2005

Guerra e diritto
Note a margine di una tesi kelseniana (*)

Tecla Mazzarese

0. Introduzione

Nell'accostarsi al tema guerra e diritto, la prima difficoltà da superare sembra essere non quella di decidere come affrontarlo, ma se abbia senso affrontarlo. La prima difficoltà sembra dettata, cioè, non dalla scelta dei termini nei quali declinarlo e indagarlo, quanto dal dubbio se sia un tema del quale e sul quale sia (ancora) possibile dire qualcosa. Il dubbio è sollecitato sia da chi, in termini assoluti, senza alcuna distinzione o delimitazione cronologica, afferma che la guerra è, sempre e comunque, negazione del diritto (1), sia da chi, in termini non meno drastici anche se cronologicamente circoscritti alla seconda metà del secolo scorso, afferma che in epoca nucleare la guerra si è posta al di fuori di ogni possibile criterio di legittimazione e di legalizzazione e che, incontrollata e incontrollabile dal diritto come un terremoto o come una tempesta, è ritornata ad essere l'antitesi del diritto (2). E ancora, per quanto in termini molto diversi, termini quasi imbarazzantemente provocatori, il dubbio è sollecitato da chi afferma che (oggi) del termine 'guerra' si fa uso solo "come una sorta di metafora generale e politicamente estetica" (3), dato che nel diritto internazionale il termine non ha più un suo significato giuridico. E così, sorprendentemente, quello che in questa prospettiva diventa oggetto di critica è non l'(il)legittimità giuridica del ricorso alla guerra, ad esempio, come strumento per far fronte al terrorismo internazionale, quanto l'(im)proprietà lessicale nell'uso di un termine retoricamente compromesso e compromettente quando ormai "si suppone che la guerra sia scomparsa da tempo, con la Società delle Nazioni e la messa al bando dell'aggressione" (4), e quando persino nella Carta Onu il termine "non è quasi menzionato, eccetto là dove vi si fa riferimento in negativo".

Ora, nonostante, o, forse, proprio perché il dubbio appare dettato, anche in questa sua ultima formulazione un po' spregiudicata, da ragioni tutt'altro che secondarie o marginali, "guerra e diritto" si conferma un tema che merita di essere affrontato, un tema che sollecita e giustifica, in particolare, un'analisi che si proponga di chiarire se ed in che termini il diritto sia e/o possa essere, così come ha sempre affermato Hans Kelsen, uno strumento per il mantenimento della pace (5). E precisamente, si conferma un tema da indagare per capire se il diritto, per quanto certamente di per sé non sufficiente (crederlo sarebbe non ingenuo, ma gravemente fuorviante), sia, nondimeno, uno strumento necessario per il mantenimento della pace così come per l'attuazione e la tutela dei diritti fondamentali e per la diffusione e affermazione della democrazia come forma di governo non più solo nazionale ma anche sovranazionale (6); se, cioè, in altri termini, il diritto possa ritenersi uno strumento indispensabile per la realizzazione di ciascuna di queste tre componenti (pace, tutela dei diritti, democrazia) il cui insieme e la cui interazione sono stati indicati da Norberto Bobbio come il nucleo ultimo di quella che, sempre Bobbio, ha proposto venisse denominata età dei diritti (7).

Al fine di individuare alcuni elementi che possano consentire, se non di individuare la risposta al quesito se il diritto sia uno strumento necessario al mantenimento della pace, almeno di indicare quali ragioni possono rendere l'individuazione di tale risposta controversa e problematica (§ 3.), preliminarmente, intendo richiamare alcuni dati normativi sulla disciplina giuridica della guerra (§ 1.), e, sulla base di questi dati normativi, segnalare alcune delle ragioni di (il)legittimità dei tre conflitti che, negli ultimi dieci anni, hanno suscitato maggiore attenzione: quello del Golfo nel 1991, quello in Kosovo nel 1999 e, da ultimo, nel 2001, quello in Afganistan. Conflitti, questi, che, a differenza di innumerevoli altre guerre ad essi precedenti e/o contemporanee, hanno suscitato interesse perché, non più testimoni passivi e distratti, ma artefici e protagonisti attivi ne sono state, accanto agli Stati Uniti, le maggiori potenze europee (§ 2.).

Sia nel proporre una lettura di dati normativi sulla disciplina giuridica della guerra, sia nel segnalare alcune delle ragioni di (il)legittimità che i dati normativi presi in esame possono suggerire in relazione ai conflitti del Golfo, del Kosovo e dell'Afganistan, farò ricorso alla distinzione, classica, fra jus ad bellum e jus in bello, alla distinzione, cioè, fra il diritto che individua le condizioni a cui una guerra possa considerarsi giuridicamente (il)legittima (jus ad bellum), e il diritto che sancisce quali comportamenti possano essere giuridicamente (il)leciti in una guerra e per una guerra (jus in bello). E ancora, accanto e oltre alle categorie concettuali designate da questa opposizione terminologica, utilizzerò altre due categorie concettuali: quella del jus contra bellum e quella del jus ante bellum. La categoria del jus contra bellum, categoria della quale fa menzione Danilo Zolo (8), individua un caso limite del jus ad bellum; individua, cioè, il caso in cui il jus ad bellum dovesse ridursi ad un unico precetto: il divieto della guerra; la negazione, cioè, di qualsiasi titolo di una sua legittimità giuridica. La seconda categoria concettuale, quella del jus ante bellum, è stata suggerita da Luigi Bonanate e rinvia alle forme e ai modi in cui il diritto è e/o potrebbe e/o dovrebbe essere utilizzato per predisporre misure che consentano la prevenzione della guerra, che consentano, cioè, di incidere sulle cause all'origine di possibili conflitti, depotenziandole (9). Categoria concettuale, quest'ultima del jus ante bellum, che individua, o almeno che consente di indicare, una forma di disciplina giuridica della guerra altra e diversa da quelle definite dal jus ad bellum e dal jus in bello, una forma di disciplina giuridica che appare, questa sì, uno strumento per il mantenimento della pace, e che, al tempo stesso, si rivela funzionale tanto all'attuazione e alla tutela dei diritti fondamentali quanto all'affermazione della democrazia come forma di governo anche sovranazionale.

1. La guerra nel diritto (inter)nazionale contemporaneo

Nel diritto internazionale, così come nel diritto interno di molti paesi, non sono certo numerose le disposizioni normative che hanno ad oggetto la guerra, che, cioè, hanno ad oggetto l'individuazione delle condizioni a cui ad essa possa essere legittimo fare ricorso; la definizione e la declinazione delle condizioni di (il)legittimità delle sue possibili forme di attuazione e/o di (il)liceità delle sue possibili azioni (10).

Per quanto il numero ne sia, forse, esiguo, questo non consente certo di decretare, come invece sembra suggerire l'analisi prima richiamata di Frédéric Mégret, che del termine 'guerra' non vi sia più (oggi e da tempo) un'accezione giuridica, né, di conseguenza, che non vi siano più (oggi e da tempo) criteri giuridici per decidere tanto dell'(il)legittimità giuridica di una guerra quanto dell'(il)liceità giuridica delle sue azioni, né, tantomeno, che il ricorso a fantasiose operazioni onomastiche consenta di trasformare, da guerra in asettiche operazioni di polizia internazionale e/o in meritori interventi umanitari, il bombardamento delle infrastrutture economiche di un paese, la distruzione dei suoi beni artistici e naturali, l'inquinamento del suo territorio, il massacro della sua popolazione civile. Fosse anche una sola la disposizione normativa ad avere ad oggetto la guerra, vietandola, si avrebbe già, infatti, un criterio per decidere dell'(il)legittimità giuridica delle guerre. Se il diritto internazionale dovesse mai limitarsi ad un unico e semplice divieto della guerra si avrebbe, cioè, la realizzazione di quel caso limite del jus ad bellum che, riprendendo l'espressione usata da Zolo, può essere denominata jus contra bellum.

Ora, accantonati, almeno in questa sede, i problemi di semantica del linguaggio giuridico e/o di teoria dell'interpretazione, sono tre i contesti in relazione ai quali intendo procedere ad una rapida ricognizione, meramente esemplificativa e senza alcuna pretesa di esaustività, delle disposizioni normative che abbiano ad oggetto la guerra e le forme della sua disciplina giuridica: il primo contesto è quello del diritto internazionale (§ 1.1.); il secondo contesto è quello del diritto italiano (§ 1.2.); e, per quanto la sua realtà giuridico-politica sia ancora in fieri, il terzo contesto è quello del diritto dell'unione Europea (§ 1.3.).

1.1. La guerra nel contesto giuridico internazionale

Non numerose, quindi, le disposizioni normative del diritto internazionale in tema di guerra, ma certo sufficienti: (a) a indicare alcune direzioni lungo le quali procedere per mantenere la pace prevenendo e/o rimuovendo le cause di possibili conflitti bellici, (b) a individuare le condizioni di (il)legittimità del ricorso alla guerra, e (c) a sancire le forme e i modi dell'(il)liceità delle sue azioni. In particolare, difficile negare che, alla conclusione del secondo conflitto mondiale, la pace sia stata solennemente proclamata valore fondante e costitutivo del nuovo ordine mondiale.

Univoca l'affermazione di questo principio nella e con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948. Univoca l'affermazione con la Dichiarazione universale del 1948 in quanto di per sé, con l'elenco che ne declina, essa individua nell'attuazione e nella tutela dei diritti fondamentali una prima e irrinunciabile garanzia per il mantenimento della pace. Come si legge nel suo preambolo, infatti: "il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana, e dei loro diritti uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo". Ed è univoca l'affermazione del principio del mantenimento della pace anche nella Dichiarazione universale del 1948, là dove l'art. 28 dichiara che: "Ognuno ha il diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente realizzati".

Univoca, o quasi, l'affermazione del principio del mantenimento della pace quale valore fondante e costitutivo del nuovo ordine mondiale, già tre anni prima della Dichiarazione universale, nella Carta Onu del 1945. Se non univoca, infatti, l'affermazione è certamente perentoria là dove nel preambolo della Carta si legge che i popoli delle Nazioni Unite sono decisi a "salvare le future generazioni dal flagello della guerra" e là dove, all'art. 1, si dichiara che le Nazioni Unite intendono: "Mantenere la pace e la sicurezza internazionale ed a questo fine: prendere efficaci misure collettive per prevenire e rimuovere le minacce alla pace e per reprimere gli atti di aggressione o altre violazioni della pace, e conseguire con mezzi pacifici, ed in conformità ai principi della giustizia e del diritto internazionale, la composizione o la soluzione delle controversie o delle situazioni internazionali che potrebbero portare ad una violazione della pace".

Affermazioni, quelle del preambolo e dell'art. 1 della Carta Onu, non solo perentorie nell'enunciare il principio del mantenimento della pace, ma cruciali anche nell'individuare alcune delle direzioni lungo le quali procedere per consentirne la realizzazione. Affermazioni cruciali per definire, cioè, un primo nucleo di un possibile jus ante bellum e per indicarne le principali direzioni di sviluppo e articolazione. Così, ad esempio, nel preambolo: (a) con la riconferma della "fede nei diritti fondamentali dell'uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell'eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole"; (b) con la rivendicazione di un diritto internazionale che abbia forza vincolante; (c) con la sollecitazione a realizzare il "progresso sociale" e "un più elevato tenore di vita in una più ampia libertà"; e ancora, nell'art. 1.: (d) con la risoluzione di prendere "efficaci misure collettive per prevenire e rimuovere le minacce alla pace" (misure dirette, cioè, all'eliminazione o almeno alla riduzione della miseria dei paesi meno sviluppati e/o del loro sistematico sfruttamento (11)); (e) con la determinazione ad attuare misure che consentano di "reprimere gli atti di aggressione o altre violazioni della pace" (misure, cioè, come, ad esempio, quella dell'istituzione della tanto bistratta Corte Penale Internazionale (12), o, ancora, come quelle relative alla definizione dei "modi di impiego della forza" previsti dal capo VII della Carta, altre e diverse dal ricorso alla guerra (13)). E innegabilmente perentoria e significativa è l'affermazione del principio del mantenimento della pace anche all'art. 2, là dove il comma quarto stabilisce che i membri delle Nazioni Unite: "devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall'uso della forza, sia contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite".

Ma, per quanto perentoria e significativa, l'affermazione del principio del mantenimento della pace nella Carta non è, però, univoca. Nella Carta Onu, infatti, all'art. 51 si afferma anche: "il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale" (14). E ancora, non solo l'art. 51 (articolo, questo, esplicitamente richiamato dall'art. 5 del Trattato Nato nel sancire l'obbligo degli alleati a "prestare assistenza" ai paesi dell'alleanza che dovessero essere oggetto di un attacco armato), ma anche il preambolo della Carta Onu, e peraltro in termini anche molto imbarazzanti per la loro preoccupante indeterminatezza, dichiara che "la forza delle armi non sarà usata, salvo che nell'interesse comune".

Così, riassumendo e concludendo questa prima ricognizione (nella quale nulla si è ancora detto delle disposizioni di diritto internazionale riconducibili al cosiddetto jus in bello), si può osservare che la Carta Onu, il primo e più importante documento a segnare l'inizio di un nuovo paradigma del diritto internazionale (15), individua sì alcune delle direzioni lungo le quali sviluppare forme di jus ante bellum e definisce sì le condizioni del jus ad bellum, ma, nondimeno, non è privo di elementi di indeterminatezza, se non di ambiguità, che possono essere, e di fatto si sono già rivelati passibili (anche) di letture in contrasto con l'impianto complessivo dell'intera Carta.

1.2. La guerra nel contesto giuridico italiano

Se non fosse per l'art. 10 della Costituzione, secondo il quale: "L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute", e ancora, se non fosse per i suoi articoli 78 e 87 comma nono che, sorprendentemente stando alla lettera dell'art. 11, stabiliscono, l'uno, l'art. 78, che "Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari", l'altro, l'art. 87 nono comma, che il Presidente della Repubblica "dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere", se non fosse per questi tre articoli, si potrebbe indicare l'art. 11 della Costituzione Italiana come un esempio paradigmatico di felice fusione fra jus contra bellum e jus ante bellum. Nella prima parte della sua formulazione, quella che può essere letta come un esempio di jus contra bellum, il ripudio della guerra è così totale da non fare neppure menzione del caso di legittima difesa (16). L'incipit dell'art. 11, infatti, stabilisce esclusivamente che "L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali". E ancora, nella seconda parte della sua formulazione, quella che si presta ad essere letta come un'espressione di jus ante bellum, il ripudio della guerra viene confermato (17), e non derogato, come poco convincentemente si è invece cercato di affermare (18), dall'affermazione che l'Italia "consente, in condizioni di parità con gli altri stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo".

L'apparente incongruenza dell'art. 78 e dell'art. 87 comma nono rispetto alla formulazione dell'art. 11 svanisce però, come si è preannunciato, in ragione dell'art. 10, dell'articolo, cioè, che fa rinvio alle norme di diritto internazionale alle quali l'ordinamento giuridico italiano dichiara di conformarsi (19). Norme delle quali, non ultime, fanno parte sia quelle della Carta Onu sia quelle del Trattato Nato. E, quindi, norme delle quali fanno parte anche l'art. 51 della Carta Onu sul "diritto naturale di autotutela", e l'art. 5 del Trattato Nato che, richiamando l'art. 51 della Carta Onu, sancisce l'obbligo degli alleati di intervenire a fianco dei paesi dell'alleanza che dovessero essere oggetto di un attacco armato.

E ancora, l'apparente incongruenza dell'art. 78 e dell'art. 87 comma nono rispetto all'art. 11 trova soluzione anche con riferimento al "sacro dovere del cittadino" di difendere la patria, proclamato dal primo comma dell'art. 52 della Costituzione. Sacro dovere del cittadino, quello della difesa della patria, che, secondo un'interpretazione ampiamente condivisa (20), interviene a "completare (e precisare) l'affermazione [...] relativa al "ripudio" della guerra offensiva" (21), sancendo la liceità della guerra di legittima difesa. Anche se, come sottolinea Ernesto Bettinelli: "Non può essere senza significato la reticenza del costituente che, pur nell'ambito di un enunciato che evoca la più drammatica emergenza in cui potrebbe trovarsi il paese, ha evitato la formula "guerra di difesa" appunto per ribadire l'avversione nei confronti di una situazione al cui verificarsi non può in nessun modo contribuire l'Italia" (22).

Ripudio della guerra, quindi, proclamato con ferma e convinta determinazione (23). Ma, al tempo stesso, un complesso meccanismo di rinvii e di riferimenti incrociati a norme di diritto interno ed internazionale che, quasi surrettiziamente, ne prefigura e predispone possibili vie di fuga. Così, riassumendo, anche questa ricognizione relativa al contesto giuridico italiano, non diversamente da quella precedente, relativa al contesto giuridico internazionale, conferma l'impressione, sconfortante, del diritto come strumento non solo di dubbia efficacia, ma anche come strumento potenzialmente insidioso che si presta a più letture e si adatta alle esigenze più disparate.

1.3. La guerra nel contesto giuridico della Comunità Europea

E, da ultimo, in relazione al contesto europeo, poche, e allarmate, considerazioni a margine della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, siglata a Nizza nel 2000.

Una prima considerazione, la principale e la più allarmata, è relativa all'assenza di qualsiasi forma, per quanto generica e/o sub condiciones, della messa al bando della guerra quale strumento di offesa e quale possibile strumento di risoluzione di controversie internazionali (24). Omissione, questa, quanto mai allarmante perché, come già a partire dal 1920 Hans Kelsen aveva cercato di chiarire affrontando il problema dell'obbligatorietà del diritto internazionale e della sua forza vincolante, il silenzio del diritto sulle condizioni di (il)legittimità giuridica di un eventuale ricorso alla guerra equivale a sancire il principio che "uno Stato può fare la guerra sempre e per qualunque ragione" (25).

E ancora, seconda considerazione, nella Carta dei diritti non solo non vi è traccia di una qualche formulazione di condizioni di (il)legittimità del ricorso alla guerra (jus ad bellum), ma non vi è neppure una chiara affermazione del valore della pace. L'unico riferimento alla pace, fugace e quasi impacciato, è quello dell'incipit del suo preambolo: "I popoli europei nel creare tra loro un'unione sempre più stretta hanno deciso di condividere un futuro di pace fondato su valori comuni". Accenno, questo, ambiguo oltre che impacciato. Non è per nulla chiaro, infatti, come leggere il fugace riferimento al "futuro di pace" che i popoli europei hanno deciso di condividere. Non è per nulla chiaro, cioè, a cosa e/o a chi debba ritenersi circoscritto il "futuro di pace" che i popoli europei hanno deciso di condividere. Una formulazione decisamente troppo ambigua ed impacciata per escludere la legittimità del ricorso alla guerra da parte dell'unione verso paesi che non ne facciano parte; troppo ambigua ed impacciata anche per fornire criteri per decidere delle forme e dei modi di un'eventuale collaborazione ad organismi internazionali che si impegnino, così come vuole l'art. 1 della Carta Onu, a "prendere efficaci misure collettive per prevenire e rimuovere le minacce alla pace e per reprimere gli atti di aggressione o altre violazioni della pace".

E, infine, una terza considerazione. La constatazione che anche la Convenzione Europea nella sua stesura del 1950, così come nei successivi protocolli che la hanno integrata e/o parzialmente modificata, non metta al bando la guerra, né faccia riferimento alla pace se non nel preambolo, non consente affatto di arginare le preoccupazioni sul silenzio e sull'elusività della Carta di Nizza. Al contrario, che il silenzio e l'elusività della Carta di Nizza possano essere letti come un preoccupante indizio del processo di "normalizzazione" (26), "riabilitazione", se non addirittura di "legittimazione diffusa" (27) della guerra (28) sembra trovare un'ulteriore conferma in una comparazione con i termini, per nulla titubanti, ma risoluti e perentori, con i quali nella Convenzione del 1950 sono proclamati i valori della pace, della tutela dei diritti fondamentali e dell'affermazione della democrazia. Nel preambolo della Convenzione del 1950, infatti, si ribadisce solennemente il "profondo attaccamento" per i diritti dell'uomo e le libertà fondamentali che "costituiscono le basi stesse della giustizia e della pace nel mondo e il cui mantenimento si fonda essenzialmente, da una parte, su un regime politico veramente democratico e, dall'altra, su una concezione comune e un comune rispetto dei Diritti a cui essi si appellano".

2. Delle ragioni di (il)legittimità di tre conflitti dell'ultimo decennio

Cosa dire delle ragioni di (il)legittimità della guerra del Golfo del 1991, della guerra del Kosovo del 1999 e della guerra contro il terrorismo internazionale iniziata il 7 ottobre 2001 contro l'Afganistan? Cosa dire, cioè, delle ragioni di (il)legittimità delle tre guerre che, nell'ultimo decennio, hanno visto attivamente impegnate le maggiori potenze europee? Per rispondere userò nuovamente le categorie concettuali del jus ante bellum e del jus ad bellum già utilizzate per la ricognizione delle disposizioni normative del diritto (inter)nazionale relative alla prevenzione e/o alle condizioni della messa bando della guerra. Userò inoltre la categoria del jus in bello, finora non utilizzata.

Preliminarmente, per quanto forse sia inusuale nelle analisi sul tema, non è inopportuno ricordare che, pur con i tratti e le differenze che li distinguono, ciascuno dei tre conflitti qui in esame è conseguenza (anche) della volontà, continua e sistematica, di ignorare le direzioni, indicate in parte già nella Carta Onu, di attuazione e di sviluppo di qualsiasi forma di jus ante bellum. Volontà, questa di ignorare l'attuazione di qualsiasi misura che possa contribuire a prevenire o rimuovere le cause di nuovi conflitti internazionali, certamente continua e sistematica prima del 1989 e della conclusione della guerra fredda, ma, non meno manifestamente, continua e sistematica, dopo il 1989, con l'affermarsi e/o il consolidarsi di quello che, con terminologia sempre più ricorrente, è indicato come l'affermarsi di un nuovo "impero", l'"impero" degli Stati Uniti.

Le guerre del Golfo, del Kosovo e dell'Afganistan come conseguenza, quindi, anche dell'indifferenza verso l'attuazione e lo sviluppo delle misure di jus ante bellum. Non è questa, però, l'unica ragione di illegittimità comune a queste tre guerre. Né, se proporne una gerarchia può avere un qualche senso, la più grave. Un'ulteriore ragione di illegittimità comune a queste tre guerre è la violazione al diritto alla pace, diritto indicato dalla Carta Onu, dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e persino dal Trattato Nato come il valore fondante e costitutivo dell'ordine mondiale del secondo dopoguerra (29).

Ora, nonostante queste due prime ragioni comuni di illegittimità, per nessuna delle tre guerre è però mancato, com'è noto, il tentativo di rivendicare una qualche forma di legittimità giuridica. Non è mancato per la guerra del Golfo dove si è denunciata la violazione del diritto internazionale da parte dell'Iraq con l'invasione del Kuwait (30). Non è mancato con la guerra in Afganistan, primo atto di una indefinita e indefinibile guerra al terrorismo internazionale (31), dove si è fatto appello al "diritto naturale di autotutela" sancito dall'art. 51 della Carta Onu ed esplicitamente richiamato dall'art. 5 del Trattato Nato. Non è mancato neppure per la guerra in Kosovo, la sedicente guerra "umanitaria" combattuta in nome della tutela dei diritti fondamentali, dove, in mancanza di qualsivoglia appiglio giuridico, si è affermato, quasi fosse incontestabilmente ovvio, il nuovo ruolo della Nato non più di alleanza difensiva (32), ma "di garante della stabilità europea anche ricorrendo a guerre aggressive" (33), e/o si è teorizzato l'emergere di una nuova norma consuetudinaria del diritto internazionale (34). Come icasticamente ha commentato Danilo Zolo e fermamente ribadito Norberto Bobbio: Ex injuria oritur jus (35).

Ma, che il diritto sia uno strumento spesso inefficace e a volte anche insidioso, si è già detto. Tanto insidioso da consentire vie di fuga contrarie persino ai principi proclamati con maggiore solennità.

Ora, prescindendo da qualsiasi artificio interpretativo per rivendicarne un titolo di legittimazione, di ciascuna delle tre guerre qui in esame è possibile denunciare ancora una ragione di illegittimità. E precisamente una ragione che deriva dalle forme e dai modi, sempre più gravi e sempre più sfacciati, di violazione del jus in bello o, con dizione più accattivante, del diritto umanitario (36). L'eventuale titolo di legittimazione di una guerra viene meno, infatti, se le forme e i modi in cui essa viene combattuta violino i principi del diritto umanitario (i canoni del jus in bello) (37); in particolare, se ed in quanto violino il principio di proporzionalità (dei danni inflitti rispetto al male subito) e il principio di discriminazione (tra combattenti e non combattenti) (38). Scrive Giuliano Pontara: "per giusta che sia la causa per cui una guerra è fatta, essa risulta tuttavia del tutto ingiustificata se per vincerla è necessario violare (non importa quanto e quanto spesso) i due principi del jus in bello" (39).

E, in ciascuna delle tre guerre qui in esame, la violazione dei due principi fondamentali del jus in bello è stata manifesta. Manifesta e, progressivamente, sempre più indifferente e insofferente persino rispetto all'onere, irrisorio, di "confezionare" una possibile giustificazione o spiegazione delle sue espressioni più eclatanti. Patente e innegabile la violazione del principio di discriminazione nella guerra del Golfo con i bombardamenti prima e, poi, con l'embargo durato già più di dieci anni. Patente e innegabile la violazione del principio di discriminazione durante la guerra del Kosovo con l'iterazione di una pluralità di comportamenti che sono stati (inutilmente) denunciati al Tribunale penale per la ex Jugoslavia come crimini contro l'umanità (40): così, ad esempio, il bombardamento di ospedali, piazze di mercato, scuole, treni di passeggeri civili; e ancora, il bombardamento, a Belgrado, dell'ambasciata cinese e della sede della televisione; e, non da ultimo, l'uso di armi all'uranio impoverito e di cosiddette bombe a frammentazione (41). Patente e innegabile, da ultimo, la violazione del principio di discriminazione in Afganistan dove i bombardamenti, che non hanno risparmiato neppure i presidi della Croce Rossa e dell'Onu, si sono accaniti contro villaggi, moschee e ospedali perché, così si è fatto osservare spazientiti, è nei villaggi, nelle moschee e negli ospedali che si nascondono i terroristi; bombardamenti, quelli in Afganistan, durante i quali, accanto e oltre alle bombe a frammentazione, sono state usate armi con un potenziale ancora più devastante e distruttivo di quello delle armi usate in Kosovo, quali le cosiddette bombe taglia-margherite e le bombe termiche (42).

Meno eclatantemente manifesta, forse, ma non per questo meno concreta la violazione, in ognuna delle tre guerre qui in esame, anche del principio di proporzionalità. Difficile, infatti, stabilire il criterio che consenta di decidere della proporzionalità del numero di vittime civili (attuali come conseguenza immediata dei bombardamenti, e potenziali come conseguenza dell'inquinamento ambientale e/o delle mine rimaste inesplose) per scongiurare una pretesa violazione e/o una temuta minaccia all'ordine internazionale. Se la violazione del principio di discriminazione e del principio di proporzionalità sia o no ineludibile (se, cioè, tale violazione costituisca la denuncia solo di una verità di fatto di per sé non sufficiente ad enunciare come verità di ragione la negazione della distinzione stessa fra jus ad bellum e jus in bello e/o dell'attendibilità di qualsiasi definizione dei criteri del jus ad bellum) è un interrogativo forse rilevante, ma certo non dirimente. Per decidere dell'illegittimità delle guerre di cui nell'ultimo decennio anche le maggiori potenze europee sono (state) protagoniste e/o delle imprese che, in futuro, si propongano di riproporne gli scenari, una "mera" verità di fatto sembra già essere sufficiente.

3. La pace attraverso il diritto?

Le osservazioni svolte sia riguardo alle disposizioni normative del diritto (inter)nazionale qui prese in esame, sia riguardo alle ragioni di (il)legittimità che esse consentono di individuare in relazione alle guerre del Golfo, del Kosovo e dell'Afganistan sembrano portare a un bilancio duplicemente negativo: il diritto si rivela infatti uno strumento inefficace, e, dato ancora più imbarazzante, uno strumento a volte anche insidioso.

Il diritto si rivela uno strumento largamente inefficace perché ne sono (stati) reiteratamente ignorati, quando non palesemente irrisi, non solo i precetti che sollecitano a "prendere misure collettive per prevenire e rimuovere le minacce alla pace" (art. 1 della Carta Onu), ma anche i precetti che sanciscono le condizioni di (il)legittimità dell'uso della forza delle armi al fine, solennemente proclamato, di "salvare le future generazioni dal flagello della guerra" così come, in ultimo ma non da ultimo, i suoi precetti che definiscono i criteri di (il)liceità delle azioni di una guerra e in una guerra (43).

Strumento largamente inefficace, quindi, tanto per la prevenzione della guerra quanto per il tentativo di arginarne e circoscriverne le possibili atrocità e barbarie. Ma non solo. Strumento anche insidioso se, come appare, si può prestare anche ad interpretazioni spregiudicate. Interpretazioni quale, ad esempio, quella che ha consentito di affermare che la partecipazione dell'Italia alla guerra del Golfo non costituiva una violazione dell'art. 11 della Costituzione perché, potenza del linguaggio e delle sue operazioni onomastiche, quella alla quale si era deciso di prender parte era non una guerra, ma un'operazione di polizia internazionale (44). E ancora, interpretazioni quale quella che, durante la guerra del Kosovo, ha consentito di affermare che neppure in questa occasione si poteva parlare di violazione dell'art. 11 della Costituzione perché, potenza non del linguaggio ma di formalismi e paralogismi, né le Camere avevano mai deliberato lo stato di guerra (art. 78 della Costituzione) (45), né, di conseguenza, il Presidente della Repubblica l'aveva mai potuto dichiarare (art. 87, nono comma della Costituzione) (46). E, da ultimo, interpretazioni quali quelle relative all'ultima avventura della guerra al terrorismo internazionale che presenta come legittima difesa in risposta ad un attacco armato, rappresaglie e interventi punitivi ex post, come quello in Afganistan, o, addirittura, ex ante come la minacciata guerra preventiva contro l'Iraq.

Ma, se il diritto si è rivelato e continua a rivelarsi uno strumento ampiamente inefficace e, non meno preoccupantemente, uno strumento insidioso per le manipolazione delle quali può essere oggetto, cosa concludere? Si deve concludere, come a volte sembrano sollecitare i critici del globalismo giuridico e/o di un diritto (inter)nazionale obbligatorio e vincolante, che il diritto è uno strumento non per il mantenimento della pace, per la tutela dei diritti fondamentali e per l'affermazione della democrazia, quanto piuttosto un inutile artificio (gonfio spesso di retorica) o, peggio, un ulteriore mezzo di oppressione e di sopraffazione asservito agli interessi di chi, forte e potente, detiene il potere e, grazie al diritto, lo consolida e lo rafforza?

Il quesito non è certo di quelli ai quali è possibile offrire una risposta semplice e immediata, una soluzione certa e indiscutibile che metta tutti d'accordo. Mi limito quindi a due sole osservazioni, prima di concludere richiamando un passo di Simone Weil.

La prima osservazione riprende e ripropone un rilievo ricorrente negli scritti internazionilistici di Hans Kelsen, rilievo al quale ho già fatto cenno in relazione alla Carta di Nizza. Astenersi da una qualsiasi declinazione delle condizioni di (il)legittimità giuridica del ricorso alla guerra e/o dall'individuazione dei criteri di (il)liceità giuridica delle sue possibili azioni non avrebbe certo l'effetto di impedire il verificarsi di nuove guerre, né il ripetersi delle loro peggiori barbarie e atrocità. Al contrario, lascerebbe le une e le altre in balia dell'arbitrio più completo, sottraendo, le une e le altre, a qualsiasi forma di valutazione e di giudizio, a qualsivoglia forma di opposizione e di rifiuto, anche a quella, minima, di poterne denunciare l'illegittimità e/o l'illiceità (47). Così, solo per proporre un esempio ovvio e banale, l'eventuale revoca della messa al bando delle mine antiuomo (per quanto il divieto del loro commercio sia spesso violato) non ne farebbe certo cessare la produzione e la vendita: ne consentirebbe solo un più florido mercato.

La seconda osservazione è relativa a un dato che offre se non una definitiva smentita, almeno un buon argomento per replicare allo scetticismo e/o al realismo di chi, del diritto (inter)nazionale, stigmatizza solo l'intrinseca impotenza e ne denuncia l'ineludibile soggezione agli interessi dei grandi della terra (48). Il dato, in realtà neppure troppo sorprendente, è che preoccupazioni e riserve rispetto ad un diritto internazionale che affermi e faccia valere il proprio carattere obbligatorio e la propria forza vincolante sembrano comuni tanto a chi denuncia il rischio di una sua possibile strumentalizzazione volta al consolidamento del potere delle grandi potenze, quanto, simmetricamente, alle grandi potenze che, invece, ne temono i possibili effetti di condizionamento e di limitazione alla propria libertà di gestione dei problemi internazionali (alla propria libertà di decidere, cioè, come e quando risolverne o, invece, crearne di nuovi). Preoccupazioni e riserve sembrano comuni, cioè, tanto a chi diffida dell'iterazione di sempre più particolareggiate enunciazioni di diritti fondamentali e/o dell'istituzione di organismi per la loro tutela, quanto, simmetricamente, alle maggiori potenze che, significativamente, perseverano nel rifiuto di sottoscrivere impegni sulla tutela di diritti fondamentali che possano intralciare il perseguimento dei propri interessi e che non dissimulano la propria ostilità nei confronti degli organismi internazionali istituiti per sanzionare le violazioni dei diritti fondamentali. E ancora, preoccupazioni e riserve sembrano comuni, negli ultimi anni, tanto a chi registra e/o denuncia l'affermarsi, nello scenario mondiale successivo al 1989, di un nuovo "impero", quello degli Stati Uniti, quanto, simmetricamente, proprio agli Stati Uniti e al progressivo consolidarsi del proprio "impero".

E per concludere, come preannunciato, un ultimo spunto da Simone Weil. In uno splendido articolo del 1937, Non ricominciamo la guerra di Troia, Weil scrive: "Un problema posto con tutti i suoi dati reali è molto vicino alla soluzione. Il problema della pace internazionale e civile non è ancora mai stato posto in questi termini (49).

Ora, sebbene forse non ancora tutti, nondimeno sono molti i dati del "problema della pace internazionale e civile" che oggi, a differenza che nel 1937, si può affermare siano stati individuati. Così, contrariamente a quanti spesso si fanno beffe del pacifismo (giuridico), non mancano affatto le analisi che individuano gli elementi che mettono a rischio "la pace internazionale e civile" e/o che suggeriscono misure per minarne la loro potenziale minaccia dirompente (50). Tra queste misure, come si è già ricordato prendendo in esame la Carta Onu (§ 1.1.): (a) l'attuazione e la tutela sovranazionale dei diritti fondamentali, (b) l'individuazione di misure che pongano termine o almeno comincino ad operare per un riavvicinamento tra nord e sud del mondo, tra occidente e oriente; (c) una regimentazione delle forme e dei modi della globalizzazione perché non diventi l'ennesima occasione di spoliazione dei paesi più poveri della terra.

Misure, tutte, la cui realizzazione non può prescindere da una lunga e difficile operazione culturale, così come da una non meno problematica volontà politica; misure, tutte, la cui attuazione pur richiedendo un forte impegno di carattere culturale e politico non sembra, però, potere prescindere anche dal ricorso allo strumento, per quanto non sempre efficace e a volte insidioso, del diritto.

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Note

*. Da Teoria politica, 19 (2003), 1, pp. 23-41. Una prima versione di questo lavoro è stata presentata al Convegno: La cultura della guerra nel mondo contemporaneo, svoltosi a Brescia il 19 ottobre 2002. Ringrazio Ernesto Bettinelli e Gianpaolo Parodi per alcune preziose indicazioni bibliografiche.

1. Così, ad esempio, L. Gianformaggio (1992). Variazione, questa dell'assunto della guerra come negazione del diritto, dell'affermazione ciceroniana secondo la quale inter arma silent leges.

2. Così, ad esempio, negli anni sessanta, N. Bobbio (1966) e, in tempi più recenti, D. Zolo (1998, p. 143) e (2000, p. 113).

3. Così, ad esempio, F. Mégret (2002, p. 363), la traduzione è mia. Meno provocatori negli accenti, ma non per questo meno imbarazzanti per le conseguenze che se ne possono derivare, i rilievi sulla "inattualità" del termine e/o del concetto di guerra che ricorrono, ad esempio, in F. Vari (1999, pp. 120-121) e G. de Vergottini (2002, p. 20).

4. Ibidem, p. 363, la traduzione è mia.

5. E' questa la tesi kelseniana alla quale il titolo di questo lavoro si richiama e sulla quale questo lavoro si propone di offrire qualche spunto di riflessione. E' questa, com'è noto, la tesi che dà il titolo al saggio di Kelsen del 1944 Peace Through Law, ed è questa la tesi che, già a partire da Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts del 1920, fino alla seconda edizione di Reine Rechtslehre del 1960, costituirà la nota dominante e il tratto distintivo degli scritti internazionalistici di Kelsen.

6. Il riferimento è qui a quella che, con terminologia di J. Habermas (1998), è denominata "politica interna del mondo" (Weltinnerpolitik). Sull'affermazione sempre più evidente e prepotente di una politica interna del mondo, accanto e oltre alle consuete forme della politica interna e della politica estera dei singoli stati nazionali, cfr., ad esempio, L. Bonanate (2001), L. Ferrajoli (2001), (2002 b) e A. Gambino (2001, pp. 29-32).

7. Cfr., in particolare, N. Bobbio (1987) e (1990).

8. Cfr., ad esempio, D. Zolo (1995, p. 120).

9. Cfr. L. Bonanate (1999, p. 91). Quella proposta nel testo, in realtà, è una riformulazione della nozione forse non del tutto equivalente a quella originariamente proposta da Bonanate. Nella caratterizzazione che ne offre Bonanate, il jus ante bellum è, infatti, la dimensione altra e diversa sia dal jus ad bellum, sia dal jus in bello che consente di "conoscere e valutare [...] le modalità che alla guerra hanno condotto". E ancora, secondo Bonanate "rifarsi a un jus ante bellum significa [...] richiamare la nostra attenzione morale sul fatto che una politica può continuativamente svilupparsi in modo tutto interno a un progetto bellico (anche se può succedere anche il contrario)", corsivo dell'autore.

10. In particolare, per quanto riguarda il diritto internazionale, J. Gardam (1999, p. xiii) ricorda che: "nel 1949, l'International Law Commission giunse alla conclusione che il diritto di guerra (law of war) non dovesse essere argomento di codificazione, perché l'opinione pubblica avrebbe potuto interpretare un gesto simile come mancanza di fiducia nell'efficacia dei mezzi a disposizione delle Nazioni Unite per il mantenimento della pace", traduzione mia.

11. Sull'importanza dell'attuazione del diritto allo sviluppo, come diritto degli individui e come diritto dei popoli, cfr. U. Villani (1999 a). Difficile, in particolare, non condividerne l'affermazione secondo la quale: "lo stato di sottosviluppo di gran parte dell'umanità rappresenta una costante minaccia per la pace e la sicurezza internazionale, sotto forma di emigrazione massiccia, instabilità politica, terrorismo, criminalità internazionale". Non dissimili le valutazioni proposte, ad esempio, da L. Ferrajoli e S. Senese (1992), L. Ferrajoli (2001) e S. Senese (2002, pp. 478-480).

12. Entrata ufficialmente in funzione il primo luglio 2002, la Corte Penale Internazionale ha davanti a sé un futuro quanto mai incerto. Futuro incerto, in primo luogo, perché il Trattato di Roma del 1998 con il quale la Corte veniva finalmente istituita -della necessità di una corte penale internazionale parlava già H. Kelsen (1944)- è stato sì firmato da 120 stati, ma, al primo luglio del 2002, ratificato solo da 74 stati dei quali non fanno parte né la Cina, né la Federazione Russa, né Israele, né gli Stati Uniti. E ancora, futuro incerto anche e soprattutto per l'aperta ostilità proprio degli Stati Uniti. Significativamente, infatti, lo stesso giorno della sua effettiva entrata in funzione, gli Stati Uniti hanno minacciato il proprio veto alla prosecuzione dell'azione di peace-keeping in Bosnia nel caso in cui i propri soldati non fossero stati sottratti alla giurisdizione della Corte. Scandaloso, nel giudizio di Amnesty International, l'accordo di compromesso raggiunto due settimane dopo, per scongiurare il boicottaggio di questa e di future azioni di peace-keeping; l'accordo, cioè, in base al quale il Consiglio di Sicurezza dell'Onu decideva che i soldati statunitensi (così come quelli di tutti i paesi impegnati in operazioni di peace-keeping) fossero esentati dalla giurisdizione della Corte per un anno. Esenzione, per altro, rinnovabile alla sua scadenza.

13. Su questo punto, cfr., ad esempio, L. Ferrajoli (1999, pp. 123-125), (2002 b, pp. 23-24) e V. Onida (1999, pp. 959-961).

14. Non a caso, Chr. Greenwood (1983, p. 222), dopo aver indicato nell'art. 2 comma quarto e nell'art. 51 i due articoli della Carta Onu in relazione ai quali individuare e definire il jus ad bellum del secondo dopoguerra, sottolinea che: "L'esatto significato di queste disposizioni non è esente da dubbi e [che] oggetto di un gan dibattito è stato, in particolare, la caratterizzazione della legittima difesa", traduzione mia.

15. Sui tratti innovativi del diritto internazionale, a partire dalla conclusione del secondo conflitto mondiale, cfr., ad esempio, U. Villani (1998) e A. Cassese (2001 a).

16. Con argomentazione simile a quella proposta nel testo anche G.U. Rescigno (1999, p. 377) fa notare che l'art. 11 "per quel che dice [...] non si limita a giustificare la guerra difensiva, di cui anzi non parla. La legittimità secondo Costituzione della guerra difensiva si ricava da un lato dall'art. 11 per ragionamento [...], dall'altro si ricava dagli articoli 52 ("La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino"), dall'art. 78 ("Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al Governo i poteri necessari") e dall'art. 87 ("Il Presidente della Repubblica [...] dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere"). Ma la lettera dell'art. 11 dice un'altra cosa: "L'Italia ripudia la guerra [...] come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali". "Ripudia" a mio parere vuol dire che anche un sostegno politico ed economico o di altro genere ad una guerra non difensiva fatta da altri Stati nei confronti di Stati è incostituzionale".

17. Così, ad esempio, secondo la ricostruzione della ratio e del contenuto della seconda parte della formulazione dell'art. 11 proposta da A. Cassese (1975, pp. 579-581): "Questa disposizione è giustificata dagli stessi motivi che sono alla base della disposizione sul ripudio della guerra: affermare l'esigenza della cooperazione pacifica tra Stati e in particolare dell'instaurazione di un assetto internazionale a carattere democratico". E ancora, come segnala U. Allegretti (1991, c. 392): "che la seconda proposizione "non attenua ma conferma il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali"" è quanto, autorevolmente, afferma G. Dossetti, relatore alla Costituente, nell'intervista apparsa l'11 febbraio 1991 sul quotidiano Il Corriere della sera. Infine, nonostante, se non addirittura in ragione, dei reiterati interventi dell'Italia nei conflitti armati che si sono succeduti dopo il 1989, questa lettura della seconda parte dell'art. 11 è stata ribadita, ad esempio, da U. Allegretti (1991, c. 392), L. Carlassare (1999, pp. 26-27), F. Vari (1999, pp. 121-123), G. De Fiores (2002 a, pp. 89-91) e (2002 b, pp. 26-27), L. Ferrajoli (2002 b, p. 25), F. Rigano (2002, p. 35).

18. Che la seconda parte della formulazione dell'art. 11 possa essere letta (anche) come una deroga al ripudio della guerra sancito nella sua prima parte è stato suggerito, forse per la prima volta, da G. Andreotti, in veste di presidente del consiglio, in relazione alla partecipazione italiana, nel 1991, alla Guerra del Golfo. Come rileva E. Bettinelli (1991, c. 375), da cui sono tratte le citazioni dai Resoconti delle sedute del 16 gennaio 1991 della camera dei deputati (n. 574) e del senato (nn. 476-477), Andreotti, dopo aver illustrato la risoluzione 678 del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, passando ad esaminare il contesto costituzionale italiano, ha infatti sostenuto che quella in cui ci si trovava non era "l'ipotesi di guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, che l'Italia ripudia con l'art. 11 della Costituzione", e ha precisato che: "La decisione di concorrere [...] all'azione militare nel Golfo [...] si ispira alla previsione della seconda parte dell'art. 11 in virtù della quale l'Italia "favorisce le organizzazioni internazionali", la cui azione tende ad assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni". Un'argomentazione analoga è stata ripetuta, in occasione della partecipazione dell'Italia alla guerra del Kosovo, ad esempio da G. de Vergottini (1999, p. 124): "L'uso della forza armata con motivazioni umanitarie, che consentirebbe di individuare una ipotesi di "guerra giusta", anche a prescindere dalla esigenza di difendersi o di difendere da una aggressione, può ridursi o a quella parte dell'art. 11 che prevede la partecipazione dell'Italia a organizzazioni internazionali finalizzate alla protezione della pace e della giustizia o allo stesso art. 10". Interpretazione, questa della seconda parte della formulazione dell'art. 11 che, recentemente, nell'ambito di un'analisi delle conseguenze dell'attacco terroristico dell'11 settembre sul diritto pubblico (inter)nazionale, G. de Vergottini (2002, pp. 27-28) ha riproposto in termini ancora più perentori: "La garanzia del controllo parlamentare nulla può [...] sulla scelta di fondo relativa alla attivazione delle clausole dell'Alleanza, una volta accettato dal Parlamento il trattato Nato. Dal punto di vista pratico si riscontra infatti una sorta di automatismo di intervento, conseguenza della prassi interpretativa dell'elasticissimo art. 11, per cui trattati finalizzati al perseguimento della pace finiscono per essere attivabili anche se implicano l'uso della forza o addirittura la guerra". In dichiarato contrasto con questa interpretazione, F. Vari (1999, pp. 123-124) afferma: "Se l'Italia, nel quadro di qualsiasi organizzazione internazionale che assicuri pace e giustizia fra le Nazioni, potesse esercitare lo ius ad bellum per scopi diversi dalla legittima difesa, anche in relazione ad alleanze che creino tali condizioni tra i contraenti, ma siano caratterizzate da tendenze offensive nei confronti degli Stati terzi, il limite posto dalla prima parte dell'art. 11, con il connesso principio pacifista, sarebbe destinato a non trovare applicazione, sì da essere del tutto svuotato di significato. Tale ragionamento vale a maggior ragione quando il contesto di riferimento è costituito da un'organizzazione quale la Nato".

19. La stretta connessione e la decisiva interazione, nella costituzione italiana, fra istanza pacifista e istanza internazionalistica sono segnalate, ad esempio, da A. Cassese (1975). In particolare, dei dibattiti svoltisi in seno all'Assemblea costituente, Cassese individua come "direttrici essenziali che rappresentano i punti nodali sui quali si creò un ampio consenso tra i maggiori partiti, e che vennero poi tradotti in norme costituzionali: l'esigenza della massima apertura del nostro Stato verso la comunità internazionale; il pacifismo; l'esigenza di proiettare anche sul piano internazionale i valori di libertà e democrazia che si volevano proclamare e salvaguardare nella vita interna dello stato; il solidarismo internazionale; l'istanza "garantista", ossia la necessità di assicurare che certi momenti salienti della politica estera del nostro stato venissero "controllati" dal Parlamento" (p. 463), corsivo dell'autore.

20. Così, ad esempio, A. Cassese (1975, p. 568), U. Allegretti (1991, c. 389), E. Bettinelli (1991, c. 377), (1992), U. Rescigno (1999), C. De Fiores (2002 a, p. 91) e (2002 b, p. 28).

21. Così, E. Bettinelli (1992, p. 73), corsivo dell'autore.

22. Idem (1991, c. 377), corsivo dell'autore. E ancora, sempre con riferimento alla genesi dell'art. 52, Idem (1992, pp. 71-72) scrive: "La preoccupazione assolutamente prevalente era l'inequivocabile dimostrazione della "vocazione" pacifista del Paese, solennemente irrigidita nel principio fondamentale in virtù del quale "l'Italia ripudia la guerra [...]"". In (parziale) contrasto con questi rilievi di Bettinelli, rassicuranti e convincenti a un tempo, è però la letteratura sull'individuazione e definizione delle condizioni alle quali, tenuto conto di quanto disposto dagli artt. 11, 10 e 52, una guerra possa considerarsi giuridicamente legittima. Della letteratura precedente il 1989, cfr., in particolare, A. Cassese (1975, pp. 568-575) e (1978); della letteratura successiva al 1989, cfr., ad esempio, G. de Vergottini (2002, pp. 32-34).

23. La scelta del verbo ripudiare, nella formulazione dell'art. 11 non fu affatto casuale. Come ricorda infatti A. Cassese (1975, p. 567): "Il termine "ripudia" venne preferito a quelli "rinuncia" e "condanna" usato in precedenti proposte perché, come disse in Assemblea Ruini, Presidente della Commissione dei 75, la "Commissione ha ritenuto che, mentre "condanna" ha un valore etico più che politico-giuridico, e "rinunzia" presuppone, in certo modo, la rinunzia a un bene, ad un diritto, il diritto della guerra (che vogliamo appunto contestare), la parola "ripudia" [...] ha un significato intermedio, ha un accento energico ed implica così la condanna come la rinunzia alla guerra"".

24. Questa grave lacuna nella carta di Nizza è stata denunciata, ad esempio, da D. Zolo (2001). Denuncia interessante da segnalare nonostante, o forse proprio in ragione, dell'atteggiamento critico che Zolo ha sia nei confronti di quella che in (2002 b, p. 68) stigmatizza come "una vera e propria inflazione delle Carte dei diritti", sia, in generale, nei confronti di ogni forma di "globalismo giuridico", così come, ad esempio, in (1995) e (1998).

25. H. Kelsen (1920, trad. it. p. 390). La rivendicazione kelseniana, non dell'affermazione della teoria della guerra giusta (come più volte gli è stato rimproverato), ma della necessità di ricorrere al diritto per disporre (anche) di criteri per decidere dell'(il)legittimità del ricorso alla guerra, è stata riproposta da N. Bobbio (1991, pp. 55-56) per replicare alle critiche di cui era stata oggetto la propria posizione riguardo alla guerra del Golfo. In particolare, secondo Bobbio: "contrariamente a quello che sembrano credere i miei critici, l'effetto dell'abbandono della dottrina della guerra giusta non fu il principio: "Tutte le guerre sono ingiuste", ma esattamente il principio opposto: "tutte le guerre sono giuste". Il jus ad bellum, cioè il diritto di fare la guerra, fu considerato una prerogativa del potere sovrano. [...] Solo alla fine della prima guerra europea, che apre la strada a un tentativo di rafforzamento del sistema del diritto fra gli Stati con quell'embrione di organizzazione internazionale che fu la Società delle Nazioni, si ricominciò a discutere intorno al problema della liceità della guerra, e alla necessità di distinguere guerre giuste da guerre ingiuste, vale a dire tra la forza usata per violare il diritto e la forza usata come sanzione". Sui dubbi di etichettare Kelsen come teorico della guerra giusta rinvio ad un mio lavoro in corso d'edizione: Kelsen teorico della guerra giusta?

26. L'espressione è di Pietro Ingrao. Usata più volte, in occasioni diverse, questa espressione è stata ripresa da Ingrao anche nella lezione tenuta in occasione della laurea honoris causa conferitagli dall'Università di Barcellona. Il testo della lezione è apparso su "il Manifesto" del 5 ottobre 2002.

27. L'espressione è di D. Zolo (2000, p. 89).

28. Cfr., ad esempio, G. de Vergottini (2002, p. 21): "la guerra da regime del tutto innaturale a un ordinamento che dia la precedenza indiscussa al valore costituzionale della pace si avvia a divenire un regime accettabile e compatibile con gli altri valori fondanti dello stato liberaldemocratico. Da questo momento non ci sarà più bisogno di limitare la guerra ai casi in cui si ritenga di individuare i presupposti di una ingerenza umanitaria, come fatto in un recente passato in particolare per l'intervento in Kosovo, ma sarà possibile e lecito intraprendere una guerra a tempo indeterminato contro soggetti che praticano il terrorismo. Non solo, ma sarà addirittura possibile intraprendere guerre in via preventiva come ha già dichiarato il presidente americano. Se questo indirizzo si consoliderà muterà profondamente il diritto internazionale [...]. Ma muterà anche il diritto costituzionale" (corsivo dell'autore). Imbarazzante come la violazione del diritto (inter)nazionale sia "semplicemente" segnalata come dato della sua trasformazione. Difficile non commentare anche questa volta (lo si ricorda di seguito anche nel testo), come già avevano fatto Danilo Zolo e Norberto Bobbio a proposito della guerra del Kosovo: ex injuria oritur jus.

29. Del ruolo fondante e costitutivo attribuito al diritto alla pace tanto dalla Carta Onu quanto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, si è già detto prima nel testo (§ 1.1.). Non meno fondante e costitutivo, però, almeno formalmente, il ruolo riconosciuto al diritto alla pace dal Trattato Nato, là dove l'incipit del suo preambolo dichiara che gli "Stati Parti" riaffermano "la loro fede nei fini e nei principi della Carta delle Nazioni Unite e il loro desiderio di vivere in pace con tutti i popoli e tutti i governi".

30. Rileva puntualmente L. Ferrajoli (1999, p. 117): "La guerra del Golfo [...] aveva preteso di legittimarsi in nome del diritto: come sanzione e riparazione, autorizzate dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dell'invasione di uno Stato sovrano da parte dell'Iraq. Si tratta è vero di una debole copertura giuridica, dato che l'Onu non può autorizzare la guerra ma solo un uso controllato della forza nelle forme previste dal capo VII del suo Statuto. Per quanto discutibile e da molti ritenuta infondata, tuttavia, quella copertura aveva pur sempre una base giuridica: era un omaggio al primato dell'Onu ed al ruolo normativo del diritto internazionale nato dalle rovine delle guerre mondiali".

31. Per quanto in prospettive non coincidenti e con argomenti non sempre equivalenti, questo "tratto" della guerra al terrorismo internazionale è segnalato, ad esempio, da A. Cassese (2001 b), L. Ferrajoli (2001), G. de Vergottini (2002, pp. 24-25).

32. Ad essere ovvio e incontestabile è che la fine della guerra fredda e la dissoluzione dell'Unione Sovietica non potevano che rimettere in discussione ruolo e funzioni tanto della Nato quanto del Patto di Varsavia. Per nulla ovvie e incontestabili, invece, né la decisione della Nato di continuare ad operare, né, tanto meno, l'individuazione e la definizione delle forme e dei modi in cui farlo. Tanto poco ovvie e incontestabili che le forme e i modi prospettati nella London Declaration del 1990, quelli indicati poi nel 1999 sia in An Alliance for the 21st Century sia in the Alliance's Strategic Concept, e, da ultimo, quelli delineati nella Prague Summit Declaration del 21 novembre 2002, sono andati progressivamente trasformandosi dall'iniziale esigenza di affermare le ragioni per continuare ad esistere, ad una sempre più aperta e perentoria rivendicazione di un proprio ruolo attivo anche nel caso di "crisi non previste dall'art. 5", anche nel caso in cui, cioè, contrariamente a quanto previsto dall'art. 5, non dovesse essere la legittima difesa di un paese dell'alleanza a giustificare un suo possibile intervento. Una ricostruzione, critica e manifestamente allarmata, delle tappe che hanno segnato le successive trasformazioni del ruolo e delle funzioni della Nato a partire dal 1990 è delineata, ad esempio, da L. Ferrajoli (1999, pp. 126-128), I. Mortellaro (1999, in particolare alle pp. 131-139), (2002), F. Rigano (2002, pp. 34-35) e D. Zolo (2002 a). Meno preoccupata, invece, la lettura propostane, ad esempio, da M. Clementi (2002, pp. 83-128).

33. Cfr., ad esempio, G. de Vergottini (1999, p. 125): "Per l'Italia il problema più immediato è quello della consapevolezza di far parte di un'alleanza sorta in passato a fini difensivi nei confronti dell'aggressività del blocco orientale, che oggi si sta dando il ruolo di garante della stabilità europea anche ricorrendo a guerre aggressive (pur se l'aggressione è fatta a fini "giusti" e rispondendo alle esigenze dell'intervento umanitario)".

34. Cfr., ad esempio, Idem (1999), A. Cassese (1999 a) e poi, in parziale rettifica delle tesi espresse in questo articolo, (1999 b). Tra le critiche più severe a questo tentativo di legittimazione della guerra del Kosovo, quella di D. Zolo (2000). Critico, inoltre, l'atteggiamento anche di F. Vari (1999, pp. 125-128) e, più recentemente, di P. Hilpold (2001).

35. Cfr. D. Zolo (1999) e N. Bobbio (1999).

36. Come segnala J. Gardam (1999, p. xi): "L'espressione diritto internazionale umanitario [...] è stata diffusamente adottata su sollecitazione del Comitato Internazionale della Croce Rossa [...]. Questa scelta del nome fa parte di una strategia intenzionale volta ad espandere il campo d'azione delle norme e di modificarne l'equilibrio, del quale esse sono espressione, fra le richieste delle esigenze militari e le considerazioni umanitarie, in favore di queste ultime".

37. Diversi, almeno in parte, i termini nei quali è posto il problema del rapporto e della stessa ragion d'essere della distinzione fra jus ad bellum e jus in bello da Chr. Greenwood (1983, p. 231), che scrive: "Non si dà alcuna violazione del diritto internazionale solo se l'uso della forza è un atto di legittima difesa e la modalità della sua esecuzione è nei limiti del jus in bello. Questa concezione corrente del jus ad bellum e del jus in bello pone il quesito se queste due branche del diritto internazionale possano ancora considerarsi distinte l'una dall'altra", traduzione mia. Termini almeno in parte diversi in ragione dei diversi quesiti presi in esame, non ultimo quello relativo all'applicabilità del jus in bello anche nei confronti di chi subisca una guerra legittima secondo i criteri del jus ad bellum. Su questo quesito cfr. anche J. Gardam (1999, p. xiv).

38. Principi, quello di proporzionalità e di discriminazione, di carattere più etico che non strettamente giuridico, come a ragione puntualizza Danilo Zolo. Nondimeno, sono questi i due principi che ispirano e informano Patti, Convenzioni e Trattati di diritto internazionale sulla (il)liceità dei comportamenti in una guerra e per una guerra; sono questi, cioè, i due principi sui quali si fondano tanto le norme che definiscono le forme lecite di combattimento e che individuano quali siano le armi legittime (il cosiddetto "Law of the Hague"), quanto le norme che disciplinano le modalità di trattamento delle vittime di guerra (il cosiddetto "Law of Geneva"). Sulla distinzione fra "Law of the Hague" e "Law of Geneva" e per una ricognizione dei principali momenti dell'uno e dell'altro, cfr., ad esempio, J. Gardam (1999, p. xi).

39. G. Pontara (1996, p. 42). Meno netta, forse, la posizione di M. Walzer (1977, trad.it., p. 39) che, nondimeno, riconosce: "Lo jus ad bellum rinvia a concetti quali aggressione e autodifesa; lo jus in bello all'osservanza o alla violazione delle norme consuetudinarie e positive del combattimento. I due tipi di giudizio sono tra loro logicamente indipendenti [...]. Eppure tale indipendenza [...] crea perplessità [...]. Il dualismo jus ad bellum / jus in bello incarna quanto di maggiormente problematico vi sia all'interno della realtà morale della guerra".

40. Sulle inadempienze del Tribunale penale per la ex Jugoslavia riguardo ai comportamenti della Nato nel corso della guerra del Kosovo, cfr., in particolare, le critiche, severe e puntuali, di D. Zolo (2000, pp. 139-146).

41. Sulla vasta gamma di "errori tecnici" e di "effetti collaterali" che hanno scandito la guerra del Kosovo, cfr., ad esempio, L. Ferrajoli (1999, p. 120), U. Villani (1999 b, p. 35) e (2002, p. 216).

42. Significativa, come sottolinea ad esempio C. Pinelli (1999, p. 78), la crescita esponenziale, dalla prima guerra mondiale a oggi, delle vittime civili: "L'ottanta per cento dei caduti nella prima guerra mondiale furono uomini in uniforme, nella seconda guerra mondiale la percentuale scese al cinquanta per cento, e nelle guerre successive al venti per cento. Su trenta milioni di morti nel corso di conflitti verificatisi dopo il 1945, l'ottanta per cento sono stati dunque civili, soprattutto donne e bambini".

43. Non di inefficacia e/o di violazione, ma, con scelta terminologica singolare, di "smentita" dei principi (sovra)nazionali relativi al ripudio della guerra e al mantenimento della pace, parla G. de Vergottini (2002, pp. 19-20): "Per anni accordi internazionali e testi costituzionali hanno impresso un impulso riduttivo al fenomeno bellico tentando di confinare le ipotesi di guerra lecita ai soli casi di reazione difensiva di fronte ad aggressioni [...]. Tale indirizzo è stato sistematicamente smentito", corsivo mio. Non meno singolare, anche se più enfatico nella sua formulazione, il commento di S. Sicardi (1999, p. 105) relativo alla reiterata violazione degli articoli della costituzione italiana espressione di una manifesta opzione pacifista: "Una lettura [...] esigente della prima clausola dell'art. 11 della Cost. [...] (e del suo collegamento con il successivo art. 78) è stata [...] sottoposta ad un costante "stress di logoramento" a seguito delle "dure repliche" della realtà".

44. Così, ad esempio, l'allora presidente del consiglio G. Andreotti che, come si è già ricordato alla nota 18, ritenendo che la partecipazione italiana "all'azione militare del Golfo" si ispirasse "alla previsione della seconda parte dell'art. 11", ha sostenuto che "Una partecipazione con gli alleati alle azioni del Golfo è conforme alla lettera e allo spirito dell'art. 11 e non comporta, quindi, il ricorso all'art. 78 della Costituzione stessa che prevede la deliberazione da parte delle camere dello stato di guerra". Le citazioni che precedono sono tratte dai Resoconti delle sedute del 16 gennaio 1991 della camera dei deputati (n. 574) e del senato (nn. 476-477), e sono riprese da E. Bettinelli (1991, c. 375).

45. Di questo paralogismo rende conto F. Rigano (2002, p. 50), là dove, in relazione ai diversi conflitti ai quali l'Italia ha preso parte nell'ultimo decennio, registra: "Nella prassi il Parlamento sembra aver aderito all'opinione che i conflitti armati internazionali, cui sin qui ha partecipato l'Italia, non siano guerre, poiché ha adottato (mai dichiarazioni ex art. 78, bensì) atti d'indirizzo -risoluzioni, mozioni- che hanno avallato le decisioni del Governo di ordinare la partecipazione dei militari, spesso dopo che l'iniziativa militare già era stata intrapresa".

46. In aperto contrasto con questa ricostruzione, è quella offerta da L. Ferrajoli (1999, pp. 119-120) che, proprio in ragione della partecipazione italiana alla guerra del Kosovo, ha denunciato non solo la violazione dell'art. 11, ma anche quella, non meno grave, degli artt. 78 e 87 comma nono. Violazione, quest'ultima, non meno rilevante di quella dello stesso art. 11 perché, come rileva E. Bettinelli (1991, c. 378): "il valore del "pregiudiziale" pacifismo e il ripudio della guerra cui si informa la Costituzione si esprimono anche nella consapevole complessità procedurale" predisposta per il caso di una loro possibile deroga (il corsivo nella citazione è dell'autore).

47. E' significativa, al riguardo, e nient'affatto fortuita, la posizione di chi, come ad esempio Danilo Zolo, non risparmia critiche né al globalismo giuridico di matrice kantiana e kelseniana, né a qualsiasi rivendicazione dell'obbligatorietà del diritto internazionale, ma, al tempo stesso, stigmatizza, con forza e veemenza, la patente violazione del diritto internazionale che si è avuta con i conflitti dell'ultimo decennio: dalla guerra del Golfo a quelle in Kosovo e in Afganistan, a quella minacciata, ancora una volta, contro l'Iraq.

48. Esemplare, anche perché non priva di accenti manifestamente (auto)critici, la caratterizzazione che di "realismo politico" offre P.P. Portinaro (1999, p. 3): "il realismo è un costrutto polemico, che si vorrebbe antidoto a ogni utopia, a ogni ideologia, a ogni pratica giacobina di assolutizzazione dei valori, nonché al dispotismo mite del wishful thinking. Il suo strale è prevalentemente indirizzato verso gli illusi, gli ingenui, i sognatori, le "anime belle" della politica; ma può colpire anche gli attivi e miopi faccendieri dello "scambio politico". Esso è un'arma irrinunciabile contro coloro che praticano deliberatamente la falsificazione e contro coloro che cedono, per comodità e quieto vivere, alle lusinghe dell'autoinganno, finendo così, immancabilmente, per ingannare. Ma è altresì uno strumento duttile nelle mani dei cinici che in difesa del proprio "particolare" ricorrono con falsa coscienza all'apologia dell'esistente e in nome del realismo propagandano le più diverse miscele di pregiudizio e interesse".

49. S. Weil (1937, trad. it., p. 73).

50. Cfr., ad esempio, L. Ferrajoli e S. Senese (1992), e, più di recente, L. Ferrajoli (2001) e (2002 a).