2009

L'altro musulmano: dall'esperienza del pregiudizio alla richiesta di riconoscimento (*)

Monica Massari

Introduzione: un'alterità generalizzata

Gharb, la parola araba che traduce Occidente, indica anche il luogo dell'oscurità e dell'incomprensibile, che mette sempre paura. Gharb è il territorio di ciò che è strano, straniero (gharib). Tutto ciò che non capiamo ci fa paura. "Essere estraneo, straniero" in arabo ha una connotazione spaziale molto forte, essendo gharb il luogo dove il sole tramontae dove l'oscurità incombe. E' in Occidente che la notte addenta il sole e lo inghiotte; quindi tutte le cose più terrificanti sono possibili. E' là che la gharaba (stranezza) ha preso dimora. (Fatema Mernissi, 2002, 33)

Occidente, oscurità, paura, strano, straniero, estraneo... Utilizzando uno sguardo che ci porta a ribaltare radicalmente la prospettiva con cui la scienze sociali hanno solitamente indagato le dimensioni dell'alterità nella società moderna, la sociologa e scrittrice marocchina Fatema Mernissi ci fornisce le parole chiave di quel complesso gioco di specchi attraverso cui si è andato costruendo l'immaginario deformato dell'altro da entrambe le sponde del Mediterraneo: luogo fisico e simbolico al di là del quale cala l'oscurità. In questa visione si condensano, infatti, storie secolari di guerre, odii, stermini, dominazioni, rapporti conflittuali, stereotipi e pregiudizi reciproci che hanno fatto sì che si consolidassero, nel tempo, rappresentazioni simboliche dei diversi "Altri" e dei diversi "Noi" in cui proiettare, di volta in volta, immagini e paure che hanno rivelato una sorprendente durata, seppur ciclicamente rivisitate a seconda delle occorrenze del momento. Una delle ragioni di questa persistenza, sotto il profilo analitico, è da rinvenire in una sorta di tendenza atavica da parte delle società che, attraverso la definizione dell'altro, costruiscono, negoziano, cercano di stabilizzare o di modificare le relazioni che caratterizzano la loro vita sociale e di dare senso agli individui e al mondo che li circonda (Colombo 1999). Un altro che ha assunto nel tempo forme e sembianze piuttosto variegate - lo straniero, l'estraneo, l'immigrato, l'arabo, il musulmano... - e che ha svolto, per così dire, funzioni diverse. A volte quella di introdurre incertezza e ansia nella vita sociale, configurandosi in termini di minaccia alla stabilità del gruppo. Mentre altre, quella di rappresentare una sorta di catalizzatore della solidarietà interna, consentendo di costruire una comunità che proprio in questo impegno comune contro l'altro si riconosce in quanto tale.

Nonostante la raffigurazione dell'alterità attraverso il lessico della paura e del pericolo costituisca un esercizio con cui un po' tutte le società si sono misurate sin dalle epoche più remote, è nella storia intellettuale dell'occidente che è rinvenibile una lunga tradizione di pensiero sulle caratteristiche "reali" o "presunte" di cui l'altro - nella figura sociale dello straniero - sarebbe portatore (Tabboni 1986; Colombo 1999; Cotesta 2002). Ciò, ci sembra, sia riconducibile in particolare al carattere ideologico dell'invenzione dello straniero nelle società complesse, funzionale al consolidamento e alla riproduzione di strutture economiche e politiche di sfruttamento e di dominio di cui il colonialismo, nelle sue forme vecchie e nuove, è stato una evidente espressione.

Oggi, però, la questione dell'alterità riemerge sotto sembianze parzialmente nuove. La rappresentazione dello straniero carica di significati negativi o, quantomeno, ambivalenti ereditata dalla modernità e affermata sul piano storico, politico ed economico dal colonialismo pervade, oggi, e struttura, in forme caratteristiche le relazioni che si instaurano tra noi occidentali e gli immigrati provenienti dai Paesi un tempo colonizzati (Siebert 2003). La categoria di "straniero", un tempo utilizzata per indicare individui provenienti da altri Paesi, culture e tradizioni, tende oggi a generalizzarsi, a perdere gli originari confini pratici e simbolici. Essa, infatti, diviene inutilizzabile nella società globalizzata dove appare più che mai evidente come concetti quali identità, cultura, differenza perdono la loro presunta "purezza" originaria, assumendo chiaramente un significato contestuale, contingente. Come definire, quindi, il "noi" e gli "altri" se non esistono più identità che si confrontano da una posizione iniziale di differenza assoluta?

Gli attentati terroristici dell'11 settembre negli Stati Uniti - seguiti, a distanza di poco tempo, da quelli avvenuti a Madrid e Londra e da tutta una serie di eventi che, in particolar modo in Europa, hanno avuto come protagonisti persone invariabilmente identificate a partire dalla propria religione (musulmani, appunto) - ci sembra abbiano riproposto in termini, per alcuni versi, noti, ma per altri del tutto sconosciuti la questione dell'alterità nelle nostre società. Da un lato lo straniero irrompe nuovamente sulla scena nelle sembianze del culturalmente diverso di sempre e, nel caso specifico, dell'altro musulmano. Dall'altro, però, questo straniero - che già Simmel aveva efficacemente descritto come qualcuno che contemporaneamente assume una posizione di distanza e di vicinanza rispetto alla società circostante - non è più, soltanto, colui che viene da lontano, ma è anche colui che forse non si è mai spostato e che, comunque, vive stabilmente fra noi. Talvolta rendendosi riconoscibile in quanto tale - spesso a causa del proprio aspetto esteriore e di tutta una serie di elementi visivi che lo qualificano in quanto tale -, ma nella gran parte dei casi confondendosi nelle pieghe dei nostri diversi spazi sociali. Quella dicotomia vicinanza-lontananza perde dunque la propria rilevanza, dal momento che i processi di globalizzazione tendono ad abbattere sempre di più le frontiere della lontananza, mentre nell'orizzonte di ciascuno di noi entrano sempre più stranieri, sempre più estraneità. La distanza geografica del passato e la presenza di temporalità differenti nel rapporto tra noi e gli altri e, nel caso specifico, Europa e islam (gli uni considerati "avanti" rispetto agli altri), si polverizzano, lasciando il campo alla prossimità e alla simultaneità delle esperienze (Göle 2003). Da qui l'impossibilità, oggi, di situare la stranezza e l'estraneità in un territorio fisico e simbolico lontano ma, al contempo, la difficoltà di confrontarsi con una contemporaneità spesso percepita come difficile, disturbante, in cui assumono legittimazione crescente politiche volte in molti casi a favorire più che il riconoscimento, l'umiliazione e il misconoscimento dell'altro.

1. La paura e l'islam: il ritorno dello stigma religioso

La percezione dello straniero come minaccia e le reazioni "culturali" che ne seguono spesso non costituiscono dei fatti naturali o reazioni spontanee di comunità che si sentono minacciate, «ma costruzioni sociali complesse, in cui gli elementi politici e quelli mitologici, o ciò che Weber avrebbe chiamato "l'irrazionale", sembrano prevalere sugli elementi considerati classicamente razionali come gli "interessi"» (Dal Lago 1998, 16). La definizione dello straniero in termini di minaccia, veicolata dagli attori politici e dagli organi di informazione, influenza, quindi, e, in molti casi, determina le percezioni di senso comune e il punto di vista della società (Ibid.). La conseguenza di tutto ciò è costituita dal fatto che il dibattito sull'alterità culturale spesso si trasforma in un discorso sull'immagine del nemico che serve a legittimare particolari decisioni sul piano politico, come nel caso delle derive sicuritarie intraprese dai moderni stati europei, o specifiche politiche di identità. Politiche spesso orientate a dotare di dignità sociale sentimenti collettivi quali il risentimento, l'odio verso l'altro, il senso di superiorità e la volontà di dominio nei suoi confronti, che fanno temere rischi molto gravi per la tenuta stessa dei valori democratici e la tutela dei diritti fondamentali (Pace 2003, 40).

L'attribuzione degli attentati alle Twin Towers e al Pentagono al fondamentalismo islamico, e la successiva rivendicazione di questi da parte dell'organizzazione terroristica al-Qa'ida, ha ovviamente segnato un momento di svolta nella percezione di senso comune della minaccia e della paura nelle società occidentali. E la paura - come la riflessione storica, sociologica e antropologica hanno documentato - costituisce uno dei fattori principali di definizione e stigmatizzazione dei gruppi sociali all'interno e all'esterno di una società (Mongardini 2004). Nel caso che qui interessa - e cioè le pratiche sociali, culturali e simboliche che hanno, in qualche modo, segnato e accompagnato il processo di visibilizzazione dell'islam e dei musulmani nello spazio pubblico europeo - la dimensione della paura sembra aver caratterizzato, sin dalle sue più antiche origini, la dinamica delle relazioni fra quei due universi che, per esigenze di sintesi, solitamente chiamiamo occidente (o forse sarebbe più opportuno dire Europa) e islam (1). Una paura alimentata - in passato - dai lunghi confronti e conflitti che li hanno visti protagonisti nella storia e che trovano un'eco nel sentire sociale diffuso delle nostre società, dove la paura continua a fondare un «meccanismo di assestamento della vita sociale», permettendo «a determinati attori, di fronte ai mutamenti dello scenario sociale, di ridefinire il proprio posto nel mondo, di formare nuove solidarietà, di tracciare nuovi confini identificando nuovi nemici» (Dal Lago 1999a, 35). Al di là del fatto che si tratti di nemici reali, fittizi o virtuali/mediali.

Soffermando il nostro sguardo sulle forme più recenti assunte dai questi processi, l'elemento che ci sembra opportuno, sin da subito, richiamare, è legato alla ripresa della coloritura religiosa del discorso stigmatizzante nelle società occidentali - dopo la storia drammatica dell'antisemitismo nel corso del Novecento - e alla ri-definizione della religione nei termini di «marchio negativo», di «stigma» (Rivera 2003a, 14). Dopo l'11 settembre le comunità musulmane presenti nei vari Paesi occidentali - spesso composte da individui nati e vissuti in quei medesimi Paesi e solo in parte da migranti - sono talvolta divenute, come emerge dalla stampa internazionale e dalle denunce di organismi di tutela dei diritti umani, oggetto di manifestazioni di protesta, di disprezzo, di violenza, di pratiche di controllo sociale e istituzionale piuttosto stringenti (segnalazioni alla polizia, perquisizioni, arresti, a volte immotivati) e, in molti casi, protagoniste involontarie di processi di costruzione sociale che hanno assunto la differenza culturale e religiosa come veri e propri simboli di un'alterità radicale e inassimilabile (EUMC 2001; EUMC 2002; EUMC 2006; Human Rights First 2007). Secondo queste fonti, l'atteggiamento di avversione nei confronti dell'islam e dei musulmani si è espresso in forme differenziate che spaziano da manifestazioni più propriamente ideologiche, che hanno dunque a che fare con pratiche discorsive orientate a inferiorizzare l'altro o a ingabbiarlo entro una fissità identitaria che non lascia spazio ad altre forme di soggettività, fino a episodi di aggressione, di violenza o, comunque, di discriminazione che tendono a escluderlo o a limitarne fortemente la partecipazione alla vita politica, sociale, economica e culturale.

I fatti legati all'11 settembre e, immediatamente dopo, gli attentati avvenuti in Europa, hanno indubbiamente agito da catalizzatore di un sentimento di paura e di disprezzo nei confronti dell'altro - "immigrato" (o semmai genericamente "arabo") prima, e "musulmano" poi - già preesistente. Dopo questi eventi, si è verificata, un po' ovunque in Europa, una radicalizzazione di tendenze già presenti in seno alle diverse società locali che ha fatto sì che l'ingresso sulla scena pubblica del legame perverso terrorismo-guerra-eterofobia - e quindi la stigmatizzazione che ha come oggetto non solo gli stranieri, ma chiunque sia percepito come altro rispetto alla civiltà occidentale - si giovasse di sentimenti consolidati (Rivera 2002a). Lo «choc anestetizzante» (Siebert 2003, 82-83) che, all'indomani del secondo dopoguerra, aveva fatto sì che discorsi palesemente razzisti - dopo lo sterminio di milioni di ebrei - non osassero dichiararsi apertamente nel dibattito pubblico, sembra essersi improvvisamente attutito. Sentimenti di odio, di paura e di disprezzo hanno assunto nuova legittimazione anche a seguito della propaganda politica di movimenti e partiti di estrema destra che, a partire dagli ultimi due decenni del XX secolo - come anche nel corso delle ultime elezioni europee - hanno risvegliato il discorso xenofobo in diversi Paesi. Si tratta, per lo più, di forme di neo-razzismo che alla mitologia della razza sostituiscono l'idea della differenza culturale, dell'etnicità o della religione - quel razzismo senza razza che Taguieff definisce «razzismo differenzialista» (1994; 1999). E ovviamente cambiano i discorsi, gli atteggiamenti e i contenuti di questa propaganda, anche se le linee di continuità esistenti con le manifestazioni più note del razzismo storico sono evidenti. Oggi come ieri, infatti, questo discorso di natura propagandistica risulta funzionale a giustificare una contrapposizione inconciliabile fra europei e non europei in nome di una fantomatica identità nazionale e a rendere accettabile il discorso sull'incompatibilità culturale e lo scontro di civiltà che ammanta la rappresentazione dell'islam come nemico. Termini oramai divenuti impresentabili, quali "sangue" e "razza", sono ora sostituiti da espressioni considerate più nobili - come, ad esempio, etnia, cultura, civiltà, memoria, storia, identità, differenza (Siebert 2003, 88). Questa giustificazione nuova - di natura marcatamente culturale - della differenza si è tradotta in nuove forme di pratiche sociali e di movimenti politici coagulatisi attorno a una sorta di «razzializzazione del discorso nazionale» (Cesari 2005, 57).

Ma la naturalizzazione del discorso razzista in chiave anti-musulmana non sembra essere appannaggio soltanto dei partiti di estrema destra. L'elemento nuovo che occorre rimarcare sembra essere legato al fatto che il grado di accettabilità di questi discorsi si è notevolmente accresciuto. Mentre, da un lato, le formazioni di estrema destra hanno continuato a reiterare i medesimi contenuti, dall'altro, questi ultimi hanno riscontrato un crescente consenso nel dibattito pubblico più ampio. Questa tendenziale normalizzazione - e, in alcuni casi, banalizzazione - dell'islamofobia in Europa sembra quindi legata anche al maggior grado di tolleranza riscontrato da idee e sentimenti anti-musulmani e, in generale, di natura xenofoba diffusi non soltanto da partiti notoriamente razzisti, ma avvallati e, in qualche modo, rilanciati e amplificati da rappresentanti politici nazionali con ruoli di governo e da ambienti intellettuali tradizionalmente considerati progressisti. In questa tendenziale crescente legittimazione delle pratiche di discriminazione e di ostilità infondata nei confronti dei musulmani convergono risentimenti, odio, passioni in cui occorrerebbe capire se la caratterizzazione religiosa costituisca l'obiettivo primario o sia solo un elemento aggiuntivo. E' come se i musulmani - riprendendo una riflessione di Dal Lago sugli stranieri in generale - più che rappresentare dei nemici costitutivi e ontologici, si vadano caratterizzando come dei nemici necessari o complementari - in questa fase di profondo sconvolgimento di equilibri considerati oramai acquisiti - alla costruzione delle identità nazionali e di nuove forme di solidarietà (Dal Lago 1998, 10). Come sottolinea Renate Siebert: «Il bisogno intimo di indirizzare verso un nemico, un "capro espiatorio", le tensioni insopportabili prodotte dai processi sociali "più grandi di noi" - oggi le conseguenze dei processi della globalizzazione - viene appagato dalla licenza di odiare gli "islamici", offerta su un piatto d'argento dopo gli attentati terroristici di al-Qa'ida» (2006, ix).

Il carattere anti-musulmano di questi sentimenti spesso configura un elemento di alterità ulteriore che si aggiunge al repertorio di fantasie, angosce e proiezioni già espresse contro gli immigrati, le minoranze, le persone diverse. Il musulmano, sotto questo profilo, è visto come doppiamente altro: perché immigrato e perché seguace di una religione considerata inassimilabile.

2. L'islamofobia nel dibattito pubblico italiano

In Italia, il fenomeno dell'islamofobia e del pregiudizio anti-musulmano non ha riscontrato un'attenzione particolare nel dibattito pubblico, né, tanto meno, nella riflessione accademica (2). Nonostante il Paese sia regolarmente oggetto di attenzione - come altri Stati dell'Unione Europea - delle relazioni periodiche che su questo tema vengono prodotte da osservatori internazionali sul razzismo e i diritti umani, volgendo un rapido sguardo alla letteratura più significativa sull'islam in Italia emerge come al fenomeno siano state fino ad ora dedicate riflessioni talvolta fugaci e, comunque, non sistematiche. Se, da un lato, le ragioni di questo vuoto conoscitivo possono essere ricondotte allo sviluppo relativamente tardivo della presenza islamica sul territorio nazionale e al conseguente ritardo del dibattito culturale generale sull'islam, dall'altro ci sembra che esse vadano ricollegate anche a un clima di debole reattività sociale nei confronti delle espressioni di razzismo che ha spesso caratterizzato il contesto italiano. Come giustamente nota Annamaria Rivera:

Contrariamente ad altri paesi europei, in Italia xenofobia e razzismo non sono oggetto di un discorso pubblico considerato legittimo. Essi sono infatti costantemente occultati e sottoposti a un'implicita censura da parte dei media come delle istituzioni: ma anche nell'ambito degli studi specialistici occuparsene è considerato per lo più inopportuno o non pertinente (2003b, 10-11) (3).

Nel caso dell'islam e dei musulmani è possibile, poi, che quell'insieme di idee, rappresentazioni e stereotipi di cui sono oggetto, unitamente alle pratiche concrete che ne comportano il rifiuto, la discriminazione e il disprezzo tendano a diluirsi, a banalizzarsi, a naturalizzarsi, vista la generale indulgenza nei confronti degli umori xenofobi che serpeggiano nella società italiana e il clima di antagonismo e di ostilità verso l'islam riattivato dagli eventi drammatici dell'11 settembre, dall'inasprimento del conflitto mediorientale e dalla politica della guerra preventiva condotta dagli Stati Uniti (Massari 2006). In realtà, secondo quanto rilevato da organizzazioni internazionali, in Italia questi fatti hanno agito da catalizzatore di paure, sentimenti, pregiudizi già presenti da tempo. Oltre a un generico sentimento anti-immigrato e la costante definizione politica e mediatica dell'immigrazione in termini di "emergenza" se non, in molti casi, di "minaccia", la società italiana già da tempo si era confrontata con il pregiudizio specificatamente anti-musulmano. La Lega Nord, infatti, sin dal suo primo ingresso nella scena politica nazionale, aveva fatto di quella che poi sarà definita islamofobia uno dei temi ricorrenti della propria ideologia, identità e immaginario collettivo. Secondo questa visione, lo straniero, in particolare se appartenente a determinate "etnie", culture o religioni è percepito come un elemento in grado di inquinare una supposta integrità della "comunità di popolo" definita artificialmente mediante un processo di costruzione della memoria storica che vede nel "popolo padano" il proprio baluardo. E per la Lega Nord l'islam costituisce un vero e proprio nemico storico (si ricorda, spesso, infatti, nei discorsi e nei documenti leghisti, che la Padania è l'unico pezzo dell'Europa meridionale a non essere stato conquistato dall'islam), l'altro irriducibile, un "morbo", secondo la terminologia in uso fra i seguaci del Carroccio (Guolo 2003, 62).

Nell'analisi del contesto entro cui si è andato configurando il fenomeno dell'islamofobia e del pregiudizio anti-musulmano in Italia e degli attori sociali, politici e culturali che, in diverso modo, ne sono stati protagonisti, sarebbe però impreciso concentrarsi esclusivamente sull'operato del principale "imprenditore politico" dell'islamofobia nel nostro Paese: la Lega Nord, appunto. A conferma del fatto che di fronte all'islam le classiche distinzioni fra laici e cattolici, progressisti e conservatori tendono a sfumarsi e a ricomporsi in senso trasversale, occorre sottolineare come il dibattito anti-musulmano si sia giovato di un contributo da parte di determinati settori delle gerarchie cattoliche e di alcuni intellettuali e opinion leaders.

Dalle parole più o meno isolate pronunciate da alcuni vescovi fino alle prese di posizione manifeste da parte della Conferenza Episcopale Italiana in materia di dialogo interreligioso e, in particolare, della "questione islam", la tesi incentrata sulla difesa identitaria della religione cattolica come la "vera" fede ha assunto una crescente autorevolezza, segnando la natura conflittuale del rapporto con l'islam (4). Temi che hanno riscontrato un certo consenso anche in ambienti intellettuali non necessariamente conservatori dove la "questione islam" è stata oggetto di discussione nell'ambito di riflessioni che non hanno mancato di destare vivaci polemiche a causa del tono "accademicamente islamofobico" (Allievi 2003) che le percorre. Inoltre, nonostante anche gli organi di informazione abbiano dato talvolta ampia copertura a eventi particolarmente significativi - come ad esempio le manifestazioni anti-moschee organizzate dal Carroccio nelle regioni del Centro-Nord - e ospitato interventi di intellettuali che hanno espresso idee dissenzienti rispetto a quanto sostenuto dai simpatizzanti dello «scontro di civiltà», ci sembra di poter condividere l'orientamento secondo cui i media - pur costituendo una sorta di cassa di risonanza di opinioni e analisi talvolta prive di alcuna verifica e tendenti all'esagerazione - siano stati più un effetto, che non una causa del pregiudizio anti-musulmano diffuso nella società italiana (Ivi). Una recente conferma di ciò sembra essere offerta anche dalla tematizzazione, dallo stile espositivo e, più in generale, dall'approccio scelto da alcuni esponenti del giornalismo progressista italiano in occasione di approfondimenti dedicati all'islam in Italia che, di fatto, hanno contribuito ad avvallare stereotipi e pregiudizi, piuttosto che ad offrire chiavi di lettura alternative o, quanto meno, plurali del fenomeno (5).

A ciò occorre aggiungere l'esistenza di un più generale senso comune deteriorato nei riguardi dell'islam e dei musulmani piuttosto diffuso in ampi settori della società italiana, come rivelano, ad esempio, gli episodi di razzismo e di discriminazione spesso riportati da uomini e, soprattutto, donne musulmane che vivono in Italia e le frequenti mobilitazioni pubbliche anti-islam inscenate, anche recentemente, in piccole e grandi città piuttosto note per la presenza di una radicata tradizione civica locale orientata in senso progressista (6).

3. Essere musulmani in Italia dopo l'11 settembre

Pur a fronte di una certa effervescenza degli studi, accademici e non, sull'islam in Italia prima e dopo l'11 settembre, sfogliando queste pagine raramente emerge uno sguardo ravvicinato sui protagonisti, sui soggetti, sugli attori del progressivo processo di visibilizzazione dell'islam nella sfera pubblica nazionale: uomini e donne musulmani (7). Nonostante i frequenti richiami da parte degli studiosi a concentrarsi sul cosiddetto «islam di carne» - e cioè l'islam in carne ed ossa «incontrato (e incarnato) nelle strade delle nostre città» - e non «l'islam di carta» - quello, cioè, descritto dai libri e dalla carta stampata (Allievi 2002, 20) -, la gran parte delle ricerche - pur con alcune eccezioni - risulta tuttora privilegiare una riflessione sul fenomeno. Eppure per individuare quei processi attraverso cui la realtà - così come la propria identità - viene costruita e ricostruita dagli attori sociali in questione, è necessario, a nostro avviso, partire proprio dalle loro parole, dal loro punto di vista.

Che cosa significa essere musulmani/e in Italia dopo l'11 settembre? Dietro l'apparente semplicità del quesito emerge sin da subito come sia necessario confrontarsi con processi simbolici e materiali spesso sfuggenti o, comunque, di non facile identificazione. Inevitabili, si potrebbe dire, nel momento in cui si parla di identità: non più entità unitarie e coerenti, ma formule plurali che stabiliscono collegamenti precari tra «eventi che accadono all'individuo» (Sciolla 1995, 41). Questa pluralità del sé «non fa che riflettere la forma caleidoscopica assunta dal mondo sociale moderno, ove si susseguono, in un carosello infinito, ruoli, mondi sociali, idee» (Ivi, 42).

Sotto questo profilo, le narrazioni degli uomini e delle donne musulmani che vivono in Italia che abbiamo avuto modo di raccogliere mettono in crisi il tendenziale essenzialismo di credenze e definizioni che tendono a ingabbiarli all'interno di identità monolitiche, culture statiche, concepite spesso come eternamente in lotta le une con le altre (8). Sia che l'islam venga percepito e vissuto come uno stigma, che come una forma di capitale sociale in grado di costituire un'utile risorsa per operare una sorta di ridefinizione soggettiva e sociale dell'individuo, o, ancora, come un elemento di semplice qualificazione sociologica che non dà luogo ad alcuna dimensione particolare di appartenenza, emerge chiaramente come ci troviamo dinanzi a percorsi identitari multiformi, multipli, mobili. Percorsi che spesso sono animati - al pari di quanto messo in luce da diverse ricerche sui giovani non italiani che vivono nel nostro Paese (Bosisio, Colombo, Leonini, Rebughini 2005) - da una dialettica costante fra desideri e bisogni spesso contrastanti, ma comunque interconnessi (Salih 2007).

Se, da un lato, emerge chiaramente come per alcuni musulmani l'esperienza della discriminazione o la percezione del pregiudizio abbia indotto forme di ripiegamento identitario che portano a rinchiudersi all'interno di confini conosciuti e, per questo, apparentemente più confortevoli, dall'altro sembra opportuno sottolineare come nella gran parte dei casi ci troviamo dinanzi a forme di rielaborazione e di ridefinizione di sé che si situano, sempre di più, all'interno della società più ampia di cui ci si sente parte, anche se talvolta solo a metà. Nonostante il legame fra cultura di origine e religione rimanga spesso profondo, sono soprattutto i giovani che vivono maggiormente sulla propria pelle i molteplici stimoli provenienti dalla società più ampia, dando luogo a forme inedite di appartenenza e di identità che fortemente si richiamano a una soggettività multipla concepita in termini dialettici e non statici. L'islam, si configura, così, come uno dei possibili riferimenti identitari che si somma, di fatto, a tanti altri che possono spaziare da quelli in campo musicale a quelli di natura più propriamente culturale o, anche, di tipo politico.

A fronte di questa molteplicità di traiettorie e di pratiche identitarie, molti musulmani, soprattutto giovani uomini e donne, percepiscono fortemente di essere ancora relegati, da una parte della società circostante, all'interno di uno schema fissista che li vorrebbe eternamente in lotta fra la cultura o la religione di origine e la cultura e l'identità della società di residenza. L'esistenza, ad esempio, di disposizioni legislative in materia di immigrazione e cittadinanza che tendono a privilegiare una definizione di questi soggetti in termini di "stranieri" - «stranieri in patria» come sottolinea efficacemente Enzo Pace (2004, 122) - costituisce, forse, uno degli ostacoli principali anche per un compiuto riconoscimento dell'islam in una sfera pubblica secolarizzata.

Soprattutto per i giovani è molto forte la sensazione di essere costruiti come stranieri - pur non sentendosi affatto tali - anche a causa di politiche di cittadinanza e di identità che tendono a rendere sempre più precario il riconoscimento di soggettività emergenti portatrici, fra l'altro, di nuove forme di pluralismo e universalismo. La loro presenza pone tutta una serie di interrogativi alle visioni tradizionali e omogenee di cittadinanza e appartenenza, imponendo una loro de-sacralizzazione in direzione meno esclusiva. Come sottolinea efficacemente Ruba Salih:

Lo stato-nazione può (...) divenire una struttura che esclude, marginalizza o, tuttalpiù, contiene la differenza, attraverso una politica della cittadinanza e dei diritti parziale, ma anche a causa dell'incapacità dei discorsi multiculturalisti o assimilazionisti di cogliere la complessa natura delle nuove identità emergenti. Questi persistono nel cristallizzare l'Islam o la "cultura" di origine come espressione di un'alterità permanente e statica offrendo, da un lato, assimilazione culturale, ma meno spesso politica ed economica, alla comunità nazionale oppure riconoscendone la "differenza" attraverso una logica che, tuttavia, confina l'espressione politica e identitaria nell'ambito della sfera della politica delle "minoranze (2005).

4. Riflessioni conclusive

Il dibattito pubblico contemporaneo risente fortemente di una sorta di «epistemologia distorta», nel momento in cui ci confrontiamo con l'altro, e in più generale con la diversità, che pretende di poter adottare, in contesti assai diversi, una sorta di manuale universale in grado di risolvere la complessità. Parte integrante di questo discorso improntato sulla celebrazione di una certezza cognitiva basata sulla linearità è l'affermazione di una visione riduzionista volta a incarcerare le persone nella gabbia di un'identità unica, solitaria, sovrastante (Sen 2006), a miniaturizzarle all'interno di tanti piccoli contenitori, ermeticamente chiusi e non comunicanti gli uni con gli altri (Siebert 2007). Il mondo, secondo questa prospettiva, non sarebbe un insieme di persone, di individui che appartengono simultaneamente a collettività molteplici, ma una federazione di religioni, culture, etnie, civiltà rigidamente separate le une dalle altre e attraversate da confini invalicabili a cui è inutile opporre qualsiasi forma di resistenza (Sen 2006, 19).

Eppure, oggi più che mai appare essenziale tentare di disarmare questo tipo di retoriche basate su un'assolutizzazione univoca delle identità e sostituirle con resoconti laterali delle relazioni sociali che siano in grado di sottolineare la contingenza di tutte le definizioni del sé e dell'altro da sé (Chambers 2003). Insistere sulla valenza plurale e ibrida della modernità e di ciò che, con etichette stantie, si continua a chiamare occidente, mondo cristiano, Europa comporta situarsi in uno spazio critico, aperto, in-between, nel quale interrogarsi e mettersi in discussione e «dove cercare di liberarsi da una difesa rigida di un'identità storica e di un "io" racchiuso nella presunta sicurezza di una località metafisica» (Ivi, 7). La necessità di rivolgere la nostra attenzione alla dimensione dialogica e relazionale della costruzione del sé e dell'altro da sé e di guardare alla contemporaneità - spesso percepita come difficile, disturbante - non come una semplice esperienza cronologica del tempo presente, ma come un'esperienza di riconoscimento, implica dunque un sovvertimento di quel meta-discorso negativo e stigmatizzante che ha da sempre influenzato il rapporto tra noi e gli altri e, nel caso specifico, noi (europei, occidentali, cristiani) e l'islam. Ciò può avvenire, probabilmente, anche attraverso un riposizionamento dello sguardo, una riformulazione di quello che sappiamo o crediamo di sapere dei nostri rapporti con la diversità e la lontananza «(...) anzi una decostruzione paziente di tutto il sapere che sta alla base della nostra stabilità identitaria» (Ceccatelli Gurrieri 2006). Questa nuova collocazione potrebbe offrire concretamente la possibilità di situarsi in un luogo in grado di offrire la possibilità di adottare una prospettiva radicale da cui osservare, immaginare e vivere forme alternative di relazione e di esistenza, sia nello spazio pubblico che in quello della quotidianità.

Riferimenti bibliografici

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Note

*. In Mondi Migranti, n. 1, 2008, pp. 43-58.

1. La storia conflittuale dei rapporti fra islam e occidente è stata oggetto di un'assai vasta produzione le cui conclusioni, da un punto di vista sociologico, ci sembra possano essere ben sintetizzate da una riflessione di Enzo Pace che sottolinea come islam, Europa e occidente siano ormai diventati «astratti contenitori di simboli entro i quali pateticamente donne e uomini di oggi cercano di metter dentro piccoli resti della loro memoria collettiva, senza accorgersi che quei simboli hanno perso molta aderenza con la realtà da un pezzo» (2002, 22).

2. Fra i tentativi di analisi del fenomeno dell'islamofobia in Italia si ricordano: Rivera 2002a; 2002b; 2003a; 2003b; Allievi 2003; Sciortino 2002; Guolo, 2003. Un primo tentativo di sistematizzazione e analisi critica del dibattito è in Massari 2006.

3. Una posizione simile è condivisa anche da Alessandro Dal Lago che sottolinea come a fronte del fatto che la xenofobia e le discriminazioni nei confronti degli stranieri siano diventati «fenomeni caratteristici dell'Italia», a partire dalla fine degli anni Ottanta, scarsa attenzione vi è stata rivolta sia dagli organi di informazione che dalla letteratura sociologica e politologica (Dal Lago 1999b, 35-36; Mura 1995). Questa "peculiarità" del caso italiano è probabilmente da ricondurre all'incapacità di fare i conti, in maniera critica, con il passato coloniale, il cui retaggio sembra, però, riemergere - in modo più o meno inconsapevole - negli stereotipi e nei cliché razzialisti (cfr. Rivera 2003b).

4. Per un'analisi dettagliata del dibattito sull'islam all'interno della chiesa cattolica si rimanda a Guolo 2001; 2003.

5. Si fa qui riferimento alla puntata del 29 marzo 2007 del programma televisivo "Anno Zero" diretto da Michele Santoro dedicata al tema della violenza contro le donne - ma in realtà quasi esclusivamente incentrato sull'analisi del fenomeno della violenza domestica all'interno di famiglie musulmane - che, di fatto, ha dato l'impressione di voler accreditare una visione a senso unico dell'islam italiano dipinto come estremista e maschilista. Pur avendo scelto di ambientare la gran parte dei servizi nella città di Torino - dove risiede una delle principali comunità musulmane del nostro Paese - nessuno spazio è stato dedicato, ad esempio, alle forme molteplici di associazionismo migrante, e musulmano, presenti nell'area e che da tempo portano avanti progetti significativi volti al dialogo e alla conoscenza reciproca fra religioni, culture e identità.

6. Si fa qui riferimento ad alcune mobilitazioni collettive - quali, ad esempio, quelle nate a Colle Val d'Elsa (in provincia di Siena) e a Bologna per citare alcune delle più recenti - volte a contrastare i progetti di costruzione di moschee e centri di cultura musulmana promossi dalle amministrazioni locali in collaborazione con le varie istanze dell'associazionismo musulmano lì presente.

7. Ci sembra opportuno ricordare, a questo riguardo, come, grazie alle ricerche condotte recentemente da alcuni giovani studiosi - spesso nell'ambito di tesi di dottorato -, si registrino significative novità. Fra i saggi e i volumi già pubblicati, si ricordano, fra gli altri, Schmidt di Friedberg 1994; Campani 2002; Salih 2003; Frisina 2005; Massari 2006.

8. Questo articolo fa riferimento ai risultati di una ricerca sulle forme di discriminazione e di pregiudizio vissute da uomini e donne musulmani che vivono in Italia, i cui risultati principali sono contenuti in Massari 2006.