2011

Quale democrazia nell'Africa mediterranea? (*)

Danilo Zolo

Piazza Tahrir

Una primavera araba

Un'ondata ha investito il Mediterraneo meridionale e continua a investire i paesi del Maghreb e del Mashrek. C'è chi sostiene che si tratta dell'annuncio di una nuova primavera per le popolazioni arabo-islamiche, dalla Tunisia all'Egitto, dalla Libia alla Siria, dallo Yemen al Bahrein. La democrazia, si sostiene con entusiasmo, è a portata di mano dei giovani e delle giovani che hanno manifestato a migliaia contro i regimi dispotici che per decenni hanno oppresso i loro paesi.

C'è tuttavia da temere che si tratti di un miraggio di giovani coraggiosi che guardano con grande speranza al futuro, anche se non si può escludere che il mondo islamico riesca finalmente a liberarsi da una tradizione millenaria che risale al califfato. Per ora la fuga improvvisa del presidente tunisino Ben Ali, le dimissioni del presidente egiziano Hosni Mubarak e il processo al quale è stato sottoposto sono la prova di una situazione politica ancora incerta. E non sembra facilmente raggiungibile l'obiettivo della libertà e della democrazia, come del resto conferma l'uccisione di centinaia di persone innocenti in Libia e in Siria. Così, mentre la Tunisia e l'Egitto sono alle prese con una transizione politico-istituzionale dagli esiti molto dubbi, gli scenari del mediterraneo rimangono aperti e la possibilità di un futuro infuocato non è da escludere.

Occorre tenere presente che non da oggi il Mediterraneo è la culla delle potenze occidentali, come provano se non altro le portaerei statunitensi Enterprise e Vinson che fanno la guardia nel golfo della Sirte. La guerra contro la Libia che nel marzo scorso è stata decisa dagli Stati Uniti e dai loro più stretti alleati - Francia, Inghilterra e Italia in particolare - è il segno che le potenze occidentali sono tuttora interessate a tenere sotto il proprio controllo il Mediterraneo orientale e il medio Oriente (1).

A questo punto non è facile prevedere, in un contesto interpretativo che sia di ampio respiro, il destino politico ed economico del Mediterraneo. Ciò che purtroppo sembra possibile affermare con sicurezza è soltanto che il Mediterraneo orientale è destinato ad essere ancora per molto tempo l'epicentro incandescente di una lotta feroce: la tragedia del popolo palestinese e la violenza dello Stato di Israele dureranno a lungo, coinvolgendo nel loro conflitto il Mediterraneo intero, e non solo. La pace nel mondo islamico è lontana e penso che sia prudente non essere ottimisti (2).

Per queste ragioni mi occuperò nelle prossime pagine soltanto delle motivazioni, delle speranze e dei valori in nome dei quali in Tunisia e in Egitto si sono battuti coraggiosamente i giovani in rivolta contro il dispotismo. Lascerò da parte ogni altra tematica internazionale, per quanto rilevante possa essere per una comprensione profonda dei problemi del mediterraneo nordafricano.

Vorrei soltanto cercare di capire che cosa può significare "democrazia" e "Stato democratico" nelle proclamazioni entusiastiche dei giovani tunisini ed egiziani che hanno aperto le porte alla "primavera" nordafricana. E si tratta di una riflessione che non può non riferirsi anche ad alcune nozioni della cultura arabo-islamica, a cominciare dai concetti che, come vedremo, la Shari'a include fra quelli che più si avvicinano alla nozione occidentale di "democrazia" (dimuqratiyyah). Infine, è inevitabile domandarsi quale può essere il destino dei paesi mediterranei nel contesto dei processi di globalizzazione e del "finanzcapitalismo" che oggi domina il mondo (3).

Un povero venditore di frutta e verdura

Non è facile tentare di ricostruire le origini, le motivazioni e gli obiettivi della rivolta alla quale hanno dato vita migliaia di giovani in Tunisia e in Egitto. Ciò che si può sostenere con certezza è che in entrambi i casi si è trattato di un evento spontaneo, assolutamente non previsto. A prendere l'iniziativa e a guidare la rivolta non è stata un'organizzazione politica, ideologica o religiosa. Si è trattato piuttosto di una protesta che è corretto definire "morale": un rifiuto intransigente dell'autoritarismo, della corruzione, della speculazione, del nepotismo e, non ultimo, della tortura.

Come è noto, in Tunisia la vicenda emotivamente più rilevante è stata il tentato suicidio del giovane ventisettenne Mohamed Buazizi, che poi è morto in ospedale ai primi di gennaio. Era un povero venditore ambulante di frutta e verdura, maltrattato dagli agenti municipali che erano arrivati al punto di prenderlo a schiaffi e di sputargli addosso. Si era dato fuoco davanti alla sede del governatorato per testimoniare la sua povertà e la sua dignità. Nessuno lo aveva ascoltato e aiutato, nessuno gli aveva reso giustizia. Il suicidio non è consentito dalla Shari'a, e tuttavia Mohamed Buazizi è stato onorato da migliaia di giovani tunisini, assunto come un simbolo della libertà e del coraggio. È così iniziata ai primi di gennaio quella che poi è stata chiamata con civile cortesia la "rivoluzione dei gelsomini" (4): il popolo tunisino, rappresentato in larga parte dai giovani, è insorto con calma e dignità invocando il rispetto reciproco, mentre la violenza è stata usata soltanto dalla polizia, la cui brutalità ha provocato decine di morti e centinaia di feriti (5).

In Egitto le cose non sono andate molto diversamente. Il 25 gennaio, chiamato "il giorno della rabbia", è iniziata al Cairo l'occupazione pacifica di piazza Tahrir. Ispirandosi all'insurrezione tunisina, decine di migliaia di giovani egiziani hanno invaso le strade e riempito le piazze mentre la polizia in parte ha solidarizzato con loro e in larga parte ha usato la violenza, causando la morte di almeno trecento manifestanti. Dopo due settimane di manifestazioni il presidente Mubarak, come è noto, ha deciso di ritirarsi passando il potere allo Stato maggiore delle Forze Armate. Studenti, giovani professionisti, medici, insegnanti, lavoratori disoccupati e soprattutto famiglie povere e poverissime hanno coraggiosamente testimoniato la loro opposizione. In Egitto la distribuzione della ricchezza è più che mai iniqua. Il contributo di due miliardi di dollari che ogni anno gli Stati Uniti versano - non certo disinteressatamente - nelle casse dello Stato sono in larga parte destinate alle forze armate egiziane, non ai poveri. Oggi in Egitto vivono 85 milioni di persone e di queste oltre 34 milioni sopravvivono in condizioni di povertà estrema, disponendo di poco più di un euro al giorno (6). C'è chi parla di un paese di mendicanti, come nessun altro in Medio oriente.

È dunque chiaro che sia in Tunisia sia in Egitto la rivolta contro i regimi dominanti è stata una coraggiosa manifestazione giovanile: centinaia di migliaia di giovani di età fra i venti e i trent'anni hanno rivendicato con intensa emotività il diritto a vivere dignitosamente, come Mohamed Buazizi avrebbe voluto. Hanno chiesto ad alta voce che il loro avvenire non fosse più il nulla che da anni li opprimeva: un nulla non lontano dall'infelicità, dalla disperazione, dal suicidio. Il futuro prometteva loro soltanto disoccupazione, povertà, solitudine, tristezza, abbandono. Si potrebbe dire che è stata la paura del futuro ad animare una rivolta popolare del tutto spontanea, non armata, nata dal basso. I giovani hanno posto al centro delle loro rivendicazioni la possibilità di una vita onesta e dignitosa, non discriminata da una minoranza di ricchi egoisti e prepotenti. Al centro di ogni altro valore - come vedremo - doveva emergere un principio irrinunciabile: la struttura politica alternativa al dispotismo doveva chiamarsi ed essere "democrazia".

L'attivismo femminile e i social network

Altri due elementi hanno caratterizzato la rivolta giovanile tunisina ed egiziana: l'ampia partecipazione femminile e l'intensa comunicazione via Internet. In un suo saggio molto documentato Renata Pepicelli ha mostrato il notevole contributo che sia in Tunisia che in Egitto migliaia di giovani donne hanno dato alla battaglia contro il dispotismo politico, mettendo spesso a repentaglio la loro vita (7). È noto che per anni il presidente tunisino Ben Ali si era esibito come un convinto tutore dei diritti delle donne contro i movimenti islamisti. Ma mentre si esibiva come difensore della democrazia, del laicismo e dell'eguaglianza sociale, il suo regime reprimeva spietatamente chi si batteva per la causa dell'uguaglianza di genere, come era il caso della Association tunisienne des femmes démocrates (Atdf) (8).

Ma in Tunisia e in Egitto le donne, fossero giovani o meno giovani, non si sono arrese, sorprendendo con la loro coraggiosa presenza nelle manifestazioni pubbliche tutti coloro che ignoravano o minimizzavano la lunga storia dell'attivismo femminile nel mondo arabo. In particolare negli ultimi decenni le donne arabe del Nord Africa avevano fatto notevoli progressi. Il dato più significativo riguardava l'istruzione, dove esse emergevano riuscendo a praticare professioni che per secoli erano state di esclusiva competenza maschile. E tuttavia la loro condizione economica e giuridica non era migliorata: in maggioranza esse erano rimaste fuori dal mercato del lavoro e la crisi economico-finanziaria aveva aggravato la loro condizione portando la disoccupazione femminile a tassi molto alti, anche fra le donne dotate di un'ottima istruzione (9).

Non è dunque un caso che proprio la Tunisia e l'Egitto abbiano conosciuto le rivolte più significative: le sollevazioni popolari sono state guidate, come è stato da più parti sottolineato, soprattutto da donne e da uomini di giovane età che si erano sentiti traditi dalla falsa promessa di una vita dignitosa (10). In Egitto già nel 2008 era stato fondato il movimento di opposizione del "6 Aprile" grazie al coraggio di una giovane donna, Israa Abdel Fattah, militante per i diritti civili e capace di usare efficacemente Internet e Facebook (11). Anche grazie al suo attivismo le giovani donne avevano smesso di restare chiuse in casa. Partecipavano in massa alle manifestazioni pubbliche, ingrossando le fila di chi nelle strade e nelle piazze reclamava libertà e democrazia. E sono state presenti in gran numero anche nella piazza Tahrir, impegnate a respingere la polizia anche con la forza e a usare macchine fotografiche e telecamere per poi diffondere le immagini via Internet.

Emblema di quest'ultima, coraggiosa battaglia può essere considerata la giovane Asmaa Mahfouz, in qualche modo l'ombra egiziana di Mohamed Buazizi. Con il suo coraggioso video-appello, registrato il 18 gennaio con un telefono cellulare e poi diffuso da YouTube, è stata la prima persona a stimolare i suoi connazionali perché si riunissero in piazza Tahrir (12). Indimenticabili sono le sue parole, trasmesse con un atteggiamento audace ed entusiasta ed ascoltate da oltre 180mila persone in Egitto e all'estero:

scenderò in piazza il 25 gennaio e d'ora in poi distribuirò volantini ogni giorno per le strade. Non mi darò fuoco. Se le forze dell'ordine vogliono appiccarmi il fuoco, che vengano e lo facciano loro! Se tu ti reputi un uomo, vieni con me il 25 gennaio. Chiunque pensa che le donne non debbono protestare perché saranno picchiate, deve cercare di avere un po' di senso dell'onore e un po' di umanità e venire con me il 25 gennaio. A chiunque sostiene che è inutile perché ci saranno solo tre o quattro persone, io dirò che di questa situazione la colpa è sua. Gli dirò che è un traditore proprio come il presidente o quei poliziotti che ci picchiano nelle strade. La sua presenza con noi farà la differenza, una grande differenza (13).

Questo appello rovescia l'immagine di un regime che si fregiava di essere laico e democratico e che invece opprimeva, impoveriva, umiliava in particolare le donne, negando il loro diritto ad essere cittadine. Queste donne sono scese nelle piazze e hanno sfidato la violenta repressione in corso, in alcuni casi muorendo sotto il fuoco della polizia. E si deve a loro se la rivolta si è servita di uno strumento prezioso - il Web - e ha ottenuto un imprevedibile successo come simbolo dell'intera rivendicazione democratica maghrebina. I principali social network quali Facebook, Twitter, Flickr, YouTube sono diventati strumenti fondamentali di critica e di protesta (14). La loro idoneità a diffondere civilmente e legalmente le immagini della rivolta - sia di quella egiziana che di quella tunisina - ne ha fatto un'arma pericolosa per i leaders in carica, al punto da costringerli ad oscurare per giorni interi le reti telefoniche e Internet.

Ed è grazie agli attivisti di Internet se la rete satellitare è stata in grado di documentare in tempi molto rapidi lo sviluppo della duplice rivolta. E sempre a loro si deve se i reporters del Times, del Guardian e soprattutto di Al Jazeera hanno potuto risalire alle origini della "rivoluzione del gelsomini" e diffondere da una capitale araba all'altra la narrazione dei fatti e documentare l'eccitazione popolare, i sentimenti di ribellione, i progetti di riforma democratica dei paesi arabi, coinvolgendo in particolare l'Algeria, la Giordania, la Mauritania, lo Yemen e il Marocco (15).

All'indomani del 25 gennaio molte donne e molti uomini esprimevano opinioni simili a quelle di Asmaa Mahfouz. Molti pensavano di poter costruire una società più giusta, liberata dai dittatori e senza discriminazione femminile. Ma l'entusiasmo era destinato molto presto a lasciare il posto a preoccupazioni e disillusioni. Quando le donne hanno formalmente reclamato il riconoscimento del loro ruolo paritario rispetto a quello degli uomini, le autorità politiche non se ne sono minimamente occupate. Solo una donna è stata scelta per far parte del gabinetto interinale, mentre la quota di seggi riservati alle donne è stata abolita. Durante un'operazione di rastrellamento di piazza Tahrir da parte delle forze di polizia, circa venti giovani donne sono state arrestate, portate al commissariato dove sono state picchiate, sottoposte a scariche elettriche, obbligate a denudarsi (16).

A questo proposito non va dimenticato che l'Egitto è tuttora uno Stato di polizia che reprime le libertà dei propri cittadini servendosi di uno stato di emergenza in atto da oltre trent'anni e mai revocato. Lo stato di emergenza attribuisce alla polizia la facoltà di attuare arresti per un tempo illimitato e consente il ricorso a tribunali speciali. Persino Asma Mahfouz è stata rinviata a giudizio davanti a una Corte militare con l'accusa di "aver travalicato i limiti della libertà di espressione". Il generale presidente della Giustizia militare l'ha ammonita che non ci sarebbe stata alcuna "tolleranza per gli insulti rivolti contro le Forze Armate" (17).

Quanto alle donne tunisine, esse sono riuscite ad ottenere qualcosa: alle future elezioni dell'Assemblea costituente, che si terranno il 23 ottobre, le liste saranno composte di un numero uguale di donne e di uomini, cosicché almeno un quarto dei deputati della futura Assemblea costituente saranno donne. Elaborare la nuova costituzione escludendo le donne sarebbe stata una pericolosa violazione dell'eguaglianza fra i sessi. E tuttavia il rischio che esse vengano escluse è comunque molto alto e loro lo sanno e non si illudono. La primavera arabo-islamica può diventare rapidamente un grigio autunno.

Quale democrazia?

A questo punto non ci resta che tentare di capire - con riferimento alla Tunisia e all'Egitto - come sarà possibile la conversione delle strutture politiche di regimi fino a ieri ferocemente dispotici in strutture democratiche compatibili con la tradizione arabo-islamica. Per "democrazia" si può intendere, in termini molto generali, una partecipazione responsabile dei cittadini e delle cittadine ai processi decisionali in modo che, con periodicità regolare, essi possano scegliere liberamente fra soluzioni alternative (18). È dunque inevitabile riconoscere che la nozione di "democrazia" - costantemente evocata dai giovani tunisini ed egiziani - non appartiene al lessico musulmano e non presenta alcuna connessione con i valori tramandati dalla tradizione coranica. È sufficiente un minimo riferimento alla Shari'a e al fiqh per convincersene, eventualmente assistiti dagli scritti di autorevoli intellettuali islamici come, fra gli altri, Fatema Mernissi, Abdullahi A. An-Na'im e il suo maestro sudanese Mahmoud Mohmed Taha (19).

Ciò che si può agevolmente accertare è che la Shari'a attribuisce a ciascun membro della comunità islamica (ummah) la facoltà di interpretare personalmente i testi sacri e con una certa libertà (ijtihad). Ma, come è noto, questa facoltà è stata di fatto emarginata per molti secoli e non ha avuto il minimo effetto. Per un altro verso la Shari'a sembra attribuire notevole importanza, anche se le interpretazioni sono state molto spesso in contrasto fra loro, alle nozioni di shurah e di ijma, attribuendo alla prima il significato prevalente di "consultazione reciproca" fra i membri più in vista di una comunità islamica, e alla seconda quello di "consenso", ovvero di giudizio espresso collettivamente (20).

Ma anche in questo caso si tratta di nozioni che per secoli sono rimaste prive di qualsiasi rilievo politico, pur essendo spesso interpretate come concetti utili per superare i dissensi all'interno della ummah. Soltanto di recente autori come 'Abid al-Jabri, Rashid Ghannushi e Hasan al-Turabi hanno sostenuto che queste nozioni possono favorire la diffusione dell'associazionismo civile nel mondo islamico e motivare l'esigenza di una partecipazione sociale e politica spesso in contrasto con i governi nazionali (21). Secondo Massimo Campanini (22) e Samir Amin (23) la diffusione dell'associazionismo potrebbe affermarsi come una forma di "via islamica alla democrazia" (24) e questo potrebbe probabilmente stimolare un riformismo islamico all'altezza dell'era della globalizzazione e non subordinato al modello del costituzionalismo occidentale.

"Democrazia" resta comunque un concetto del tutto estraneo alla cultura islamica: il mondo musulmano non può servirsene se non come espressione di una realtà politica che si è affermata in Occidente, e solo in Occidente, con lo sviluppo della "modernità". E si tratta di una realtà politica anch'essa investita dal processo di globalizzazione e che tende quindi a trasformarsi, pur conservando il proprio nome, in un regime subordinato allo strapotere dei padroni dell'economia di mercato, oggi diffusa nel mondo intero (25). E questi padroni sono in larga parte anche i signori del Mediterraneo. A mio parere questo è un tema decisivo per chi intenda in qualche modo essere utile a un movimento giovanile che dopo aver svolto un ruolo di protagonista nella battaglia antitirannica in Tunisia e in Egitto oggi vorrebbe - e forse dovrebbe - dar vita a un vero e proprio "fronte democratico" (26).

Per quanto riguarda questo "tema decisivo" forse non c'è in Tunisia persona più autorevole di Yadh Ben Achour, noto scrittore tunisino e docente nell'Università di Tunisi. Per di più nel gennaio scorso Ben Achour è stato nominato presidente della Commission Supérieure de la Réforme Politique ed ha assunto funzioni di notevole rilievo politico. Si tratta di uno studioso molto sensibile non solo alla questione della riforma dell'apparato politico tunisino, ma anche al rapporto generale fra le istituzioni di un eventuale Stato democratico e le prescrizioni della Shari'a gelosamente custodite dai partiti islamisti. Non è dunque un caso se l'edizione italiana di un suo testo recente è stata intitolata La tentazione democratica (27).

In poche parole si può dire che Yadh Ben Achour propone una forma di "democrazia" che egli ritiene molto lontana da quella occidentale ma che proprio per questo considera preziosa per le nuove generazioni maghrebine. Si tratta di una concezione etico-metafisica della democrazia e nello stesso tempo nettamente dissociata dalle prescrizioni della Shari'a e dai principi generali del Corano e della Sunna. Ha scritto Ben Achour:

nell'insieme del mondo arabo nulla sarà più come prima del gennaio 2011. L'importanza di ciò che è accaduto in Tunisia è anzitutto l'interiorizzazione dell'idea di democrazia. Ormai nessuno verrà più a dirci che la democrazia e i diritti umani sono un'invenzione occidentale che non ha alcun rapporto con la cultura dei popoli arabi o musulmani. L'uomo è nato per essere democratico. Questo appartiene alla sua struttura psichica fondamentale [...]. La rivoluzione tunisina fa parte del processo di crescente universalizzazione dell'idea di giustizia e dei principi democratici. [...] Stiamo andando, sia pure a passi lenti, verso la creazione di un paradiso terrestre per l'uomo stesso, attraverso la generalizzazione universale dei diritti umani e dell'idea di democrazia (28).

È chiaro che Ben Achour si sente in sintonia con i dubbi e le riserve che le nuove generazioni tunisine (ed egiziane) hanno di fatto espresso in tema di democrazia. Per un verso i giovani hanno trascurato i classici riferimenti alla tradizione coranica e alle prescrizioni della Shari'a - messe da parte come "slogan islamisti" (29) - e per un altro verso essi non si sono mai riferiti al modello occidentale della democrazia. Per loro dunque, pensa Ben Achour, la democrazia non può che essere un valore universale, un diritto assoluto come lo sono i diritti umani fondamentali e come lo è la giustizia. Ma in questa chiave la democrazia finisce per essere un sogno paradisiaco che sorvola le sofferenze di chi, come Mohamed Buazizi e molti altri giovani tunisini ed egiziani, sono morti disperati in un mondo ingiusto e crudele.

Più lucida sembra l'analisi di Fatema Mernissi quanto al "malessere" delle nuove generazioni islamiche in attesa di un governo democratico. "Quando visito un paese musulmano", ha scritto Mernissi,

ciò che mi colpisce più di tutto è il forte sentimento di amarezza della gente - gli intellettuali, i giovani, i contadini. In nessun altro paese ho percepito una tale, intensa amarezza per il talento sprecato, le occasioni perdute, le discriminazioni subite. Nei paesi musulmani è insopportabile lo spreco di talento, in particolare quando si incontrano giovani uomini e giovani donne delle classi povere: "Ana daya'" (la mia vita è sprecata) è il Leitmotiv che viene ripetuto. Questi lamenti dovrebbero essere presi in considerazione se si vuole capire perché i giovani musulmani delle classi più basse, dolorosamente minacciati da un alto tasso di disoccupazione, si mobilitano per vincere il contrasto fra l'islam e la democrazia (30).

È dunque evidente che per Fatema Mernissi la democrazia e l'eguaglianza sociale sono valori tanto preziosi quanto ancora molto lontani.

La democrazia nelle mani dei potenti

Se è vero che la "democrazia" è l'obiettivo fondamentale delle nuove generazioni tunisine ed egiziane, allora non si può chiudere questa riflessione senza tentare di capire se oggi esiste un rapporto positivo fra i paesi islamici dell'Africa settentrionale e le potenze occidentali che controllano manu militari il Mediterraneo e si considerano per eccellenza "democratiche" e portatrici di democrazia.

Non si può infatti ignorare che le autorità politiche che nei prossimi mesi prenderanno il posto dei regimi autoritari sconfitti in Tunisia e in Egitto non potranno non avere un rapporto molto stretto con le potenze occidentali, soprattutto con gli Stati Uniti e i loro alleati, quali la Francia, l'Inghilterra e l'Italia. E non si può dunque ignorare che il futuro della Tunisia e dell'Egitto è strettamente legato al destino della Libia, devastata e insanguinata da una guerra senza fine. E se è vero che la Libia è ormai un paese che dipende dalle potenze occidentali e che sarà a lungo gestito dalla NATO - come è avvenuto in Kosovo, in Afghanistan e in parte anche in Iraq -, allora il destino del popolo tunisino e di quello egiziano è facilmente prevedibile. Le potenze occidentali e i loro governi esalteranno trionfalmente il successo della "democrazia" a vantaggio dei paesi arabi del Mediterraneo, ma si tratterà di una democrazia molto lontana da quella coraggiosamente voluta dalle giovani generazioni tunisine ed egiziane.

"Democrazia" avrà sostanzialmente il significato che gli Stati Uniti hanno attribuito a questo termine quando hanno deciso di porre sotto il proprio controllo militare il Mediterraneo, il Medio oriente e l'Asia centro-meridonale, moltiplicando le loro centinaia di basi militari. Hanno iniziato con l'invio di 500mila soldati in Medio oriente e la vittoriosa guerra del Golfo del 1991. E hanno proseguito con le guerre dei Balcani degli anni novanta, con l'aggressione all'Afghanistan e all'Iraq nei primi anni del Duemila, e hanno infine concluso, almeno per ora, con la sconfitta di Muammar Gheddafi e l'occupazione di fatto della Libia.

Per i paesi islamici del Mediterraneo e per chi avrà il difficile compito di governarli, il termine "democrazia" avrà dunque un duplice significato. Per un verso sarà ancora una volta l'emblema della "modernità" occidentale e del potere economico, politico e culturale dell'Occidente, infinitamente superiore a quello dei paesi nord-africani. Come hanno sostenuto Târiq al-Bishrî (31) e Hamadi Redissi (32), il "trauma della modernità" (sadmat alhadâha) continuerà a lungo a "destrutturare" e a lacerare il mondo islamico. Tunisini, libici ed egiziani saranno ancora alle dipendenze di una civiltà egemone - quella euroamericana - che imporrà ai loro governi di seguire le regole imposte dal processo di globalizzazione, nei suoi aspetti economici, politici, culturali e comunicativi (33). Prevarranno inesorabilmente gli interessi di quella che Luciano Gallino ha chiamato la "nuova classe capitalistica transnazionale": dall'alto delle torri di cristallo delle più ricche metropoli del mondo questa "nuova classe" dominerà i processi dell'economia globale, quella occidentale inclusa (34). In sostanza, "democrazia" sarà definita la somma degli interessi delle grandi imprese produttive e degli enti finanziari, come le banche d'affari, gli investitori istituzionali, i fondi pensione, le compagnie di assicurazione, e così via. Il loro potere si è già da tempo sostituito a quello dei partiti, dei parlamenti e dei governi e tenderà a sostituirsi anche al potere dei nuovi "governatori" dei paesi islamici.

Per un altro verso "democrazia" avrà nuovamente, e con particolare intensità, la funzione che le aveva attribuito nei primi anni del Duemila il penultimo presidente degli Stati Uniti, George Bush Junior e che l'attuale presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha ripreso e fatto sua. Si tratta del progetto del Grande Medio Oriente (Broader Middle East (35)) il cui obiettivo dichiarato era usare la forza per "abbattere le dittature ed esportare la democrazia" all'interno mondo islamico, dal Marocco e dalla Mauritania all'Afghanistan e al Pakistan, naturalmente passando per il Medio oriente con l'ovvia solidarietà dello Stato di Israele. E non si può escludere che il celebre discorso di riconciliazione con il mondo musulmano tenuto al Cairo da Barack Obama nel giugno del 2009 fosse in realtà una manovra diplomatica per rilanciare e fare accettare ai paesi islamici la strategia "democratica" del Grande Medio Oriente.

È appena il caso di sottolineare che nel linguaggio dei presidenti statunitensi formule come "democrazia, diritti umani ed economia di mercato" alludevano e tuttora alludono al progetto di un "nuovo ordine mondiale" (New World Order) e cioè all'obiettivo perseguito dalla potenza americana a partire dal crollo dell'Unione sovietica e ancor più dopo il tragico evento dell'11 settembre (36). Si tratta di assicurarsi anzitutto l'accesso alle fonti del petrolio e del gas naturale, di garantirsi l'approvvigionamento delle materie prime e di essere certi della sicurezza dei traffici marittimi ed aerei, oltre che della stabilità dei mercati mondiali, in particolare di quello finanziario (37). E si tratta ovviamente di vincere la concorrenza di chi è alla ricerca costante di risorse energetiche, a cominciare dalla Cina. Ed è molto probabile che la guerra degli Stati Uniti e della NATO contro la Libia abbia avuto e abbia tuttora come obiettivo centrale le immense riserve di petrolio e di gas naturale di cui sono colmi i deserti libici.

Chi si attende che in questo contesto globale la democrazia possa rapidamente fiorire in Tunisia, in Egitto e in Libia come una istituzione politica aperta ai giovani, ai disoccupati e ai poveri, rischia di accarezzare una speranza che per ora non sembra avere fondamento. Salvo che non venga generosamente idealizzata à la Ben Achour come un bene universale, la democrazia resterà a lungo un obiettivo che non sarà facilmente raggiunto dalle nuove generazioni islamiche. Qualunque significato non triviale si intenda attribuirle, la nozione di democrazia allude a un regime politico e istituzionale molto complesso, che richiede, oltre a un sofisticato apparato giuridico, organizzativo e amministrativo, una stabile lealtà dei cittadini e un forte senso di appartenenza e di solidarietà (38). Si tratta di condizioni che sarebbe imprudente sottovalutare.

Tutto questo non esclude che nell'Africa mediterranea nuove generazioni di uomini e di donne coraggiosi riescano in un prossimo futuro a liberare i loro paesi dal dispotismo e dai privilegi dei ricchi e dei potenti, incluse le potenze occidentali. Ad attenderli ci sarà l'ombra di Mohamed Buazizi, un povero venditore di frutta e verdura.


Note

*. Di prossima pubblicazione su Iride, n. 2, agosto 2011. L'autore ringrazia l'editore e il direttore per aver consentito la pubblicazione elettronica.

1. La risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite relativa alla guerra civile in Libia è di dubbio fondamento sul piano del diritto internazionale. La Carta stessa delle Nazioni Unite, al comma 7 dell'articolo 2, esclude che qualsiasi Stato membro possa "intervenire in questioni di competenza interna di un altro Stato". Ed è ovvio che questa norma vieta a maggior ragione che possa essere usata la forza per intervenire all'interno di una guerra civile in corso, schierandosi contro una delle due parti.

2. Sul tema si possono consultare i miei: Terrorismo umanitario, Reggio Emilia, Diabasis, 2009; Tramonto globale, Firenze, Firenze University Press, 2010.

3. Si veda L. Gallino, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Torino, Einaudi, 2011, in particolare alle pp. 5-41.

4. Offrire dei mazzetti di gelsomini, oltre che un segno di gentilezza, in Tunisia è un gesto per far capire al visitatore straniero che si è conquistato la simpatia e l'affetto del suo ospite tunisino. Nel corso delle recenti manifestazioni in Tunisia c'è chi ha offerto mazzetti di gelsomini ai poliziotti, chiedendo loro di proteggere i manifestanti e di non attaccarli.

5. Cfr. T. Ben Jelloun, La rivoluzione dei gelsomini. Il risveglio della dignità araba, Milano, Bompiani, 2011, pp. 19-42; F. Rizzi, Mediterraneo in rivolta, Roma, Alberto Castelvecchi Editore, 2011, pp. 19-50, 177-79.

6. Sul tema della povertà in Egitto si veda: A. Al Aswany, On the State of Egypt: What Caused the Revolution, Edinburgh, Canongate, 2011; G. Amin, Egypt in the Era of Hosni Mubarak, 1981-2011, Cairo, American University in Cairo Press, 2011.

7. Si veda R. Pepicelli, "Donne del mondo arabo in rivolta", in A. Pirri (a cura di), Libeccio d'oltremare. Come il vento delle rivoluzioni del nordafrica può cambiare l'occidente, Roma, Ediesse, 2011; R. Pepicelli "Il peso della crisi sulle rivolte arabe", il Manifesto, 3 luglio 2011; si veda inoltre A. Meringolo, I ragazzi di piazza Tahrir, Bologna, Clueb, 2011; M.C. Paciello, "Tunisia. La sfida del cambiamento", in K. Mezran, S. Colombo, S. van Genugten (a cura di), L'Africa mediterranea. Storia e futuro, Roma, Donzelli, 2011.

8. È particolarmente significativa - segnala Renata Pepicelli in "Donne del mondo arabo in rivolta", cit. - la vicenda di Sihem Bensedrine, che per anni è stata perseguitata, pedinata, oltraggiata e incarcerata per aver denunciato la sistematica mancanza di libertà di espressione, la pratica della tortura nelle carceri e la corruzione del regime.

9. Cfr. R. Pepicelli, "Donne del mondo arabo in rivolta", cit., passim.

10. In Tunisia, il paese nordafricano maggiormente colpito dalla crisi economica e finanziaria globale, nell'ultimo decennio i giovani laureati sono stati le principali vittime della disoccupazione, passando dal 22,1% del 1999 al 44% del 2009, come mostrano le stime che erano state nascoste durante il regime di Ben Ali ed erano state rivelate dopo la sua fuga; cfr. M.C. Paciello, "Tunisia. La sfida del cambiamento", cit., passim.

11. Cfr. T. Ben Jelloun, La rivoluzione dei gelsomini, cit., p. 52.

12. Cfr. M. Giorgio, "Intervista ad Asmaa Mahfouz", il Manifesto, 3 agosto 2011, p. 9.

13. Cfr. R. Pepicelli, "Donne del mondo arabo in rivolta", cit., passim.

14. Cfr. F. Rizzi, Mediterraneo in rivolta, cit., pp. 53-9; si veda inoltre: Associazione Società Informazione (a cura di), Rapporto sui diritti globali. Tra vecchi modelli e nuovi scenari, "La primavera araba scuote il mondo", 2011, Roma, Ediesse, 2011,pp. 673-80.

15. Cfr. F. Rizzi, Mediterraneo in rivolta, cit., p. 56.

16. Si veda Amnesty International, Egitto: manifestanti costrette a fare il "test di verginità"; si veda inoltre S. Khan, "Egypt's revolution is leaving women behind", in Thursday's Globe and Mail, 7 aprile 2011.

17. Cfr. M. Giorgio, "Nubi sulla primavera egiziana", il Manifesto, 17 agosto 2111, p. 7.

18. Si può vedere il mio Democracy and Complexity: A Realist Approach, Cambridge, Polity Press, 1992, trad. it. Il principato democratico, Milano, Feltrinelli 1992. In tema di islam e democrazia si può vedere: F. Mernissi, Islam and Democracy: Fear of the Modern World, Neuwied-Berlin, Luchterhand, 1992, trad. it. Islam e democrazia. La paura della modernità, Firenze, Giunti, 2002; J.L. Esposito, J.O. Voll, Islam and Democracy, New York, Oxford University Press, 1996; A. Soroush, Reason, Freedom, and Democracy in Islam, New York, Oxford University Press, 2000; A. Moussalli, The Islamic Quest for Democracy, Pluralism and Human Rights, Gainesville, University Press of Florida, 2001; K.A. Fadl, Islam and the Challenge of Democracy, Princeton, Princeton University Press, 2004; F. Bicchi, L. Guazzone, D. Pioppi (a cura di), La democrazia nel mondo arabo, Monza, Polimetrica, 2004; R. Guolo, L'Islam è compatibile con la democrazia?, Roma-Bari, Laterza, 2004; M. Campanini (a cura di), Islams and Democracies, in Oriente moderno, Nuova serie, 87 (2007), 2. Da non trascurare il saggio di Alessandra Persichetti, L'esportazione della democrazia nei paesi del Medio Oriente e del Mediterraneo, in F. Cassano, D. Zolo (a cura di), L'alternativa mediterranea, Milano, Feltrinelli, 2006, pp. 125-47; si può anche vedere, ibid., la mia introduzione "La questione mediterranea", in particolare al paragrafo 8, alle pp. 47-52, intitolato Islam e democrazia,.

19. Si veda: F. Mernissi, Islam and Democracy, trad. it. cit., pp. 21-9; A.A. An-Na'im, Toward an Islamic Reformation. Civil Liberties, Human Right, and International Law, Syracuse-New York, Syracuse University Press, 1990, trad. it. Riforma islamica. Diritti umani e libertà nell'Islam contemporaneo, Roma-Bari, Laterza, 2011; M.M. Taha, The Second Message of Islam, Syracuse, Syracuse University Press, 1987; si veda inoltre il saggio di M. Berger, N. Sonneveld, "Sharia and national law in Egypt", in J.M. Otto (a cura di), Sharia incorporated. A Comparative Overview of the Legal Systems of Twelve Muslim Countries in Past and Present, Amsterdam, Leiden University Press, 2010, pp. 51-88.

20. Si veda: J.L. Esposito, J.O. Voll, Islam and Democracy, cit., pp. 21-32.

21. Si veda M. Campanini, Storia del Medio Oriente, Bologna, il Mulino, 2006, p. 228.

22. Cfr. M. Campanini, Storia del Medio Oriente, cit., pp. 226-33.

23. Cfr. S. Amin, "Sfide internazionali in gioco nell'area del Mediterraneo e del Golfo", in S. Amin, A. El Kenz, Il mondo arabo, Milano, Edizioni Punto Rosso, 2004, pp. 70-3 (ed. originale: S. Amin, A. El Kenz, Le monde arabe. Enjeux sociaux, perspectives méditerranéennes, Paris, L'Harmattan, 2003).

24. Sul tema dello sviluppo dell'associazionismo nel mondo arabo si veda l'accurata ricerca di Orsetta Giolo: "L'associazionismo civile nel Mediterraneo arabo-islamico", in F. Cassano, D. Zolo (a cura di), L'alternativa mediterranea, cit., pp. 148-78.

25. Si può consultare il mio Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Roma-Bari, Laterza, 2004; si veda inoltre C. Crouch, Postdemocrazia, Roma-Bari, Laterza, 2003.

26. Si veda M. Giorgio, "I ragazzi della rivolta anti-Mubarak", il Manifesto, 13 agosto 2011, p. 8.

27. Cfr. Y. Ben Achour, Politique, religion et droit dans le monde arabe, Tunis, Cérès Productions-CERP, 1992, trad. it. La tentazione democratica. Politica, religione e diritto nel mondo arabo, Verona, Ombrecorte, 2010; si veda inoltre Le rôle des civilisations dans les relations internationales, Bruxelles, Bruylant, 2003. Particolarmente pertinenti sono i due scritti recenti: "De la révolution en Tunisie", Le blog de Yadh Ben Achour, in Jura Gentium Journal, 5 febbraio, 2011; "Dans le monde arabe rien ne sera plus comme avant. Entretien avec Yadh Ben Achour", a cura di O. Giolo e L. Re, in Jura Gentium Journal, 1° luglio, 2011; sul pensiero di Yadh Ben Achour si veda G. Gozzi, Diritti e civiltà. Storia e filosofia del diritto internazionale, Bologna, il Mulino, 2010, pp. 162-166.

28. Cfr. Y. Ben Achour, "Dans le monde arabe rien ne sera plus comme avant", cit., pp. 2-4.

29. Ivi, p. 2.

30. Cfr. F. Mernissi, Islam and Democracy, trad. it. cit., p. 78.

31. Cfr. T. al-Bishrî, Shari'a, invasione coloniale e modernizzazione nella società islamica, in P. Costa, D. Zolo (a cura di), Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica, Milano, Feltrinelli, 2002, pp. 667-79.

32. Cfr. H. Redissi, Islam e modernità , in F. Horchani, D. Zolo (a cura di), Mediterraneo. Un dialogo fra le due sponde, Roma, Jouvence, 2005, pp. 27-8; si veda inoltre H. Redissi, L'exception islamique, Paris, Seuil, 2004; A. Laroui, Islam e modernità , Genova, Marietti, 1992.

33. Segnalo nuovamente il mio Globalizzazione, in particolare il primo e il secondo capitolo.

34. Si veda L. Gallino, Con i soldi degli altri, Torino, Einaudi, 2009, pp. 5-47, 123-58; L. Gallino, Finanzcapitalismo, cit., pp. 133-67, 252-91.

35. La strategia del Broader Middle East è stata formalmente presentata dal presidente Jeorge Bush Junior al vertice del G8 dell'8-9 giugno 2004 a Sea Island, in Georgia; cfr. U.S. Department of State, Fact Sheet: Broader Middle East and North Africa Initiative.

36. Rinvio al mio Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Milano, Feltrinelli, 2002, pp. 39-40.

37. Ivi, pp. 41-4.

38. Si veda Si veda R. Owen, State, Power and Politics in the Making of the Modern Middle East, London, Routledge, 2004, trad. it. Stato, potere e politica nella formazione del Medio Oriente moderno, Bologna, Il Ponte, 2005, p. 219.