2006

Il principio di Color Blindness e il dibattito europeo su razza e razzismo (*)

Gaia Giuliani (**)

Svilupperò in questa sede alcune riflessioni sul significato di color blindness in riferimento al dibattito contemporaneo sul concetto di razza e sui fenomeni del razzismo.

Al fine di un'analisi critica dei sistemi di "cecità del diritto rispetto al colore" e di "neutralità dello Stato nei confronti delle differenze" vigenti rispettivamente negli Stati Uniti e in Europa, è stata da più parti avvertita come necessaria una disamina del concetto di "razza" in riferimento al significato sociale e politico che esso ha assunto nelle democrazie occidentali fin dal secondo dopoguerra e una sua riarticolazione alla luce delle più recenti suggestioni emerse dal dibattito giuridico americano. A questo proposito può risultare interessante, a mio avviso, ricorrere alla concettualizzazione proposta da Neil Gotanda in alcuni scritti e nello specifico nel saggio tradotto e inserito nel volume Legge, razza, diritti. La "Critical Race Theory" negli Stati Uniti recentemente curato da Gianfrancesco Zanetti e Kendall Thomas (1).

Gotanda, valorizzando i processi di auto-identificazione razziale alla base delle rivendicazioni di alcune minoranze negli Stati Uniti ed in particolare della comunità afroamericana, rivede il concetto di razza delegittimando una qualsivoglia definizione genetico-fenotipica di essa per associarle un valore culturale e storico (2). La definizione gotandiana discende, quindi, da una precisa specificità storica, quella della contrapposizione duale tra "bianchi" e "neri" sulla quale appare essere tuttora strutturata la società americana, una contrapposizione che, nonostante l'abolizione del sistema segregazionista, tende a neutralizzare la soggettività afroamericana attraverso il misconoscimento della differenza "razziale" e "culturale" e delle conseguenze in termini di svantaggio economico, sociale, culturale e politico che derivano dalle persistenti forme di razzismo popolare e istituzionale. Un misconoscimento che è rafforzato, sottolinea la Critical Race Theory, dalla vigenza in ambito giuridico e politico-istituzionale del principio di color blindness.

Propongo in questa sede una lettura che può essere definita "paradossale" della concezione storica di razza propria della Critical Race Theory"; "paradossale" per via degli esiti che possono sortire l'accostamento e la comparazione tra il concetto di 'razza' in senso storico-culturale proposta da Gothanda negli Stati Uniti e le più recenti formulazioni di tale concetto elaborate dagli storici del razzismo in Europa. "Paradossalmente", infatti, la concettualizzazione di Gotanda, condivisa in generale anche dai Cultural e dai Postcolonial Studies (3), se traslata nel continente europeo, appare far propria quella definizione «differenzialista» di razza che è stata stigmatizzata da autori come Pierre André Taguieff, Martin Baker e Etienne Balibar (4). Secondo tali intellettuali proprio la definizione "culturalista" di razza, sostituita alla tradizionale definizione scientifica e biologica di essa, è divenuta, attraverso un processo che si è concretizzato soprattutto a partire dagli anni '80 del XX secolo, il nucleo concettuale e al contempo la base del comune sentire attorno a cui si è sviluppata la più recente riformulazione del pensiero razzista.

Da tale (apparente) paradosso si evince il grado di incongruenza esistente tra esperienza americana e esperienza europea in riferimento ai fenomeni storici del razzismo: se nell'esperienza statunitense il concetto di "razza" rappresenta fin dagli anni '60 uno strumento di forte autoidentificazione per le minoranze razziali americane, in virtù di un'esperienza storica di sfruttamento ed emarginazione la cui memoria, sia soggettiva (della comunità) sia oggettiva (istituzionale) è vista come strettamente dipendente dal riconoscimento pubblico della minoranza stessa in quanto specificità storica (e "razziale") quello stesso concetto in Europa evoca un senso di colpa collettivo ancora irrisolto (5).

Il sistema di "neutralità" politico-giuridica nei confronti delle differenze - simile nei suoi effetti, per quanto lontano nei suoi presupposti storici e teorici, a quello di color blindness vigente negli Stati Uniti - che nell'Europa continentale è stato formalizzato nelle carte costituzionali del secondo dopoguerra, (6) rappresenta proprio quella che fu la reazione culturale alle abominevoli politiche razziali che hanno caratterizzato la politica degli Stati europei dagli anni '20 agli anni '40. Tale approccio, fin dalla sua statuizione formale, ha portato con sé un forte scetticismo politico-istituzionale nei confronti di ogni diritto specifico e policy formulati in virtù della specificità culturale e razziale, imputati di celare pericolose forme di differenziazione del diritto atte a stabilire privilegi e speciali garanzie per taluni gruppi sociali. La neutralità giuridico-politica nei confronti di tali differenze viene percepita, infatti, come l'unica opzione che possa assicurare un approccio "garantista", in grado cioè di evitare, almeno dal punto di vista "formale", o come direbbe Gotanda, "volontario", qualsiasi forma di discriminazione. Questo specifico approccio identifica la discriminazione "razziale" o "culturale" partendo dalla formulazione scientifico-istituzionale di razza, quando invece, come ha sottolineato Taguieff, la semplice delegittimazione di tale concezione che seguì i fatti legati ai regimi totalitari e ai governi collaborazionisti della prima metà del XX secolo (7), non ha esaurito l'uso discriminante dello stesso concetto di razza né ha prodotto, come ha sottolineato l'intellettuale marocchino Tahar Ben Jalloun (8), una cultura politica in grado di neutralizzare o semplicemente controvertire ogni tentativo di riformulazione delle pratiche razziste.

Di fatto, quel presunto schermo politico-culturale che si supponeva di aver posto nei confronti dell'emergenze razziste, che fossero intellettuali, popolari o istituzionali, non solo palesa la propria inconsistenza per ciò che riguarda la prevenzione dell'uso razzista della formulazione culturalista della differenza, (9) ma irrigidisce la capacità politico-istituzionale di riformulare il concetto di cittadinanza in virtù del pieno riconoscimento della disomogeneità culturale e religiosa esistente nelle società contemporanee. (10)

La color blindness dimostra, in tal senso, l'incapacità del legislatore di cogliere l'evoluzione di quell'habitus razzista, nel significato bourdiviano del termine, che permea in vario grado le società occidentali e di scinderlo da quelle pratiche identitarie che fondano nel concetto di razza-in-senso-storico il proprio diritto alla piena inclusione. Si tratta di quello stesso habitus che, come sottolineò Franz Fanon nei primi anni '50, induceva nel colonizzato algerino e nell'afrocaraibico della Martinica forme di autosoggiogamento alle logiche del dominio che, a parte la forma più istituzionale ed evidente, si perpetravano attraverso una complessa trama di "discorsi" e "pratiche" quotidiane (11). La visione neutrale, o omogeneizzante, che in casi limite come quello greco, porta alla negazione dell'esistenza di minoranze culturali e religiose, ossia di "esperienze storiche altre" in seno alla propria società civile (12) (che viene ostentatamente celebrata in Italia come in Francia), sottrae le istituzioni e la riflessione pubblica negli Stati "postcoloniali"alla responsabilità di comprendere le trasformazioni sociali in atto e di farsene carico, perpetrando in modo più o meno volontario le forme di habitus sociale e di razzismo "strutturale" vigenti. (13)

Le forme di affirmative action vigenti presso i regimi di Common Law corrispondono, a mio avviso, ad una lettura più realistica delle diversità: esse non si scontrano de facto con il principio dell'universalità del diritto, ma solo in via formale. Il conflitto (apparente) tra una concezione del diritto intesa come volta a porre rimedio alle differenze di "capitale" economico e sociale (14) che penalizzano alcune minoranze, attraverso il pieno riconoscimento delle condizioni di svantaggio in cui versano queste ultime, e una concezione universalistica del diritto viene a darsi solo qualora le condizioni sociali ed economiche di tali minoranze vengano considerate indipendenti dalla differenza, sia essa di genere, di cultura, di religione, di orientamento sessuale. (15) Ne consegue che solo una lettura dell'universalismo giuridico che consideri la marginalità come esperienza individuale e non sociale e collettiva, o legata esclusivamente a fattori congiunturali e non come patrimonio di una discriminazione storica che insiste sulla differente identità, sessuale o "razziale", può dichiararsi completamente contraria a forme, che io definisco "strategiche" e non "ontologiche", di intervento ad hoc come le affirmative actions (16).

Definisco "strategiche" tali azioni in quanto ineriscono, a mio parere, alla più o meno radicata consapevolezza dei fattori esterni determinanti la marginalità o l'esclusione di particolari gruppi sociali, e non "ontologiche" poiché altrimenti avrebbero come presupposto una fissazione deterministica di categorie di soggetti identificati come biologicamente "deboli" e "da tutelare".

Senza nulla togliere all'importanza di costruire percorsi di recupero della memoria sia attraverso il riconoscimento pubblico delle forme di dominio sia attraverso forme di empowerment dei gruppi che storicamente sono stati sottoposti ad esso, considero il discorso pubblico sulle minoranze come caratterizzato spesso da una concezione della diversità come "minorità" - unable to agency - il che stabilisce una sorta di continuum inquietante con quegli stessi discorsi e pratiche del dominio che si intendono contrastare. (17)

Inoltre, in linea con le riflessioni di Arjun Appadurai e Kwame Antony Appiah, sono convinta che la tendenziale destrutturazione delle identità moderne e la loro ricomposizione "fluida" - sia attraverso percorsi di "libera" costruzione sia attraverso percorsi di "costrizione" esterna - e le contaminazioni identitarie che percorrono tutto il mondo globalizzato, mediante l'attraversamento dei confini nazionali da parte di persone, ideali, esperienze e culture in "diaspora" (18), non permettano una categorizzazione "definitiva" delle identità culturali che si presentano spesso in forma "meticcia" (19). Ciò vale a mio avviso anche per l'identità sessuale e di genere, la cui natura "discorsiva", in linea con le riflessioni di Judith Butler e Donna Haraway, rende imprecisa e fuorviante una qualsiasi categorizzazione statica, "ontologica" appunto, incapace di cogliere le pratiche che la determinano e le trasformazioni, discorsive e tecnologiche, che ne "denaturalizzano" il significato (20).

Sono convinta che la classificazione di gruppi marginali in quanto tali e la proliferazione di politiche ad hoc, se non supportate da una riflessione sulla fluidità delle appartenenze, oltre che sul portato storico e sociale delle stesse, rischiano di ossidificare (21) le identità inducendo il legislatore, come auspicato da comunitaristi e multiculturalisti à la Taylor e Walzer o da teologi come David Novak, a considerare le società occidentali alla stregua di insiemi settorializzati, rigidamente definiti secondo appartenenze immutabili e non sovrapponibili (22). L'irrigidimento identitario che soggiace a tale lettura delle società multiculturali contemporanee sembra voler contrastare quelle "trasformazioni, metamorfosi, mutazioni e processi di cambiamento" che, sottolinea Rosi Braidotti, «sono [...] divenuti parte integrante della vita della maggior parte dei soggetti contemporanei» e rappresenta quella disaffezione «alla complessità» che rende «impossibile sentirsi a casa nel ventunesimo secolo» (23).

Attraverso una tale lettura dell'identità, le minoranze cesserebbero di essere il risultato dell'insieme di «vissuti individuali comuni», come li descrive Gilroy, o il risultato di una coscienza politica collettiva, come nei casi esemplari dei movimenti femminili o della comunità gay, lesbica e transgender, per divenire target biopolitici privi di una voce "universale" (24).


Note

*. Le considerazioni sviluppate in questo paper sono originate dalla relazione Discriminazione strutturale e color blindness nei sistemi penitenziari degli Stati Uniti e d'Europa presentata da Lucia Re nell'ambito del X ciclo del "Seminario di Teoria del diritto e Filosofia pratica" organizzato presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell'Università di Modena e Reggio Emilia.

**. Università di Bologna.

1. N. Gotanda, "La nostra costituzione è cieca rispetto al colore": una critica, in K. Thomas e Gf. Zanetti (a cura di), Legge, razza e diritti. La "Critical Race Theory" negli Stati Uniti, Reggio Emilia, Diabasis, 2005, pp. 27-69.

2. Il processo di identificazione nella blackness a livello popolare prima ancora che teorico, ha reso possibile il ribaltamento del discorso razzista e la conseguente presa di coscienza da parte degli afroamericani dell'appartenere ad una stessa cultura, ad una stessa storia di sfruttamento e di discriminazione su base razziale. Tale consapevolezza ha assunto in epoca contemporanea forme alquanto differenti che sono oscillate dall'idea di "double consciousnes" elaborata da W.E.B. Du Bois, all'"essenzialismo" della Négritude e a quello della Black Nation teorizzata da Marcus Garvey, fino a giungere all'approccio filosofico-giuridico tipico della Critical Race Theory e all'anti-antiessenzialismo di P. Gilroy. Cfr. W.E.B. Du Bois, Human Rights for All Minorities, in W.E.B. Du Bois Speaks. Speaches and Adresses 1890-1963, New York-Sidney-London, Pathfinder Press, 1970, vol. II, pp. 179-191 (tradotto in italiano in «Studi culturali», n. 2/2004, pp. 337-53); Id., The Soul of Black Folk. Essays and Sketches, Chicago, A.C. McClurg, 1903; Id, Dusk of Dawn. An Essay Towards an Autobiography of a Race Concept, New Brunswick, Transaction Publishers, 1940. L.S. Senghor, Les fondements de l'africanité ou négritude et arabité, Paris, Presence Africaine, 1967; Id., Ce que je crois. Négritude, francité et civilisation de l'universel, Paris, Grasset, 1988; Id., Libertà. Negritudine e umanesimo, Milano, Rizzoli, 1974. Per i movimenti che professano la superiorità nera, la necessaria autarchia e separazione dal mondo bianco si vedano M. Garvey, Message to the people. The course of African philosophy, Dover, Massachusetts, 1986; A.J. Garvey, Philosophy and opinions of Marcus Garvey, or Africa for the Africans, London, F. Cass & Co, 1967; Marcus Garvey. Life and lessons. A centennial companion to the Marcus Garvey and Universal negro improvement association papers, R.A. Hill, B. Bair (eds.), Berkeley, University of California, 1987. Per ciò che riguarda la Critical Race Theory, si vedano le ricerche e i principali scritti (raccolti nella citata antologia di Thomas e Zanetti) dei suoi massimi esponenti: oltre a N. Gotanda, D.A. Bell, C.I. Harris, I.F. Haney Lopez, B. Flagg, K. Crenshaw e D. Kennedy. Infine, P. Gilroy, Black Atlantic (1993), Roma, Meltemi, 2003; Id., Against Race. Imagining Political Culture beyond the Color Line, Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 2000.

3. Per quanto la Critical Race Theory abbia preso le distanze da una concezione della razza come quella elaborata dai Cultural Studies, a loro avviso non del tutto in grado di cogliere la forza della determinazione biopolitica e razzista della sua fenomenologia discorsiva, essa condivide con quest'ultima e con le molteplici definizioni elaborate in seno ai Postcolonial Studies l'idea che tale categoria individui una serie di elementi storico-culturali che vanno ben oltre il dato biologico e che tali elementi rappresentino in taluni casi, come quello della comunità afroamericana, ciò che Tommy. L. Lott ha definito essere, riprendendo W.E.B. Du Bois, "la razza come strumento di emancipazione". T.L. Lott, The invention of Race. Black Culture and the Politics of Representation, Oxford, Blackwell, 1999.

4. P.A. Taguieff, La forza del pregiudizio (1987), Bologna, Il Mulino, 1994 e Id. Il razzismo. Pregiudizi, teorie, comportamenti (1997), Milano, Raffaello Cortina Editore, 1999; E. Balibar e I. Wallerstein, Razza, Nazione e Classe. Le identità ambigue (1988), Roma, Edizioni Associate, 1996; E. Balibar (1992), Le frontiere della democrazia, Roma, Edizioni Manifesto Libri, 1993. M. Baker, The New Racism, London, Junction Books, 1981. Si vedano anche P. Gilroy, There are no Black in the Union Jack, London, Routledge, 1987; A. Burgio, L'invenzione delle razze, Roma, Edizioni Manifesto Libri, 1998; M. Wieviorka, Lo spazio del razzismo (1991), Il Saggiatore, 1996; Id., Il razzismo (1998), Roma-Bari, Laterza, 2000.

5. Per ciò che riguarda l'approccio controverso della cultura politica italiana al concetto di razza, tra amnesia, negazione e senso di colpa nel confronti dell'esperienza storica del razzismo nell'Italia liberale e fascista si veda A. Burgio (a cura di), Nel nome della razza, Bologna, Il Mulino, 1998.

6. Cfr. il comma 2 dell'art. 3 della Costituzione italiana secondo cui «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali», e il secondo e terzo comma dell'art. 77 del titolo XII della Costituzione della V Repubblica francese del 1958 secondo cui «esiste una sola cittadinanza della Comunità. Tutti i cittadini sono eguali dinanzi alla legge, senza distinzione di origine, di razza e di religione. Essi hanno gli stessi doveri».

7. Per un'analisi della biopolitica nei regimi totalitari si veda l'articolo di Simona Forti, Biopolitica delle anime, in «Filosofia politica», n. 3/2003 (fascicolo monografico su 'razza/ghenos'), pp. 397-417.

8. T. B. Jalloun (1984), Ospitalità francese, Editori Riuniti, 1998.

9. Gli studi storici sul razzismo da un lato e la critica dei Postcolonial Studies hanno evidenziato come il "razzismo", lungi dall'essere il mero risultato della formulazione scientifica del concetto di razza e della sua applicazione politica a fini discriminatori tra il tardo XIX e la prima metà del XX secolo, rappresenti il pandant culturale (inteso da alcuni come la sua distorsione e da altri come elemento congenito) di un preciso approccio filosofico legato ai concetti di individuo e civiltà elaborati dai Lumi. Cfr. A. Gerbi, La disputa del Nuovo Mondo, Milano, Adelphi, 2000; S. Landucci, I filosofi e i selvaggi. 1580-1780, Bari, Laterza, 1972; G. Gliozzi, Adamo ed il nuovo mondo, Firenze, La nuova Italia, 1977; T. Todorov (1982), La conquista dell'America. Il problema dell'"altro", Torino, Einaudi, 1982. J. Fabian (1983), Il tempo e gli altri. La politica del tempo in antropologia, l'Ancora, 2000. D. Chakrabarty, Provincializzare l'Europa, Roma, Meltemi, 2004.

10. Si tratta di una disomogeneità culturale e religiosa che non è "politicamente piatta" ma che è attraversata continuamente dal moltiplicarsi di processi di soggettivazione che rimettono in discussione continuamente i confini della cittadinanza con il loro premere contro e il loro spostare il limite giuridicamente o socialmente stabilito "tra inclusione ed esclusione", come sottolinea S. Mezzadra in Capitalismo, migrazioni e lotte sociali. Appunti per una teoria dell'autonomia delle migrazioni in S. Mezzadra (a cura di), I confini della libertà. Per un'analisi politica delle migrazioni contemporanee, Roma, DeriveApprodi, 2004, pp. 7-19.

11. F. Fanon, Pelle nera, maschere bianche (1952),, Milano, Marco Tropea, 1996 e Id., I dannati della terra (1961), Torino, Edizioni di comunità, 2000.

12. N. Papanikolatos, Consolidare i diritti umani e delle minoranze. La Grecia è il fututro dei Balcani?, in G. Gozzi, F. Martelli (a cura di), Guerre e minoranze. Diritti delle minoranze, conflitti interetnici e giustizia internazionale nella transizione alla democrazia dell'Europa Centro-orientale, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 109-155.

13. Cfr. V. Stolcke, Le nuove frontiere e le nuove retoriche culturali dell'esclusione in Europa, in S. Mezzadra e A. Petrillo (a cura di), I confini della globalizzazione, Roma, Manifestolibri, 2000, pp. 157-181; A. Dal Lago (a cura di), Lo straniero e il nemico. Materiali per l'etnografia contemporanea, Genova-Milano, Costa & Nolan, 1998, e Id., Non-persone. L'esclusione dei migranti in una società globale, Milano, Feltrinelli, 1999.

14. Lo spunto ad utilizzare le categorie elaborate da Pierre Bourdieu in questo contesto di riflessione mi è stato fornito da Lucia Re che nella sua relazione vi ha fatto ricorso con specifico rimando ai seguenti testi: P. Bourdieu, La riproduzione. Elementi per una teoria del sistema scolastico, Rimini, Guaraldi, 1972 (scritto insieme a Jean-Claude Passeron); Id. (1979), La distinzione. Critica sociale del gusto, Bologna, Il Mulino, 1983 e Id., La misère du monde, Paris, Editions du Seuil, 1993.

15. Per ciò che riguarda il caso della differenza di genere mi riferisco a tutte quelle prospettive di critica femminista in materia di ordinamento liberale e diritto individuale che sono divenute patrimonio comune delle successive riflessioni postcoloniali sulla racial homogeneity dei sistemi politici e giuridici occidentali.

16. Si vedano a proposito i saggi di D. Kennedy, Per l'azione afermativa nelle Law Schools, di C.I. Harris L'azione affermativa come strategia per delegittimare la bianchezza come interesse proprietario, e di C.L. Harris, U. Narayan, L'azione affermativa e il mito del trattamento preferenziale contenuti nella già citata antologia di scritti della Critical Race Theory curata da G. Zanetti e K. Thomas. Si veda poi l'interessante saggio di N. Glazer, Thirty Years with Affermative Action, in «Du Bois Review», n. 1 vol. 2, 2005, pp. 5-15.

17. Rimando all'interessante saggio di R. Salih dal titolo Genere e Islam. Politiche culturali e culture politiche in Europa, in «Studi Culturali» n. 1/2005, pp. 121-128.

18. Cfr. K.A. Appiah, Identity, Authenticity, Survival. Multicultural societies and social reproduction, in C. Taylor (ed.), Multiculturalism: a politics of recognition, Princeton University Press, 1994, pp. 149-67; A. Appadurai, Disgiunzione e differenza nell'economia culturale globale, in M. Featherstone (a cura di), Cultura globale. Nazionalismo, globalizzazione e modernità (1995), Roma, SEAM, 1996 e dello stesso autore l'importantissimo Modernità in polvere, Roma, Meltemi, 200. Sul concetto di «diaspora» si vedano, nello specifico, G. Sheffer (ed.), Modern Diasporas in International Politics, London, Croom Held, 1986; M. Augé (1992), Nonluoghi, Milano, Eleuthera, 1993; J. Clifford, Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX (1997), Torino, Bollati Boringhieri, 1999; F. Rahola, In mezzo alle diaspore, «aut aut», n. 298, 2000, pp. 155-179; P. Gilroy, Between Camps. Nations, Cultures, and the Allure of Race, London, Penguin Books, 2000; S. Mezzadra, Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione, Verona, Ombre Corte, 2001; S. Mezzadra, F. Rahola, La condizione postcoloniale, in «DeriveApprodi», n. 23, 2003.

19. Sulla crisi delle identità moderne si vedano Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone (1998), Bari, Editori Laterza, 1999; Id. (1999), La solitudine del cittadino globale, Milano, Feltrinelli, 2000 e Id., From Pilgrim to Tourist - or a Short History of Identity in S. Hall e P. du Gay (eds.), Question of Cultural Identity, London, SAGE Publications Ltd, 1996. Sull'idea di identità "meticce" si vedano C. Geertz, Mondo globale, mondi locali, Bologna, Il Mulino, 1999; J. Clifford (1988), I frutti puri impazziscono, Torino, Bollati & Boringhieri, 1998 e Id., Gli equivoci del multiculturalismo, in «aut aut», n.312, 2002, pp. 97-114; J. L. Amselle (1990), Logiche meticce, Torino, Bollati Boringhieri, 1999; U. Hannerz (1992), La complessità culturale. L'organizzazione sociale del significato, Bologna, Il Mulino, 1998. In particolare, la concettualizzazione cliffordiana di identità culturale è alla base di alcune delle più importanti riflessioni di G. Spivak, H. Bhabha, P. Gilroy e P. Gikandi. Cfr. M. Mellino, La critica postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo e cosmopolitismo nei postcolonial studies, Roma, Meltemi, 2005, pp. 117-124.

20. J. Butler, Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio (1990), Milano, Sansoni, 2004; D. Haraway (1991), Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Milano, Feltrinelli, 1995.

21. Nella postmodernità questo irrigidimento rappresenta una sorta di continuum rispetto alla "calcificazione" (leggi determinismo e essenzialismo) delle identità culturali che aveva pervaso l'epoca moderna, un continuum «che è politicamente necessario spezzare»: cfr. L. Hutcheon, The Politics of Postmodernism, London, Routledge, 1989.

22. C. Taylor, J. Habermas, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento (1992), Milano, Feltrinelli, 1998 e C. Taylor, Il disagio della modernità, Roma, Laterza, 2002; M. Walzer, Che cosa significa essere americani (1992), Venezia, Marsilio, 1992; D. Novak, The Jewish Social Contract, Princeton, Princeton U.P., 2005. Si veda anche, nella stessa prospettiva, M. Martiniello, Le società multietniche, Bologna, Il Mulino, 2000. Per un'accezione maggiormente critica di "multiculturalismo" si veda D.A. Hollinger, American Nationality in Postethnic Perspective, in «Scienza e Politica», n. 13, 1995, pp. 49-64, dello stesso autore Postethnic America. Beyond Multiculturalism, New York, 1995 e, da ultimo, M.L. Lanzillo, Il multiculturalismo, Roma-Bari, Laterza, 2005.

23. R. Braidotti, In metamorfosi. Verso una teoria materialistica del divenire (2002), Milano, Feltrinelli, 2003, p. 9.

24. Cfr. G. Giuliani, Paul Gilroy e il dibattito contemporaneo sul razzismo, in «Filosofia politica», n. 2/2003, pp. 269-283.