giuridica nella quale il diritto statale non svolge alcun ruolo egemone. Basti pensare al ruolo normativo delle law firms nei settori del diritto commerciale, fiscale e del lavoro e dell'emergere di una nuova lex mercatoria a livello globale.

    Quanto alla universalità dei diritti umani, gli oppositori occidentali del "globalismo giuridico" non negano il grande significato che la dottrina dei diritti soggettivi ha avuto all'interno della storia politica e giuridica occidentale. Per loro è fuori discussione che questa dottrina è uno dei lasciti più rilevanti della tradizione europea del liberalismo e della democrazia. Il problema è un altro: riguarda il rapporto fra la filosofia individualistica che è sottesa a questa dottrina, da una parte, e, dall'altra, l'ampia gamma di civiltà e di culture i cui valori sono molto lontani da quelli europei. Penso, in particolare, ai paesi del sud-est e del nord-est asiatico, di prevalente cultura confuciana, all'Africa sub-sahariana e al mondo islamico.


*. Claudia Terranova è insegnante di ruolo di filosofia nelle scuole superiori ed è dottoranda presso l'Università di Messina in Metodologie della filosofia.

**. In alcuni passaggi delle sue risposte Danilo Zolo riprende concetti già esposti in sue opere recenti o in via di pubblicazione.