2005

Un dialogo su teoria del diritto e ordine globale (*)

Norberto Bobbio, Danilo Zolo

1. L'incontro con Kelsen

D.Z. Il tuo incontro con Kelsen è stato decisivo per la tua formazione di teorico del diritto. Mi pare che tu abbia conosciuto Kelsen anche personalmente, a Parigi.

N.B. È vero, ho incontrato Kelsen a Parigi nel 1957. L'occasione fu un seminario internazionale organizzato dall'Institut International de Philosophie Politique, presso la Fondation Thiers. Il tema del 1957 era Le droit naturel. Ricordo che nell'incontro di Parigi Kelsen dimostrò di apprezzare gli argomenti della mia relazione sul diritto naturale. E ricordo che nella sua Allgemeine Theorie der Normen, nella edizione viennese del 1979, ci sono osservazioni a proposito di un testo che avevo scritto prima dell'incontro di Parigi e cioè 'Considérations introductives sur le raisonnement des juristes', apparso sulla Revue internationale de Philosophie nel 1954.

D.Z. Tu sei considerato l'autentico importatore del kelsenismo in Italia...

N.B. In realtà lo è stato Renato Treves, che già nel 1934 aveva pubblicato un volume, Il diritto come relazione, largamente dedicato a Kelsen. Invece il mio kelsenismo, per cui oggi sono considerato il maggiore responsabile della 'kelsenite' italiana, iniziò qualche anno più tardi. Nel periodo del mio apprendistato Kelsen, che aveva già dato alle stampe due opere importanti, gli Hauptprobleme der Staatsrechtslehre, del 1911, e Das Problem der Souveränität, del 1920, aveva appena iniziato ad essere conosciuto in Italia. Nel 1934 pubblicai L'indirizzo fenomenologico nella filosofia sociale e giuridica. In questo libro, che non era ovviamente dedicato a Kelsen, mi ero tuttavia riferito più volte alle sue tesi. Mi ero occupato sia delle critiche rivolte da Kelsen alla teoria dello stato di Rudolf Smend, sia della polemica antikelseniana dell'ex-allievo Fritz Sander (che scomparve qualche anno dopo). Nel 1934, nel saggio 'Aspetti odierni della filosofia giuridica in Germania', avevo inoltre analizzato l'opera di due allievi di Kelsen, Felix Kaufmann e Fritz Schreier, che avevano tentato di conciliare il criticismo della scuola di Marburgo con la fenomenologia.

D.Z. È vero che tu avevi già letto e discusso alcune opere di Kelsen sin dai primi anni trenta. Eppure il tuo incontro decisivo con l'opera di Kelsen non sembra risalire molto indietro rispetto ai primi anni cinquanta. Tu stesso, in un tuo scritto recente, parli di 'conversione' dopo una fase piuttosto critica nei confronti di Kelsen.

N.B. Il mio primo scritto direttamente dedicato a Kelsen, 'La teoria pura del diritto e i suoi critici', è apparso sulla Rivista trimestrale di diritto e procedura civile vent'anni dopo i miei esordi filosofico-giuridici, e cioè nel 1954. Ma la mia 'conversione' al kelsenismo, per usare ancora questa espressione, era avvenuta anni prima. Nelle mie lezioni padovane del 1940-41 c'era un paragrafo sulla costruzione a gradi dell'ordinamento giuridico: il riferimento era al celebre Stufenbau di Kelsen che mi aveva sin da allora affascinato. E posso aggiungere che già nei corsi di filosofia del diritto che tenni nell'Università di Camerino nella seconda metà degli anni trenta lo schema delle mie lezioni si divideva in tre parti: le fonti del diritto, la norma giuridica e l'ordinamento giuridico. E questo schema risentiva direttamente delle mie letture kelseniane. In realtà la mia 'conversione' a Kelsen coincise con la rottura violenta col passato avvenuta nella storia del nostro paese tra la seconda metà degli anni trenta e i primi anni quaranta. A quella frattura storica ha corrisposto una discontinuità anche nella mia vita intellettuale, sia privata che pubblica.

D.Z. La tua adesione al kelsenismo rientra dunque nella cornice generale di una rivolta contro la filosofia speculativa e in particolare contro l'idealismo?

N.B. Direi di si. Mentre si stava profilando il fallimento del fascismo, ci rendemmo conto che la filosofia speculativa ci aveva offerto ben poco aiuto per comprendere quello che era avvenuto in Europa e nel mondo nel corso della guerra mondiale. Occorreva ripartire da capo, affrontando studi di economia, di diritto, di sociologia, di storia. Abbandonata la filosofia speculativa per la 'filosofia positiva' -- secondo la lezione di Carlo Cattaneo -- capii che la filosofia del diritto non poteva che risolversi nella teoria generale del diritto. Quindi, una volta concepita la teoria generale del diritto come teoria formale, finii per trovarmi a tu per tu con Kelsen e la sua reine Rechtslehre. E fui spinto a prendere le difese di Kelsen contro i suoi detrattori, che allora erano numerosi in Italia, sia tra i sociologi che tra i giusnaturalisti e i marxisti. E ruppi i ponti con le genericità idealistiche della filosofia del diritto italiana, che allora si concentrava, nella scia di Croce e di Gentile, su temi come quello del 'posto' che doveva essere assegnato al diritto nell'ambito delle scienze dello spirito. I miei saggi 'La teoria pura del diritto e i suoi critici', che prima ho citato, e 'Formalismo giuridico e formalismo etico', apparso sulla Rivista di filosofia nel luglio del 1954, dettero, per così dire, un suggello pubblico al mio kelsenismo, che però risaliva a numerosi anni prima. Con una battuta, potrei dirti che da noi Kelsen era di casa e lo era sin dagli anni trenta. Fin dal 1932, come vedi, mi ero fatto arrivare gli Hauptprobleme der Staatsrechtslehre [Bobbio mostra il volume dell'edizione originale, da lui fittamente annotato, che reca la data scritta a mano: febbraio 1932].

2. Il modello kelseniano

D.Z. Tu hai dichiarato che Kelsen è sempre stato, nel campo della teoria del diritto, il tuo autore princeps. Hai del resto riconosciuto che i due corsi di filosofia del diritto che hai tenuto a Torino nel 1957-58 e nel 1959-60 (Teoria della norma giuridica e Teoria dell'ordinamento giuridico) erano molto direttamente ispirati a Kelsen. Questi corsi sono divenuti per te e per molti altri docenti italiani, e non solo italiani, una sorta di modello teorico.

N.B. Si, è vero. Il mio contributo alla fortuna di Kelsen in Italia si deve essenzialmente al mio insegnamento universitario. Kelsen è divenuto per me l'autore princeps per una ragione molto semplice: io pensavo che in una facoltà di giurisprudenza l'insegnamento della filosofia del diritto dovesse coincidere con la 'teoria generale del diritto' o, come allora dissi, con la filosofia del diritto 'dei giuristi' e non con quella 'dei filosofi'. E la monumentale opera kelseniana mi offriva esattamente il modello di cui avevo bisogno: una teoria generale del diritto rigorosa, sistematica e di una chiarezza esemplare, dote questa piuttosto rara anche fra i giuristi tedeschi. Ed era anche una proposta teorica molto originale, che non aveva nulla da spartire con le elucubrazioni speculative dell'idealismo italiano, allora ben presente anche nell'insegnamento della filosofia del diritto (del resto non si può dire che questa tradizione di vaghezza e di oscurità speculativa sia del tutto superata neppure oggi entro le nostre discipline teorico-giuridiche). Kelsen era il solo autore ad offrire una netta alternativa teorica. Poi, qualche anno dopo, emerse anche la figura di Herbert Hart, con il quale ho avuto rapporti personali ed intellettuali ben più stretti che con Kelsen. Hart era inglese, ma la sua ricerca teorica era molto legata alla cultura giuridica tedesca e sostanzialmente sviluppava la riflessione kelseniana. Questo spiega perché le mie lezioni di filosofia del diritto, in particolare i miei corsi di teoria generale del diritto, non potevano non risentire fortemente dell'influenza di Kelsen, in particolare di una delle sue opere più importanti, la Reine Rechtslehre, che io usai nella sua prima edizione del 1934. E non va dimenticato che cominciai a tenere corsi di filosofia del diritto, nell'Università di Camerino, esattamente nell'inverno del 1935, e dunque quasi in coincidenza con la pubblicazione di questa fondamentale opera di Kelsen. Kelsen era e non poteva non essere naturaliter l'ispiratore della mia attività di giovane docente di filosofia del diritto (non avevo ancora trent'anni). Persino l'articolazione dei miei due corsi torinesi che hai citato riproduce una fondamentale distinzione proposta da Kelsen: quella fra la teoria delle norme (singole) e la teoria dell'ordinamento come insieme strutturato di norme. Non ho bisogno di aggiungere che la tesi, che allora sostenni, secondo cui ciò che identifica il diritto non è il carattere delle sue norme ma la struttura del suo ordinamento, era implicita nella distinzione, proposta da Kelsen, tra il sistema 'statico', proprio della morale, e il sistema 'dinamico' del diritto. Questa distinzione, come è noto, diventerà centrale nel pensiero di Hart che parlerà di norme primarie e di norme secondarie, includendo fra quest'ultime le norme sulla produzione giuridica. Dico questo anche se è vero che la tesi centrale ed unificante di quei due miei corsi, quella secondo cui la definizione del diritto non deve essere cercata nei caratteri distintivi della norma giuridica ma in quelli dell'ordinamento giuridico, risente molto anche della dottrina italiana dell'istituzione.

D.Z. Ricordo tuttavia che tu hai parlato di 'eccessivo kelsenismo' a proposito dei tuoi corsi universitari. E dunque il tuo kelsenismo non è mai stato senza riserve, a partire dal tuo saggio del 1954, che, sebbene scritto per difendere Kelsen dai suoi detrattori italiani, non mancava di spunti critici. In quel saggio accennavi alla irrazionalità dei valori come al punctum dolens della teoria kelseniana e ti riferivi al rapporto fra teoria pura del diritto e sociologia del diritto come ad un'altra possibile aporia del normativismo kelseniano. E in uno scritto successivo hai indicato come un limite generale dell'opera di Kelsen la sua scarsa attenzione al problema della funzione del diritto, che egli aveva sacrificato a favore di un'analisi puramente strutturale.

N.B. È vero. Ma ciò che mi aveva attratto nella teoria di Kelsen era la concezione dell'ordinamento giuridico nella forma 'gerarchica' (normativamente gerarchica, ovviamente, non politicamente) dello Stufenbau. La sua costruzione a gradi introduceva un ordine essenziale nei rapporti fra le norme giuridiche, dalle norme contrattuali dell'autonomia privata alla giurisdizione, alla legislazione su su fino alla Costituzione. Certo, resta il delicato problema della Grundnorm, della norma fondamentale, che è una soluzione che continua a suscitare dubbi e ad alimentare discussioni teoriche. Io dico tuttavia che la norma fondamentale è in Kelsen una sorta di chiusura 'logica' del suo sistema...

D.Z. Ma non sei stato proprio tu a mostrarci che in pratica nessun sistema di pensiero può essere chiuso, tanto meno logicamente...

N.B. Certo, hai ragione. La chiusura kelseniana dell'ordinamento giuridico è una sorta di rinvio dalle cause ultime alla causa prima, dalle determinazioni empiriche alla causa sui. E dunque in un pensatore essenzialmente non metafisico come Kelsen la 'chiusura' del sistema attaverso la Grundnorm non è, per così dire, che una chiusura di comodo. È un po' come l'idea della sovranità assoluta dello stato nazionale. L'idea della sovranità come 'potere dei poteri' è una chiusura di comodo non diversa dalla Grundnorm concepita come 'norma delle norme'. A queste nozioni non corrisponde, non può corrispondere qualcosa di verificabile.

D.Z. Tu però hai sostenuto, nel tuo saggio 'Kelsen e il problema del potere', del 1981, che la norma fondamentale fa riferimento indiretto ad una ideologia, che non è l'ideologia dello Stato borghese, come sostenevano polemicamente i marxisti, ma è l'ideologia dello Stato di diritto.

N.B. Si, ho proposto questa interpretazione. In Kelsen, che, non dimentichiamolo, è un pensatore democratico e pacifista, il rinvio alla norma fondamentale è probabilmente un modo per sottrarre l'ordinamento giuridico all'arbitrio del potere politico, per affermare il primato del diritto e dei diritti di libertà rispetto alla ragion di stato. Senza trascurare che sul piano internazionale il diritto per Kelsen è legato ad un valore fondamentale, che è quello della pace. Ed è sicuramente per questo, in nome di un'esplicita ideologia pacifista e anti-imperialista, che egli afferma il 'primato del diritto internazionale' rispetto agli ordinamenti giuridici dei singoli Stati nazionali. Per Kelsen, come del resto per Thomas Hobbes, il diritto è lo strumento per introdurre rapporti pacifici fra gli uomini e fra gli Stati. Per Hobbes la legge naturale fondamentale, la 'norma fondamentale', potremmo dire, è pax querenda est. Questa coincidenza fra Kobbes e Kelsen mi ha sempre impressionato. Non è un caso, probabilmente, che dopo aver studiato Kelsen io abbia dedicato molte energie allo studio del pensiero politico di Hobbes. Per entrambi la pace è il bene fondamentale che solo il diritto può garantire. Peace through Law è appunto il titolo di un celebre saggio di Kelsen...

D.Z. Scusami se ti interrompo ancora una volta. Vorrei obiettare che in Hobbes, in realtà, se c'è qualcosa di 'fondamentale' alla base del diritto, questo non è una norma astratta o formale che 'chiude' l'ordinamento giuridico. È piuttosto una condizione di fatto, antropologica e sociologica, molto esterna alle forme giuridiche e che anzi, per così dire, impedisce all'ordinamento giuridico di chiudersi in se stesso: è l'insicurezza radicale della condizione umana dalla quale derivano l'aggressività, la violenza, la paura, il bisogno di sicurezza e la richiesta di protezione politica. Se è così, il realismo di Hobbes è abbastanza lontano dalla metafisica normativa di Kelsen. Forse Hobbes, per questo aspetto, è più plausibilmente avvicinabile a un critico spietato dello Stato di diritto e del normativismo kelseniano come Carl Schmitt. Se si ammette, come tu fai, che la Grundnorm è in Kelsen una 'soluzione di comodo', allora si apre il varco ad una fondazione non formalistica della forma giuridica. Si profila così sullo sfondo l'idea schmittiana dello 'stato di eccezione' o, se preferisci, l'idea che la forza del diritto, come scrisse Marx, è indissociabile dal diritto della forza.

N.B. Forse io non ho mai preso una posizione abbastanza netta su questo punto che riconosco essere delicatissimo e di una ambiguità, temo, insopprimibile: il rapporto fra diritto e potere. Per un verso è il diritto che attribuisce potere -- lex facit regem --, ma per un altro verso è sempre il potere che istituisce l'ordinamento giuridico e ne garantisce l'effettività: rex facit legem. E non si può negare che questa ambiguità è presente anche nel Kelsen teorico del diritto e dello stato, o per lo meno non è da lui superata. Anche per Kelsen, a causa dell'incerta dialettica che egli stabilisce fra validità ed effettività delle norme, si può dire che al vertice del sistema normativo lex et potestas convertuntur.

D.Z. Ma permettimi di tornare un attimo a un quesito al quale non hai finora risposto direttamente: in che senso il tuo kelsenismo, come tu stesso hai dichiarato, è stato in alcuni tuoi scritti 'eccessivo'? Ci sono degli aspetti del pensiero di Kelsen ai quali non hai mai aderito?

N.B. Si, l'impostazione dei miei corsi universitari di filosofia del diritto era strettamente kelseniana. Io ho accolto forse un po' pedissequamente alcuni aspetti formali della teoria di Kelsen. Con questo non voglio dire, farei torto a me stesso, che non ci fossero nelle mie lezioni molte cose non kelseniane. Ad esempio, l'interesse per l'analisi linguistica mi veniva da studi precedenti l'incontro con Kelsen. Ed anche l'interesse per la logica deontica, che mi ha indotto ad impostare il problema delle lacune dell'ordinamento giuridico e quello delle antinomie fra le norme, mi è venuto da letture e ricerche diverse. E, come ho già detto, ho messo a frutto anche la dottrina italiana del diritto come istituzione. Quello che non mi ha mai convinto, sia in Kelsen, sia e soprattutto nei kelseniani, è l'adesione alla filosofia neokantiana. Per me Kelsen è sempre stato un giurista e soltanto un giurista. Ed è per questo, come tu hai ricordato, che non ho mancato di segnalare quelle che fin dall'inizio mi sono apparse come delle insufficenze filosofiche generali della sua pur importantissima opera.

D.Z. Tu sei sempre stato molto attento all'analisi concettuale e in particolare all'analisi del linguaggio, ma non ti sei mai spinto verso approdi propriamente formalistici e logicistici. Forse il limite estremo della tua adesione alle tesi formalistiche è rappresentato dal saggio 'Scienza del diritto e analisi del linguaggio' che uscì nel 1950 sulla Rivista trimestrale di diritto e procedura civile. Questo saggio ha esercitato una grande influenza sugli studi filosofico-giuridici italiani ed ha dato luogo ad una vera e propria scuola di pensiero, da Scarpelli a Pattaro, a Ferrajoli e ai più giovani. E tuttavia tu hai in più occasioni espresso, anche a me personalmente, dubbi autocritici a proposito delle tesi che vi avevi sostenuto.

N.B. Si, in quel saggio c'è forse un accostamento un po' troppo rapido fra il formalismo logico-linguistico del Circolo di Vienna, del quale avevo indubbiamente subito l'influenza, e il formalismo giuridico. Non mi pare, tuttavia, che in quello scritto io abbia chiamato direttamente in causa Kelsen.

3. Formalismo e antiformalismo

D.Z. A questo punto è per me inevitabile chiederti un chiarimento a proposito del tuo 'formalismo'. Tu stesso hai più volte dichiarato di considerarti un formalista sul terreno giuridico ma un anti-formalista in etica. Il tuo giuspositivismo, hai scritto e dichiarato più volte, è sempre stato 'un giuspositivismo critico'. Che cosa significa esattamente questo per te?

N.B. Quando io parlo di giuspositivismo distinguo fra tre possibili interpretazioni: il positivismo giuridico come metodo e cioè come un modo di studiare il diritto in quanto complesso di fatti, di fenomeni o di dati sociali e non come un sistema di valori, un metodo che pone perciò al centro dell'indagine il problema 'formale' della validità del diritto non quello assiologico della giustizia dei contenuti delle norme; c'è in secondo luogo il positivismo giuridico inteso come teoria: esiste una teoria del giuspositivismo che corre lungo tutto l'ottocento e che nasce negli anni delle grandi codificazioni. Per questa concezione, dall'école de l'exégèse alla tedesca Rechtswissenschaft, il diritto coincide senza residui con l'ordinamento positivo che emana dall'attività legislativa dello stato. È una concezione imperativistica, coattivistica, legalistica, che sostiene la necessità di un'interpretazione letterale e meccanica delle norme scritte da parte degli interpreti e in particolare dei giudici; e c'è infine una terza interpretazione, che è quella che ho chiamato l'ideologia del positivisno giuridico: è l'idea che la legge dello stato meriti obbedienza assoluta in quanto tale, teoria che può essere sintetizzata nell'aforisma Gesetz ist Gesetz, la legge è legge. Io ho sempre rifiutato il giuspositivismo nei suoi aspetti propriamente teorici ed ideologici, mentre lo ho accettato dal punto di vista metodologico. Lo ho accettato nel senso che lo scienziato del diritto è colui che si occupa di analizzare il diritto vigente entro una determinata, particolare comunità politica. Non si pone perciò compiti etici o etico-giuridici di carattere universale, ciò che ovviamente non esclude che egli si possa o si debba occupare anche de iure condendo...

D.Z. Ti interrompo per l'ultima volta per sottolineare che questa tua adesione al giuspositivismo metodologico non ti ha mai impedito di rivendicare per la coscienza del singolo una libertà di critica dell'ordinamento giuridico positivo da un punto di vista esterno: politico, ideologico od etico. In secondo luogo, e riprendo così il tema cui ho già accennato, c'è nel tuo giuspositivismo metodologico un rapporto secondo me un po' ambiguo con la teoria dei diritti dell'uomo. Pur negando la possibilità di un fondamento filosofico e quindi universale dei diritti soggettivi, sembra che tu faccia molta fatica a rinunciare all'idea di una qualche universalità di questi diritti. Ed io credo di trovare la prova di questa tua nobile ambiguità, se posso dire così, negli argomenti con cui ti opponi alla pena di morte.

N.B. Non so, non so... Per quanto riguarda la pena di morte io ricordo di aver discusso in due miei saggi le tesi favorevoli e quelle contrarie. E fra quelle contrarie ho criticato, perché la ritengo insufficente, la posizione utilitaristica, che si oppone alla pena di morte perché non la ritiene socialmente utile. La pena di morte, sostengono gli utilitaristi, non esercita alcun rilevante effetto dissuasivo, o più dissuasivo rispetto a pene più miti. Per questo deve essere evitata, come un costo sociale non necessario. Io obietto che questa opposizione alla pena di morte è troppo debole, perché lascia aperto il ricorso alla pena capitale tutte le volte in cui essa si riveli socialmente utile o necessaria. Tu hai ragione nel dire che alla fine io rivendico puramente e semplicemente il diritto alla vita e il divieto per chiunque, lo stato compreso, di sopprimere la vita di un uomo, qualsiaisi crimine egli possa avere commesso. E forse non hai torto nel sospettare che qui ci sia in me, inconsapevolmente, una qualche forma di 'kantismo', e cioè di attaccamento all'idea che alcuni valori, come il rispetto della vita umana, debbano essere affermati in ogni caso. Però desidero ricordarti che io ho sempre considerato molto problematica la tesi dell'universalità delle leggi morali e ho anzi sostenuto con forza che non c'è alcuna norma o regola morale o valore -- neppure il principio pacta sunt servanda -- che, per quanto fondamentale, non debba storicamente sottostare a delle eccezioni, a cominciare dalle due principali discriminanti che sono lo stato di necessità e la legittima difesa. Ma ho anche sostenuto che nel caso della pena di morte queste due eccezioni, così spesso invocate, non valgono: a differenza dell'individuo singolo che nei due casi non può scegliere un comportamento diverso, lo stato ha sempre la possibilità di scegliere tra la pena di morte e un'altra sanzione.

D.Z. Consentimi un'osservazione conclusiva sul tema del tuo formalismo o normativismo kelseniano. Che cosa pensi oggi delle critiche che il realismo giuridico statunitense e scandinavo ha rivolto alla tradizione europea del formalismo e del concettualismo giuridico? Una delle tesi fondamentali dei giusrealisti è la centralità normativa, non solo giurisdizionale, del giudice. Il giudice, essi sostengono, svolge una funzione creativa del diritto rispetto alla norma scritta, al law in books, per dirla con Roscoe Pound. In una situazione di ipertrofia e di turbolenza della legislazione statale che fa dell'ordinamento giuridico, con buona pace di Kelsen, qualcosa di sempre meno unitario, coerente e completo non c'è a tuo parere il rischio che i giusrealisti finiscano per avere ragione, nel senso che il potere dell'interprete, in primo luogo del giudice, è un potere discrezionale crescente, che tende a divenire sempre più un potere direttamente politico?

N.B. Personalmente ritengo che ad essere in crisi sia non tanto il modello normativistico quanto il giuspositivismo. È in crisi l'ideologia positivistica del primato della legge statale, della supremazia della legislazione nei confronti del diritto giurisdizionale e del diritto pattizio. Lo è per la scarsa qualità tecnica della produzione legislativa, per la sua quantità spropositata ed anche per la crescente complessità dei fenomeni sociali da regolare. E penso che la tesi della centralità del giudice, affermatasi nel pensiero giuridico americano per evidenti ragioni storiche ed istituzionali, andrebbe presa in considerazione o almeno ridiscussa in ambito continentale. E andrebbero forse considerate con più attenzione le tesi di Bruno Leoni, che io in passato ho forse un po' sbrigativamemte criticato. Leoni, molto legato com'era al mondo anglosassone e in particolare al liberalismo conservatore di Milton Friedman e Friedrich Hayek, aveva contrapposto la tradizione anglosassone del rule of law alla prassi continentale dello stato di diritto. Aveva sostenuto, come è noto, che i diritti fondamentali del cittadino erano meglio garantiti nella tradizione anglosassone che non in quella continentale. Questo perchè secondo lui la tradizione continentale era caratterizzata dal dispotismo della legislazione, mentre il rule of law anglosassone concepiva il diritto come un processo di lenta trasformazione normativa, socialmente diffusa e spontanea, assecondata dal limitato potere innovativo dei giudici, anziché soverchiata dallo strapotere del legislatore...

D.Z. Quest'idea di Leoni e di Hayek (che su questo punto è debitore di Leoni) sembra anche a me da riconsiderare attentamente, per quanto sia motivata da preoccupazioni conservatrici. E non va sottaciuto che si tratta di un'idea antinormativistica, che in opposizione all'egemonia moderna del diritto pubblico rivendica il primato del diritto privato. Non a caso sia Leoni che Hayek sono stati dei critici molto aspri del 'volontarismo' giuridico di Kelsen. Per loro le libertà moderne hanno radici nello ius gentium: è il diritto dei mercanti, sono le consuetudini dei porti e delle fiere che hanno fornito le premesse dell'affermarsi in occidente di società libere ed aperte. Questo merito non va invece attribuito alle rivoluzioni borghesi. Essi sostengono che l'ideale della libertà individuale -- la 'libertà degli inglesi' -- è fiorito presso i popoli che si sono maggiormente impegnati in attività esplorative e commerciali di largo respiro...

N.B. Sono in sostanza d'accordo con te. Proprio su questo argomento ho scritto qualche giorno fa una lunga lettera di risposta ad un economista liberale che seguendo Leoni contrappone il diritto come fenomeno spontaneo, pattizio, fondato essenzialmente sul contratto, alla legislazione come espressione del potere centralistico e tendenzialmente dispotico dello stato. Ebbene, io non ho difficoltà a riconoscere che l'intera impostazione kelseniana, alla luce della quale mi sono formato come teorico del diritto oltre mezzo secolo fa, oggi si trova in grave difficoltà, se non in un vero e proprio discredito. Riconosco che le cose sono molto cambiate. Oltre a ciò occorre tenere presente che Kelsen era un pubblicista, veniva dal diritto pubblico: vedeva quindi il diritto molto più dal punto di vista del potere che non da quello delle libertà dei singoli, della vita privata, della privacy individuale. Ma anche qui non bisogna esagerare, rovesciando unilateralmente il rapporto fra diritto pubblico e diritto privato, la cui distinzione era già presente al pensiero giuridico romano. I romani distinguevano chiaramente i rapporti giuridici orientati all'utilità individuale da quelli che riguardavano gli interessi collettivi. Rischiamo altrimenti di celebrare la vittoria del particolarismo privato rispetto alla dimensione della sfera pubblica, di consegnarci senza difese alla logica del mercato. Ed io temo che se questo avvenisse, e forse sta già avvenendo, trionferebbe non la libertà di tutti ma la guerra di tutti contro tutti.

4. L'ordinamento internazionale e il problema della pace

D.Z. Vorrei ora introdurre il tema dei tuoi rapporti con l'opera di Kelsen per quanto riguarda la teoria dell'ordinamento giuridico internazionale e il problema della pace. Tu hai affrontato per la prima volta questo tema dedicandogli un intero corso di filosofia del diritto presso l'Università di Torino nell'anno accademico 1964-65. Poi, nel 1966, hai pubblicato su Nuovi Argomenti quello che è generalmente considerato il tuo saggio più importante in tema di relazioni internazionali: 'Il problema della guerra e le vie della pace'. Ebbene, ho notato con una certa sorpresa che in questi scritti sono molto rari i tuoi riferimenti a Kelsen. Vorrei chiederti allora se opere di Kelsen come Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, del 1920, come Peace through Law, del 1944, o come la raccolta su saggi Law and Peace in International Relations, del 1948, hanno suscitato in te un interesse altrettanto profondo rispetto a quello suscitato dalle altre opere che abbiamo sinora citato. Senza trascurare due veri e propri trattati di diritto internazionale come The Law of the United Nations, del 1950, o come Principles of International Law, del 1952.

N.B. Se dovessi dirti con una battuta quali sono le due 'trovate teoriche', perdonami l'espressione, che mi hanno sempre ispirato una profonda ammirazione per Kelsen sono: la struttura a gradi dell'ordinamento giuridico, di cui abbiamo parlato, e il primato del diritto internazionale. Dico che l'idea del primato del diritto internazionale è una 'trovata' nel senso che si è trattato anche qui di una proposta molto originale. Allora il campo teorico del diritto internazionale era dominato dalla teoria dualistica e cioè dall'idea che ci fossero due realtà normative, fra loro profondamente diverse, rappresentate dagli ordinamenti statali, da una parte, e, dall'altra, dal diritto internazionale, del quale si tendeva a mettere in dubbio la piena giuridicità. E c'era anche, sia pure minoritaria, una dottrina monistica che negava tout court l'esistenza di un ordinamento giuridico internazionale e non riconosceva altro diritto che quello degli Stati sovrani. Kelsen letteralmente sovverte l'impostazione tradizionale e propone un monismo che fa del diritto internazionale il solo autentico, 'oggettivo' ordinamento giuridico, del quale gli ordinamenti statali non sono che una parte, ed una parte subordinata e per di più, in prospettiva, destinata a dissolversi assieme alla sovranità degli Stati. È una proposta a mio parere straordinaria, perché è la sola che può avviare il diritto internazionale ad adempiere alla sua funzione essenziale, che è quella, per così dire, di organizzare la pace. Sono convinto, come sai, che finché ci sarà il primato non del diritto internazionale ma degli ordinamenti giuridici dei singoli stati, la pace non potrà mai essere stabilmente assicurata.

D.Z. Affermi dunque che Kelsen ha esercitato una diretta influenza anche sul tuo 'pacifismo istituzionale'?

N.B. Non c'è alcun dubbio. E ti confesso che sono sorpreso che, come tu sostieni, io non l'abbia mai esplicitamente scritto o che non traspaia nel modo più evidente dai miei scritti sul tema della guerra e della pace. Kelsen è il giurista che non solo sostiene che il fine principale del diritto è la pace e non la giustizia, ma si spinge a sostenere che il diritto -- in particolare il diritto internazionale -- è il solo mezzo per garantire una pace stabile e universale. Chi se non lui può essere l'autore emblematico del 'pacifismo giuridico' o 'istituzionale', come io ho chiamato la mia posizione? E quando, dopo aver criticato altre forme di pacifismo, alla fine ho proposto l'idea di un pacifismo che facesse perno su istituzioni giuridiche veramente sovranazionali -- e non solo internazionali -- ho sempre avuto in mente l'idea kelseniana del primato del diritto internazionale. Ed ho avuto presente la sua opposizione al sistema degli Stati sovrani in nome della pace e di un ideale anti-imperialistico. (E, lo dico parenteticamente, sono rimasto piuttosto sconcertato quando, nella seconda edizione della Reine Rechtslehre, del 1960, Kelsen ha introdotto una correzione non lieve su questo punto: ha sostituito il termine 'sicurezza collettiva' a quello di 'pace', ovviamente in nome di una più rigida concezione strumentale e antifinalistica del diritto).

D.Z. Mi sembra dunque chiaro che è stato soprattutto, se non esclusivamente, Das Problem der Souveränität il libro di Kelsen che ha ispirato il tuo 'pacifismo istituzionale', perché è lì che Kelsen, oltre a teorizzare il primato del diritto internazionale, sferra un attacco molto forte contro la sovranità degli Stati e contro la stessa idea di Stato nazionale in nome della concezione (di origine teologica) dell'unità del genere umano come civitas maxima. Ed è in nome di questo classicissimo ideale cosmopolitico -- di questa 'idea etica suprema', come egli scrive -- che Kelsen si spinge sino a predire l'estinzione degli Stati e la nascita di uno 'Stato mondiale o universale' e di un ordinamento giuridico planetario capace di garantire la pace attraverso l'uso di una forza internazionale legittima. È dunque questo il modello che ha ispirato quello che io ho chiamato il tuo 'pacifismo cosmopolitico'?

N.B. In un certo senso si, non lo nego, anche se dovrei introdurre un certo numero di precisazioni e di sfumature rispetto alla tua ricostruzione. Comunque, consentimi di ricordare ciò che ho sostenuto nel saggio del 1966, che tu hai citato, nel quale mi sono più estesamente occupato del tema della pace. Ho distinto tre forme di pacifismo: quello che ho chiamato 'strumentale', che si limita a proporre un intervento sui mezzi, come il controllo sulla produzione della armi, il disarmo, etc.; ho considerato poi il pacifismo di impostazione etico-religiosa, pedagogica o terapeutica, che punta sulla conversione degli uomini alla virtù della mitezza o comunque sulla loro educazione morale e civile; ed infine ho proposto l'idea di un pacifismo istituzionale perché mi sono lentamente convinto che il solo pacifismo sostenibile, e cioè concretamente realizzabile ed efficace, è quello che si affida ad uno sviluppo in senso sovranazionale delle attuali istituzioni internazionali. Il ragionamento (hobbesiano) che sta alla base della mia posizione è molto semplice: così come gli uomini nello stato di natura hanno dovuto prima rinunciare collettivamente all'uso individuale della forza e poi attribuirla ad un potere unico, detentore del monopolio della forza, così gli Stati, che oggi vivono in quello stato di natura che è il timore reciproco, devono compiere un analogo passaggio. Devono far convergere il loro potere in un organo nuovo e supremo che eserciti nei confronti dei singoli stati lo stesso monopolio della forza che lo stato esercita nei confronti dei singoli individui. È chiaro che, seguendo anche qui Kelsen, io ho adottato nel modo più esplicito quel modello della domestic analogy che tu hai criticato in un tuo libro recente.

D.Z. Si, come sai, io sostengo che non si può dare per scontata l'esistenza di una 'società mondiale' che possa essere sensatamente assimilata alla civil society nord-europea fra seicento e settecento. Non penso che la cosidetta 'società civile globale' possa fungere da base dell'unificazione politica del pianeta in una ripetizione su scala mondiale del cammino che ha portato alla formazione dello Stato moderno europeo. Del resto è Kelsen stesso, in Peace through Law, a mettere in guardia contro un uso troppo disinvolto della domestic analogy nel prospettare la possibilità di una federazione mondiale degli Stati oggi esistenti.

N.B. Una delle obiezioni che si possono fare alla tua critica della domestic analogy è che la formazione dei grandi Stati federali, gli Stati Uniti ad esempio, ha ripercorso a livello di rapporti fra Stati proprio quel processo di concentrazione del potere che fra seicento e settecento ha caratterizzato l'uscita dell'Europa dall'anarchia feudale. Questi Stati sono esattamente costruiti sulla domestic analogy, c'è poco da fare... Tu potrai sostenere che l'idea di uno stato federale mondiale è un'utopia, che qui le differenze culturali, economiche, religiose, etc. sono molto maggiori. Questo non toglie che lo stato federale è oggi una concreta realtà istituzionale e che assumerlo come modello per l'organizzazione di istituzioni sovranazionali non è qualcosa di assurdo sul piano teorico, qualcosa di campato per aria... Del resto è già nelle cose la tendenza degli Stati contemporanei a concentrare una parte del loro potere in organismi sovranazionali. Basti pensare al Tribunale internazionale per la ex-Jugoslavia di cui è presidente Antonio Cassese e al Tribunale penale internazionale per il Ruanda. E questa è una linea di sviluppo che proprio Kelsen aveva indicato e fervidamente auspicato quando nel 1944, in Peace through Law, proponeva la costituzione di una giurisdizione penale internazionale che perseguisse i singoli cittadini per i crimini di guerra di cui fossero responsabili. Ed è quello che sta appunto facendo, anche se solo per la ex-Jugoslavia, il Tribunale dell'Aia. Siamo dunque in presenza di una tendenza a costruire il sistema giuridico internazionale non più come una associazione fra stati, ma come includente, come soggetti di diritto, tutti i cittadini di tutti gli stati. Anche questo corrisponde ad una previsione di Kelsen, oltre che essere stato riconosciuto dalla 'Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo' del 1948, per la quale anche gli individui sono soggetti dell'ordinamento internazionale. E dunque una parte del potere degli stati nei confronti dei loro cittadini viene loro sottratta e concentrata in istituzioni sovranazionali che provvedono alla tutela dei diritti fondamentali anche contro le autorità dei singoli stati. Come potrà essere concretamente realizzata la protezione internazionale dei diritti dell'uomo -- attraverso quali istituzioni giudiziarie, ad esempio -- è una questione molto delicata, ma questo non toglie che ci stiamo lentamente avviando verso una situazione in cui gli individui non saranno più semplicemente cittadini di un singolo stato, ma saranno anche cittadini o soggetti di entità sovranazionali o addirittura di uno stato federale di dimensioni universali. Questo è per me corrispondente all'ideale kantiano del 'diritto cosmopolitico', il diritto della cittadinanza universale, in base al quale tutti gli uomini in quanto tali sono cittadini del mondo. Sì, certo, questo corrisponde anche a qualcosa che appartiene alla tradizione cattolica. "Nessuno è straniero" è la splendida frase che ho sentito recentemente pronunciare dal Papa. Ma questo è secondo me anche il vero ideale del diritto...

D.Z. Ma c'è chi sostiene, penso a Serge Latouche ad esempio, che dopo la vittoria planetaria dell'economia di mercato stiamo diventando sempre più stranieri gli uni degli altri, al punto che che oggi potremmo dire che 'tutti sono stranieri'. E c'è d'altra parte chi pensa che le differenze fra le culture e fra i popoli, e perciò in qualche modo anche le loro divisioni politiche, sono una ricchezza minacciata dal processo 'cosmopolitico' di occidentalizzazione del mondo guidato dalla superpotenza statunitense.

N.B. Capisco, capisco... Ma l'importante è che ci sia una tendenza in atto, e questo è secondo me innegabile, che ci avvia verso la realizzazione dell'ideale kantiano del diritto cosmopolitico. L'ideale è per me che i soggetti di diritto entro il sistema mondiale siano i singoli individui e non gli stati...

D.Z. Ma se immaginiamo di costruire un sistema politico mondiale in cui da una parte ci siano gli individui e dall'altra i poteri accentrati di uno Stato mondiale senza più la mediazione di strutture politiche intermedie, non rischiamo di dar vita ad una sorta di giacobinismo cosmopolitico? In realtà non mi è facile capire come, una volta soppressa la sovranità dei Leviatani nazionali perché ritenuta responsabile dell'anarchia internazionale e della guerra, la sovranità dispotica o totalitaria del Leviatano non ricompaia, e infinitamente rafforzata, nelle vesti dello Stato universale che unifica in sé la totalità del potere internazionale, prima diffuso e disperso in mille rivoli. È il Leviatano sarebbe ovviamente incarnato da un ristretto direttorio di grandi potenze economiche e militari.

N.B. Ho già avuto modo di dire che se è vero che le tue tesi 'anticosmopolitiche' ad una prima lettura non mi hanno convinto -- io resto un cosmopolita impenitente... -- mi hanno però indotto a riflettere a lungo. E questa tua obiezione è una di quelle che mi hanno fatto pensare. E tuttavia dovremmo riuscire a capire perché oggi, in ogni continente, c'è una diffusa tendenza a dar vita a entità politiche e giuridiche sovranazionali, di estensione regionale. L'esempio di gran lunga più importante è il processo di unificazione europea, che non si arresta e che si sta anzi territorialmente espandendo. Gli Stati Uniti d'Europa, prospettiva alla quale nessuna forza politica continentale oggi si oppone, segnano il successo della tendenza che tu critichi, e cioè quella che porta al superamento della dispersione del potere e alla sua concentrazione in organismi sovranazionali.

D.Z. Hai ragione, anche se non dovremmo sottovalutare i rischi che il processo di unificazione comporta per i diritti e gli interessi dei soggetti europei più deboli, soggetti individuali e collettivi. Ralf Dahrendorf, fra i molti altri, ha denunciato con forza questo pericolo a proposito del trattato di Maastricht. L'Unione europea è per ora molto lontana dal modello dello Stato costituzionale o semplicemente dello Stato di diritto. D'altra parte non sembra emergere qualcosa che possa essere chiamato 'società civile europea' e che possa legittimare democraticamente la 'costituzione' di uno Stato federale. E da un punto di vista più generale è chiaro che l'unificazione europea comporta un rafforzamento, anzitutto economico e militare, di una delle aree più ricche e progredite del pianeta ed una sua accresciuta distanza dai paesi del Mediterraneo. Anche sul piano teorico è molto dubbio che la spinta alla formazione di aggregazioni economico-politiche regionali vada in una direzione inclusiva, e cioè cosmopolitica, e non in un senso esattamente inverso, esclusivo, che comporta l'aumento delle diseguaglianze in diritti, potere e ricchezza fra gli Stati del pianeta e fra i loro cittadini.

N.B. E però il cittadino italiano, come il cittadino francese o tedesco, diventa piano piano cittadino d'Europa. E questa dovrebbe essere una tappa, come io amo dire, verso il superamento delle grandi muraglie che dividono il mondo. Ma non mi nascondo, ovviamente, gli ostacoli che ci sono e che diventano sempre più gravi via via che si estende l'area territoriale che si vorrebbe unificare politicamente.

5. La teoria della 'guerra giusta' e la guerra moderna

D.Z. Passo, per concludere il nostro dialogo, ad un tema di cui ti sei a lungo occupato e che ci ha diviso durante la Guerra del Golfo Persico. È il problema della qualificazione giuridica e morale della guerra. Tu hai più volte criticato, in particolare nel saggio 'Il problema della guerra e le vie della pace', la dottrina della guerra giusta e ne hai proclamato l'obsolescenza in epoca nucleare. Hai sostenuto che la guerra moderna è, sia dal punto di vista etico sia dal punto di vista giuridico, legibus soluta. Essa si sottrae, hai scritto, ad "ogni possibile criterio di legittimazione e di legalizzazione. Essa è incontrollata e incontrollabile dal diritto, come un terremoto o come una tempesta. Dopo essere stata considerata o come un mezzo per attuare il diritto (teoria della guerra giusta) o come oggetto di regolamentazione giuridica (nell'evoluzione del ius belli) la guerra è ritornata ad essere, come nella raffigurazione hobbesiana dello stato di natura, l'antitesi del diritto". Questo tuo intransigente rifiuto etico e giuridico della guerra è molto lontano dal pensiero di Kelsen, che, sia pure con ambiguità e oscillazioni, ha fatto propria la dottrina del iustum bellum. Mi sembra però che, in anni più recenti, tu abbia cambiato opinione su questo punto. Hai ad esempio apprezzato il libro di Michael Walzer, Just and Unjust Wars, e in un tuo intervento giornalistico dopo la Guerra del Golfo, come accennavo, hai sostenuto che la tradizione della guerra giusta ha ancora qualcosa di importante da dirci. Ritieni davvero che questa dottrina contenga ancora elementi di validità o di interesse?

N.B. Vorrei sottolineare che la mia riflessione sul problema della guerra è iniziata negli anni sessanta e cioè nel periodo della guerra fredda e dell'equilibio del terrore. Quando ho definito la guerra come un evento che si sottrae, come un disastro naturale, a qualsiasi valutazione giuridica o morale mi sono riferito essenzialmente al conflitto nucleare. E mantengo questa convinzione. E tuttavia c'è il rischio che da questa posizione si deduca il principio che in epoca nucleare qualsiasi tipo di conflitto armato sia illegittimo e ingiusto. Si può addirittura arrivare a sostenere che siano ingiuste anche una guerra di difesa da una aggressione o una guerra di liberazione nazionale. Non condivido questa conclusione perchè penso che si debba distinguere fra la 'violenza prima' e la 'violenza seconda', fra chi usa per primo la forza militare e chi si difende. Normalmente chi usa la forza per primo è il prepotente e chi esercita la forza per secondo è il più debole costretto a difendersi: e le due posizioni non possono essere messe giuridicamente e moralmente sullo stesso piano. È il classico tema dell'aggressione e della resistenza all'aggressione. So bene come non sia affatto semplice, nelle situazioni concrete, determinare con nettezza chi è l'aggressore e chi è la vittima, ad esempio nel caso di una guerra civile. E tuttavia non possiamo trascurare -- lo ho sostenuto anche durante la Guerra del Golfo -- che se non introduciamo criteri di valutazione giuridica e morale dell'uso della forza militare corriamo il rischio di dare sempre ragione ai prepotenti. Sono solito dire che se tutti fossero obiettori di coscienza tranne uno, quest'ultimo potrebbe impadronirsi del mondo. I prepotenti sono felicissimi di trovarsi di fronte ad avversari che rinunciano ad usare la forza. Di questo sono assolutamente convinto. Lo dico con il massimo rispetto verso la non violenza e il pacifismo assoluto. Già, dovrebbe essere un pacifismo davvero assoluto, praticato da tutti... ma sappiamo che non è così e che forse così non potrà mai essere.

D.Z. Vorrei però osservare che questi sono argomenti pratici che non portano necessariamente alla conclusione che la guerra moderna possa essere, in determinate circostanze, moralmente giusta (o ingiusta). Se il ricorso alla guerra è determinato da uno stato di necessità -- la necessità di difendersi da un'aggressione, ad esempio -- non per questo diviene un atto moralmente giusto se è vero che esso comporta comunque, in epoca nucleare, distruzioni e sofferenze immani e, soprattutto, il sacrificio di un altissimo numero di persone innocenti o addirittura vittime del regime dispotico -- vittime del 'prepotente', come tu dici -- che ha per primo ha scatenato la violenza, come è avvenuto nella Guerra del Golfo. Anche una guerra di difesa comporta, in epoca nucleare, una estesissima violazione dei diritti fondamentali di migliaia o centinaia di migliaia di persone. E dunque anche una guerra di difesa resta, per usare la tua espressione, legibus soluta.

N.B. Però bisogna meditare sul fatto che i violenti comunque esistono... Ed è per questo, ad esempio, che sul piano interno si è arrivati ad assegnare al sistema politico, allo stato, il monopolio dell'esercizio della forza: lo si è fatto per controllare e ridurre la violenza diffusa, per proteggere i cittadini dalle aggressioni dei violenti. E dunque non si vede perché questo non si possa fare anche sul piano internazionale, dando vita anche qui a forme di monopolio dell'uso della forza e legittimando quindi il ricorso alla forza militare contro chi eserciti per primo la violenza. Fra l'altro occorre aggiungere che oggi, sul piano internazionale, si sta verificando un fenomeno nuovo e molto grave: si ripresenta, si rinnova e si estende la violenza privata. È quasi un ritorno alla situazione medievale. I gruppi criminali che praticano il commercio clandestino delle armi, il traffico della droga e lo sfruttamento delle donne e dei minori si stanno moltiplicando e rafforzando a livello planetario. La mafia, ad esempio, è un fenomeno che dall'occidente si è esteso anche in Russia e in Cina. E si tratta di organizzazioni criminali estremamente potenti e armatissime, che hanno a disposizione anche armi pesanti. E di fronte a questo fenomeno il potere di repressione di cui dispongono i singoli Stati è del tutto insufficente. La loro stessa sovranità potrebbe essere soverchiata dallo strapotere delle organizzazioni criminali, come si è in qualche modo visto in Albania e forse anche nella guerra della ex-Jugoslavia. Non è azzardato ipotizzare che in un prossimo futuro ci saranno guerre completamente diverse da quelle che sinora hanno visto lo scontro fra Stati. Queste guerre erano fra l'altro in qualche misura temperate, sottoposte a regole di ius in bello che riguardavano ad esempio il trattamento dei prigionieri, l'esclusione di certi tipi di armi, etc. Tutto questo potrà diventare qualcosa di assolutamente superato, di risibile...

D.Z. E dunque tu pensi che soltanto un potere sovranazionale, una giurisdizione ed una polizia sovranazionali potrebbero essere in grado di controllare questo nuovo tipo di violenza internazionale privata?

N.B. Io mi limito in questo momento a costatare che ci sono oggi conflitti e guerre di tipo nuovo. È uno spettacolo spaventoso... Ed è evidente che i poteri e la giurisdizione dei singoli Stati sono insufficenti.

D.Z. Immagino che anche per queste ragioni tu guardi con favore al Tribunale penale internazionale dell'Aia, operante per la ex-Jugoslavia, e a quello per il Ruanda. E penso che tu sia soprattutto favorevole alla prospettiva, di cui si discute da oltre cinquant'anni e che oggi sembra diventare concreta, che venga costituito sotto l'egida delle Nazioni Unite un Tribunale penale internazionale 'permanente'. Questo tribunale dovrebbe giudicare tutti i responsabili di crimini contro l'umanità e di altri crimini di guerra particolarmente gravi sulla base di un Codice penale internazionale.

N.B. È naturale che io sia del tutto favorevole, e lo sono nella più pura linea kelseniana. Kelsen è stato il primo, nel suo scritto del 1944 che abbiamo già citato più volte, a proporre l'istituzione di questo tipo di corti internazionali. So che ci sono delle discussioni di carattere formale a proposito del Tribunale dell'Aia. C'è chi sostiene che si tratterebbe di un tribunale speciale o che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sarebbe andato ultra vires nel deciderne l'istituzione. Ma io penso che fosse comunque necessario cominciare e che è stato giusto cominciare così. Ma al di là di questo io sono soprattutto favorevole al fatto che ci si avvia verso un ordinamento internazionale in cui i soggetti di diritto non sono più soltanto gli Stati ma lo sono anche e soprattutto gli individui. Si sta così realizzando, lo ripeto, un progetto che Kelsen per primo ha avuto la lungimiranza e il coraggio di concepire.


*. Da European Journal of International Law, 9 (1998), 2.