2005

Una strage preventiva (*)

Luigi Ferrajoli

1. Che cosa significa "stare con l'Onu".- C'è un equivoco che sta deformando il dibattito sulla guerra e che è stato riproposto dall'ambiguo discorso di fine d'anno del presidente Ciampi: l'idea che la scelta di stare dalla parte delle Nazioni Unite comporterebbe, in base alla seconda parte dell'articolo 11 della Costituzione che nella sua prima parte "ripudia la guerra", il dovere di aderire alla guerra contro l'Iraq qualora il Consiglio di sicurezza, a seguito delle ispezioni ordinate con la risoluzione 1441, l'autorizzasse con una nuova, esplicita risoluzione.

Dietro questo equivoco c'è una grossolana confusione: tra l'Onu, ossia l'ordinamento istituito con la Carta delle Nazioni Unite, e il Consiglio di Sicurezza, qualunque cosa decida, quasi fosse un sovrano legibus solutus e non un organo dell'Onu sottoposto alla sua Carta statutaria. Se dissipiamo questo equivoco, e riconosciamo che l'Onu, come è ovvio, è l'ordinamento delle Nazioni Unite disciplinato dalla sua Carta istitutiva, diventa chiaro che la guerra annunciata contro l'Iraq, autorizzata o meno da una seconda risoluzione, sarebbe comunque, sulla base di quella Carta, un illecito internazionale; che la sua autorizzazione avrebbe il solo effetto di coinvolgere il Consiglio di Sicurezza nella violazione e, forse, nella dissoluzione del suo stesso ordinamento; che dunque "stare con l'Onu", come ripetono di volere molti esponenti dell'Ulivo, vuol dire non già aderire, bensì condannare comunque la guerra, perché vistosamente in contrasto con l'ordinamento dell'Onu medesima.

Ho già argomentato lungamente questa tesi sul numero di dicembre di questa rivista (1). Qui mi limiterò ad insistere sulle due principali ragioni che rendono comunque illecita una guerra contro l'Iraq. Manca, innanzitutto, il presupposto previsto dalla Carta dell'Onu per un uso della forza diretto a mantenere o a ristabilire la pace. Questo presupposto, dice l'art.39, è l'esistenza di una minaccia alla pace o di una violazione della pace o di un'aggressione in atto. Ora, la sola minaccia alla pace che esiste attualmente e che meriterebbe di essere severamente censurata dal Consiglio è quella posta in atto dagli Stati Uniti, che da mesi minacciano la guerra e perfino l'uso dell'atomica, bombardano quotidianamente le zone irachene di "non volo" e stanno perciò violando sistematicamente il comma 4 dell'art.2 della Carta che vieta ai paesi membri sia "l'uso" che "la minaccia" dell'uso della forza. Quanto all'Iraq, per quanto ripugnante sia il regime di Saddam, un intervento armato diretto a disarmarlo o a rovesciarlo non sarebbe legittimo neppure nell'ipotesi che le ispezioni ordinate dal Consiglio di sicurezza accertassero o comunque non escludessero il possesso di armi di distruzioni di massa. Armi simili, chimiche e nucleari, sono detenute da mezzo mondo, dalla Corea del Nord all'India e al Pakistan, per non parlare degli Stati Uniti, della Russia, della Cina e di Israele, senza che questo sia mai stato considerato una minaccia alla pace sufficiente a giustificare una "difesa preventiva". Al contrario, proprio la guerra di difesa preventiva, invocata da Bush, è stata ripetutamente dichiarata contraria all'ordinamento delle Nazioni Unite sia dalla Corte internazionale di Giustizia che dallo stesso Consiglio di Sicurezza. Ricorderò solo, perché riguarda proprio l'Iraq di Saddam, la risoluzione di condanna adottata dal Consiglio il 19 giugno 1981 con il voto favorevole anche degli Stati Uniti contro neppure una guerra, ma un singolo attacco militare israeliano al reattore atomico Osiraq, nei pressi di Bagdad, che Israele aveva giustificato con la "necessità di difendersi dalla costruzione di una bomba atomica in Iraq" (2).

C'è poi un secondo e non meno grave aspetto di illegittimità di un'eventuale guerra pur avallata dal Consiglio di sicurezza. Ciò che l'Onu può deliberare non è certo una guerra ma solo, quale estrema misura diretta a "mantenere o ristabilire la pace", l'uso della forza in "un'azione coercitiva internazionale" che deve essere svolta "alle dipendenze" del Consiglio di Sicurezza (art.47 comma 3^) e comunque, ove siano utilizzate forze diverse da quelle di cui parla il capitolo VII, "sotto la sua direzione" (art.53, comma 1^). E' chiaro che tra la guerra e questo uso della forza c'è una differenza radicale, che non riguarda solo le forme, che pure in una materia come questa sono essenziali, ma la sostanza. La guerra è per natura un uso della forza smisurato e incontrollato, diretto all'annientamento dell'avversario e destinato inevitabilmente a colpire anche le popolazioni civili. L'impiego legittimo della forza è invece solo quello strettamente necessario per mantenere la pace e la sicurezza internazionale e proprio per questo posto sotto la costante direzione del Consiglio di Sicurezza. La differenza tra le due cose - che non può certo essere occultata con un gioco di parole, chiamando "azione coercitiva" o "di polizia" quella che ha tutte le caratteristiche della guerra - risiede poi in altre due circostanze, assicurate dall'uso legittimo della forza e non invece dalla guerra: che l'intervento non serva interessi di parte e che sia garantita l'incolumità degli innocenti. Che è la stessa differenza che corre tra pena e vendetta, tra diritto e ragion fattasi: l'uno è la negazione dell'altra, e per negazione dell'altra si definisce. Ma questo equivale a dire che non solo non c'è contraddizione, ma che c'è implicazione tra divieto della guerra e uso legittimo della forza: l'uno è garantito dall'altro, esattamente come avviene con il diritto penale negli ordinamenti interni.

2. Giusto massacro? - Quanti oggi rifiutano il pacifismo cosiddetto "assoluto" come "utopistico", o "ideologico", o "idealistico" oppure pregiudizialmente "anti-americano", evocando magari la giusta guerra combattuta contro Hitler, dimenticano dunque che proprio all'indomani di quella catastrofe mondiale, per scongiurare altre future catastrofi, l'idea stessa della "guerra giusta" fu archiviata dalla Carta dell'Onu. Innanzitutto perché la Carta, regolando l'uso legittimo della forza nei rapporti tra Stati, ha posto fine all'anarchia internazionale generata dallo jus ad bellum di tutti contro tutti e ha trasformato in ordinamento giuridico, incompatibile con la guerra, il vecchio sistema puramente pattizio delle relazioni tra Stati: la guerra è da allora illecita come lo è, all'interno degli ordinamenti degli Stati, la vendetta o la ragion fattasi. In secondo luogo perché si è compreso che la guerra moderna ha cambiato natura ed è stata perciò riconosciuta, dai padri costituenti delle Nazioni Unite, come un male assoluto: ingiustificabile perché rispetto ad essa tutte le vecchie cause di giustificazione e i vecchi limiti giusnaturalistici della guerra giusta sono divenuti incongruenti essendo stati travolti tutti i limiti naturali alle sue ormai illimitate capacità distruttive.

La tragica conferma di questa incongruenza tra le illimitate capacità distruttive del mezzo della guerra e qualunque fine invocato come sua giusta causa è stata offerta proprio dagli effetti provocati dalle nuove guerre di questi anni, opposti alle "giuste" finalità dichiarate a suo sostegno nell'odierna riesumazione imperiale della dottrina medioevale della "guerra giusta": la tutela dei diritti umani nel Kosovo e la lotta al terrorismo in Afghanistan. La cosiddetta "guerra umanitaria" della Nato alla Federazione Jugoslava in difesa dei diritti umani non solo ha cagionato migliaia di vittime innocenti e la distruzione dell'intera infrastruttura economica della Serbia e del Kosovo, ma favorì, all'indomani del suo inizio, le vendette di Milosevic contro le popolazioni kosovare e le loro espulsioni in massa. "Guerra a tutela dei diritti", d'altro canto, è una clamorosa contraddizione in termini, dato che i diritti si garantiscono con il diritto - con i tribunali e con l'accertamento e la sanzione delle responsabilità - e non certo con quella massima e massiccia violazione del diritto e dei diritti, primo tra tutti il diritto alla vita, che è la guerra.

Quanto al terrorismo, esso non è stato affatto debellato dalla guerra in Afghanistan, nella quale sono state uccise migliaia di persone innocenti ma sono sopravvissuti sia Osama bin Laden che il mullah Ohmar. Ne è prova il fatto che lo si continua a invocare come giustificazione di una nuova guerra, che non si capisce perché dovrebbe riuscire a raggiungere l'obiettivo fallito dalla prima. Al contrario, la guerra al terrorismo ha finito con l'omologarsi, quale violenza sregolata e rivolta contro vittime innocenti, al terrorismo medesimo, e così per rompere l'asimmetria tra violenza privata e risposta istituzionale - consistente nelle indagini di polizia e nella cattura dei colpevoli, e non in bombardamenti indiscriminati - che è il vero segreto della forza simbolica, delegittimante e depotenziante, propria del diritto.

Tutte le nuove guerre, insomma, sono consistite nella punizione, per una sorta di responsabilità collettiva, di persone innocenti. Ed hanno quindi violato - in maniera tanto più ripugnante perché accreditate come guerre "a zero morti", per i soli aggressori, ovviamente - i due principi fondamentali dell'etica moderna: quello kantiano secondo cui nessuna persona può essere usata come mezzo per fini non suoi e quello, proprio dell'etica della responsabilità, della congruenza dei mezzi impiegati ai fini dichiarati. Chiamare simili imprese "guerra giusta" o "guerra etica" o "guerra umanitaria" o "guerra legittima" o "guerra preventiva" equivale a parlare, come abbiamo scritto nell'appello contro la guerra del Tribunale permanente dei popoli, di "giusto massacro", o di "legittima strage degli innocenti", o di "carneficina etica o umanitaria" o di "massacro preventivo".

3. Politica imperiale e razzismo.- Se le finalità dichiarate con cui in questi anni si è tentato sempre più apertamente di riabilitare la guerra come mezzo di soluzione dei problemi e delle controversie internazionali non sono state raggiunte - né era possibile che lo fossero, né comunque sono moralmente sostenibili - quali sono gli effetti che concretamente esse sono in grado di produrre?

L'effetto più grave, al di là delle vittime e delle devastazioni, è il crollo del diritto internazionale. Se è vero che il diritto è la negazione della guerra, è anche vero il contrario: la guerra è la negazione del diritto e la sua rilegittimazione equivale alla delegittimazione dell'intero edificio eretto con l'istituzione dell'Onu e alla regressione allo stato selvaggio delle relazioni internazionali. Sarebbe questo il risultato di un'eventuale guerra contro l'Iraq, la quale non potrebbe neanche accampare taluna delle pur infondate giustificazioni invocate per le altre guerre del passato decennio. Le sole ragioni di questa guerra, così palesemente illecita, ingiustificata e ingiustificabile, si rivelerebbero perciò le ragioni della forza: come ha detto Raniero La Valle nella sua relazione al Tribunale, il suo scopo principale sarebbe la legittimazione di se medesima e si identificherebbe quindi con il mezzo (3). Per questo un simile strappo alla legalità, così sprezzantemente voluto e perfino ostentato, sarebbe, tanto più se avallato dal Consiglio di Sicurezza, il segno della volontà di instaurare un nuovo ordine internazionale modellato sul dominio dell'Occidente, di fatto degli Stati Uniti e basato, appunto, sulla guerra.

Dobbiamo allora domandarci in che cosa consisterebbe questo "nuovo ordine internazionale", alternativo a quello disegnato dalla Carta dell'Onu e difeso con la guerra. Non dobbiamo fare sforzi di fantasia. Si tratterebbe della legittimazione, oltre che della guerra e della legge del più forte, dell'assetto attuale del mondo, segnato da una disuguaglianza senza precedenti, che si manifesta nei milioni di morti ogni anno per fame, per mancanza di acqua e di farmaci essenziali. Con una decisiva differenza: il crollo della credibilità, agli occhi del resto del mondo, di tutti i valori dell'Occidente - la democrazia, lo stato di diritto, la legalità, l'uguaglianza, la dignità delle persone, i diritti umani che sono tali, e non privilegi, solo se di tutti - e perciò l'esplicitazione, senza più veli ideologici, del latente razzismo espresso dalle nostre politiche, o meglio dall'assenza di qualunque politica che non sia quella delle armi idonea a fronteggiare i grandi problemi del pianeta.

E' questo latente razzismo, più ancora dell'oggettiva ingiustizia e disuguaglianza, che sta provocando in tutto il mondo una crescita dell'odio e dello spirito di rivolta nei confronti dell'Occidente e sta minando le basi delle nostre stesse democrazie. Il razzismo, scrisse Michel Foucault 27 anni fa, consiste precisamente nell'"introdurre una separazione, quella tra ciò che deve vivere e ciò che deve morire": esso è "la condizione d'accettabilità della messa a morte..., la condizione in base alla quale si può esercitare il diritto di uccidere" (4). E' la condizione, appunto, che ci consente di tollerare e perfino di applaudire le odierne guerre dal cielo "senza perdite di vite umane" dalla nostra parte e con migliaia di vittime innocenti - evidentemente avvertite come "inferiori" a noi - nei paesi bombardati. E' lo stesso, tacito razzismo, che ha reso possibile, negli Stati Uniti, l'approvazione delle cosiddette "leggi patriottiche" che hanno istituito tribunali militari speciali, arresti di polizia e processi sommari in segreto per i soli non-cittadini degli Stati Uniti; che rende accettabili le attuali politiche contro l'immigrazione, incluso il dramma di migliaia di persone respinte ogni anno alle nostre frontiere e di decine di altre che muoiono ogni anno affogati prima di approdare sul nostro territorio; che infine permette all'opinione pubblica dei nostri ricchi e spensierati paesi di sopportare o almeno di rimuovere la morte per fame o mancanza di cure di milioni di esseri umani ogni anno.

Solo il razzismo, cioè il senso di una radicale asimmetria tra "noi" e "loro", consente di promuovere e di praticare queste politiche di morte. E il rapporto tra politiche di morte e razzismo è un circolo vizioso: le une sono legittimate e assecondate dall'altro. Le nostre leggi con cui migliaia di immigrati ogni anno vengono espulsi o respinti alle nostre frontiere, non diversamente dalle nuove guerre e dalle gabbie di Guantanamo, vengono decise per soddisfare le pulsioni razziste e le richieste di vendetta indiscriminata dell'opinione pubblica (e dell'elettorato) occidentale, che da quelle politiche, a loro volta, vengono legittimate, alimentate e rafforzate. Il razzismo, del resto, è sempre stato l'effetto più che la causa delle discriminazioni e delle oppressioni. Fu necessario il razzismo per rendere tollerabili la conquista del nuovo mondo, le colonizzazioni e la schiavitù. E' necessario il razzismo per rendere oggi accettabile, al di là degli incredibili argomenti della propaganda, il progetto di bombardare un paese con una guerra di aggressione che provocherà migliaia di morti a beneficio di una lobby di petrolieri.

C'è poi un altro effetto che sarebbe provocato dalla guerra e che in parte è già stato prodotto dalle guerre passate e dal clima di guerra in cui stiamo vivendo: la crisi della democrazia. In primo luogo la crisi delle libertà e l'involuzione poliziesca della democrazia all'interno dei nostri stessi paesi. Ho già detto delle leggi patriottiche fatte votare da Bush negli Stati Uniti. Ma si pensi anche al decreto anti-terrorismo inglese, che di fatto sopprime l'habeas corpus per i sospetti di terrorismo; o al nostro decreto legge n.374 del 2001, che estende in maniera indeterminata i presupposti delle intercettazioni telefoniche "preventive" e consente "attività sotto copertura" affidate ad agenti provocatori; o alla crescita delle paura, delle politiche di esclusione e del clima di intimidazione che, soprattutto negli Stati Uniti (5), si è sviluppato in nome dell'emergenza nei confronti del dissenso.

In secondo luogo sta producendosi una crisi del paradigma dello stato di diritto e della democrazia sul piano internazionale: crisi dello stato di diritto, ossia della soggezione del potere al diritto, dato che il nuovo ordine prefigurato dal documento strategico statunitense del 17 settembre reintroduce il potere sovrano di far guerra quale potere assoluto, senza limiti e controlli, affidato al governo americano e per esso al suo presidente investito così del potere di vita e di morte; crisi della democrazia perché tutta la popolazione del pianeta risulterebbe soggetta a questo nuovo sovrano assoluto, eletto soltanto dal popolo del suo paese e per di più, come sappiamo, da una minoranza di questo stesso popolo.

Avremmo insomma un ordine mondiale fondato soltanto sulla forza e sul progressivo discredito e svuotamento dei nostri stessi principi di legalità e di democrazia. Il terrorismo avrebbe vinto davvero: giacché la guerra, promossa contro il terrorismo allo scopo, come dice il documento Bush del 17 settembre, di difendere contro il "male" i valori occidentali della liberà e della democrazia, avrebbe avuto l'effetto di affossarli.

4. L'illusione irrealistica di un governo del mondo attraverso la guerra.- La domanda che allora dobbiamo porci è se sia realistica, ancor prima che accettabile giuridicamente e moralmente, l'idea che il mondo, con simili ingiustizie e disuguaglianze, possa essere governato con la guerra; se sia verosimile o non sia invece illusoria, almeno nei tempi lunghi, la prospettiva di un ordine internazionale - inteso con "ordine" un qualsiasi assetto del mondo che in un modo o in un altro garantisca la convivenza pacifica - basato sulla divisione tra paesi ricchi e paesi poveri, sempre più privo di legittimazione e capace soltanto di politiche di guerra e di mortificazioni razziste della dignità e dell'identità di interi popoli e culture.

Io credo che non ci sia nulla di più irrealistico di una simile prospettiva. E' la stessa Dichiarazione dei diritti del '48 che lo afferma, istituendo un nesso razionale e insieme realistico tra pace e sicurezza da un lato e diritti umani dall'altro: "è indispensabile che i diritti dell'uomo siano protetti da norme giuridiche", essa dice, "se si vuole evitare che l'uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l'oppressione". Per questo sarebbe un segno di realismo politico se le grandi potenze per prime, a cominciare dagli Stati Uniti, si facessero carico, onde salvaguardare la loro stessa sicurezza, di quella che Jürgen Habermas ha chiamato "una politica interna del mondo" (6). Una guerra infinita, infatti, equivale certamente all'affermazione della legge del più forte. Ma è altrettanto certo che essa non giova, nei tempi lunghi, neppure al più forte, risolvendosi in un aumento dell'odio nei suoi confronti e in una generale insicurezza e precarietà: giacché sempre "il più debole", come scrisse Thomas Hobbes, "ha forza sufficiente per uccidere il più forte o con una macchinazione segreta o alleandosi con altri" (7). E un qualche grado di consenso e di legittimazione politica e morale, in un mondo in cui economia e comunicazioni sono globalizzate, è indispensabile a qualunque funzione di governo.

Purtroppo ciò che sta accadendo non consente nessun ottimismo. Ma occorre quanto meno evitare la fallacia naturalistica nella quale incorre buona parte della filosofia politica e giuridica "realistica". Non è affatto vero che la guerra sia inevitabile, connaturata, come leggiamo quotidianamente sui giornali, alle relazioni internazionali o addirittura alla natura umana, e che la pace sia impossibile. E non c'è nulla di naturale, né di necessario, né perciò di inevitabile nella deriva in atto dei processi di globalizzazione. Questa deriva è al contrario il frutto di scelte politiche; così come sarebbe il frutto di scelte politiche e di progettazioni istituzionali l'adozione, nel diritto internazionale e in quello interno, di tecniche di garanzia idonei a contrastarli. E' sempre stato così, nella storia delle istituzioni. Non confondiamo quindi problemi teorici con problemi politici. Non presentiamo come utopistico o irrealistico, occultando le responsabilità della politica, ciò che semplicemente non si vuole fare perché contrasta con gli interessi dominanti, oltre tutto di cortissimo respiro, e che solo per questo è inverosimile che si faccia. Giacché questo tipo di miopia realistica finisce per legittimare e assecondare come inevitabile ciò che resta comunque opera degli uomini, e di cui portano la responsabilità i massimi poteri politici dei nostri paesi.

Se questo è vero, dobbiamo leggere nella crisi in atto del diritto internazionale una sfida nei confronti della ragione giuridica e della ragione politica. Non possiamo infatti permetterci il lusso di essere pessimisti e di dichiarare la bancarotta del diritto internazionale. Giacché il diritto internazionale - l'Onu - continua comunque ad essere la sola alternativa razionale a un futuro di guerre, di terrorismi, di violazioni massicce dei diritti umani. E dobbiamo perciò continuare a leggere e a denunciare la divaricazione sia pure crescente tra il dover essere dei principi costituzionali e internazionali e la realtà di quanto accade non già come smentita o falsificazione, bensì come violazione illecita del primo da parte della seconda; non come un segno dell'inattualità o peggio dell'utopismo delle promesse costituzionali, bensì come un cedimento allarmante alle vocazioni eversive e alle tentazioni assolutistiche dei poteri forti.

Per questo l'idea, troppo spesso avallata dalle filosofie politiche realistiche, che la crisi è priva di alternative e la guerra farà sempre parte della vita umana equivarrebbe a un'abdicazione della ragione. E varrebbe di fatto a confortare, se non a legittimare, i processi di dissoluzione in atto così del diritto come della ragione. Equivarrebbe, come ho già detto, a una fallacia naturalistica e deterministica, cioè alla confusione tra ciò che accade e ciò che non può non accadere e alla derivazione di questo da quello.

Dobbiamo invece essere consapevoli che nonostante (e comunque dopo) le cadute e i fallimenti è sempre possibile un corso diverso della storia; e che questo corso diverso dipenderà - come sempre, del resto - dal ruolo che saranno in grado di svolgere il diritto e la politica. Ai quali si richiede, essenzialmente, la costruzione di una sfera pubblica internazionale, dotata, ben più che di istituzioni di governo, di istituzioni di garanzia dei diritti e della pace, all'altezza dei grandi e drammatici problemi del pianeta (8).

5. L'alternativa della pace.- In questa prospettiva non è ingenuo tornare a riproporre, proprio di fronte alla gravità della crisi, la necessità di dare attuazione alla principale garanzia della pace prevista dalla Carta dell'Onu: l'istituzione della forza di polizia internazionale sotto la "direzione strategica" del "Comitato di stato maggiore" previsto dall'art.47 della Carta, in vista - dobbiamo aggiungere - della graduale formazione di un monopolio giuridico della forza in capo alle Nazioni Unite. Certamente, se le norme del capitolo VII della Carta dell'Onu fossero state attuate, non avremmo avuto le nuove guerre dello scorso decennio né si profilerebbe la nuova terribile guerra contro l'Iraq; e le crisi internazionali che con quelle guerre sono state affrontate sarebbero state risolte con ben maggiore efficacia ed autorevolezza e senza i tragici costi e i disastrosi effetti che stiamo registrando.

A garanzia della pace, inoltre, dovrebbe essere ripreso il processo di progressivo disarmo, interrottosi nei primi anni Novanta, attraverso rigide convenzioni internazionali sul divieto della produzione, del commercio e della detenzione di armi. Le armi, essendo destinate comunque ad uccidere, dovrebbero finalmente essere considerate quali beni illeciti, ben più delle sostanze stupefacenti, e come tali messe al bando della convivenza civile. E' infatti evidente che la loro sconfinata disponibilità è la causa prima delle guerre, oltre che del terrorismo e dalla criminalità.

Si dovrebbe poi far entrare rapidamente in funzione la Corte penale internazionale per i crimini contro l'umanità, il cui statuto, essendo state raggiunte le sessanta ratifiche richieste, è in vigore fin dallo scorso luglio. E occorrerebbe pervenire quanto prima a renderne operativa la competenza anche in ordine al crimine, previsto dalla lettera d) dell'art.2 del suo statuto, della "guerra di aggressione", formulandone una definizione rigorosa idonea a distinguerla chiaramente dalla "legittima difesa", oggi assurdamente invocata anche a titolo preventivo. E' poi evidente che dipenderanno dai finanziamenti degli Stati che l'hanno ratificata, a cominciare da quelli europei, e dal sostegno dell'opinione pubblica internazionale la sua indipendenza, la sua efficienza, la sua credibilità ed anche la sua futura accettazione da parte delle potenze che fino ad oggi, temendo di vedere incriminati loro cittadini o governanti, si sono rifiutati di approvarla: come gli Stati Uniti, la Cina e Israele.

C'è poi un altro ordine di problemi, ancor più gravi e difficili, che dovrebbero essere affrontati se si vuole costruire la pace: i problemi dell'alimentazione di base, dell'acqua e dell'accesso ai farmaci essenziali, che non è sufficiente trattare con le politiche degli aiuti e che occorre invece impostare sulla base della garanzia dei diritti. E questo richiederebbe la creazione, a livello internazionale, di molte altre istituzioni di garanzia, in aggiunta alla forza di polizia dell'Onu e alla Corte penale internazionale. Andrebbero infatti organizzate, di fronte ai giganteschi problemi sociali della fame e della miseria generati da una globalizzazione senza regole, istituzioni deputate alla soddisfazione dei diritti sociali sanciti dai Patti del 1966. Talune di queste istituzioni, come la Fao e l'Organizzazione mondiale della sanità, esistono da tempo, e si tratterebbe di dotarle dei mezzi e dei poteri necessari alle loro funzioni di erogazione delle prestazioni alimentari e sanitarie. Altre - in materia di tutela dell'ambiente, di garanzia dell'istruzione, dell'abitazione e di altri diritti vitali - dovrebbero invece essere istituite.

A tale scopo, e in generale ai fini della costruzione di una sfera pubblica internazionale, un'innovazione decisiva sarebbe infine l'introduzione di una fiscalità mondiale, cioè di un potere sovrastatale di tassazione volto a reperire le risorse necessarie a finanziare le istituzioni di garanzia: che è il presupposto indispensabile di ogni politica internazionale redistributiva, fondata sui diritti anziché sugli aiuti. E' in questa direzione che si orienta la proposta della Tobin tax sulle transazioni internazionali fatta propria dai movimenti "no-global". Ma non meno giustificata, sulla base di principi elementari di diritto privato, sarebbe l'imposizione di un risarcimento, o meglio di un adeguato corrispettivo per l'indebito arricchimento proveniente alle imprese dei paesi più ricchi dall'uso e dallo sfruttamento, quando non dal danneggiamento, dei cosiddetti beni comuni dell'umanità: come le orbite satellitari, le bande dell'etere e le risorse minerarie dei fondi oceanici, attualmente utilizzate a titolo gratuito come se fossero res nullius anziché, secondo quanto stabilito dalle convenzioni internazionali sul mare e sugli spazi extra-atmosferici, "patrimonio comune dell'umanità" (9).

Ovviamente non possiamo fare previsioni. Né d'altra parte hanno rilevanza e neppure interesse il nostro personale pessimismo o ottimismo. Ciò che è certo è che non ha senso la tesi sedicente "realistica" secondo cui l'odierna crisi dell'Onu sta dimostrando che il suo disegno universalistico è un'utopia ed è comunque fallito a causa della sua impotenza, per carenza di mezzi e di poteri. L'Onu non è un'istituzione extra-terrestre. La sua attuale impotenza, così come il suo futuro e con esso il futuro della pace e dei diritti umani, non dipendono dalla sua natura, ma unicamente dalla volontà delle grandi potenze dell'Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti, e dalla loro indisponibilità a rinunciare al loro ruolo incontrastato di dominio militare, economico e politico e ad assoggettarsi anch'esse al diritto internazionale. Sarebbe nell'interesse di tutti - non solo del Sud del mondo ma anche dell'Occidente - riabilitare l'Onu e rafforzarne le funzioni di garanzia della pace e dei diritti: se non per ragioni morali o giuridiche, a tutela della nostra stessa sicurezza e della sopravvivenza delle nostre stesse democrazie. Per non dover tornare a riscoprire i nessi indissolubili tra diritto e pace e tra diritto e ragione, all'indomani di nuove catastrofi provocate dalla nuova guerra infinita.


Note

*. Da La rivista del Manifesto, 35, gennaio 2003.

1. Neanche l'Onu può, in "La rivista del manifesto", n.34, dic. 2002, pp.20-25.

2. Si veda, su questo caso e in generale sull'inammissibilità della guerra preventiva, A. Di Blase, Guerra al terrorismo e guerra preventiva nel diritto internazionale, relazione alla sessione sopra citata del Tribunale permanente dei popoli.

3. R. La Valle, Gli anni Novanta: la restaurazione di fine secolo, relazione alla sessione sopra citata del Tribunale permanente dei popoli.

4. M. Foucault, Corso del 17 marzo 1976, in Il faut défendre la societé (1997), tr.it. a cura di M.Bertani e A.Fontana, "Bisogna difendere la società", Feltrinelli, Milano 1998, pp.220-221.

5. R. Falk, Che cosa è cambiato negli Usa dopo l'11 settembre, relazione alla sessione sopra citata del Tribunale permanente dei popoli.

6. "Con la fine dell'equilibrio del terrore", ha scritto Habermas, "sembra che sul piano della politica internazionale della sicurezza e dei diritti umani si sia dischiusa - nonostante tutti i contraccolpi - una prospettiva per ciò che C.F. von Weizsäcker ha definito 'politica interna del mondo' [Weltinnenpolitik]" (Die Einbeziehung des Anderen (1996), tr.it. di L. Ceppa, L'inclusione dell'altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano 1998, p.139. L'espressione è ripresa in J.Habermas, Die postnationale Konstellation (1998), tr.it. di L.Ceppa, La costellazione post-nazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia, Feltrinelli, Milano 1999, pp.26 e 90-101. Si veda inoltre L.Bonanate, 2001: la politica interna del mondo, in "Teoria politica", XVII, 2001, n.1, pp.20-21

7. T.Hobbes, Leviatano, con testo inglese del 1651 a fronte, tr. it. a cura di R.Santi, Bompiani, Milano 2001, cap.XIII, 1, p.203.

8. Rinvio al mio Per una sfera pubblica del mondo, in "Teoria politica", XVII, 2001, n.3, pp.3-21.

9. L'art. 1 del Trattato sugli spazi extra-atmosferici del 27.1. 1967 qualifica tali spazi come "appannaggio dell'umanità intera", imponendone l'"utilizzazione per il bene e nell'interesse di tutti i paesi, quale che sia lo stadio del loro sviluppo economico o scientifico". Analogamente, gli artt.136-140 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 10.12.1982 affermano che "l'Area (di alto mare) e le sue risorse sono patrimonio comune dell'umanità", che "le attività nell'Area sono condotte a beneficio di tutta l'umanità, tenuto particolarmente conto degli interessi e delle necessità degli Stati in via di sviluppo" e che va "assicurata l'equa ripartizione dei vantaggi che ne derivano su base non discriminatoria". Su queste basi, è stata proposta una tassazione internazionale per lo sfruttamento delle risorse minerarie dei fondi oceanici (cfr. D.E.Marko, A Kinder, Gentler Moon Treaty: a Critical Review of the Treaty and proposed Alternative, in "Journal of Natural Resources and Environmental Law", 1992), nonché per l'uso delle orbite satellitari intorno alla terra e delle bande dell'etere (cfr. G.Franzoni, Anche il cielo è di Dio. Il credito dei poveri, EdUP, Roma 2000, pp.91-113).