2008

Gli intellettuali islamici e la rivoluzione iraniana

Pejman Abdolmohammadi

La rivoluzione iraniana del 1979 è stata il frutto di diversi movimenti politico- sociali che, durante gli anni sessanta e settanta, hanno trasmesso valori ed ideologie rivoluzionarie all'interno della società iraniana. In Iran, negli anni precedenti alla rivoluzione del 1979, diverse furono le forze politiche che contribuirono al disfacimento del regime politico di Mohammad Reza Shah Pahlavi. I cosiddetti "intellettuali islamici" possono essere considerati una delle fazioni determinanti in questa turbolenta fase storica dell'Iran. Nell' articolo si tenterà, in modo conciso, di riportare la biografia politica ed intellettuale insieme ai punti fondamentali del pensiero politico dei quattro più importanti esponenti di questo gruppo di intellettuali.

Il termine "intellettuale islamico" (1) (roushanfekr-e eslami) è stato introdotto nel linguaggio politico iraniano nella seconda metà del ventesimo secolo. Dopo il fallimento dell'esperienza di Mohammad Mosaddegh, nel 1953, le nuove generazioni di intellettuali tesero ad abbandonare la visione puramente laicista, maturata durante il regno di Reza Shah Pahlavi (1925-1941), tentando di dare vita ad una nuova ideologia politica che sposasse sia l'Islam sia alcuni principi laici che potevano essere accettati dalla shari'ah. I membri più rappresentativi di questa categoria di intellettuali, che in seguito avrà un ruolo fondamentale nei movimenti rivoluzionari iraniani, sono Jalal-e-Al-e-Ahmad, Mehdi Bazargan, Ali Shariati e Abolhassan Banisadr (2).

Al-e-Ahmad

Uno dei primi intellettuali iraniani che adottò l'Islam come ideologia politica fu Jalal-e-Al-e-Ahmad (n. 1923). Nel 1943, dopo aver finito gli studi liceali, intraprendeva la carriera di insegnante nelle scuole elementari; nello stesso anno entrava a fare parte del partito comunista iraniano Tudeh. La sua passione per il comunismo lo portò a scrivere diversi articoli e pubblicare alcuni opuscoli. Ciò aumentò il suo prestigio nel partito e agevolò la sua carriera. Le politiche staliniste lo indussero però a diventare critico nei confronti del partito comunista e nel 1947, insieme ad alcuni compagni, lasciò il partito Tudeh. Al-e-Ahmad si avvicinò allora al socialismo e nel 1953 entrò a far parte di un piccolo partito socialista chiamato "La terza forza" (نیروی سوم) (Niru-ye-Sevvom), alleato col Fronte Nazionale di Mosaddegh e sciolto dopo il colpo di stato. Il ruolo diretto degli Stati Uniti e della Gran Bretagna nell'organizzazione del colpo di stato e le politiche imperialiste di questi Paesi nei confronti dell'Iran (soprattutto nella questione petrolifera) portarono Al-e-Ahmad ad entrare in una nuova fase della sua vita intellettuale. Egli abbandonò allora le sue idee socialiste, trovando rifugio nello sciismo, considerato da lui un'ideologia capace di fronteggiare le politiche dell'Occidente (3). Nel 1962 scrisse infatti la sua famosa opera L'Occidentalizzazione (Gharb-zadeghi) (4), dove il dominio culturale e tecnologico dell'Occidente veniva sottoposto a diverse critiche. Nel libro Al-e-Ahmad analizzava la società iraniana, criticandone l'alienazione culturale nei confronti degli occidentali. Egli spiegava che "nonostante la modernizzazione in sé sia un fatto positivo per il Paese, la sua imposizione in Iran da parte degli Stati occidentali ha prodotto il fenomeno negativo dell'Occidentalizzazione" (5). A suo avviso i Paesi occidentali volevano controllare sia la politica sia l'economia dell'Iran. Per combattere la loro tendenza invasiva gli iraniani dovevano raggiungere l'autosufficienza nel campo industriale. Il suo pensiero anti-imperialista lo portava a scoprire nello sciismo un elemento positivo che avrebbe potuto ravvivare l'identità culturale e nazionale dell'Iran (6). Egli scrisse diversi testi dove espose la sua visione dello sciismo come una religione "progressista" che poteva salvare gli iraniani dalla loro alienazione culturale. Al-e-Ahmad criticava lo sciismo ortodosso e tradizionale degli scienziati religiosi, perché considerava la sci'a non tanto una religione, quanto piuttosto un'ideologia politica antagonista all'"Occidentalizzazione"; ciò significa che, nonostante Al-e-Ahmad avesse scritto diversi articoli sullo sciismo, egli non aveva mai formulato una propria teoria sul pensiero politico islamico. Con il suo distacco dalle ideologie laiciste e con il suo avvicinamento all'Islam, egli tesseva le fila di un discorso che sarebbe stato ripreso, negli anni sessanta e settanta, dagli "intellettuali islamici" (7).

Mehdi Bazargan

Soprannominato il "padre degli intellettuali islamici dell'Iran" (8), Mehdi Bazargan (9), conosciuto anche come (Mohandes (10) Bazargan) fu indubbiamente uno dei più importanti leaders della rivoluzione iraniana. A partire dagli anni cinquanta, criticando gli studi tradizionali sciiti che - a suo avviso - si interessavano di questioni inutili e di minor importanza, piuttosto che occuparsi dei temi principali della religione, cercò di presentare una nuova immagine dell'Islam. Egli riteneva l'Islam una dottrina pragmatica in grado di adeguarsi al mondo moderno. Dopo la fine della seconda guerra mondiale Bazargan divenne stretto collaboratore di Mosaddegh e fu da lui nominato presidente del comitato per la nazionalizzazione del petrolio. Dopo la caduta di Mosaddegh, Bazargan continuò la sua opposizione politica allo Shah (11). Nel 1961, affiancato da una delle figure più importanti del mondo religioso, l'Ayatollah Talaghani e da un reduce del fronte nazionale di Mosaddegh, Yadollah Sahabi, Bazargan fondava "Il movimento per la liberazione" (Nehzat-e Azadi) (12). Lo scopo del nuovo movimento era quello di dimostrare ai giovani il "vero islam", considerato fonte di ispirazione per la lotta al dispotismo sul fronte interno e all'imperialismo sul fronte esterno. L'obiettivo principale di Bazargan e dei suoi compagni era quello di gettare le basi di una nuova società che racchiudesse in sé dei valori religiosi autentici, riconciliando l'Islam con la politica; Bazargan rifiutava infatti l'idea della separazione dello spirituale dal temporale. L'idea della separazione era entrata nel pensiero islamico attraverso la religione cristiana e non era quindi un concetto islamico. Secondo Bazargan non devono esserci frontiere tra la religione e la politica: la religione deve controllare ed ispirare la politica, non viceversa. Il compito della religione è quello di risolvere i problemi degli uomini e ciò può essere raggiunto soltanto attraverso il canale della politica (13).

Nel corso della storia l'Islam ha perso i suoi valori originali e occorre, attraverso una rilettura delle fonti shariatiche e degli eventi storici, realizzare una renaissance che si basi sui principi autentici del Corano: "l'Islam è la religione dell'azione, del diritto, del jihad e della giustizia, che nel corso del tempo si è trasformata nella religione dei semplici adoratori" (14). La rinascita auspicata da Bazargan deve essere in armonia con la cultura iraniana e non può realizzarsi senza una partecipazione attiva e consapevole della popolazione. Secondo Bazargan gli iraniani devono allora riconsiderare la loro storia e modificare radicalmente il loro pensiero per poter realizzare il "vero islam" sulla terra. Egli vede nell'Islam un'ideologia attraverso la quale è possibile raggiungere lo sviluppo industriale, l'indipendenza politica e la libertà personale. Bazargan ammira e allo stesso tempo critica l'Occidente: egli da un lato considera i Paesi occidentali un buon esempio da seguire sia sotto il profilo tecnico e scientifico, sia per i loro principi politici e sociali laici (democrazia, diritti umani e umanesimo). Dall'altro lato, Bazargan è critico verso il Cristianesimo, a suo dire incapace di fornire ai credenti prescrizioni concrete sulla vita politica e sociale. Questa "negligenza" del cristianesimo, secondo Bazargan, ha portato gli occidentali ad avvicinarsi a dottrine e a filosofie politiche come il socialismo e il marxismo. Ciò non può accadere nell'Islam, da lui considerato una religione completa, sia nel campo politico sia quello spirituale (15).

Il tentativo di Bazargan è quello di riconciliare il nazionalismo iraniano con l'islamismo sciita trovando una convergenza tra le due realtà presenti sul territorio iraniano. Anche se critico dell'Islam tradizionale, fossilizzato da una parte del clero sciita, Bazargan è un credente sciita duodecimano convinto che chiede agli ulama di entrare, più dinamicamente, nella vita pubblica del Paese e di interessarsi dei temi riguardanti la cultura, l'economia e la politica. Egli è convinto che sia possibile la formazione di uno stato islamico democratico. Le idee di Bazargan suscitarono una nuova cerchia di intellettuali iraniani che cercarono di elaborare una teoria politica, in seguito denominata "Melli-Mazhabi" (Nazional-Religiosa), attraverso la quale si tentava di conciliare i valori islamici e quelli nazionalisti. Tale tendenza politica abbandonava il laicismo assoluto degli anni trenta e quaranta, che vedeva la cultura e il pensiero iranici in contrapposizione con l'Islam. Sebbene Bazargan fosse stato uno dei collaboratori più stretti di Mosaddegh, sarebbe inesatto considerare queste due personalità del mondo politico iraniano vicine anche dal punto di vista ideologico. Mosaddegh è un uomo pienamente laico e convinto della separazione della religione dalla politica. Egli ha solo un rispetto formale verso l'Islam, mentre Bazargan è convinto che la religione e la politica siano inseparabili e nel suo pensiero lo stesso concetto di laicità dello Stato non ha nessun significato (16). Secondo Bazargan la shari'ah incorpora in sé tutte le norme e le leggi necessarie per la società iraniana e la sua applicazione è indispensabile. Il suo forte rispetto per la shari'ah appare evidente quando, durante la rivoluzione bianca, egli si oppone duramente al conferimento del diritto di voto alle donne considerandolo, come gli ulama, anti-sharaitico. In realtà, Bazargan propone un pensiero di matrice religiosa ben lontano dal concetto di intellettuale concepito nella dimensione laica. La formazione di questa casta di "intellettuali islamici" favoriva soprattutto il clero, che riusciva ad ottenere, oltre al sostegno delle classi medio-basse e dei bazarii, anche il supporto di quella parte della classe media borghese e del mondo accademico che vedevano in questi nuovi intellettuali islamici un Islam completamente diverso da quello proposto dagli scienziati religiosi tradizionali. Bazargan era diventato quindi l'anello di congiunzione tra il mondo clericale e quello scientifico della società, poiché nel suo pensiero la scienza e la religione potevano convivere.

Ali Shariati (1933-1977)

Dopo essersi laureato in lingue e letterature straniere presso l'Università di Mashhad nel 1961, Shariati compì gli studi di dottorato presso la Sorbona di Parigi. Benché il dottorato di Shariati vertesse sulla sociologia religiosa, la sua dissertazione finale, nel 1964, trattava della filologia persiana. Durante il soggiorno francese egli simpatizzò per il movimento per la liberazione algerina, organizzando manifestazioni in suo sostegno. Ebbe anche l'occasione di conoscere Louis Massignon, per il quale ebbe grande stima, Frantz Fanon, di cui tradusse l'opera I dannati della terra (17) in persiano e infine Jean-Paul Sartre. Shariati si avvicinò ai reduci del fronte nazionale a Parigi e divenne politicamente attivo contro l'apparato monarchico dei Pahlavi. Nel 1964, dopo il conseguimento del dottorato di ricerca, decise di tornare in patria; a causa delle sue attività politiche venne però arrestato dalla polizia iraniana e trascorse alcuni mesi in prigione. In seguito alla sua liberazione, non avendo potuto ottenere il nulla osta del governo per insegnare all'Università di Teheran, tornò nel suo villaggio nativo (Mazinan) nella regione di Khorasan e lavorò come insegnante nelle scuole elementari. Fu poi chiamato ad insegnare all'Università Ferdowsi presso il capoluogo della regione, Mashhad. Dopo circa tre anni di carriera universitaria, su invito di un istituto religioso della capitale (Hoseinie-ye Ershad) che veniva gestito dai leader del "movimento per la libertà", Shariati lasciò Mashhad e si recò a Teheran (1969). Nei sei anni di attività intellettuale a Teheran Shariati elaborò il suo pensiero politico (18). Egli tenne diverse lezioni su temi concernenti la religione islamica; le sue argomentazioni presto trovarono grande consenso tra il pubblico, costituito soprattutto dai giovani universitari con tendenze religiose. Le lezioni venivano registrare in cassette e poi diffuse fra la popolazione, per cui la stima per Shariati aumentò giorno dopo giorno. Dopo quattro anni di intensa attività intellettuale e di propaganda politica, l'istituto religioso (Hosseinie-ye Ershad) venne chiuso dal SAVAK e Shariati fu imprigionato per diciotto mesi. Una volta scarcerato, egli tornò nel villaggio natale, e nel 1977 decise infine di lasciare l'Iran per la Gran Bretagna. Là morì nello stesso anno, in circostanze poco chiare (19).

Occorre adesso esaminare gli aspetti fondamentali del suo pensiero. Shariati riteneva che il "vero islam" fosse stato corrotto, essendo stato sostituito da un sistema di riti e consuetudini che permettevano ai governanti di manipolare le masse e di mantenere lo status quo. Shariati interpretava il primo pilastro dell'Islam, tauhid, ("l'unicità di Dio"), come un sistema rivoluzionario per la vita dei credenti: "il tauhid non indica soltanto il concetto del monoteismo, esso esprime anche il fatto che in una società islamica tutti i credenti devono appartenere ad un'unica classe sociale" (20). Non esisteva, nella dottrina islamica, alcuno spazio per la stratificazione della società: bisognava allora costruire una società omogenea sotto il profilo socio-economico. Shariati delineava dunque una società senza classi molto simile a quella propugnata dall'ideologia marxista; le sue idee vennero presto etichettate come "marxismo islamico". Nelle lezioni faceva spesso riferimento agli eroi della storiografia sciita quali Alì e Hossein, ritenendoli i veri promotori della giustizia sociale e della liberazione degli oppressi. Shariati vedeva nello sciismo l'unica via per avviare un processo rivoluzionario contro gli oppressori interni e l'imperialismo occidentale. La umma islamica sotto la guida dell'Imam avrebbe dovuto, a suo dire, mobilitarsi contro ogni forma di dispotismo presente sulla terra per fondare la società perfetta islamica, all'interno della quale le distinzioni fra le persone non sarebbero state dettate dalle condizioni economico-sociali, ma soltanto dal loro grado di timore di Dio e dal loro livello spirituale. Shariati sperava nella realizzazione di un sistema dove l'Islam (alavide (21)) avesse un ruolo preminente, essendo questa l'unica forma di governo che avrebbe rispettato totalmente i diritti degli individui, liberandoli da ogni subordinazione diversa da quella verso Dio (22). "L'Islam è l'unica religione che sostiene l'ideologia dello sviluppo incessante e della "rivoluzione permanente"; è l'unico modo per evitare il ritorno dei poteri dispotici e il degrado delle relazioni politiche" (23). Shariati considerava la democrazia occidentale, per il potere del denaro e il ruolo marginale degli elettori nell'amministrazione del Paese, poco funzionale: "sebbene questo sistema (democrazia occidentale) dichiari di voler realizzare l'egualitarismo, in pratica concede il potere ad una maggioranza conservatrice, emarginando le minoranze progressiste". A proposito della forma di governo, Shariati non indicava (a differenza di Khoimeini) un modello islamico preciso, ma delineava alcune caratteristiche essenziali alle quali tale governo avrebbe dovuto conformarsi (24).

Nel testo Ommat va Emamat, (La umma e l'imamato), Shariati fornisce alcune indicazioni di carattere generale sul suo modello islamico:

"Esso è un governo ideologico con una dottrina politica ben definita e un piano preciso che mira, sulla base di un programma rivoluzionario, a cambiare la visione del mondo, le relazioni sociali e il livello di vita degli individui. Il suo scopo non è quello di rappresentare ogni cittadino attraverso il suo voto e il suo partito, ma quello di realizzare una società che possa essere in grado di praticare la dottrina islamica, realizzando così i suoi obiettivi rivoluzionari" (25).

Il raggiungimento di un governo dove l'Islam, in quanto ideologia, ottenga un ruolo centrale, è possibile soltanto con la guida dell'Imam e la mobilitazione della umma. La figura dell'Imam, a differenza di quanto sostenuto dagli scienziati religiosi sciiti, nel pensiero di Shariati non ha attributi divini. L'imam è una persona comune che, in virtù delle sue doti spirituali, viene scelto come guida della comunità islamica. Shariati intende sottolineare che "la figura dell'Imam in quanto guida non deve essere considerata nella sua accezione fascista e autoritaria, dato che l'adorazione di una guida (come accade nei regime autoritari) è contraria allo spirito monoteista dell'Islam". Di conseguenza, l'Imam è soltanto una figura di elevata spiritualità che conduce la comunità dall'oscurantismo e dall'idolatria alla giustizia illuminata: "l'imamato è un regime politico transitorio e rivoluzionario che mira alla creazione di individui e di società rivoluzionari che non si pieghino ai dispotismi presenti" (26). In altri termini, secondo Shariati nel corso della storia dello sciismo erano esistiti dodici Imam che avevano indicato la via maestra per raggiungere la prosperità e per liberarsi dall'ignoranza e dall'ingiustizia. La umma doveva perciò seguire le loro indicazioni e diventare "rivoluzionaria": ciò significava che essa doveva sempre mobilitarsi contro gli oppressori, cercare di fondare uno Stato giusto e perfetto nel quale l'Islam venisse applicato in modo corretto e il clero sciita, considerato un elemento deviante dalla "vera" religione, non detenesse alcun potere reale (27).

La teoria dello "Stato" di Shariati è molto diversa da quella dell'Ayatollah Khomeini. Il primo considerava lo "stato islamico" come una realtà rivoluzionaria che avrebbe potuto essere retta anche da diverse forme di governo, mentre l'Ayatollah, nella sua "teoria del governo islamico" proponeva un sistema di governo preciso che doveva essere guidato da un rappresentante dell'Imam sulla terra, il "Valie faghih". In realtà l'Ayatollah Khomeini non considerava, a differenza di Shariati, l'imamato un regime provvisorio che tendesse soltanto ad indicare la "via maestra" ai fedeli. Egli vedeva invece l'imamato come un regime politico eterno; per questo motivo, in assenza del dodicesimo Imam, doveva sorgere la figura del Valie faghih per sostituirlo e per amministrare, per quanto possibile, la comunità islamica in conformità alle indicazioni della shari'ah.

In realtà, l'approccio all'Islam sciita proposto da Shariati era riuscito ad attrarre l'attenzione di diversi giovani studenti che ritenevano la religione e il clero simboli di arretratezza e oscurantismo. Shariati e Bazargan (anche se il primo può essere considerato rivoluzionario e il secondo conservatore), con le loro teorie sull'Islam, riuscirono ad abbattere il pregiudizio culturale contro la religione che dominava, fino ad allora, negli ambienti universitari. Questo lavoro intellettuale, iniziato negli anni sessanta e proseguito fino alla rivoluzione iraniana alla fine degli anni settanta, suscitò un processo di islamizzazione delle giovani generazioni, soprattutto universitarie. Ciò incrementava, seppur in modo indiretto, il potere del clero sciita rivoluzionario, guidato dall'Ayatollah Khomeini, a quel tempo in esilio in Iraq. Shariati parlava di "rivoluzione" di "mobilitazione della umma islamica", della necessità della guida dell'Imam e del diritto negato agli "oppressi" (mostazhafin) da parte degli "oppressori" (mostakberin). Concetti che, in astratto, potevano essere utili anche alla classe clericale sciita rivoluzionaria.

Abolhassan Banisadr

Nato nel 1933 in una famiglia di scienziati religiosi (il padre fu uno dei più autorevoli Ayatollah della città di Hamedan), Banisadr si laureò prima in teologia e poi in sociologia. Negli anni cinquanta iniziò le sue attività politiche diventando membro del Fronte Nazionale e nel 1962 fu esiliato in Francia, dove iniziò il suo dottorato di ricerca in economia presso la Sorbona di Parigi. Nel 1968 divenne il leader degli studenti oppositori iraniani residenti in Europa e dal 1972 fu in contatto diretto con l'Ayatollah Khomeini a Najaf. Nel 1971, un anno dopo la pubblicazione de "Il governo islamico" di Khomeini in Iraq, Banisadr pubblicò un testo intitolato Il manifesto della Repubblica Islamica (28).

In quest'opera - suddivisa in due sezioni - Banisadr formula i fondamenti teorici di un governo islamico. Nella prima parte analizza criticamente le condizioni politiche, economiche e sociali dell'Iran sotto il regno dello Shah; Banisadr, come i suoi contemporanei Al-e-Ahmad, Bazargan e Shariati, prendeva di mira la questione dell'occidentalizzazione, il consumismo, la mancanza di libertà politiche, l'assenza di una vera indipendenza nazionale. Il governo dello Shah, considerato dispotico, doveva essere allora sostituito da una "Repubblica Islamica", basata sui principi monoteisti dell'Islam. Nella seconda parte del testo, Banisadr pone i fondamenti teorici di una forma di governo basato sulla dottrina islamica:"il potere politico all'interno del governo islamico deve estendersi fra tutta la popolazione e i centri autoritari, detentori esclusivi del potere, devono essere aboliti". Il governo è responsabile della difesa della comunità e il suo potere deve essere mantenuto sotto il controllo del popolo. Sotto il profilo economico, il governo islamico deve soddisfare le necessità primarie della popolazione ed indirizzarsi verso quella società "senza classi" che, come Shariati, anche Banisadr ritiene uno degli scopi principali dell'Islam (29). Egli pensava che la fine della subordinazione all'occidente sarebbe stata possibile soltanto con un governo islamico, che avrebbe garantito la crescita e la prosperità Paese: dall'indipendenza economica dell'Iran sarebbe derivata una più equa distribuzione dei beni, una giustizia migliore, la fine della fuga degli intellettuali e la riduzione del peso della burocrazia. Sul piano culturale la società avrebbe dovuto orientarsi verso i valori islamici, distaccandosi da quelli occidentali presenti nel regno dello Shah. Banisadr sperava che nelle moschee e nei centri religiosi si sarebbe sviluppato un movimento rivoluzionario che avrebbe condotto la popolazione alla rivolta contro lo Stato dispotico, permettendo la realizzazione della Repubblica Islamica. Nella nuova società islamica, spiega Banisadr,"ogni persona sarà responsabile di tutte le questioni [della comunità ]; ognuno diventerà l'Imam e la guida di tutti".

In seguito Banisadr scrisse un'altra opera, I principi fondamentali del governo Islamico (1978), dove vengono delineati in modo più dettagliato i principi di un "governo islamico". Egli considera i cinque pilastri dell'islam sciita i principi fondamentali per la costituzione dello Stato islamico. Il primo, "l'unicità di Dio", "comporta la negazione di ogni divisione nella sfera politica, economica ed ideologica della comunità"; ciò significa che il credente deve cercare di raggiungere l'unità ovunque si trovi perché, spiega Banisadr, è questo (l'unità), l'elemento fondamentale della società perfetta desiderata da Dio. Il raggiungimento di tale società perfetta è possibile soltanto quando il credente, dopo aver stabilito l'unità, si dedichi alla pratica degli altri quattro pilastri: la preghiera canonica, il digiuno, il pellegrinaggio e il Jihad.

Secondo Banisadr ogni potere che derivasse dalla natura umana è condannabile, l'unica fonte di sovranità essendo quella divina. Tutte le autorità umane che generano divisione fra i popoli devono essere soppresse, perché per Banisadr "la società non si deve dividere fra la classe povera (i dominati) e la classe ricca (i dominanti)". Le risorse economiche devono perciò essere controllate dallo Stato in modo tale che nessuno possa avere eccessive ricchezze ed esercitare un potere sproporzionato nella comunità islamica. In un governo islamico soltanto il lavoro giustifica la proprietà, il lusso deve essere eliminato, perché esso causa la povertà per la maggior parte della popolazione. Banisadr si occupa principalmente delle politiche economiche e sociali dello Stato islamico, senza disegnarne l'impianto istituzionale. A suo avviso, lo scopo del governo islamico è quello di impedire ad una persona e/o a un gruppo di monopolizzare il potere; esso viene creato per sopprimere il potere centrale, considerato "un oppressore".

Le idee di Banisadr appaiono per alcuni versi carenti. Banisadr non spiega infatti - almeno negli anni settanta - in modo chiaro chi veramente ha il diritto di detenere il potere nel governo islamico. Egli non parla né dell'esperto della legge né di una ipotetica democrazia islamica. Le sue idee furono comunque accolte dagli studenti iraniani, soprattutto quelli residenti all'estero. Essi trovavano in particolar modo interessanti le posizioni di Banisadr sull'economia islamica, ritenendole efficaci nello scontro con l'imperialismo occidentale. Anche Banisadr, come i suoi contemporanei intellettuali islamici, esortava gli iraniani ad adottare lo sciismo come ideologia politica, abbandonando le teorie laiche e il patriottismo persiano.

Al-e Amahd, Bazargan, Shariati e Banisadr facevano parte di una nuova categoria di studiosi, influenti nelle diverse classi della società iraniana, conosciuta come "gli intellettuali islamici". Essi teorizzavano un Islam interventista e rivoluzionario, basandosi sui principi religiosi e sulla storiografia sciita. Il loro scopo era quello di mobilitare le masse sia contro il potere dispotico interno (lo Shah), sia contro il potere esterno (le potenze imperialiste). Essi erano riusciti a raccogliere un gran numero di seguaci militanti disposti a sacrificare la propria vita per l'Islam, per cui la loro grande influenza nella rivoluzione iraniana risulta evidente.

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Note

1. Si consultino in generale N. NABAVI, Intellectuals and the State in Iran, Gainesville, University Press of Florida, 2003; M. A. TAGHAVI, The flourishing of Islamic reformism in Iran: political Islamic groups in Iran (1941-61), London, Routledge Curzon, 2005.

2. M.KAMRAVA, Revolution in Iran: The Roots of Turmoil, London and New York, Published by Routledge,1990, pp. 65-66.

3. R. MOTTAHEDEH, The Mantle of the Prophet: Religion and Politics in Iran, Middlesex, Penguin, 1985, pp. 287-289.

4. J. AL-E AHMAD, Occidentosis: a plague from the West, (Transl. by R. Campbell. Annot. and introd. by Hamid Algar), Berkeley, Mizan Press, 1984. Sul pensiero politico di Al-e Ahmad si veda anche J. AL-E AHMAD, Dastanha-ye Syasat (I racconti politici), Teheran, Syamak, 1997.

5. M. KAMRAVA, op.cit., p. 68.

6. R. MOTTAHEDEH, op. cit., p. 296.

7. M. KAMRAVA, op. cit., pp. 68 -71; si veda anche F. SABAHI, Storia dell'Iran, Milano, Bruno Mondadori, 2003, pp. 144-147.

8. H. YOUSEFI-E SHKEVARI, Nogherai-ye Dini (Il riformismo religioso), Teheran, Ghazal, 1998, p. 18.

9. Sulla biografia politica di Bazargan si consulti in generale S. BARZIN, Zendeghiname-ye siyasi-ye Mohandes Mehdi Bazargan (La Biografia Politica di Mehdi Bazargan), Teheran, Nashr -e Markaz, 1995.

10. Il termine "Mohandes" significa, in lingua persiana, "ingegnere". Bazargan essendo laureato in ingegneria veniva spesso chiamato con il titolo.

11. N. R. KEDDIE, Roots of Revolution: An interpretive History of Modern Iran, New Haven and London, Yale University Press, 1981, pp. 213-214; si veda anche E.ABRAHAMIAN, Iran bein-e do enghelab (l'Iran fra le due rivoluzioni), Teheran, Markaz, 1998, p. 420.

12. P. PAIDAR, Women and the Political Process in the twentieth-century Iran, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, p.140.

13. N.R.KEDDIE, op. cit., p. 214; Si veda anche E. HOUSHANG, Iranian Politics and Religious Modernism; the Liberation Movement of Iran under the Shah and Khomeini, London, Tauris, 1990.

14. Cit. in M. KAMRAVA, op. cit., p.72.

15. N.R. KEDDIE, op. cit., p. 214.

16. Sul pensiero politico di Bazargan si consultino M. BAZARGAN, Afat-e Touhid (I rischi del monoteismo), Houston, Book Distribution Center, 1978; I.d., Enghelab-e Iran dar do harekat (La rivoluzione iraniana in due fasi), Teheran, 1984. Id., Bazyabi-e Arzesh ha (La rinascita dei valori), Teheran, 1985.

17. F. FANON, The Wrecthed of the Earth, London, Penguin, 1982.

18. Sul pensiero politico di Shariati si consultino A. SHARIATI, Marxism and other Western fallacies: an Islamic critique, Berkley, Mizan Press, 1980; Id., Zivilisation und Modernismus, Bonn, Botschaft der Islamischen Republik Iran, Presse- u. Kulturabt, 1981; Id., Tashaiioe Alavi va Tashaiioe Safavi (La Sci'a Alavide e La Sci'a Safavide), Teheran, Casa Editrice Pejman, 1999.

19. A. RAHNEMA, An Islamic Utopian: A Political Biography of Ali Shariati, London- New York, 1998, pp. 97-100, 117-120, 132-135, 366-369; si vedano anche P. SHARIAT RAZAVI, Everlasting Memorials, Teheran, Jarf, 1997; J. PAJUM, Shakhsiat va Andisheie Doctor Ali Shariati (La personalità e il pensiero del dott. Ali Shariati), Teheran, Chapaksh, 1992.

20. A. SHARIATI, Frahang-e Loghat (Il dizionario politico), Teheran, Qalam, 1983, p. 142.

21. Sul pensiero di Shariati sulla sci'a alavide e safavide si veda A. PEJMAN, Un'introduzione al mondo islamico sciita, in Jura Gentium (Rivista di filosofia del diritto internazionale e della politica globale), Firenze, 2008, p. 3.

22. J. S. ISMAEL; T. Y. ISMAEL, Social Change in Islamic Society: The Political Thought of Ayatollah Khomeini, "Social Problems", Vol. 27, No. 5, Sociology of Political Knowledge Issue: Theoretical Inquiries, Critiques and Explications. (Jun., 1980), p. 609.

23. A. SHARIATI, Frahang-e Loghat (Il dizionario politico), cit., p. 212.

24. P.PAIDAR, op.cit., pp.179-180; cfr. ibidem, p. 179: " In this (Shariati's) ideal Islamic society, politics and religion were inseparable and so were state and society. The "emmam" and the "community" were one and democracy was genuine and inherent in the system as opposed to Western elitist democracy which was corrupt and money-led, and Eastern workers" democracy which was totalitarian".

25. A. SHARIATI, Frahang-e Loghat (Il dizionario politico), cit., p. 58.

26. A. SHARIATI, Frahang-e Loghat (Il dizionario politico), cit., p. 61.

27. A. RAHNEMA, op. cit., pp. 236-237; J. S. ISMAEL; T. Y. ISMAEL, op. cit., p. 610.

28. A. BANISADR, Il Manifesto della Repubblica Islamica, Paris, 1971.

29. M. KAMRAVA, op. cit., p. 76.