2008

Pace, risoluzione dei conflitti e giustizia penale internazionale (*)

Danilo Zolo

1. Nell'ultimo decennio del secolo scorso la comunità internazionale ha dato vita a varie forme di giurisdizione penale internazionale con l'intento di favorire processi di pacificazione e di transizione politica in situazioni caratterizzate da un'ampia violazione dei diritti dell'uomo e da conflitti armati fra gruppi etnico-religiosi. Questa tendenza non si è concretizzata soltanto nell'istituzione dei due tribunali ad hoc - per la ex-Jugoslavia e per il Ruanda - e della Corte penale internazionale (ICC). In parallelo con la nascita di questi tribunali si è assistito alla proliferazione di istanze giurisdizionali 'miste' - in Cambogia, in Sierra Leone, in Kosovo, a Timor Est - nelle quali le corti giudicanti sono composte di giudici sia internazionali che nazionali e vengono applicati, assieme al diritto penale internazionale, anche gli ordinamenti penali interni (1). Un tribunale per molti versi analogo sul piano normativo verrà probabilmente istituito in Iraq, sia pure in condizioni politiche di illegittimità, a causa alla presenza di truppe di occupazione sul territorio iracheno e alla mancanza di autonomia del Governing Council che ne ha varato lo Statuto (2).

Oltre a tutto questo, sia nei casi dell'istituzione di corti internazionali ad hoc, sia nei casi di giurisdizione mista - in Sierra Leone, ad esempio -, sono state sperimentate, per iniziativa e con il sostegno dei governi nazionali, procedure di risoluzione dei conflitti alternative o complementari rispetto al processo penale. Particolarmente nota e studiata è l'esperienza della giustizia Gacaca in Ruanda (3), che riproduce in parte il modello di pacificazione non giudiziaria della Truth and Reconciliation Commission sudafricana (4). A tutto ciò si è aggiunta in taluni casi, per iniziativa di alcune magistrature statali, anche l'applicazione del principio della "punibilità universale" per crimini di guerra e crimini contro l'umanità, istituto introdotto dalla prima Convenzione di Ginevra del 1949 (5).

Per la maggioranza degli osservatori questo rapido e imponente sviluppo della giustizia penale internazionale è un fenomeno altamente positivo. L'ordinamento internazionale si sta adattando con prontezza ad uno scenario sempre più 'globale' nel quale declinano le sovranità statali, si moltiplicano i nuovi soggetti dell'ordinamento ed è in via di superamento il principio groziano dell'esclusione degli individui dalla soggettività di diritto internazionale. Oltre a ciò, la giustizia penale internazionale si presenta come una replica pertinente al diffondersi, dopo la fine della guerra fredda, di fenomeni di conflittualità etnica, di nazionalismo virulento e di fondamentalismo religioso che portano ad estese e gravi violazioni dei diritti dell'uomo. Più nessuno, si sostiene, potrà pensare che gli sia consentito scatenare conflitti o promuovere campagne nazionalistiche che finiscano in genocidio senza incorrere nelle sanzioni di una corte di giustizia ed essere perseguito da una polizia internazionale. In questo senso lo strumento penale può esercitare un'efficace funzione di prevenzione persino nei confronti di nuove guerre.

Rispetto alle corti nazionali, si sostiene, le corti penali internazionali possono garantire in modo assai più efficace la repressione dei crimini di guerra e dei crimini contro l'umanità. Questo, perché i tribunali interni sono assai poco inclini a perseguire crimini che non presentino rilevanti connessioni territoriali o nazionali con lo Stato cui essi appartengono. Inoltre, le Corti internazionali sono tecnicamente assai più competenti di quelle interne nell'accertare e interpretare il diritto internazionale, nel giudicare i crimini da un punto di vista imparziale e nel garantire standard giudiziari uniformi. Inoltre, i processi internazionali, godendo di una visibilità massmediale molto superiore, esprimono con maggiore efficacia la volontà della comunità internazionale di punire i soggetti colpevoli di gravi crimini internazionali e attribuiscono più chiaramente alle pene inflitte una funzione di pubblica riprovazione dei condannati.

Queste valutazioni possono essere in linea teorica condivise. E tuttavia lo statuto normativo della giustizia penale internazionale resta a mio parere incerto e confuso. Lo è in particolare sotto il profilo della filosofia della pena e dell'esecuzione penale che ispira procuratori e giudici nell'adempiere alle loro funzioni accusatorie e punitive. Che finalità deve avere la sanzione penale internazionale? Deve essere un castigo esemplare capace di un forte effetto pedagogico? Deve imporre al criminale l'espiazione della colpa e favorire la sua redenzione? Deve, come ogni altra forma di vendetta, avere un significato retributivo? O deve piuttosto commisurarsi alla pericolosità sociale del reo? Deve concorrere a riparare il danno specifico o invece svolgere una funzione di prevenzione generale della criminalità internazionale e, quindi, in ultima istanza, della guerra? Il reo dev'essere socialmente isolato e stigmatizzato o, al contrario, la pena carceraria deve mirare alla risocializzazione e alla 'rieducazione' del condannato?

Si tratta di quesiti tutt'altro che marginali se è vero che la definizione delle qualità della sanzione è centrale per la determinazione del senso e delle finalità di una giurisdizione penale (6). La risposta a questi interrogativi non è certo agevolata dai dettati normativi o dai rapporti del Segretariato generale delle Nazioni Unite. Gli statuti dei tribunali ad hoc - come del resto anche lo statuto della International Criminal Court - si limitano a ripetere una sorta di genericissima giaculatoria: "la pena sarà determinata tenendo conto di elementi come la gravità del reato e la situazione personale del condannato" (7).

L'insufficienza di una riflessione teorica sul tema cruciale del significato e della qualità della pena rischia di avere come conseguenza una elaborazione insufficiente, se non addirittura incoerente, dei 'principi generali' del diritto penale internazionale (8). E questa insufficienza può generare a sua volta incertezza e confusione sia nell'interpretazione delle norme, sia in quell'ampio fenomeno di produzione giurisdizionale del diritto sostantivo e procedurale che oggi caratterizza la giustizia penale internazionale (9). L'esito finale può essere l'emanazione di sentenze incoerenti e incongrue rispetto ai fini della giurisdizione, come ha segnalato Ralph Henham (10). Henham ha denunciato con vigore, sulla base di un'accurata analisi delle motivazioni delle sentenze delle corti penali internazionali ad hoc, l'oscurità concettuale e la confusione (obfuscation and confusion) delle finalità attribuite dai giudici alle sanzioni che essi comminano (11).

Questa carenza di riflessione teorica è tanto più preoccupante perché i giudici penali internazionali operano molto al di fuori e al di sopra dei contesti sociali, culturali ed economici entro i quali hanno agito i soggetti sottoposti al loro giudizio. Tendono a "decontestualizzare" il comportamento deviante - è ancora Henham a sostenerlo (12) - e a sanzionarlo senza dare un rilievo adeguato sia alle sue matrici sociali, sia all'ambiente sociale destinato ad accogliere il condannato dopo l'espiazione della pena. Oltre a ciò, le giurisdizioni internazionali si pongono obiettivi - la composizione del conflitto, anzitutto - piuttosto lontani rispetto a quelli delle giurisdizioni penali nazionali.

Nonostante questo, a partire dall'esperienza del Tribunale di Norimberga, si è andata affermando nella cultura giuridica occidentale una visione semplificata, suggerita da un ricorso sommario della domestic analogy, del rapporto fra esercizio internazionale del potere giudiziario, tutela dei diritti dell'uomo e processi di pacificazione. Ciò è accaduto all'insegna di un ottimismo penale che ha applicato all'ambito internazionale modelli di giustizia punitiva e penitenziaria meccanicamente dedotti dall'esperienza nazionale, nonostante i molti interrogativi che nei confronti di tali modelli la riflessione penologica e criminologica occidentale ha sollevato nel corso del Novecento (13). C'è chi ha parlato, forse non a torto, di feticismo penale e penitenziario, rifiutando l'idea che la reazione penale alla violazione dei diritti e all'esplosione di conflitti possa essere intesa, tout court, come "il paradigma della reazione sociale" (14).

2. Lascio qui da parte le esperienze delle giurisdizioni 'miste' cui sopra ho accennato, e trascuro di occuparmi anche dell'International Criminal Court, la cui attività è appena agli inizi ed è ostacolata da difficoltà molto gravi. Mi concentro sull'esperienza dei due Tribunali ad hoc per la ex-Jugoslavia e per il Ruanda, istituiti nei primi anni novanta dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Come ho accennato, ciò che caratterizza la giurisdizione di queste due corti, oltre al compito di reprimere le più gravi violazioni del 'diritto internazionale umanitario', è la sua finalizzazione alla promozione della pace. Nell'istituirle il Consiglio di Sicurezza ha inteso esercitare i poteri che gli sono attribuiti dal capitolo settimo della Carta delle Nazioni Unite: poteri di intervento di fronte a minacce contro la pace o a violazioni della pace. E non è certo un caso che i due tribunali siano stati istituiti per operare entro contesti - i territori della ex-Jugoslavia e l'area dei grandi laghi africani - che erano stati sconvolti da guerre civili nelle quali le parti in conflitto avevano fatto ricorso a pratiche spietate come la 'pulizia etnica' e il genocidio.

'Fare giustizia' in questi due casi avrebbe dovuto significare anche, se non soprattutto, cooperare, usando gli strumenti propri della giustizia penale, alla pacificazione delle popolazioni coinvolte nelle atrocità e nelle devastazioni della guerra. In questo senso sono numerose le dichiarazioni dei presidenti dei due tribunali, le arringhe dei procuratori generali e le motivazioni delle sentenze che si richiamano alle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza per riaffermare la stretta connessione fra repressione penale e processo di pacificazione. Mettere fine all'impunità dei responsabili di gravi violazioni del diritto umanitario attraverso condanne "esemplari" e "retributive", si sostiene, significa favorire la riconciliazione nazionale e il ritorno della pace. Sottolineo che "mettere fine all'impunità", "esemplarità e retributività delle condanne", "riconciliazione nazionale" sono enunciati ricorrenti e stabilmente correlati in questi documenti (15). Presidenti, procuratori e giudici sembrano assumere come un assioma autoevidente che una punizione esemplare dei crimini commessi da esponenti di una o di entrambe le parti in conflitto possa offrire un contributo decisivo alla pacificazione: peace through criminal law, si potrebbe dire parafrasando il titolo di un celebre saggio di Hans Kelsen.

Come è noto, critiche e riserve a proposito sia della pertinenza normativa, sia dell'efficacia della giurisdizione penale internazionale erano già state espresse, con riferimento ai processi di Norimberga e di Tokyo, da autori come Hannah Arendt, Bert Röling e in particolare Hedley Bull e Hans Kelsen (16). Bull aveva sostenuto che la giurisdizione delle corti penali internazionali aveva amministrato una giustizia selettiva, in palese violazione del principio di eguaglianza giuridica dei soggetti. Kelsen, pur favorevole all'istituzione dei tribunali penali internazionali, aveva denunciato la clamorosa lesione dell'imperativo nulla culpa sine iudicio, reso inoperante, oltre che dalla composizione delle Corti e dalla procedure adottate a Norimberga, dalla spettacolare attribuzione di colpevolezza che anticipava il giudizio penale.

A mio parere queste valutazioni critiche dovrebbero essere riprese, sviluppate e approfondite a proposito dei Tribunali ad hoc per la ex-Jugoslavia e per il Ruanda, pur senza minimamente attenuare la differenza che esiste fra la prima e la seconda generazione del Tribunali penali internazionali (17). Il tema centrale è il rapporto fra la qualità della giustizia amministrata e delle pene irrogate, da una parte, e, dall'altra, gli obiettivi specifici della pacificazione delle popolazioni coinvolte e della promozione della pace in generale. Segnalo qui di seguito, molto schematicamente, alcuni punti che a mio parere meriterebbero un'indagine critica.

2.1. Impunità. Come abbiamo visto, una delle formule ricorrenti nelle motivazioni generali della giustizia penale internazionale è l'obiettivo della lotta all'impunità. Si ritiene che i più gravi crimini di guerra e i crimini contro l'umanità tendano a restare impuniti a causa della complicità, dell'inettitudine o del disinteresse delle giurisdizioni statali. E si ritiene che la punizione dei responsabili di azioni criminali sia, all'interno delle singole aree conflittuali, una premessa fondamentale perché possa iniziare un processo di transizione verso un nuovo regime politico e, quindi, verso la pace. E' difficile non riconoscere il dato di fatto della diffusa impunità e non accogliere come importante - anche se non decisiva od esclusiva - la connessione fra la ricomposizione politico-giudiziaria degli equilibri sociali e l'avvio di un percorso di pacificazione. E tuttavia si può sostenere che la giustizia penale internazionale non si è mostrata sinora in grado di porre rimedio al fenomeno dell'impunità diffusa se non in misura esigua e non senza ambiguità normative.

Si può sostenere, ad esempio, che la repressione penale viene esercitata, come già accadde per i processi di Norimberga e di Tokyo, soltanto nei confronti di un numero molto limitato di soggetti, genericamente individuati come i più responsabili sul piano politico o come i più direttamente coinvolti in attività delittuose. Nessun criterio selettivo di carattere giuridico è mai stato chiaramente enunciato e i procuratori generali sembrano affidarsi a valutazioni intuitive e altamente discrezionali, che tengono conto, fra l'altro, di elementi extragiudiziali come la carenza delle strutture organizzative, l'insufficienza degli apparati investigativi e di polizia, la limitatezza delle risorse finanziarie.

Nel caso del Tribunale dell'Aja per la ex-Jugoslavia, nei primi sei anni di attività erano state incriminate circa novanta persone, ne erano state arrestate una ventina e circa altrettante erano state processate. Ancora più significativo è il caso del Tribunale internazionale di Arusha per il Ruanda: alla fine del 1999, a sei anni dalla sua istituzione, nelle carceri statali ruandesi giacevano oltre 120.000 detenuti, mentre il Tribunale internazionale teneva in custodia 38 persone, accusate di genocidio, e aveva processato cinque imputati, mentre appare verosimile che fossero numerose decine di migliaia i responsabili di una tragedia in cui tutti o quasi tutti avevano ucciso, provocando la morte di circa 500 mila persone. E' chiaro che in circostanze come queste la lesione di alcuni principi fondamentali del diritto moderno - l'habeas corpus, l'eguaglianza delle persone di fronte alla legge, la certezza del diritto penale - è di proporzioni conclamate, mentre l'impunità resta sostanzialmente inalterata.

In secondo luogo si può segnalare una singolare anomalia del ruolo punitivo svolto dalle corti penali internazionali ad hoc. La loro competenza è stata rigorosamente definita come una competenza a reprimere gli illeciti internazionali di jus in bello, escludendo i delitti di jus ad bellum, ovvero i crimini contro la pace. Resta cioè escluso dalla loro giurisdizione il crimine di aggressione, che era invece compreso nella competenza dei Tribunali di Norimberga e di Tokyo. Accade così che i responsabili di una delle più gravi lesioni del diritto internazionale - la violazione del divieto dell'uso della forza, che è il pilastro della Carta delle Nazioni Unite - sono immuni dalla giurisdizione di queste corti come di qualsiasi altra. Per costoro continua a valere un'assoluta impunità.

La natura 'speciale' del Tribunale dell'Aja, ad esempio, gli ha consentito di convivere senza problemi, nel corso del 1999, con l'uso illegale della forza da parte della Nato che operava entro lo stesso ambito territoriale sul quale il Tribunale stesso esercitava la sua competenza. I processi penali, con i loro accurati rituali procedurali, si sono svolti in parallelo con i bombardamenti della Nato e i loro 'effetti collaterali'. Il Tribunale non solo ha ignorato che le autorità politiche e militari della Nato erano palesemente responsabili di un 'crimine contro la pace', ma ha potuto servirsi sistematicamente delle forze armate della Nato come di una propria polizia giudiziaria (18). Non è il caso di insistere sulla circostanza che questo tipo di impunità può opporsi - e nel caso del Kosovo si è opposta - alla finalità di pacificazione attribuita alla giustizia penale internazionale.

2.2. Esemplarità. L'esemplarità delle sanzioni è stata esaltata come un'importante caratteristica di una giustizia penale internazionale che non teme di colpire esponenti politici di alto livello quali, ad esempio, un capo di Stato come Slobodan Milosevic. L'esemplarità delle condanne è intesa come una delle prove della superiore imparzialità e dell'austerità morale dell'assise giudiziaria. Dall'esemplarità si fa discendere inoltre l'efficacia pedagogica delle sentenze di condanna. Cherif Bassiouni, ad esempio, ha sostenuto che compito delle giurisdizioni penali internazionali è "applicare una giustizia esemplare e retributiva" per "rinforzare i valori sociali e la rettitudine individuale, educare le generazioni presenti e future e scoraggiare e prevenire la commissione di altri crimini" (19). E di fatto il Tribunale dell'Aja ha inflitto sanzioni esemplari sia per la loro severità afflittiva (sono state più volte irrogate condanne prossime ai 50 anni di carcere), sia per la solenne formalità dei riti, sia per il rilievo e la spettacolarità della comunicazione massmediale.

Ovviamente, contro questo tipo di strategia e di retorica penologica si potrebbe osservare che l'esemplarità è un attributo della condanna penale caratteristico dei sistemi premoderni. In essi, al posto dell'eguaglianza dei soggetti di fronte alla legge penale, valeva il criterio paternalistico-pedagogico - si pensi al tema foucaultiano dello 'splendore del supplizio' - dell'esecuzione (pubblica) della condanna come narrazione potestativa e rafforzamento dei sentimenti popolari di dipendenza gerarchica (20). E si potrebbe evocare la letteratura che nella seconda metà del secolo scorso ha rappresentato il processo penale come un rituale di degradazione dell'imputato, come una cerimonia collettiva di stigmatizzazione simbolica della sua figura, usata come strumento di conferma dei pregiudizi morali e religiosi condivisi dalla maggioranza del gruppo sociale (21). Il processo è tanto più degradante e stigmatizzante quanto più è 'esemplare', quanto più espone alla esecrazione popolare un soggetto che ha profanato i valori collettivi e che merita perciò una punizione severa e solenne.

E si potrebbe richiamare anche la lezione di René Girard circa la funzione di 'capro espiatorio' che il sacrificio del capo politico (o di uno 'straniero interno') ha nelle culture 'primitive' (22). In situazioni di conflittualità e instabilità sociale il rito penale concentra simbolicamente il senso di colpa del gruppo e lo scarica sulla figura della vittima, il cui sacrificio ha la funzione di riportare la pace e di riconquistare il favore degli dei. Nella 'esemplarità' della condanna penale sopravvivono dunque elementi di irrazionalità ancestrale che attribuiscono alla sanzione una funzione sacrificale e vittimaria. Questi elementi dovrebbero avere ben poco a che fare con processi di riconciliazione sociale fondati sulla decostruzione collettiva della vicenda storica del conflitto, sul compromesso politico e sulla progettazione costituzionale come 'rituali di pacificazione' dialogici e razionali, miranti alla ricostruzione della identità culturale e politica di un intero paese.

Quanto all'efficacia pedagogico-dissuasiva della 'esemplarità' di una condanna penale internazionale basterà ricordare, come un antefatto significativo, che l'opinione pubblica giapponese ha percepito il processo di Tokyo come una parodia giudiziaria che ha soddisfatto il desiderio di vendetta degli Stati Uniti rispetto all'attacco di Pearl Harbor. Forse pochi ricordano che a partire dal 1978 ai sette cittadini giapponesi giustiziati dal Tribunale di Tokyo vengono tributati nel tempio di Yasukum gli onori riservati ai martiri della patria giapponese. E qualcosa di analogo sembra essere accaduto in Serbia dove la diffusione televisiva del lungo processo contro Slobodan Milosevic - ostinatamente incriminato anche di genocidio dal procuratore Carla Del Ponte - sembra aver prodotto effetti opposti a quelli desiderati: nelle recenti elezioni svoltesi nella Federazione di Serbia e Montenegro il partito di Milosevic ha ottenuto un notevole successo e questo non sembra andare a favore della pacificazione dei Balcani.

Più in generale ci si può chiedere se infliggere condanne 'esemplari' a un ristrettissimo numero di individui svolga un'efficace funzione dissuasiva nei confronti dei conflitti civili e della guerra. Si è osservato che i processi penali internazionali del secondo dopoguerra hanno mostrato un'efficacia deterrente praticamente nulla. Nella seconda metà del secolo le deportazioni, le atrocità, i crimini di guerra, i crimini contro l'umanità e i genocidi non sono diminuiti. E numerose guerre di aggressione, condotte anche da Stati che avevano dato vita ai processi di Norimberga e di Tokyo, hanno provocato centinaia di migliaia di vittime. E nessun effetto deterrente sembra aver esercitato l'attività repressiva svolta dal Tribunale dell'Aja nei confronti delle atrocità commesse in Bosnia negli anni 1991-1995, se è vero che atrocità non meno gravi si sono poi verificate, per opera di tutti i belligeranti, nella guerra per il Kosovo del 1999. In realtà, nulla sembra garantire che un'attività giudiziaria che applichi sanzioni 'esemplari' contro singoli individui - isolandone la responsabilità entro contesti altamente complessi - incida come tale sulle dimensioni macrostrutturali della guerra, possa cioè agire sulle ragioni profonde dei conflitti e della violenza armata.

2.3. Retributività. Nel saggio che ho più volte citato, Herbert Henham sostiene, a conclusione della sua analisi critica, che di fatto, implicitamente e confusamente, le sentenze di condanna emesse sinora dai tribunali internazionali ad hoc si ispirano al paradigma della funzione retributiva e stigmatizzante della pena (23). Se è così, non si può non individuare in questa situazione di fatto, probabilmente ancorata alle infelici formulazioni statutarie che sopra ho ricordato, un altro elemento che oggi rende l'esercizio della giustizia penale internazionale poco funzionale ai suoi obiettivi di pacificazione sociale.

Il modello retributivo della pena è uno dei più antichi, poiché risale alla tradizione biblica ed è stato elaborato nella sua forma più caratteristica dalla teologia cattolica medioevale. Questo tipo di giustizia punitiva e afflittiva guarda ai comportamenti devianti come a violazioni di un ordine oggettivo, come lesioni dell'armonia universale del cosmo. Punire ed espiare significa ripristinare l'equilibrio ontologico leso dal comportamento immorale o illegale. La sofferenza imposta al deviante ha perciò sia un valore penitenziario - con effetti di redenzione e di purificazione soggettiva -, sia un valore risarcitorio. Ne discende l'idea 'retributiva' secondo la quale la giustizia umana deve imporre al reo una sofferenza proporzionale alla 'gravità' della sua colpa, gravità 'oggettiva' perché misurata sulla base di parametri assoluti, di natura etico-teologica.

La penologia moderna, a partire dalla seconda metà del Settecento, si è gradualmente liberata - almeno in linea di principio - da questo archetipo afflittivo e penitenziario e ha abbracciato un'idea secolarizzata della sanzione penale. Si è affermato il paradigma utilitaristico della difesa sociale e della risocializzazione del reo. La sanzione penale ha la funzione di neutralizzare la pericolosità del soggetto deviante e di riammetterlo nel gruppo dopo averlo 'rieducato' alla disciplina sociale e averlo reso inoffensivo. La sofferenza procurata non è più intesa come espiazione, purificazione e redenzione. E' una sofferenza, coincidente con la limitazione carceraria della libertà, che dovrebbe svolgere una funzione correzionale e dissuasiva. Il ricordo della sofferenza patita dovrebbe dissuadere il reo dal ripetere i suoi comportamenti criminali, mentre lo spettacolo sociale della sofferenza inflitta ai soggetti devianti dovrebbe indurre la maggioranza dei cittadini al rispetto delle regole collettive che il gruppo si è liberamente dato (24). Dunque, il criterio centrale nella applicazione della sanzione non è di carattere 'retributivo': la pena è commisurata alla 'pericolosità sociale' del reo e tiene conto dell'evoluzione della sua personalità, predisponendo una serie di 'misure alternative' al carcere che rendono flessibile l'esecuzione penale.

Al contrario, il carattere retributivo della pena esclude la finalità del reinserimento sociale, contraddice l'idea delle misure alternative al carcere, rifiuta la nozione stessa di flessibilità dell'esecuzione penale e non prevede alcuna attività di risocializzazione del detenuto. Assolutizza il carcere come luogo di custodia e di afflizione e lo decontestualizza in quanto strumento di esclusione e di isolamento del reo, della sua irreversibile, esemplare stigmatizzazione. In questo modo vengono esaltati gli aspetti del carcere più criticati dalla penologia e dalla sociologia penitenziaria contemporanea, da Michel Foucault a David Garland, a Loïc Wacquant e, in Italia, Diego Melossi ed Emilio Santoro (25). Il carcere diviene semplicemente un luogo di sofferenza - talora di vera e propria tortura fisica e psichica - e di violazione dei più elementari diritti dei cittadini.

E' del tutto evidente, a mio parere, che la concezione retributivista della sanzione penale va in una direzione difficilmente conciliabile con qualsiasi progetto di pacificazione sociale.

3. Conclusione. Rebus sic stantibus, la giurisdizione penale internazionale non sembra svolgere la funzione di "giustizia di transizione" per la quale è stata formalmente istituita. Questa funzione è di contribuire alla ricomposizione di gravi o gravissimi conflitti sociali attraverso l'uso di strumenti giudiziari per la repressione dei crimini contro i diritti dell'uomo. Se si intendesse realmente esercitare questa funzione, allora a mio parere andrebbe ripensata in profondità la concezione della pena e degli strumenti dell'esecuzione penale che finora ha caratterizzato l'opera dei tribunali internazionali ad hoc.

In determinate circostanze - lo si è visto sia in Jugoslavia che in Ruanda - la giustizia punitiva dei tribunali internazionali ad hoc, ispirata ai criteri della esemplarità e della retributività delle pene, può addirittura avere effetti opposti a quelli auspicati. Questo tipo di sanzioni può rafforzare simbolicamente i sentimenti di ostilità, stimolare pulsioni vendicative e di esclusione anziché sradicare il crimine, poiché non sollecita le parti antagonistiche verso forme di composizione e di mediazione che mirino alla ricostruzione del tessuto sociale e alla solidarietà civile. Anziché favorire una rielaborazione interattiva dei lutti e delle sofferenze subite, questi interventi punitivi possono spingere ad una diffusa, ossessiva richiesta di riparazioni, di risarcimenti e di punizioni esemplari.

Con questo non intendo sostenere l'inopportunità dell'intervento della giurisdizione internazionale, anche di carattere 'speciale' (ad hoc), purché, ovviamente, operi con un grado accettabile di autonomia e di imparzialità politica. L'esercizio della giustizia penale a conclusione di una guerra civile, come ha sostenuto Otto Kirchheimer, può svolgere un'importante funzione di limitazione (e di autolimitazione) del potere politico, in alternativa sia alla amnistia generale - in molti casi impraticabile -, sia alle epurazioni sommarie, alla soppressione fisica degli avversari, alla vendetta generalizzata e alla ripresa delle ostilità (26). Né intendo assolutizzare i rituali di pacificazione non giudiziaria o raccomandare, moralisticamente e retoricamente, la virtù del perdono. In realtà non ci sono a mio parere strumenti da privilegiare in assoluto, e da applicare in tutti i casi possibili ad esclusione di altri.

Ciò che l'esperienza di questi ultimi dieci anni sembra comunque insegnare - e che dovrebbe essere acquisito dalla International Criminal Court - è che ogni intervento di mediazione in una situazione di transizione postbellica dovrebbe essere pluridimensionale e molto articolato, dotato della requisite variety per rispondere alla complessità delle dinamiche storico-sociali. Al processo di pacificazione dovrebbero concorrere sia le corti penali interne, sia, con giurisdizione complementare, le corti internazionali, sia i rituali di pacificazione non giudiziaria o semigiudiziaria, radicati nelle tradizioni autoctone. In questo senso anche gli organi della giurisdizione penale internazionale dovrebbe raggiungere il più alto livello possibile di contestualizzazione e di inserimento culturale e normativo nel processo di transizione, anziché giudicare dall'alto di una superiore assise di moralità e di legalità - situata inevitabilmente in Europa del Nord o in America del Nord - dalla quale far discendere sui comuni mortali i propri verdetti insindacabili.


Note

*. Journal of International Criminal Justice, 2 (2004), pp. 727-734.

1. In Sierra Leone all'attività di un normale tribunale penale si è affiancata l'opera di una "Commissione per la verità e la riconciliazione". Strettamente giudiziari sono i meccanismi misti adottati in Cambogia (per la repressione dei crimini commessi dai Khmers rossi), in Kosovo e a Timor Est. In quest'ultimo caso la struttura del Tribunale è sostanzialmente modellata sul sistema nazionale indonesiano, ma il tribunale è tenuto ad applicare il diritto penale internazionale. Su questi temi si veda il contributo di A. Lollini, Le processus de judiciarisation de la résolution des conflits: les alternatives, in E. Fronza, S. Manacorda (a cura di), La justice pénale internationale dans les décisions des tribunaux ad hoc, Milano, Dalloz-Giuffrè, 2003.

2. Si può vedere lo Statuto dell'Iraqi Special Tribunal nella rubrica Guerra, diritto e ordine globale.

3. Sul tema si veda l'accurata indagine di J. Franceschini, Aspetti sociologici e normativi della giustizia penale in Ruanda dopo il genocidio del 1994, Università degli Studi di Firenze, dissertazione di laurea, 2004; si veda inoltre A. Lollini, L'istituzione delle giurisdizioni Gacaca: giustizia post-genocidio e processo costituente in Ruanda, 'Rivista di Diritto pubblico comparato ed europeo', 2, 2004.

4. Sull'esperienza della Truth and Reconciliation Commission si veda: A.M. Gentili, A. Lollini, L'esperienza delle Commissioni per la verità e la riconciliazione: il caso sudafricano in una prospettiva giuridico-politica, in G. Illuminati, L. Stortoni, M. Virgilio (a cura di), Crimini internazionali fra diritto e giustizia, Torino, Giappichelli, 2000, pp. 163-215.

5. E' il caso, in particolare, del genocidio ruandese; cfr. E. Amati, La repressione dei crimini di guerra tra diritto internazionale e diritto interno, in G. Illuminati, L. Stortoni, M. Virgilio (a cura di), Crimini internazionali fra diritto e giustizia, cit., pp. 101-15.

6. Cfr. E. Fronza, J. Tricot, Fonction symbolique et droit pénal international: une analyse du discours des tribunaux pénaux internationaux, in E. Fronza, S. Manacorda (a cura di), La justice pénale internationale dans les décisions des tribunaux ad hoc, Milano, Dalloz-Giuffré, 2003, p. 299. Si veda inoltre S. Manacorda, Les peines dans la pratique du Tribunal pénal international pour l'ex-Yugoslavie: l'affablissement des principes et la quête de contrepoids, ivi; J.C. Nemitz, Sentencing in the jurisprudence of the International Criminal Tribunals for the Former Yugoslavia and Rwanda, in H. Fisher, C. Kress, S.R. Lüder (a cura di), International and national prosecution of crimes under international law: currents developments, Berlin, Duncker & Humblot, 2001.

7. Cfr. l'art. 24 dello Statuto dell'International Criminal Tribunal for the Former Yugoslavia e l'art. 78 dello Statuto della International Criminal Court.

8. Sul processo di formazione dei 'principi generali' del diritto penale internazionale si veda M. Virgilio, Verso i principi generali del diritto criminale internazionale, in G. Illuminati, L. Stortoni, M. Virgilio (a cura di), Crimini internazionali fra diritto e giustizia, cit., pp. 41-67; F. Raimondo, General principles of law as a source of international criminal law. An appraisal of the ICTY and ICTR jurisprudence, intervento al seminario Le fonti del diritto internazionale penale: l'esperienza dei Tribunali penali internazionali, presso l'Istituto di Applicazione Forense 'E. Redenti', Università di Bologna, 12 marzo 2004.

9. Sui delicati problemi connessi all'interpretazione delle norme penali internazionali si veda E. Fronza, I crimini di diritto internazionale nell'interpretazione della giurisprudenza internazionale: il caso Akayesu, in G. Illuminati, L. Stortoni, M. Virgilio (a cura di), Crimini internazionali fra diritto e giustizia, cit., pp. 69-97. Sul ruolo normativo dei giudici penali internazionali si veda A. Lollini, L'expansion interne et externe du rôle du juge dans le processus de création du droit international pénal, in M. Delmas-Marty, E. Fronza, E. Lambert-Abdelgawad (a cura di), Le fonti del diritto internazionale penale, Bologna, 2004 (in corso pubblicazione).

10. Si veda R. Henham, The Philosophical Foundations of International Sentencing, 'Journal of International Criminal Justice', 1 (2003), 1, pp. 64-85.

11. Cfr. R. Henham, The Philosophical Foundations of International Sentencing, cit., p. 69 e seguenti.

12. Cfr. R. Henham, The Philosophical Foundations of International Sentencing, cit., p. 74 e seguenti.

13. Sul tema si veda il recente contributo di E. Santoro, Carcere e società liberale, Torino, Giappichelli, 2004, 2a ed.; mi permetto di rinviare inoltre al mio Filosofia della pena e istituzioni penitenziarie, 'Iride', 14 (2001), 32, pp. 47-58.

14. Cfr. Y. Cartuyvels, Le droit pénal et l'Etat: des frontières "naturelles" en question, in M. Henzelin, R. Roth (a cura di), Le droit pénal à l'épreuve de l'internationalisation, Paris, Lgdj-Georgéd.-Bruylant, 2002, p. 27.

15. Cfr. E. Fronza, J. Tricot, Fonction symbolique et droit pénal international: une analyse du discours des tribunaux pénaux internationaux, cit., pp. 300-3.

16. Si veda: H. Arendt, Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, New York, The Viking Press, 1963. Bert Röling ha sostenuto che i processi internazionali del dopoguerra sono stati utilizzati dai vincitori a fini propagandistici e per nascondere i misfatti da loro stessi commessi; cfr. B.V.A. Röling, The Nuremberg and the Tokyo Trials in Retrospect, in C. Bassiouni, U.P. Nanda (a cura di), A Treatise on International Criminal Law, Springfield, Charles C. Thomas, 1973; H. Bull, The Anarchical Society, London, Macmillan, 1977, p. 89; H. Kelsen, Peace through Law, Chapel Hill, The University of North Carolina Press, 1944, pp. 88 ss; H. Kelsen, Will the Judgment in the Nuremberg Trial Constitute a Precedent in International Law?, 'The International Law Quarterly', 1 (1947), 2, p. 115.

17. Cfr. C. Black, The International Criminal Tribunal: Instrument of Justice?, Proceedings of the 25 October 1999 Paris Conference on Justice and War, special issue, 'Dialogue', (2000), 31-32, p. 109; J. Laughland, Le tribunal penal international, Paris, François-Xavier de Guibert, 2003; mi permetto di rinviare anche al mio Invoking Humanity, War, Law and Social Order, London-New York, Continuum International, 2002, pp. 99-132.

18. Cfr. D, Zolo, Invoking Humanity, War, Law and Social Order, cit., pp. 120-2.

19. Cfr. C. Bassiouni, Etude historique: 1919-1998, "Nouvelles Etudes Pénales", (1999), p. 2.

20. Si veda M. Foucault, Sourveiller et punir. Naissance de la prison, Paris, Gallimard, 1975.

21. Si veda H. Garfinkel, Studies in Ethnomethodology, Englewood Cliffs (N. J.), Prentice-Hall, 1967; J. Heritage, Garfinkel and Ethnomethodology, Cambridge, Polity Press, 1984.

22. Si veda R. Girard, Le bouc émissaire, Paris, Editions Grasset & Fasquelle, 1982.

23. R. Henham, The Philosophical Foundations of International Sentencing, cit., pp. 66-9,

24. Nei casi estremi il soggetto viene 'esiliato' per sempre, e cioè tenuto in permanenza segregato dal gruppo sociale perché ritenuto irreversibilmente pericoloso e non 'rieducabile'. E' il caso del ricovero (di fatto) permanente in manicomio criminale, dell'ergastolo e della pena di morte, sanzioni queste ultime che si ritengono dotate di un'alta efficacia deterrente per la generalità dei consociati.

25. Si veda: M. Foucault, op. cit., passim; D. Garland, Punishment and Modern Society: A Study in Social Theory, Chicago, University of Chicago Press, 1990; D. Garland, The Culture of Control: Crime and Social Order in Contemporary Society, Oxford, Clarendon, 2001; Loïc Wacquant, op. cit., passim; D. Melossi, The State of Social Control, Cambridge, Polity Press, 1990; D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, Milano, Mondadori, 2002; E. Santoro, Criminal Policy, in R. Bellamy, A. Manson (a cura di), Political Concepts, Mancester-New York, Manchester University Press, 2003.

26. Cfr. O. Kirchheimer, Politische Justiz, Frankfurt a.M., Europäische Verlaganstalt, 1981, pp. 607-8.