2005

Prospettive islamiche del costituzionalismo (*)

Raja Bahlul

1. Introduzione

Oggetto di questo saggio è discutere il significato che il 'costituzionalismo' ha (o può avere assunto) nel contesto del pensiero politico arabo-islamico. Altri termini che nelle lingue occidentali sono stati usati talvolta come sinonimi di 'costituzionalismo' sono rule of law, Rechtsstaat, État de droit. Alcuni di questi termini hanno degli equivalenti naturali in arabo: per esempio dawlat al-qanun rende abbastanza bene Rechtsstaat, e lo stesso può dirsi per hukm al-qanun e rule of law. Non è facile tuttavia identificare un equivalente arabo di 'costituzionalismo'.

Nel pensiero politico occidentale espressioni come 'costituzionalismo', 'governo della legge' (e altri) hanno assunto significati più ricchi e più complessi di quelli suggeriti dall'etimologia o dalla semplice giustapposizione delle parole. Solitamente questo è il contrassegno dei concetti che hanno assunto un ruolo centrale nella teoria del settore nel quale il termine viene impiegato. Questi termini hanno invariabilmente una complessità semantica maggiore di quella suggerita dalla loro derivazione linguistica o dalla somma delle loro parti.

Lo stesso non si può dire per i termini equivalenti usati negli scritti politici arabo-islamici. Ciò non significa necessariamente che il pensiero politico arabo-islamico non sappia che cosa sia il costituzionalismo o che non sia equipaggiato concettualmente per discutere materie trattate sotto questa rubrica. Al contrario, temi come il governo secondo la legge, il diritto dei popoli di opporsi ai governi ingiusti, le libertà che ai governanti non è permesso violare e altri simili temi sono presenti nel pensiero politico arabo-islamico fin dagli inizi.

E' impegnativo il compito di discutere il significato e il ruolo che il costituzionalismo ha (o può avere assunto) nel pensiero politico arabo-islamico. In primo luogo, una discussione di questo tipo può aiutare a intendere (o tematizzare) alcuni degli interessi manifestati dai pensatori politici arabi e islamici. In secondo luogo, il concetto di costituzionalismo ha finito per acquistare un'importanza eccessiva, almeno per quanto riguarda il pensiero politico occidentale. Ciò stimola l'interrogativo sulla sua universalità: i concetti realmente basilari e fondamentali non dovrebbero essere (non sono normalmente) di rilevanza locale. Perciò la discussione del significato e della possibilità del costituzionalismo nel pensiero arabo-islamico può servire come banco di prova parziale dell'universalità di questo concetto.

Nel secondo paragrafo discuterò dapprima il significato di costituzionalismo, nell'accezione che questo termine ha nel pensiero politico occidentale contemporaneo. Poi porrò la domanda se vi siano motivi di ritenere che il concetto di costituzionalismo (nel senso da esso assunto negli scritti politici occidentali) significhi qualcosa per il pensiero politico arabo-islamico.

Avendo dato risposta affermativa a questa domanda, nel terzo paragrafo passerò a discutere i fondamenti del costituzionalismo nel pensiero politico arabo-islamico. Come vedremo, i fondamenti che si possono rinvenire per il costituzionalismo sono fondamenti 'teistici': fanno riferimento principalmente alla legge divina e alla rivelazione divina. Ma il teismo presente nel pensiero islamico non è sempre dello stesso tipo. Si possono distinguere due varietà di teismo: una (la variante ash'arita) è una prospettiva volontaristica, quasi priva di elementi razionali; l'altra variante (mu'tazilita) segue una linea di pensiero oggettivista ed è nota per il suo razionalismo. Entrambe le prospettive possono venire usate per stabilire i fondamenti del costituzionalismo nel pensiero islamico.

Nei paragrafi 4 e 5 discuterò il contenuto del costituzionalismo islamico, cioè gli argomenti e i temi rilevanti per il costituzionalismo trattati dagli autori islamici. Nel quarto paragrafo discuterò i diversi diritti e gli strumenti di tutela degli individui previsti dalle leggi islamiche (secondo la lettura ash'arita o mu'tazilita del diritto islamico) e li confronterò con i modelli internazionali dei diritti umani. Nel quinto paragrafo passerò a discutere il significato e la possibilità di una dottrina della 'separazione dei poteri' fondata su premesse islamiche, e prenderò in esame le opinioni di alcuni 'democratici islamici' su questo tema, che solo di recente è divenuto oggetto di interesse nel pensiero politico islamico.

Infine, nel paragrafo conclusivo tenterò di colmare alcune delle lacune che rimangono nella discussione islamica del costituzionalismo. Sosterrò che le critiche della concezione islamica della democrazia e del costituzionalismo si fondano spesso sull'assunto che la possibilità dell'una o dell'altro dipenda dalla credenza nella laicità. Questo assunto può essere - e di fatto è stato - criticato da alcuni autori islamici e pertanto le concezioni islamiche della democrazia e del costituzionalismo meritano un riesame.

2. Il significato di costituzionalismo

A differenza di altri concetti che hanno un ruolo importante nel pensiero politico occidentale contemporaneo ('democrazia' è un buon esempio), il concetto di costituzionalismo non sembra 'essenzialmente contestato' (1). Certamente, continuano a porsi domande difficili sulle conseguenze del costituzionalismo per il funzionamento della democrazia e sui limiti da esso in ipotesi posti alla libertà: la libertà dei comuni cittadini, dei funzionari pubblici o addirittura la libertà delle generazioni future. Ma tutto questo ha luogo nel quadro di un accordo di massima sul significato fondamentale del costituzionalismo.

Secondo Jon Elster, «il costituzionalismo si riferisce ai limiti imposti alle decisioni della maggioranza; più precisamente, a limiti che sono in un certo senso autoimposti» (2). Dario Castiglione, d'altra parte, dà una definizione più completa di costituzionalismo in questi termini: « esso comprende quelle teorie che offrono una serie di argomenti di principio in favore della limitazione del potere politico in generale e del potere del governo sui cittadini in particolare» (3).

Alcuni autori preferiscono interpretare il costituzionalismo riferendosi alla natura delle costituzioni, secondo quanto il termine stesso suggerisce. Così ad esempio Cass Sunstein introduce il significato di costituzionalismo con riferimento alle costituzioni che «operano come vincoli alla capacità di governo delle maggioranze» (4). Nella medesima prospettiva Elster attribuisce due funzioni alle costituzioni: «proteggono i diritti degli individui e frappongono un ostacolo ai cambiamenti politici che sarebbero intervenuti se la maggioranza avesse avuto le mani libere» (5).

Da qualunque parte si inizi, l'idea di base che sembra soggiacere al costituzionalismo è che dovrebbero esserci dei limiti e degli strumenti di controllo sul potere di coloro che detengono il potere politico supremo e potrebbero abusarne avendone l'occasione. Naturalmente i limiti e i controlli devono essere proclamati o comunque realizzati nella società se devono influenzare effettivamente il modo in cui è amministrato il potere politico. Nei tempi moderni questo compito è stato svolto sempre più spesso da costituzioni scritte che cercano non solo di 'proteggere' il popolo dallo Stato ma anche di regolare il funzionamento di quest'ultimo in modo da 'controllarne internamente' il potere. Per questo motivo nelle pagine seguenti discuterò le vedute islamiche del costituzionalismo riferendomi alla seguente caratterizzazione proposta da Jan-Erik Lane: «le idee di base del costituzionalismo sono due: a) la limitazione del potere dello Stato sulla società nella forma del rispetto di un insieme di diritti umani comprendente non solo i diritti civili ma anche quelli politici ed economici; b) l'applicazione della separazione dei poteri all'interno dello Stato» (6).

Queste due idee non sono indipendenti. Secondo Lane, la prima opera come un 'principio esterno' che circoscrive il potere statale rispetto alla società civile mentre la seconda opera come un 'principio interno' che assicura che nessun organo (persona fisica o altro) dello Stato possa prevalere totalmente sugli altri (7).

Certo, nella storia intellettuale islamica non si trovano equivalenti (esatti) di concetti come separazione dei poteri, diritti umani e società civile. Si può certamente capire perché alcuni studiosi del pensiero islamico siano riluttanti all'idea di cercare i fondamenti del costituzionalismo nell'Islam, vedendo in ciò solo un altro tentativo di assoggettare il pensiero islamico a categorie e concetti caratteristici del pensiero occidentale.

Naturalmente l'accusa di 'discorso occidentale egemonico' deve essere affrontata e confutata (se possibile) in quanto tale. Ma in generale non ci sono ragioni a priori per aspettarsi che le idee politiche islamiche siano radicalmente diverse da quelle espresse nel pensiero politico occidentale. Al contrario, ci sono ragioni per aspettarsi somiglianze e corrispondenze fra queste due tradizioni intellettuali. Ciò per due validi ordini di motivi.

In primo luogo, entrambe le tradizioni culturali sono state plasmate dalla presenza di fedi monoteistiche che si possono considerare 'sorelle' in più di un senso. Il giudaismo, il cristianesimo e l'Islam appartengono alla stessa tradizione spirituale (mediorientale) e parlano la medesima lingua religiosa, anche se sono in disaccordo su alcuni aspetti dottrinari. In secondo luogo, entrambe le tradizioni culturali hanno assorbito in buone dosi il pensiero greco, che è sopravvissuto (in forme e in gradi diversi) fino a oggi.

Questi due motivi dovrebbero predisporre alla ricerca di somiglianze e di zone di corrispondenza. Il pensiero islamico è sempre stato più vicino a quello occidentale che a quello orientale. Penso che ciò si possa affermare semplicemente sulla base del peso delle influenze storiche e dei contenuti intellettuali, indipendentemente dalla posizione assunta di fronte alla tesi del 'discorso occidentale egemonico', inteso astrattamente.

Ciò non risolve risolve i dubbi sulla rilevanza del concetto di costituzionalismo per il pensiero politico arabo-islamico: una rapida occhiata alle discussioni in corso fra i pensatori islamici (e altri) sulla nozione di 'sovranità divina', oltre che sulle cause della richiesta di applicazione della Shari'a (il diritto islamico), basta però a mostrare la praticabilità del tentativo di interpretare il costituzionalismo in termini islamici.

Prendiamo ad esempio la nozione di 'sovranità divina', così popolare fra molti giovani intellettuali e pensatori islamici. Come dobbiamo intendere il loro proclama «al-hakimiyyatu li-Allah» (che si può rendere grosso modo come «la sovranità - la funzione del governante - appartiene a Dio»)? Bernard Lewis ritiene che «lo Stato islamico era in principio una teocrazia - non nel senso occidentale di uno Stato governato dalla Chiesa e dal clero [...] ma nel senso più letterale di una comunità politica retta da Dio» (8).

La spiegazione di Lewis permette di presentare nella comunità politica islamica come uno Stato dispotico, perché Dio non è certo il tipo di governante che è tenuto a render conto del suo operato o ha bisogno di consultarsi con i suoi sudditi. Il pensatore islamico tunisino Rachid al-Ghannouchi offre però una spiegazione più plausibile della 'sovranità divina', che ha il merito aggiuntivo di collegare questa nozione al tema del costituzionalismo. Secondo Ghannouchi, «chi proclama che la sovranità appartiene a Dio non intende suggerire che Dio governa gli affari della comunità musulmana direttamente o per mezzo del clero. Infatti nell'Islam non c'è il clero e Dio non può venire percepito direttamente, né dimora in un essere umano o in un'istituzione che possa parlare per Lui. Ciò che significa lo slogan 'la sovranità appartiene a Dio' è governo della legge (hukm al-qanun), governo da parte del popolo» (9).

L'idea che le richieste islamiche di 'sovranità divina' e di applicazione della Shari'a vadano intese come accenni di costituzionalismo (o di una sua versione islamica) non è un esempio di wishful thinking circoscritto a coloro che sono inclini a guardare con favore all'Islam. L'idea non è stata abbandonata dai più accorti esponenti laici arabi, come Amzi Bisharah, secondo il quale «quando la coscienza sociale prende una forma religiosa, è possibile che le richieste di applicazione della Shari'a esprimano una tendenza democratica o (almeno) un'opposizione al dispotismo, per il solo fatto che il governo della Shari'a implica delle restrizioni all'esercizio del potere politico oltre e al di sopra della semplice volontà dei governanti» (10).

Le osservazioni di Ghannouchi, di Bisharah e di altri (11) indicano che può essere possibile trovare elementi di costituzionalismo nell'Islam, elementi che possono venire espressi per mezzo di termini moderni come 'governo della legge' (contrapposto al 'governo degli uomini').

Naturalmente il costituzionalismo non si riduce alla semplice idea di legalità o all'idea di imporre restrizioni al potere dei governanti terreni. Queste idee infatti, per quanto nobili, possono essere sabotate da altri elementi (impliciti) della tradizione, che potrebbero rendere vacua la rivendicazione del costituzionalismo. Tutto questo andrà esaminato a tempo debito. Il metodo più idoneo da seguire è quello che inizia con una ricerca sul ruolo della legge nell'Islam. Una siffatta indagine potrebbe fornirci spunti interessanti sulla costituzione islamica e sul costituzionalismo da essa implicato.

3. I fondamenti del costituzionalismo islamico

Il costituzionalismo fa riferimento all'idea di diritto, in quanto richiede che la condotta dei diversi organi dello Stato nei confronti dei cittadini e il comportamento dei cittadini fra di loro siano regolati da leggi o regole (scritte o non scritte). Per questo motivo è utile iniziare la ricerca sui possibili fondamenti del costituzionalismo nel pensiero islamico con la seguente domanda: che cosa sia la legge (islamica) e che ruolo essa svolga nella società. Qui si può sperare di scoprire i fondamenti del costituzionalismo (o di una sua versione) nell'Islam.

Secondo la tesi di un influente teorico islamico dell'epoca moderna, Mawdudi, il pensiero islamico non traccia un confine fra le leggi che governano il sistema della natura (considerata come mera realtà fisica) e le leggi che governano (o dovrebbero governare) gli affari umani nella società. Per il pensatore musulmano tutte le leggi, in ultima istanza, sono leggi di Dio. In un passo che ricorda la distinzione tomista fra legge eterna e legge divina (cioè rivelata) (12), Mawdudi scrive: «dal momento del concepimento fino all'ultimo giorno di vita, gli esseri umani sono completamente soggetti alla legge naturale di Dio, incapaci di violarla o di andare contro di essa. Chi crede nella rivelazione divina deve anche credere che Dio governa la parte volontaria della nostra vita oltre che la parte involontaria e l'universo nella sua interezza» (13).

Tralasciando, perché irrilevanti per i nostri scopi, le leggi che governano il moto dei pianeti e le altre parti della mera realtà fisica, ci restano quelle parti della legge di Dio alle quali ci si riferisce complessivamente con il nome di Shari'a. Secondo la concezione che ne hanno molti pensatori islamici, la Shari'a è onnicomprensiva e prevede tutte le azioni di cui gli esseri umani sono capaci nella società. Secondo Mawdudi «i giudizi di bene e di male [dettati dalla Shari'a] coprono ogni parte della nostra vita. Coprono gli atti e i doveri religiosi, oltre che le azioni compiute dagli individui che si riflettono sul loro modo di vivere, sulla loro morale, sui loro costumi, sul loro modo di mangiare e di bere, sul loro abbigliamento, sui loro discorsi e sulla loro vita familiare. Coprono le relazioni sociali, le materie finanziarie, economiche e amministrative, i diritti e i doveri della cittadinanza, gli organi dello Stato, la guerra e la pace, e i rapporti con le potenze straniere [...] non c'è parte della nostra vita in cui la Shari'a non distingua fra bene e male» (14).

E' in questo campo ricco e variegato del diritto della Shari'a che ci aspetteremmo di trovare gli elementi della costituzione islamica, oltre che del costituzionalismo definibile in rapporto ad essa. Si tratta di un'aspettativa legittima, suffragata dal fatto che i pensatori islamici spesso considerano la Shari'a una specie di costituzione. Hasan Turabi, per esempio, pensa che «la Shari'a è la legge suprema, proprio come la costituzione, ma è una costituzione di dettaglio» (15). E Mawdudi stesso crede che la 'costituzione islamica non scritta' esista già e attenda soltanto lo sforzo di codificarla sulla base delle sue fonti originarie, che sono identiche alle fonti della Shari'a (16).

Nei prossimi due paragrafi discuterò i vari temi costituzionalistici che si possono rinvenire nel pensiero islamico, ma per il momento occorre esaminare la base del carattere obbligatorio che hanno le leggi nella visione islamica del diritto. Per arrivare a una visione islamica del costituzionalismo dobbiamo non solo determinare il tipo e il numero delle leggi che sono considerate rilevanti per il costituzionalismo (nel senso occidentale) ma dobbiamo indagare la logica o la ragion d'essere soggiacente a queste leggi. Essa infatti getta luce sul carattere normativo delle leggi, l'attributo necessario per avere una situazione di obbligo invece che di coercizione.

Sulla questione delle fonti dell'obbligo morale le scuole di pensiero islamico sono essenzialmente due (17). Non parliamo qui dell'obbligo morale in generale ma dell'obbligo morale di obbedire alle leggi e di seguire una prassi che tocca diversi aspetti della nostra vita, pubblica e privata. Questi obblighi vanno dal dovere di soccorrere il viandante bisognoso all'obbligo di obbedire ai detentori dell'autorità.

La prima di queste due scuole di pensiero, di gran lunga la più durevole e influente, è la scuola ash'arita. È esistita (almeno come tendenza) fin dai primi tempi della teologia islamica, a giudicare dalla lettera che Hasan al-Basri (morto nel 728) scrisse per confutare certe concezioni della giustizia divina e della responsabilità umana che tendono ad accompagnare questa visione (18).

Niente indica probabilmente in modo più eloquente lo spirito che anima la visione ash'arita della morale che la definizione che essa dà di nozioni morali fondamentali come bene, male e giustizia. La definizione ash'arita pone anche limiti alla varietà di opinioni che si possono avere sul diritto, sulla morale e sui doveri.

Prendiamo ad esempio ciò che dice Ash'ari (morto nel 935) delle azioni che Dio è capace di compiere. Secondo la tradizione islamica (come quella giudaico-cristiana), Dio è onnipotente. Ciò significa che non c'è niente che Dio non possa fare, in senso morale? Secondo Ash'ari, «Dio ha diritto di fare tutto ciò che fa. Ciò è dimostrato dal fatto che Egli è il Padrone più potente; non c'è nulla che abbia potere su di Lui, nessuno che proibisca o comandi [...] niente che ponga limiti al Suo potere o tracci un confine intorno alle Sue azioni. Se è così, ne segue che nulla di ciò che Dio può fare può essere considerato un male. Infatti fare il male non è altro che oltrepassare il confine che ci è stato assegnato, fare ciò che non si ha diritto di fare (19).

Il tema soggiacente, che conferisce a questo passo un'importanza critica, è se Dio debba essere concepito come un 'monarca costituzionale' o come un despota soggetto solo ai dettati della sua volontà. C'è motivo di ritenere che questa volontà abbia implicazioni negative sulla concezione del costituzionalismo risultante, anche se 'costituzionalismo', nel senso primario, non è un attributo di soggetti individuali come Dio o il monarca.

La visione ash'arita, nel suo insieme, non sembra favorire la prima alternativa, quella che vede in Dio un essere 'costituzionale'. Fra le prime leggi che Dio dovrebbe osservare, posto che ve ne siano, vi sarebbe quella che prescrive «l'innocente non sarà punito» o, forse, «chi fa il bene sarà ricompensato». Ma questo non è vero, secondo il famoso teologo Ghazali (morto nel 1111) che seguì le orme di Ash'ari: «Dio [...] può ferire e torturare le creature, nonostante che non abbiano commesso alcun male in precedenza. Può anche omettere di ricompensarle nell'Aldilà. Dio infatti ha diritto di fare ciò che desidera nel Suo regno (mulk) [...] Commettere ingiustizia non è altro che compiere un'azione in un regno governato da un altro, senza chiedere prima il permesso al padrone. Questo naturalmente è impossibile nel caso di Dio, perché non c'è regno che non Gli appartenga. Perciò non c'è regno in cui Egli possa agire ingiustamente» (20).

Ciò può apparire assai poco convincente, ma non si comprende questa concezione se prima non si esaminano le ragioni che condussero i primi teologi islamici a queste conclusioni. È difficile per un teologo che prenda sul serio l'onnipotenza divina accettare l'idea che Dio sia soggetto a qualcosa, sia pure a qualcosa di intangibile come il diritto. Si dovrebbero esaminare le posizioni dei primi teologi musulmani che iniziarono a riflettere su questi temi filosofici nei secoli successivi alla conquista islamica degli antichi centri della civiltà. Colmi di un senso di devozione e di meraviglia per la potenza divina, molti di loro devono avere incontrato enormi difficoltà a fare i conti con l'idea di un Dio limitato, un Dio il cui fare e volere fosse in qualche modo vincolato.

Per certi aspetti la visione ash'arita somiglia al positivismo giuridico. È un tipo di positivismo teistico, se vogliamo. Come il diritto positivo, la legge di Dio va intesa con riferimento al soggetto che la emana. Inoltre (secondo gli ash'ariti) il carattere obbligatorio che ha la legge di Dio non va spiegato con riferimento al suo contenuto. Non dipende neppure dalla nostra comprensione (come creature razionali) di ciò che la legge significa. La sua obbligatorietà deve essere piuttosto spiegata pensando al rapporto che intercorre fra coloro che si suppone debbano obbedire alla legge e il soggetto che è riconosciuto come fonte legittima del diritto (21).

Nel caso del positivismo teistico di Ash'ari il soggetto che emana la legge e la dichiara tale non è altri che Dio. La relazione fra il legislatore e coloro che sono soggetti alla legge è una relazione di potere. Dio è il padrone dell'universo e noi siamo parte del suo regno, soggetti alle Sue punizioni. Non siamo in grado di discutere i Suoi comandi o le Sue proibizioni. Bene e male, obbligatorio e vietato, al pari di tutti gli altri attributi morali, devono essere definiti riferendosi ai comandi di Dio.

Il positivismo però, sia nella sua variante naturale e più familiare che nella sua variante ultraterrena che abbiamo attribuito alla scuola ash'arita, si imbatte in molte difficoltà. In entrambi i casi bisogna chiedersi: «perché la scelta del legislatore ha una natura normativa, nel senso che è vincolante e pertanto deve essere accettata?» (22). È difficile immaginare di poter rispondere a questa domanda senza fare riferimento al significato della legge e alla posizione che assumiamo nei suoi confronti come creature razionali che hanno degli interessi.

Naturalmente il teologo ash'arita può rispondere che facciamo una domanda empia, che non dovrebbe essere posta in alcun caso, ma una siffatta posizione non è convincente, neppure per chi crede fermamente nell'Islam. Non solo infatti Dio spiega i suoi comandi e le sue proibizioni in molti luoghi del Corano, ma l'interpretazione ash'arita del significato dei termini morali fondamentali è destinata a privare di senso molti versetti del Corano. Come osserva George Hourani, «i ripetuti comandi di Dio di fare ciò è giusto sarebbero privi di forza e vani se volessero dire soltanto 'comandi di fare ciò che Egli comanda'. Sarebbe ancora più difficile dare un senso alle affermazioni che Dio è sempre giusto verso i Suoi servi se si supponesse che 'giusto' significa 'ordinato da Dio'. L'unica mossa possibile a questo punto è ricorrere alla trascendenza del significato con riferimento a Dio: sempre l'ultimo rifugio del teologo frustrato (23).

Quali che siano le difficoltà filosofiche in cui si imbatte l'ash'arismo, ciò non significa che sia impossibile concepire un argomento per il costituzionalismo su basi ash'arite. Significa invece che il costituzionalismo in questione è probabilmente letterale (dominato dal rispetto della lettera della scrittura, che è pur sempre la parola di Dio), rigido (per non rischiare di legiferare contro i comandi di Dio) e non razionalistico (24). Sotto questi aspetti l'ash'arismo differisce dal mu'tazilismo. Si può dire presumibilmente che quest'ultimo favorisca un tipo di costituzionalismo più razionalistico, meno conservatore e più illuminato, come si può vedere dalla sua filosofia morale.

Secondo la caratterizzazione di Frank, i mu'taziliti ritenevano che «tutti gli uomini sani di mente apprendono da un'intuizione immediata e irriducibile che certi atti [...] sono moralmente obbligatori [...] e che certe azioni sono moralmente cattive» (25). Inoltre i predicati etici come 'bene' e 'male' possono essere attribuiti alle azioni in maniera oggettiva, cioè in una maniera determinata dalle qualità delle azioni stesse e non dall'atteggiamento di chi osserva l'azione, sia esso un essere umano o Dio stesso.

Per illustrare la concezione mu'tazilita della morale consideriamo un passo di un tardo pensatore mu'tazilita, al-Qadi 'Abd al-Jabbar (morto forse nel 1025). 'Abd al-Jabbar chiarisce che la conoscenza del bene (quando esiste) basta a determinare l'obbligo morale. Inoltre egli nega esplicitamente che bene e male vadano definiti nei termini di ciò che la rivelazione comanda o proibisce. Questa tesi è sostenuta adducendo l'esempio dei doveri di pura devozione (come il dovere di pregare in un certo modo e certe ore del giorno) che sono noti solo grazie alla rivelazione: «la rivelazione svela soltanto il carattere di quegli atti di cui dovremmo riconoscere la bontà o la malvagità se li conoscessimo per mezzo della ragione; se infatti avessimo conosciuto per mezzo della ragione che la preghiera ci è di grande aiuto [...] avremmo dovuto conoscerne il carattere obbligatorio [anche] per mezzo della ragione. Perciò diciamo che la rivelazione non necessita (la yujib) la malvagità o la bontà di alcunché, ma svela il carattere dell'atto indicandolo, proprio come la ragione, e distingue fra il comando dell'Altissimo e quello di un altro essere per mezzo della Sua saggezza, che non comanda mai ciò che è male comandare» (26).

L'orientamento intellettuale con cui i mu'taziliti studiano la morale promette di portare a un tipo di costituzionalismo diverso da quello di tipo ash'arita. Per cominciare, la concezione mu'tazilita del diritto è notevolmente meno eteronoma di quella ash'arita. Secondo quest'ultima il diritto consiste di un elenco di comandamenti divini che non promanano dalla ragione umana, inadatta a discuterli. Dio inoltre assume il ruolo del governante assoluto il cui potere è totalmente privo di limiti ed il cui giudizio definisce ciò che è bene e male, ciò che è legale e ciò che è illegale. Il Dio mu'tazilita, invece, sembra molto diverso. In quanto obbedisce a leggi morali valide indipendentemente dall'atteggiamento di chi osserva (o conosce), Egli può essere considerato un 'monarca costituzionale' che non è al di sopra della legge sotto alcun aspetto.

I mu'taziliti non credevano soltanto nella razionalità e nell'oggettività della morale (e delle leggi che devono essere giustificate con riferimento a essa), ma adottavano tipicamente la dottrina della creazione del Corano (che è la parola di Dio). Questa dottrina, che appare singolare agli occhi moderni, generò molte discussioni durante il periodo mu'tazilita della storia intellettuale islamica. Dato che è possibile leggere questo dibattito, almeno in parte, come un dibattito sul costituzionalismo e i limiti dell'autorità, può essere utile riassumere brevemente la posizione presa al suo interno dai mu'taziliti.

All'epoca in cui la questione della creazione del Corano irruppe sulla scena intellettuale islamica durante il secondo secolo del governo degli Abbasidi (750-1258), le opinioni politiche erano polarizzate fra quelli che Watt chiama un 'blocco costituzionalista' e un 'blocco autocratico'. Al blocco costituzionalista apparteneva anche il ceto nascente degli 'ulema, insieme ad altri uniti dalla credenza che «il modo di vivere della comunità islamica fosse costituito dalla rivelazione sovrannaturale contenuta nel Corano e nelle Tradizioni [del Profeta]» (27).

Sostenere che il Corano è stato creato non significa solo che il Corano non è propriamente divino, ma che il califfo (che capeggiava il 'blocco autocratico') aveva le mani più libere nell'interpretare la scrittura ed emanare le leggi. Significava anche sminuire l'autorità della classe degli 'ulema, che avevano molto seguito fra la gente comune e il cui status e la cui autorità nella comunità derivavano in parte dal loro legame speciale con la scrittura (in quanto studiosi e interpreti). Da un certo punto di vista, opporsi alla dottrina della creazione del Corano significava opporsi al dispotismo, al potere incontrollato. Secondo la valutazione di Watt, «era in gioco la concezione generale del califfato: non quale particolare persona o famiglia dovesse governare, ma che genere di governante bisognasse cercare. Il califfo deve essere una persona con il 'diritto divino' di governare, ed essere quindi la fonte primaria di tutto il diritto nello Stato? O deve essere soltanto un uomo soggetto al diritto divino contenuto nel Corano e nella Sunna del Profeta?» (28)

I mu'taziliti stavano con il partito autocratico, e quando l'appoggio ufficiale alla dottrina della creazione del Corano venne meno durante il regno di al-Mutawakil (morto nel 861) il loro destino fu segnato. Ciò non vuol essere però una valutazione della loro dottrina morale. Senza dubbio infatti l'alleanza dei mu'taziliti con i poteri costituiti non era una conseguenza logica della loro dottrina, ma era la tentazione cui le élites illuminate sono sempre state esposte nel corso di tutta la storia islamica: non potendo credere nella capacità del popolo di governarsi da sé con buone leggi, esse tendevano ad affidarsi al governante saggio e illuminato che possedeva il potere assoluto. Il potere di questo governante non era senza leggi o incostituzionale, non più di quello del re filosofo di Platone. Ma non era neppure 'democratico'.

In realtà può essere utile (se non è del tutto anacronistico) vedere la differenza fra gli ash'ariti e i mu'taziliti alla luce della distinzione di Elster fra i due 'lati' del costituzionalismo. Secondo Elster un lato del costituzionalismo può essere riassunto con la frase 'regole contro discrezionalità' (29). Il significato di questa espressione è chiarito dal riferimento alla 'guerra' combattuta dal costituzionalismo contro il potere esecutivo: non si vuole che i governanti abbiano troppo potere discrezionale nell'esercizio del governo. Insistendo su leggi e regole il costituzionalismo sottrae le decisioni al regno del giudizio privato individuale, anche quando quest'ultimo non mira ad altro che al bene comune. Si può ritenere che nella sua essenza la visione ash'arita del costituzionalismo islamico mira a limitare i poteri discrezionali che i governanti sarebbero inclini a esercitare. I governanti sono tenuti sotto controllo perché su di loro si erge, come una costituzione divina che non può essere rovesciata, la Shari'a.

L'altro lato del costituzionalismo, secondo Elster, può venire riassunto con l'espressione 'regole contro passioni'. Da questo punto di vista si può dire che il costituzionalismo abbia combattuto una guerra non contro il potere esecutivo ma contro quello legislativo. L'idea è quella di garantire il buon governo isolando in qualche modo il processo politico dai 'capricci' e dalle 'passioni' di maggioranze transitorie e forse irresponsabili che si possono formare all'interno del legislativo. Visto in questa luce il costituzionalismo dimora nell'aula della Corte suprema, autorizzata a giudicare la costituzionalità della legislazione (30).

Ora, non si può dire che gli ash'ariti rappresentassero il partito democratico né che i mu'taziliti anticipassero l'idea di un potere giudiziario separato. Pensare questo sarebbe anacronistico e non suffragato da prove. Tuttavia, in quanto gli ash'ariti ebbero un seguito popolare e in quanto rappresentavano l'opposizione al governo dispotico, si può essere scusati se si abbandona momentaneamente la distinzione fra populismo e democrazia. D'altra parte non si può negare che i mu'taziliti, per molti aspetti, rappresentassero la 'voce della ragione', l'illuminismo e il progressismo che i costituzionalisti moderni cercano a volte nella Corte suprema. I mu'taziliti si opponevano a un certo tipo di conservatorismo (tradizionalismo) che, se avesse avuto campo libero, avrebbe potuto rendere storicamente immobile la comunità. Certo, non si può ritenere che i mu'taziliti rappresentassero quel lato del costituzionalismo che tiene a bada le 'passioni' delle masse. Ma è plausibile guardare al loro costituzionalismo come ad una barriera contro l'inerzia, il tradizionalismo e la debole razionalità delle masse.

Riassumendo: abbiamo visto che l'idea di governo secondo la 'legge' è una parte essenziale del pensiero politico islamico. La Shari'a è semplicemente la legge di Dio ed è innegabilmente il cuore della fede islamica. Inoltre la Shari'a può essere vista in modo conservatore e letterale (il metodo usato dagli ash'ariti) oppure in modo liberale e razionale (la scelta dei mu'taziliti). Entrambe le concezioni della Shari'a possono condurre al costituzionalismo.

Restano da esplorare i temi, gli elementi e i concetti che si possono raccogliere sotto la rubrica del costituzionalismo, nel senso islamico del termine. Dobbiamo cioè chiederci: che cosa è costituzionale nella Shari'a islamica? Qual è il suo potenziale per lo sviluppo ulteriore delle idee costituzionali?

4. Il contenuto del costituzionalismo islamico: la questione dei diritti

Nelle pagine seguenti mi atterrò all'idea di costituzionalismo proposta da Lane, un'idea concisamente espressa nell'articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (1789): «una società in cui non siano garantiti i diritti e non sia istituita la separazione dei poteri è priva di costituzione» (31).

Iniziamo con la questione dei diritti perché è più facile del problema dei diversi rami del governo e dei loro possibili rapporti. Quali diritti hanno gli individui nell'Islam? Come appare il modello islamico dei diritti (dell'uomo) in confronto ad altri modelli?

È un luogo comune affermare che l'Islam non significa la stessa cosa per tutti coloro che lo professano o lo praticano. Ciò è vero sotto molti aspetti, ma in particolare il tema dei diritti spicca come un ambito tematico entro il quale sono possibili interpretazioni della fede drasticamente diverse.

È utile pensare alla varietà delle interpretazioni possibili nei termini dell'antica rivalità fra ash'ariti e mu'taziliti. È vero che gli avversari attuali non si vedono come gli eredi di quell'antica rivalità, ma non c'è dubbio che molti dei temi, delle ragioni e perfino degli interessi contrapposti che generarono quell'antica divisione operino ancora oggi e siano destinati con ogni probabilità a operare anche in futuro.

Come era da aspettarsi, i pensatori di orientamento ash'arita tendono a essere letterali, tradizionali e più difensivi nel loro atteggiamento verso la modernità, compresa la questione dei diritti umani. I pensatori di orientamento mu'tazilita, d'altra parte, tendono a essere più progressisti e più audaci nelle loro interpretazioni e innovazioni.

Per vedere come sono concepiti i diritti secondo il modello ash'arita consideriamo gli scritti di Mawdudi, un pensatore islamico molto famoso e influente. Nel suo al-Khilafah wa al-Mulk (Califfato e regno) egli enumera non meno di tredici diritti dei cittadini contro il governo, che includono i diritti alla vita, alla dignità, alla riservatezza e di proprietà, le garanzie procedurali, l'uguaglianza davanti alla legge, le libertà di opinione e di riunione e la libertà dalla persecuzione religiosa. Molti o la maggioranza dei diritti che egli enumera sono suffragati dal riferimento a versetti sostanzialmente univoci del Corano (32).

In astratto alcuni dei diritti individuali trattati da Mawdudi sono notevolmente simili ai diritti citati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Ma guardando ad altri scritti di Mawdudi si trovano motivi di ripensamento, specialmente per quanto riguarda le donne e i non musulmani. Nel suo Tadwin al-Dustoor al-Islami (Codificazione della costituzione islamica) i diritti delle donne sono rigidamente limitati: per esempio, non è permesso loro di sedere nel 'Consiglio consultivo' (majlis al-shura), sulla scorta di una tradizione profetica che afferma che «un popolo guidato da una donna non sarà mai prospero» (33). Analogamente nell'opera al-Qanun al-Islami (Il diritto islamico) i non musulmani non godono degli stessi diritti politici dei musulmani (anche se il diniego è ricondotto all'idea che la comunità politica islamica è per definizione non laica, e pertanto non può, senza contraddire se stessa, ignorare la religione nell'attribuzione dei diritti politici (34).

Lo stesso spirito conservatore sembra presente in molti dei modelli islamici dei diritti umani che sono stati resi pubblici. I documenti in questione tendono a essere cauti, in relazione al fatto che si rivolgono potenzialmente a un pubblico internazionale. Tuttavia contraddizioni, oscurità ed equivoci emergono in molti luoghi, specialmente nel campo della libertà di pensiero, del trattamento dei non musulmani e dei diritti delle donne. Per esempio, mentre le versione inglese dell'articolo XX(a) della Dichiarazione universale islamica dei diritti dell'uomo stabilisce che il marito è proprietario dei mezzi di sostentamento della moglie «in caso di divorzio», la versione araba dello stesso articolo usa l'espressione «se la ripudia». Ciò che la versione inglese passa sotto silenzio è, ovviamente, lo spinoso problema del «diritto incondizionato di ripudiare» che la Shari'a ha sempre riconosciuto agli uomini. Per giunta la versione araba evoca la nozione di qiwamah (l'autorità degli uomini sopra le donne), che invece la versione inglese omette totalmente.

Non è questa la sede per discutere i modelli islamici dei diritti umani, né le circostanze, le pressioni e i compromessi che hanno dato loro origine. Basti dire che molti concetti non sono intesi nello stesso modo dagli islamisti conservatori e dai fautori dei diritti umani che spesso muovono da una base laica. Per il pensatore di orientamento ash'arita 'il diritto' significa semplicemente (o dovrebbe significare) il diritto della Shari'a. Perciò quando accoglie con favore la nozione apparentemente moderna di 'uguaglianza davanti alla legge', di fatto accoglie con favore la nozione non altrettanto moderna di 'uguaglianza davanti alla Shari'a'. Come scrive Ann Mayer, «si afferma che l'uguaglianza davanti alla legge significa che tutti i musulmani devono essere trattati ugualmente sotto la Shari'a e che tutti i non musulmani devono anch'essi essere trattati ugualmente sotto la Shari'a, ma non che musulmani e non musulmani devono essere trattati nello stesso modo o che devono godere degli stessi diritti in base alla legge» (35).

Ciò non deve però renderci ciechi di fronte all'ampia varietà di diritti e di strumenti di tutela conosciuti dalla Shari'a, anche se intesa in senso conservatore. Oltre ai diritti citati da Mawdudi si dovrebbero menzionare i diritti economici e sociali che gli individui possono far valere contro lo Stato e la società nel suo insieme sulla base di alcuni versetti abbastanza univoci del Corano («[siano salvi] coloro la cui ricchezza conosce il diritto del mendicante e del derelitto» [LXX, 25]). Inoltre gli individui hanno diritti non solo in tempo di pace ma anche in tempo di guerra e di instabilità, come il diritto di asilo che la Shari'a estende anche agli infedeli («e se qualcuno degli idolatri cerca la tua protezione, concedigli la protezione finché le sue orecchie non odano le parole di Dio e allora portalo al suo luogo sicuro» [IX, 6]).

È altrettanto significativo che gli individui abbiano dei diritti politici, come il diritto di resistere al governante ingiusto in nome della tradizione profetica, secondo la quale «non c'è obbedienza a una creatura che pecca contro il Creatore». La Dichiarazione universale islamica dei diritti dell'uomo arriva a proclamare che la democrazia è (almeno in teoria) un diritto dell'uomo. Secondo l'articolo XI della Dichiarazione, «il processo di libera consultazione (shura) è la base del rapporto amministrativo fra governo e popolo. I popoli hanno anche il diritto di scegliere e sostituire i loro governanti in conformità a questo principio».

Nonostante tutte queste disposizioni positive, il modello dei diritti individuali e degli strumenti di tutela offerto dai pensatori ash'ariti lascia molto a desiderare, almeno dal punto di vista di chi vuole che i diritti umani islamici siano completamente conformi ai criteri internazionali. Questo è l'atteggiamento di un pensatore islamico contemporaneo come Abdullahi an-Na'im, la cui concezione dell'etica e le cui opinioni audaci sul modo di interpretare la Shari'a ricordano molto, a dir poco, il mu'tazilismo. Naturalmente egli accetta tutte le disposizioni non controverse contenute nella Shari'a ma vuole che la riforma vada oltre, fino a rendere la legislazione islamica pienamente conforme alle disposizioni internazionali sui diritti umani.

Abdullahi an-Na'im non è solo un pensatore razionalista in etica, ma è anche dotato di mentalità storica. Sulla scia del suo maestro Mahmoud Taha egli distingue due fasi nello sviluppo religioso dell'Islam. Nella prima fase (la fase della Mecca), quando l'Islam era ancora una religione debole e perseguitata, esso si presentava come un semplice messaggio spirituale che riconosceva la dignità e l'umanità di ogni persona senza distinzioni di genere o di credo religioso. Durante la seconda fase (la fase di Medina), invece, l'Islam vittorioso istituì una comunità politica che aveva bisogno di essere governata in un modo specifico, appropriato alle condizioni storiche allora prevalenti.

Secondo questo autore, «se la base del diritto islamico moderno non si allontana dai testi del Corano e della Sunna risalenti al periodo di Medina, che costituirono il fondamento della costruzione della Shari'a, non c'è modo di evitare drastiche e gravi violazioni dei diritti umani. Finché si rimane legati al quadro della Shari'a, non c'è modo di abolire la schiavitù come istituzione giuridica né di eliminare in tutte le loro forme e sfumature le discriminazioni contro le donne e i non musulmani (36).

In effetti an-Na'im propone una nuova Shari'a, fondata sul messaggio islamico originario descritto altrove come «il messaggio eterno e fondamentale dell'Islam» (37). Per dare un'idea del contenuto di questo messaggio essenzialmente etico e umanistico, consideriamo questi versetti di un'antica sura della Mecca: «vieni, ti parlerò di ciò che il tuo Signore ti ha proibito: che tu non associ nulla a Lui, e che tu sia buono con i tuoi genitori, e che tu non uccida i tuoi figli a causa della povertà; Noi provvederemo per te e per loro; e che tu stia lontano da ogni indecenza esteriore e interiore, e che tu non uccida l'anima che Dio ha proibito, se non per giusto motivo. Questo dunque ti ha ingiunto; forse capirai. E che tu stia lontano dalla proprietà dell'orfano, se non nella maniera più giusta, finché non abbia raggiunto la maggiore età. E che tu riempia la misura e la bilancia con giustizia. Non ingiungiamo nulla a un'anima se non ciò di cui è capace. E quando parli a qualcuno sii giusto, anche se fosse il tuo parente più prossimo. E onora la promessa fatta a Dio. Questo Egli ti ha ingiunto; forse ricorderai (VI, 150-151)».

An-Na'im invoca un 'principio di reciprocità' che ci ingiunge di non negare agli altri i diritti che a nostro avviso ci spettano. Questo principio soggiace all'universalità dei diritti umani e si può trovare in tutte le principali tradizioni religiose, compreso l'Islam: «c'è un principio normativo comune condiviso da tutte le principali tradizioni culturali che, se interpretato in modo illuminato, è in grado di sorreggere i princìpi universali dei diritti umani. È il principio di trattare gli altri così come si desidera essere trattati da loro. Questa regola aurea, a cui ci si riferisce come principio di reciprocità, è condivisa da tutte le principali tradizioni religiose del mondo. Inoltre la forza logica e morale di questa proposizione semplice può essere facilmente apprezzata da tutti gli esseri umani qualunque sia la loro tradizione culturale o il loro credo filosofico» (38).

Argomentando in questo modo an-Na'im invoca i testi etico-umanistici del periodo della Mecca, mentre, per i testi del periodo di Medina, cerca spiegazioni contestuali che gli consentano di metterli da parte perché inadatti alle condizioni moderne. In questo modo egli arriva a una Shari'a 'riformata' che proibisce la schiavitù, riconosce l'uguaglianza fra uomo e donna e concede pieni diritti a tutti i cittadini indipendentemente dall'affiliazione religiosa.

Riassumendo, possiamo dire che la Shari'a offre un campo ricco e variegato nel quale i diritti dell'uomo possono essere fondati. A seconda di come è interpretata la Shari'a possono esserci limiti, gravi omissioni ed errori che la nostra sensibilità etica moderna non può accettare. Non si dovrebbe però forse giudicare la Shari'a (ed altre tradizioni religiose) troppo severamente. Dopo tutto non saremmo stati capaci di avere la visione di una sola umanità i cui membri sono uguali in dignità e diritti, dotati di diritti umani inalienabili senza riguardo al genere, alla razza o alla posizione sociale, se non ci fossimo 'sollevati sulle spalle' dei profeti che furono i primi a enunciare l'uguaglianza di tutti gli esseri umani agli occhi di Dio loro Creatore.

5. Il contenuto del costituzionalismo islamico: la separazione dei poteri

Passiamo adesso alla questione del funzionamento interno dello Stato dal punto di vista della Shari'a. La prima cosa da osservare a questo riguardo è che la Shari'a (così come è stata intesa e praticata fino a tempi molto recenti) non offre una dottrina della 'separazione dei poteri'. Ciò non dovrebbe sorprendere perché la dottrina (occidentale) della separazione dei poteri è essa stessa di origine recente; inoltre, e in primo luogo, la Shari'a islamica tradizionale non conosceva poteri specifici all'interno dello Stato che potessero venire separati l'uno dall'altro.

Naturalmente non c'è ragione per cui i pensatori contemporanei che si ispirano alla Shari'a non possano raccogliere la sfida di elaborare una posizione che rispetti il funzionamento delle diverse parti dello Stato. Ma prima di guardare alle prospettive di adempiere questo compito, e al quadro che potrebbe emergerne, può essere utile esaminare la teoria politica formulata da Mawardi (morto nel 1031). Per alcuni aspetti questa teoria rappresenta la 'sfera politica' così come è concepita dalla Shari'a tradizionale.

Mawardi considera (o almeno sembra considerare) il califfato una carica elettiva. C'è disaccordo sul numero degli 'elettori', secondo Mawardi, perché alcuni parlano della 'generalità' del paese, altri dicono cinque, altri ancora almeno uno. Inoltre, «l'investitura o la nomina da parte di un predecessore è ammissibile e corretta». Ciò si basa sul precedente di Abu Bakr (il primo califfo) che nominò al califfato 'Umar (39).

Salvo menzionare le qualità che devono avere gli elettori, come la probità, la conoscenza e la prudenza, Mawardi non dice come essi debbano essere scelti. Data la funzione importante che gli elettori hanno (o possono avere), la mancata discussione del modo di sceglierli non è un'omissione di poco conto.

L'obbedienza al califfo non è un dovere assoluto e incondizionato dei sudditi. In realtà ci sono due circostanze in cui il califfo può perdere il suo titolo: mancanza di giustizia e incapacità fisica. «Un governante che perda il suo titolo per questi motivi deve abbandonare il suo posto e non può esservi ricollocato, quando abbia riacquistato la probità, senza una nuova nomina» (40). Ma, ancora una volta, Mawardi non affronta il problema di chi stabilisce, e con quale procedura, se il governante sia divenuto illegittimo per mancanza di giustizia o per altro motivo. Secondo Bernard Lewis questa è «la domanda cruciale che un costituzionalista moderno si porrebbe» (41).

L'osservazione di Lewis richiama l'attenzione sul tipo di costituzione, ammesso che ci sia, che un regime fondato sulla Shari'a può avere. Negli ultimi decenni i pensatori islamici hanno iniziato a discutere questo tema dopo avere imparato la lezione che uno Stato islamico moderno, come gli altri Stati moderni, deve avere poteri diversi (separati): l'esecutivo, il legislativo e il giudiziario, oltre che diversi tipi di leggi (costituzionali, penali, amministrative, pubbliche ecc.).

L'interesse per la struttura e il funzionamento interno dello Stato ha acquistato un grado considerevole di maturità nelle teorie e nelle proposte dei pensatori islamici che hanno preso sul serio il problema della democrazia (o governo popolare). I più noti di questi pensatori sono probabilmente Ghannouchi, Turabi, Mawdudi e Khatami.

Mawdudi può essere menzionato a questo riguardo, nonostante il suo conservatorismo, perché ci presenta una discussione chiara di questi temi. In Tadwin al-Dustoor al-Islami (Codificazione della costituzione islamica) Mawdudi riconosce l'esistenza di una costituzione islamica 'non scritta' e in al-Qanun al-Islami (Il diritto islamico) descrive le varie leggi (costituzionali o di diverso tipo) che i legislatori islamici devono redigere.

Aprendo la strada alla discussione sul significato e sul ruolo del parlamento ('assemblea legislativa') nel regime islamico, Mawdudi (insieme ad altri pensatori islamici) compie un'opzione decisiva a favore di un governo popolare, nel quale la gente elegge liberamente chi la rappresenta. Questa scelta è preceduta da alcune osservazioni pie, di cui non occorre occuparci in questa sede (42), sulla 'sovranità' che rimane a Dio (e soltanto a Dio) mentre il popolo (come un tutto) agisce da 'vicario': «il Corano stabilisce che il califfato [...] non è un diritto che spetta a un individuo, a una famiglia o a una classe. È un diritto che appartiene a tutti coloro che riconoscono la sovranità divina e credono nella supremazia della legge divina. [...] Questa caratteristica rende democratico il califfato islamico, al contrario del cesarismo, del papismo o della teocrazia noti all'Occidente. Bisogna anche riconoscere che il sistema che è chiamato democrazia in Occidente non permette al popolo di essere sovrano. Il nostro sistema democratico [islamico], che chiamiamo 'califfato', permette al popolo di essere il vicario di Dio, riservando la sovranità a Dio soltanto» (43).

Mawdudi non è il solo a optare per il metodo del governo democratico. Posizioni simili sono state prese da Ghannouchi e Turabi. Una volta riconosciuto il diritto del popolo ad eleggere il califfo, non ci vuole molto a riconoscere il diritto del popolo ad eleggere 'rappresentanti' che diano voce agli interessi del popolo e vigilino sul potere esecutivo, detenuto dal califfo e dai suoi funzionari.

Dovendo fare i conti con due organi dello Stato, sorge immediatamente il problema dei rapporti fra essi. Adattando un'espressione antica a un uso moderno, Mawdudi si riferisce spesso ai membri del parlamento come a 'coloro che legano e sciolgono' (ahl al-hal wa al-'aqd) e pone il problema della loro posizione, se debbano essere semplici consulenti del califfo o se quest'ultimo sia 'legato' dalle loro decisioni. La sua risposta è che «non abbiamo altra scelta se non assoggettare il potere esecutivo alle decisioni della maggioranza del consiglio legislativo» (44).

Il problema se il potere esecutivo debba essere soggetto all'autorità del parlamento (o del consiglio legislativo) non è il più interessante fra quelli sollevati dalle discussioni sul costituzionalismo islamico. La maggior parte dei 'democratici islamici', se possiamo chiamarli così, rispondono affermativamente a questa domanda e poi passano a discutere un altro tema più serio e (per noi) più interessante: il tema dei limiti del potere legislativo.

Con questa domanda arriviamo finalmente al punto in cui i costituzionalisti occidentali (o almeno alcuni) guardano negli occhi i costituzionalisti islamici. In entrambi i casi emerge la preoccupazione che il potere legislativo possa approvare una legge che non sia equa o giusta.

Abbiamo già citato la tesi di Elster secondo cui il costituzionalismo combatte una 'guerra su due fronti', contro il potere esecutivo, che può pretendere una discrezionalità eccessiva nell'interesse di un governo efficiente, e contro il potere legislativo che può esprimere maggioranze oppressive o incongrue. La paura maggiore dei costituzionalisti (e dei democratici) islamici è che il legislativo possa approvare una legge contraria alla Shari'a. Per questo motivo molti di loro respingono seccamente l'idea di una 'sovranità popolare illimitata'. Ciò può venire illustrato dagli scritti di Ghannouchi e di Turabi. Per il primo, «nel Corano è scritto: 'credenti, obbedite a Dio, e obbedite al Messaggero e a coloro che hanno autorità sopra di voi' (IV, 59) [...] [questo versetto] indica chiaramente il centro dell'autorità suprema nella vita dei musulmani [...] dopo di questo viene il potere esercitato dal popolo. L'ambito legittimo di questo potere non viola la legge divina quale si può trovare nel Corano e nelle Tradizioni del Messaggero» (45).

Turabi, da parte sua, scrive che «naturalmente nell'Islam non c'è posto per un governo popolare separato dalla Fede [...] nell'Islam democrazia non significa potere popolare assoluto, ma potere popolare conforme alla Shari'a» (46).

Molto spesso i laici arabi che si considerano fautori della democrazia non sembrano accorgersi della necessità di sottoporre a limiti costituzionali il potere dell'assemblea legislativa. Non riescono a distinguere la democrazia pura e semplice, che può degenerare nel populismo o nell'anarchia, dalla democrazia costituzionale che (presumibilmente) ha intrinseche protezioni nei confronti di tali degenerazioni. Ai loro occhi i limiti posti da Ghannouchi e Turabi al potere del legislativo sono una violazione della democrazia e vengono anche assunti come prova del carattere spurio dell'aspirazione islamica alla democrazia.

Non discuteremo qui delle varie concezioni della democrazia in relazione al laicismo poiché il nostro interesse principale in questa sede è il costituzionalismo (dirò qualcosa di più su questo punto nel paragrafo conclusivo). Occorre invece concentrare l'attenzione sul significato delle restrizioni che i democratici islamici vogliono imporre al potere legislativo.

Ora, è abbastanza ovvia la necessità di un organo che controlli la legislazione proposta e approvata dal potere legislativo. Il modo più naturale di concettualizzare questa funzione è pensare ad un terzo potere dello Stato, il potere giudiziario, che include una Corte suprema incaricata del compito di decidere le questioni costituzionali. Questo è il punto in cui i critici cominciano a intravedere delle minacce al concetto stesso di democrazia. Questo è anche il punto in cui il costituzionalismo islamico deve muoversi con cautela per non incorrere in questa accusa.

È istruttivo il modo in cui questo problema è affrontato dalla costituzione della Repubblica islamica dell'Iran. Questa costituzione rappresenta probabilmente il primo tentativo mai compiuto di scrivere una costituzione dettagliata e funzionante da un punto di vista islamico. Ecco alcuni degli articoli rilevanti: (47)

Articolo 4: «tutte le leggi e i regolamenti civili, penali, finanziari, amministrativi, culturali, militari e politici, e ogni altra legge o regolamento, devono fondarsi sui principi islamici. Questo principio prevale in generale su tutti gli altri princìpi della costituzione, oltre che su ogni altra legge o regolamento. Ogni giudizio su questo punto spetta ai membri clericali del Consiglio dei guardiani».

Articolo 72: «l'Assemblea consultiva islamica non può approvare leggi contrarie ai fondamenti (usul) e ai giudizi (ahkam) della religione ufficiale del paese, o alla costituzione. È dovere del Consiglio dei guardiani accertare le violazioni in conformità all'articolo 96».

Articolo 96: «la conformità della legislazione approvata dall'Assemblea consultiva islamica alle leggi dell'Islam è accertata dalla maggioranza dei fuqaha' del Consiglio dei guardiani; la conformità alla costituzione è accertata dalla maggioranza dei membri del Consiglio dei guardiani.

Il Consiglio dei guardiani non è un organo elettivo. I membri clericali, in numero di sei, sono nominati dalla Guida spirituale, mentre gli altri sei membri sono nominati dal capo del Potere giudiziario, a sua volta nominato dalla Guida. Ciò induce Mayer ad affermare che «di conseguenza, neppure le garanzie dei diritti costituzionali possono valere se il clero [...] decide che tali garanzie non si fondano sui principi islamici» (48).

A questo punto i costituzionalisti islamici si trovano di fronte a problemi che, in tutta onestà, non si possono ritenere radicalmente diversi da quelli discussi dai pensatori occidentali contemporanei. Se infatti i pensatori islamici dovessero assoggettare completamente la Corte suprema o il 'consiglio dei guardiani' (o qualunque altro organo investito del compito di decidere le questioni costituzionali) alla volontà del legislativo, ciò farebbe pendere la bilancia dalla parte di quest'ultimo con tutti i timori conseguenti nei confronti di un oppressivo, oscurantista, ostinato governo della maggioranza. Se però viceversa il 'consiglio dei guardiani' divenisse completamente indipendente dalla volontà popolare, la democrazia non verrebbe con ciò a perdere il suo significato proprio, che è 'governo da parte del popolo'?

Non ci sono soluzioni facili, ovvie o perfette di questi problemi, discussi a lungo da Mawdudi in Tadwin al-Dustoor al-Islami. È istruttivo seguire il suo ragionamento perché rappresentativo degli ideali che animano molti pensatori islamici. Egli muove da una riflessione sulla 'età dell'oro' islamica, il periodo dei califfi 'ben guidati' (al-khulafa'u al-rashidun). A quei tempi il califfo poteva essere a capo di tre organi diversi: il califfato, i giudici e ahl al-hal wa al-'aqd (Mawdudi sembra considerarli dei prototipi islamici dei moderni poteri dello Stato). Il motivo è che gli uomini che vivevano allora erano di un tipo speciale: i califfi erano (come suggerisce il loro nome) 'ben guidati' (da Dio, naturalmente) e 'coloro che legano e sciolgono' non erano politici comuni: erano saggi, veritieri, degni di fede, ben qualificati e si distinguevano per i servizi resi all'Islam.

Mawdudi non trova alcun precedente, nel periodo dei califfi 'ben guidati', in cui dei giudici avessero annullato i giudizi resi da ahl al-hal wa al-'aqd. Ma il motivo per Mawdudi è che i membri di quest'ultimo gruppo (guidato dal califfo) erano uomini di grande saggezza. Erano assolutamente incapaci di approvare delle leggi contrarie al Corano e all'esempio del Profeta (49). Inoltre, durante questo periodo i pareri dati al califfo da ahl al-hal wa al-'aqd non erano sempre vincolanti. Il primo califfo fece guerra agli apostati (al-murtaddin) contro il loro parere. Il califfo era abbastanza saggio e i suoi compagni avevano fede nel suo buon giudizio, e così tutto andava per il meglio (50).

Mawdudi ammette che l'età aurea della 'virtù civica' islamica è finita per sempre e che tempi diversi esigono metodi diversi. Essa rimane però chiaramente il suo ideale. Se questo ideale non può realizzarsi, egli auspica il ricorso al plebiscito nel caso di un conflitto insolubile tra il legislativo e l'esecutivo (51). È chiaro altresì che l'opinione pubblica, guidata e articolata da ahl al-hal wa al-'aqd, ha un peso considerevole per Mawdudi. Ahl al-hal wa al-'aqd, che svolgono una funzione vitale negli affari pubblici della comunità, si distinguono principalmente perché stanno con il popolo nella comunità. La stima di cui godono non deriva dalla ricchezza o dalla posizione che hanno ereditato ma dal coraggio, dalla saggezza, dalla dedizione all'Islam e dal servizio pubblico reso alla comunità.

Da un certo punto di vista la posizione di Mawdudi getta luce sui problemi fondamentali che il costituzionalismo islamico cerca di affrontare. Da un lato, il costituzionalismo islamico si preoccupa che né l'esecutivo né il legislativo possano compiere atti contrari alla Shari'a. Tuttavia c'è una certa riluttanza a porre tutta l'autorità nelle mani di una sola persona od organo, una riluttanza testimoniata dalla volontà che il potere di decidere sia 'devoluto' alla comunità, guidata da ahl al-hal wa al-'aqd che possiedono la 'virtù civica' islamica.

6. Osservazioni conclusive: nessuno spazio per la laicità

Lo scopo di queste osservazioni finali è tirare le fila e affrontare alcune domande senza risposta. Il costituzionalismo, la democrazia e la separazione dei poteri sono in stretto rapporto fra loro, concettualmente e praticamente. In Occidente sono sorti tutti nel contesto della laicità che (come alcuni hanno sostenuto) è il presupposto di tutti e tre. Poiché tutti (o quasi) i pensatori islamici respingono fermamente la laicità, sorge il problema se si possa parlare simultaneamente di Islam, costituzionalismo e democrazia.

Come può essere democratico il regime islamico, se non è laico? La democrazia esige che i cittadini abbiano uguali diritti politici, ma è una sfida alla credulità pensare che il capo di uno Stato islamico possa essere cristiano, ebreo o ateo. Perciò l'Islam è incompatibile con la democrazia. D'altra parte il costituzionalismo richiede la democrazia, perché è difficile pensare che i diritti possano essere protetti e che il governo possa essere tenuto sotto controllo se il regime politico non è democratico. Quindi il costituzionalismo presuppone la democrazia e la democrazia presuppone la laicità, il che significa che anche il costituzionalismo presuppone la laicità. Ma l'Islam rifiuta la laicità. Ne segue che l'Islam è incompatibile sia con la democrazia che con il costituzionalismo.

Ovviamente la laicità è il cuore di questo problema. Se non si trova un modo di mettere da parte la laicità, presentandola come solo contingentemente legata alla democrazia e al costituzionalismo, diviene impossibile far combinare l'Islam con l'uno o l'altro di essi. Vediamo come alcuni democratici islamici contemporanei propongono di affrontare questo problema.

In parole povere, la mossa logica fondamentale proposta da alcuni democratici islamici consiste nel vedere la democrazia come una 'dottrina procedurale', un metodo per distribuire, condividere e amministrare il potere politico. Questo modo di vedere la democrazia ha trovato un'espressione classica nelle parole di Joseph Schumpeter: «la democrazia è un metodo politico, cioè un certo tipo di assetto istituzionale per giungere a decisioni politiche - legislative e amministrative - e perciò non può essere un fine in sé, indipendente dalle decisioni che produce in condizioni storiche date» (52).

Secondo la definizione di Schumpeter la democrazia è neutrale nei confronti dei fini e dei valori che possono prevalere in una data società, nei confronti di ciò che Ghannouchi chiama «l'ambiente culturale in cui la democrazia può operare»: «è possibile che i meccanismi della democrazia [...] operino in ambienti culturali diversi [...] la laicità, il nazionalismo [...] e la deificazione dell'uomo [...] non sono conseguenze inevitabili della democrazia, in quanto quest'ultima si risolve nella sovranità popolare, nell'uguaglianza dei cittadini [...] [e] nel riconoscimento alla maggioranza del diritto di governare. Non c'è niente in queste procedure che sia necessariamente in conflitto con i valori islamici» (53).

La mossa concettualmente innovativa compiuta da Ghannouchi e da altri, come Khatami (54), consiste nella tesi che la democrazia in quanto tale è legata in maniera solo contingente alla aborrita dottrina della laicità. Democrazia significa sovranità popolare, uguaglianza politica, governo rappresentativo e regola di maggioranza. Nessuna di queste espressioni si legge come laicità. Non sussiste perciò per l'Islam l'esigenza di respingere la democrazia.

Ritenendo che una società islamica voglia vivere in maniera islamica, Ghannouchi accoglie con favore le libere elezioni. Il suo atteggiamento nei confronti del pluralismo politico, la competizione fra i partiti, i dibattiti parlamentari e altri aspetti della prassi democratica è ugualmente favorevole. Egli immagina infatti che la competizione, l'opposizione e il dibattito si svolgano tutti entro i limiti stabiliti da un consenso nazionale su una costituzione islamica. Se e quando questo consenso si forma, possono esserci gruppi di persone che ne restano fuori, incapaci di accettare le assunzioni e i valori fondamentali che devono governare la struttura sociale. Ghannouchi non chiede di sopprimere questi gruppi. Conta sul fatto che «la società civile farà sì che questi gruppi rimangano marginali, [cosicché] non ci sia bisogno di ricorrere la potere pubblico [per 'tenerli a bada']» (55).

Che il pluralismo e l'opposizione (così tipici della prassi democratica nell'accezione comune) abbiano luogo nel quadro di un consenso costituzionale di base non è un'intuizione originale degli autori islamici che si sono impegnati nello studio dei presupposti della democrazia. Molti scrittori politici occidentali lo riconoscono. Secondo Esposito e Voll «nel comune pensiero politico occidentale moderno, l'opposizione accettabile in un sistema democratico è legata strettamente al concetto di un governo costituzionale in cui c'è un consenso fondamentale di partenza sulle 'regole del gioco' politico. L'opposizione è il disaccordo legittimo su particolari politiche di alcuni specifici leader entro il quadro concordemente accettato dei principi di una costituzione, scritta o fondata su una prassi di lungo periodo» (56).

Questo è un punto sul quale i pensatori islamici possono concordare senza riserve. Nel loro caso però la costituzione deriva dai fondamentali princìpi della fede. Ciò è del tutto evidente nel caso di Turabi, che intende chiaramente la logica del 'governo e dell'opposizione leale', come è praticata nella democrazia occidentale: «questo consenso sui fondamenti [...], alla cui luce le specifiche politiche possono venire discusse, è una condizione della stabilità di tutti i sistemi democratici. Questo è il modo in cui le democrazie occidentali hanno ottenuto la loro stabilità: il popolo, attraverso un processo di sviluppo politico e culturale, ha raggiunto infine un consenso sui fondamenti ed è riuscito a isolare le materie soggette alla consultazione e al dibattito parlamentare. [Perciò] quando guardiamo ai dibattiti partigiani nei paesi democratici occidentali troviamo che hanno luogo entro una cornice [costituzionale] prestabilita. Per esempio, il disaccordo fra laburisti e conservatori in Gran Bretagna è molto limitato, e così pure il disaccordo fra i partiti democratico e repubblicano in America» (57).

Questo è dunque il 'punto di vista' islamico della democrazia. I democratici islamici propongono di liberare la democrazia dal laicismo, di prendere la prima e lasciare il secondo. Questa proposta contribuisce anche a risolvere (o ad attenuare) il (possibile) conflitto fra Islam e costituzionalismo.

Movendosi sul terreno dell'Islamismo un democratico islamico può seguire la via indicata da an-Na'im, accettare cioè tutte le dichiarazioni internazionali che hanno a che fare con i diritti dell'uomo. Un democratico islamico di questo tipo deve aspettarsi molte critiche provenienti da altri ambienti islamici: per i quali l'osservanza di tutte le dichiarazioni internazionali dei diritti umani è destinata a diluire l'Islam fino a renderlo irriconoscibile e l'accettazione di queste dichiarazioni è solo un modo educato di respingere completamente l'Islam.

Sia come sia, per i democratici islamici è possibile insistere su concezioni dei diritti culturalmente più specifiche, rifiutando la laicità in nome di argomenti filosofici indipendenti. Molti filosofi hanno sostenuto e continuano a sostenere che l'universalità dei diritti umani è una finzione. Secondo Richard Rorty, ad esempio, non c'è una 'fondazione' universale dei diritti umani: né la regola di reciprocità di an-Na'im né l'imperativo categorico di Kant né la razionalità di Platone. Tutto si riduce a fatti sociali: «niente di rilevante per la scelta morale separa gli esseri umani dagli animali, tranne alcuni fatti storicamente contingenti, fatti culturali» (58). Questa concezione della morale è condivisa da Michael Walzer, secondo il quale «non possiamo dire che cosa sia dovuto a questa o quest'altra persona finché non sappiamo come si rapportano tra di loro attraverso le cose che creano e distribuiscono [...] Una certa società è giusta se i suoi aspetti essenziali sono vissuti in un certo modo, vale a dire, in modo fedele alle concezioni collettive dei suoi membri [...] Ogni concezione contenutistica della giustizia distributiva è una descrizione circostanziata» (59).

Per quanto riguarda (alcuni) pensatori islamici, il laicismo (e altri valori 'moderni' a esso associati, come il razionalismo, l'utilitarismo, la fede nella scienza ecc.) è una filosofia, una delle tante fra le quali scegliere; una filosofia secondo la quale la religione non è un buon 'modo' (non è il modo 'giusto') di ordinare la società. L'Islam è un altro tipo di filosofia. Ognuna ha la sua visione della vita umana, dei diritti e dei doveri.

Se i diritti e i doveri (almeno in una certa misura) sono socialmente e culturalmente specifici, se non possediamo argomenti accettati universalmente in favore dei diritti e degli strumenti di tutela spettanti agli esseri umani: se è così, allora sta alla ragione pensare che il costituzionalismo è (o può essere) realizzato differentemente in società differenti, a seconda della concezione dei diritti e dei doveri volta a volta condivisa. Tutto ciò potrebbe forse aprire la strada a un certo tipo di costituzionalismo - chiamiamolo costituzionalismo islamico - che per alcuni aspetti è diverso e per altri è simile al costituzionalismo occidentale?


Note

*. Da P. Costa, D. Zolo (a cura di), Lo Stato di diritto. Storia, teoria e critica, Feltrinelli, Milano 2002.

1. Nel senso di W.B. Gallie, un termine è 'essenzialmente contestato' quando ci sono dispute sul suo uso, dispute «che, sebbene non risolvibili con argomentazioni di qualunque sorta, sono nondimeno sorrette da argomenti e prove perfettamente rispettabili» (W.B. Gallie, Philosophy and the Historical Understanding. Chatto and Windus, London 1964, p. 14).

2. J. Elster, Introduction, in J. Elster, R. Slagstad (a cura di), Constitutionalism and Democracy: Studies in Rationality and Social Change, Cambridge University Press, Cambridge 1988, p. 2.

3. D. Castiglione, The Political Theory of the Constitution, in R. Bellamy, D. Castiglione (a cura di), Constitutionalism in Transformation, Blackwell, London 1996, p. 5.

4. C. Sunstein, Constitutions and Democracies: an Epilogue, in J. Elster, R. Slagstad (a cura di), op. cit., p. 327.

5. J. Elster, op. cit., p. 3.

6. J.-E. Lane, Constitutions and Political Theory, Manchester University Press, Manchester 1996, p. 25.

7. Ibid.

8. B. Lewis, Islam and Liberal Democracy, «Atlantic Monthly», 27 (1993), 2, pp. 89-98, cit. in S. M. Lipset, The Social Requisites of Democracy Revisited, «American Sociological Review», 59 (1994), p. 6; corsivo mio.

9. R. Ghannouchi, Muqarabat fi al-'Ilmaniyya wa al-Mujatama' al-Madani [Concezioni della laicità e società civile], al-Markaz al-Magharibi lil-buhuth wa al-tarjamah, London 1999, p. 155; corsivo mio.

10. A. Bisharah, Madkhal li-Mu'alajat al-Demoqratiyya wa-Anmat at-Tadayyun [La democrazia e le forme della religiosità], in B. Ghalyun et al. (a cura di), Hawla al-Khiyar al-Demoqrati [L'alternativa democratica], Muwatin, Ramalla 1993, p. 83.

11. T. al-Bishri, Al-Wad'u al-Qanuni baina al-Shari'a al-Islamiyya wa al-Qanun al-Wad'i [La situazione giuridica in rapporto alla Shari'a islamica e al diritto positivo], Dar al-Shuruq, Cairo 1996, p. 121. Cfr. l'osservazione di Nazih Ayubi secondo cui «[gli islamisti] cercano quindi una sorta di 'nomocrazia', non il regno di un gruppo in particolare (democrazia, aristocrazia o, se è per questo, teocrazia)» (N. Ayubi, Political Islam: Religion and Politics in the Arab World, Routledge, London 1991, p. 218).

12. A. Pegis (a cura di), The Basic Works of St. Thomas Aquinas, Random House, New York 1944, vol. 2, pp. 748-757.

13. Mawdudi, Al-Qanun al-Islami wa Turuq Tanfithih [Il diritto islamico e i metodi della sua applicazione], Mu'assat al-Risalah, s.l. 1975, p. 18.

14. Ivi, p. 24.

15. H. Turabi, Qadaya al-Hurriyyah wa al-Wihdah wa al-Shura wa al-Dimoqratiyyah [Problemi di libertà, unità, consultazione e democrazia], al-Dar al-Su'udiyyah lil-Nashr, s.l. 1987, p. 25.

16. Mawdudi, Tadwin al-Dustoor al-Islami [Codificazione della costituzione islamica], Mu'assat al-Risalah, s.l. 1975, p. 11.

17. Moral Obligation in Classical Muslim Theology, «Religious Ethics», 11 (1983), pp. 204-223.

18. H. Ritter, Studien zur Geschichte der Islamischen Frömmigkeit, «Der Islam», XXI (1935).

19. Ash'ari, Kitab al-Luma' fi al-Raddi 'ala Ahl al-Zaigh wa al-Bida' [La teologia di al-Ash'ari], Matba'at Misr, Cairo 1955, p. 117.

20. Ghazali, Ihya' 'Ulum al-Din [Ravvivare le scienze della religione], Dar al-fikr, Beirut 1975, p. 3.

21. Per una discussione del significato e del ruolo del diritto positivo in rapporto al diritto naturale si veda S. Cotta, Positive Law and Natural Law, «Review of Metaphysics», 37 (1983), pp. 265-285. Secondo Cotta, la 'positività' del diritto positivo è connessa al fatto che esso è 'emanato fattualmente' (ivi, p. 267). Cfr. le osservazioni di Joseph Schacht sul diritto islamico: «dal lato eteronomo e irrazionale del diritto islamico segue che le sue regole sono valide in virtù della loro mera esistenza e non in virtù della loro razionalità» (J. Schacht, An Introduction to Islamic Law, Clarendon Press, Oxford 1964, p. 203, corsivo mio). In questo contesto considero pressoché sinonimi fattualità e mera esistenza.

22. S. Cotta, op. cit., p. 276.

23. G.F. Hourani, Divine Justice and Human Reason in Mu'tazilite Ethical Theology, in R. Hovannisian (a cura di), Ethics in Islam, Undena Publications, Malibu (CA) 1985, p. 81.

24. Schacht preferisce parlare della 'irrazionalità' del diritto islamico (cfr. la nota 21). Ritengo però che 'non razionalità' sia un termine più adatto. Non è necessario infatti contrapporre alla ragione ciò che non le appartiene, cosa che invece suggerisce il termine 'irrazionalità'.

25. R.M. Frank, op. cit., p. 205.

26. 'Abd al-Jabbar, Al-Mughni, a cura di A.F. al-Ahawani, al-Mu'asasa al-Misriyah li-ta'lif wa al-tarjamah, Cairo 1962, vol. 6, parte 1, p. 64. Ho seguito la traduzione di G.F. Hourani, The Rationalist Ethics of 'Abd al-Jabbar, in S. M. Stern et al. (a cura di), Islamic Philosophy and the Classical Tradition, Bruno Cassirer, Oxford 1972, p. 111.

27. Watt 1963, p. 44.

28. Ivi, p. 48.

29. J. Elster, op. cit., p. 6.

30. Ivi, pp. 6, 7.

31. S.E. Finer (a cura di), Five Constitutions: Contrasts and Comparisons, Penguin Books, New York 1979, p. 271.

32. Mawdudi, Al-Khilafah wa al-Mulk [Califfato e regno], Dar al-Qalam, Kuwait 1987, pp. 27-31.

33. Mawdudi, Tadwin al-Dustoor al-Islami, cit., p. 65.

34. Mawdudi, Al-Qanun al-Islami wa Turuq Tanfithih, cit., p. 47.

35. A.E. Mayer, Islam and Human Rights: Tradition and Politics, Westview, Boulder (CO) 1991, p. 98.

36. A.A. an-Na'im, Toward an Islamic Reformation: Civil Liberties, Human Rights, and International Law, Syracuse University Press, Syracuse 1990, p. 179.

37. Ivi, p. 52.

38. Ivi, p. 163. Non è evidente che il principio di reciprocità o regola aurea, nell'interpretazione di an-Na'im, sia un fondamento sufficiente di una morale universale. In effetti produce un giudizio corretto nel caso del sadico che non desidera essere torturato, o del rapinatore che non desidera essere rapinato. Ma il sadomasochista supera la prova della reciprocità, e così pure il rapinatore che rifiuta coerentemente di condannare la rapina, indipendentemente da chi la subisce. E tuttavia (presumibilmente) il sadismo e la rapina sono immorali.

39. Mawardi, The Ordinances of Government [Al-Ahkam al-sultaniyya wa al-wilayat al-diniyyah], trad. ing. di W.H. Wahba, Garnet, Reading 1996, p. 9.

40. Ivi, p. 17.

41. B. Lewis, The Political Language of Islam, University of Chicago Press, Chicago 1988, p. 94.

42. Ho discusso altrove il conflitto ipotetico fra 'sovranità divina' e 'sovranità popolare'. Questo è un terreno comune (quasi l'unico) fra laici e islamici conservatori che, ciascuno per le proprie diverse ragioni, vogliono tenere l'Islam separato dalla democrazia. Cfr. R. Bahlul, Hukm Allah, Hukm al-Sha`b: hawla al-`Alaqah baina al-Dimoqratiyya wa al-'Ilmaniyya [Sovranità divina, sovranità popolare: sul rapporto fra democrazia e laicità], Dar al-Shuruq, Amman 2000, pp. 24-26, 42-48; Id., People vs. God: the logic of 'divine sovereignty' in Islamic democratic discourse, «Islam and Muslim-Christian Relations», 11 (2000), 3, pp. 287-297.

43. Mawdudi, Tadwin al-Dustoor al-Islami, cit., p. 25.

44. Ivi, p. 38.

45. R. Ghannouchi, al-Hurriyat al-'Ammah fi al-Dawlah al-Islamiyya [Le libertà pubbliche nello Stato islamico], Markaz Dirasat al-Wihdah al-Arabiyyah, Beirut 1993, p. 119.

46. H. Turabi, op. cit., pp. 63-64, 67.

47. A. Blaustein, G. Flanz, (a cura di), Constitutions of the World, Oceana, Dobbs Ferry 1986.

48. A.E. Mayer, op. cit., p. 37.

49. Mawdudi, Tadwin al-Dustoor al-Islami, cit., p. 35.

50. Ivi, p. 37.

51. Ivi, p. 38.

52. J.A. Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy, Allen and Unwin, London 1954, p. 242; trad. it. Capitalismo, socialismo, democrazia, ETAS Libri, Milano 1984.

53. R. Ghannouchi, al-Hurriyat al-'Ammah fi al-Dawlah al-Islamiyya, cit., p. 88.

54. M. Khatami, Mutala'at fi al-Din wal-Islam wal-'Asr [Scritti sulla religione, l'Islam e i tempi], Dar al-Jadid, Beirut 1998, p. 103.

55. R. Ghannouchi, al-Hurriyat al-'Ammah fi al-Dawlah al-Islamiyya, cit., p. 295.

56. J.L. Esposito, J. Voll, Islam and Democracy, Oxford University Press, Oxford 1996, p. 36.

57. H. Turabi, op. cit., p. 68.

58. R. Rorty, Human Rights, Rationality and Sentimentality, in Id., Truth and Progress, Cambridge University Press, Cambridge 1994, p. 170.

59. M. Walzer, Spheres of Justice, Blackwell, Oxford 1983, pp. 312-313, 314; trad. it. Sfere di giustizia, Feltrinelli, Milano 1987, pp. 312-314.