2017
La giustizia penale minorile. Un patrimonio da
preservare*.
Lucia
Re
(Università degli Studi di Firenze)
Il titolo che ho dato a questo contributo può far pensare che
io intenda esprimere un punto di vista conservatore. E in effetti,
questa mia riflessione muove dalla convinzione che sia necessario
conservare un patrimonio giuridico, istituzionale e sociale che è
andato accumulandosi, in particolare negli ultimi trent’anni: quello
che possiamo chiamare il “patrimonio della giustizia penale minorile
italiana”. Intendo, in particolare, sostenere che il nostro paese abbia
in alcune norme e in alcune prassi che si sono sviluppate nell’ambito
della giustizia penale minorile, una ricchezza cui attingere per
assicurare una tutela dei diritti dei minori e delle minori in
conflitto con la legge che sia all’altezza dei diritti e degli standard
che l’Italia si è impegnata a garantire, sottoscrivendo le Convezioni
internazionali in materia di diritti fondamentali.
Preservare, però, significa, in questo caso, non
cristallizzare in una forma immodificabile, ma evitare che interventi
inopportuni pregiudichino il mantenimento delle condizioni necessarie
per una piena attuazione delle norme cui l’agire dello Stato deve
conformarsi. Valorizzare ciò che di buono è stato fatto in alcune fasi
storiche e soppesare ciò che resta di quella eredità – poco,
probabilmente, per coloro che hanno vissuto da protagonisti la stagione
delle riforme garantiste degli anni Ottanta del Novecento[2], molto, credo di poter dire, guardando
alla involuzione cui le politiche penali e penitenziarie minorili sono
andate incontro in molti paesi, anche europei – significa non celebrare
il passato, ma porre le premesse per costruire il futuro, avanzando
nella direzione indicata dal legislatore ormai quasi trent’anni fa, pur
con i necessari aggiustamenti legati alla evoluzione sociale[3].
Il punto di riferimento cui dobbiamo guardare quando parliamo
di giustizia penale per i minorenni è infatti la riforma del processo
penale minorile, attuata con il D.P.R. 448 del 1988. Una riforma che ha
seguito a distanza di pochi anni l’adozione da parte delle Nazioni
Unite delle “Regole minime sull’amministrazione della giustizia dei
minori” (le c.d. “Regole di Pechino” del 1985) e ha preceduto di un
anno l’adozione della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e
dell’adolescenza (1989). In conformità con la normativa internazionale,
la riforma muove dall’idea che, come ha affermato la Corte
costituzionale: “la giustizia minorile deve essere improntata
all’essenziale finalità di recupero del minore deviante mediante la sua
rieducazione ed il suo reinserimento sociale” (Corte Cost. sentenza n.
125 del 1992). Questa idea si è tradotta in alcuni principi che
orientano l’intervento della giustizia penale nei confronti dei
minorenni e che, benché ormai consolidati tanto da essere sintetizzati
in un documento teso a illustrare il processo penale minorile
pubblicato sul sito del Ministero della giustizia, vale forse la pena
richiamare[4]:
1. Il “principio di adeguatezza” per il quale “il
processo penale minorile deve adeguarsi, sia nella sua concezione
generale, sia nella sua applicazione concretaalla
personalità del minore e alle sue esigenze educative, in quanto deve
essere teso alla reintegrazione del minore nella società”[5]. Tale principio è collegato in
particolare all’art. 1 del D.P.R. 448/88 nel quale è stabilito, al
primo comma, che le disposizioni relative al processo penale minorile
sono applicate “in modo adeguato alla personalità e alle esigenze
educative del minorenne” e, al secondo comma, che “Il giudice illustra
all’imputato il significato delle attività processuali che si svolgono
in sua presenza nonché il contenuto e le ragioni anche etico-sociali
delle decisioni”[6].
2. Il “principio di minima offensività”, per il quale i
giudici e gli operatori sono chiamati a decidere tenendo presente che
l’ingresso di un minore nel sistema penale può mettere a rischio lo
sviluppo della sua personalità e comprometterne l’immagine sociale, con
il conseguente risultato di “degradarlo”[7] e “desocializzarlo”. I giudici e gli operatori hanno
dunque l’obbligo di considerare tutti gli strumenti a loro disposizione
per evitare l’ingresso del minore accusato di avere commesso un reato
nel circuito penale. Il D.P.R. 448 del 1988 ha, a tal fine, com’è noto,
previsto la possibilità che il giudice possa decidere il
proscioglimento del minore accusato di un reato per irrilevanza del
fatto (art. 27 D.P.R. 448/1988) o ordinare la sospensione del processo
con messa alla prova (art. 28 D.P.R. 448/1988). Al minore può altresì,
in alcune circostanze, essere concesso il perdono giudiziale (art. 169
c.p.; art. 32 D.P.R. 448/1988). Questi istituti hanno consentito nel
tempo, e consentono tutt’oggi, a molti giovani di evitare la
stigmatizzazione legata alla condanna penale.
3. Tali istituti rispondono anche a quello che è stato
chiamato il “principio di autoselettività del processo penale”, in base
al quale il giudice e gli operatori devono valutare in primis
le esperienze educative del minore, la rete sociale in cui è inserito e
le potenzialità che questa rete ha di preservarlo dal commettere reati.
L’esigenza di non interrompere queste esperienze può essere valutata
come prevalente sulla esigenza di proseguire il processo[8].
4. Proprio perché consapevole dell’effetto stigmatizzante che
il processo penale può avere nei confronti degli imputati, soprattutto
se minorenni, il legislatore ha inoltre orientato il processo penale
minorile al rispetto del c.d. “principio di destigmatizzazione”, per il
quale l’ordinamento deve garantire la tutela della riservatezza e
dell’anonimato dei minori che entrano in contatto con le istituzioni
della giustizia penale minorile rispetto alla società esterna[9].
5. Coerente con questo disegno è poi il fondamentale
“principio di residualità della detenzione”, in base al quale
la carcerazione deve essere considerata per i minori come una extrema
ratio. La detenzione in un Istituto di pena per i minorenni
(I.P.M.) è dunque valutata negativamente dal legislatore. Essa non
risponde ai bisogni del minore, ma deve applicarsi solo ove ciò sia
necessario per garantire insopprimibili esigenze di difesa sociale che
non potrebbero essere soddisfatte altrimenti[10].
Proprio a questo scopo, la riforma del 1988 ha introdotto,
accanto agli istituti che consentono al minore di non entrare nel
circuito penale (irrilevanza del fatto, perdono giudiziale, messa alla
prova), un ventaglio di misure cautelari non detentive (prescrizioni,
permanenza in casa, collocamento in comunità) e la possibilità di
infliggere ad alcune categorie di condannati sanzioni sostitutive
(semidetenzione o libertà controllata)[11].
È stato così costruito un sistema pienamente conforme – sulla
carta – ai principi sanciti nella coeva Convenzione sui diritti
dell’infanzia e dell’adolescenza, adottata dalle Nazioni Unite, e, in
particolare, all’art. 37, che, al secondo comma, stabilisce che:
“nessun fanciullo sia privato di libertà in maniera illegale o
arbitraria. L’arresto, la detenzione o l’imprigionamento di un
fanciullo devono essere effettuati in conformità con la legge,
costituire un provvedimento di ultima risorsa e avere la durata più
breve possibile”. Si tratta di una norma che è stata più volte
richiamata anche dalle istituzioni europee (è il caso ad esempio della
Raccomandazione n. 20 del 2003 del Consiglio d’Europa)[12].
I principi ispiratori del processo minorile italiano sono
inoltre stati recepiti dalla direttiva 2016/800approvata dalla Unione
europea, concernente garanzie procedurali per i minori indagati o
imputati nei procedimenti penali[13], che è destinata a estendere questo modello a tutti gli
Stati membri e dovrebbe vincolare anche il nostro paese ad attuarlo
pienamente.
La riforma del processo penale minorile, tuttavia, non si è
limitata a scoraggiare l’ingresso dei minori e delle minori nel
circuito penale e il ricorso alla detenzione, ma ha previsto anche
l’intervento coordinato dei servizi sociali (art. 6 del D.P.R.
448/1988), al fine di mantenere un collegamento costante fra le
istituzioni della giustizia penale, comprese quelle detentive, e la
rete sociale esterna (la rete pubblica dei servizi sociali e della
scuola, il terzo settore, le reti private in cui sono inseriti i
minorenni, ove queste possano giovare al loro recupero). Questo
approccio – pur con le gravi carenze, in primis di organico che
affliggono i servizi sociali italiani – ha contribuito a limitare la
c.d. “devianza minorile”. Il numero dei minorenni che entrano nel
circuito penale si è infatti progressivamente ridotto. Limitandosi ai
dati relativi all’ultimo decennio, è, ad esempio, possibile constatare
che sono diminuite la segnalazioni dell’autorità giudiziaria minorile
ai servizi della giustizia minorile e si è ridotto il numero dei minori
arrestati e fermati e quello dei minori che entrano negli I.P.M.[14].
L’opzione culturale che ha ispirato la riforma del 1988 ha
anche consentito che, nel sistema della giustizia penale minorile
italiana, andasse accumulandosi un rilevante patrimonio di conoscenze,
competenze, capacità di dialogo, di lavoro in rete, di buone pratiche,
costruite anche attraverso l’interazione di attori sociali diversi
(istituzionali e non). Ciò è stato favorito anche dal diffondersi di
una cultura più attenta alle esigenze dell’infanzia e dell’adolescenza,
in particolare presso gli enti locali e il terzo settore, che in molti
casi hanno incrementato negli ultimi anni il loro impegno nei confronti
di quella che potremmo chiamare la “questione penale minorile”.
Si deve altresì segnalare che la riforma, concepita in
un’epoca in cui ancora erano scarse le migrazioni verso il nostro paese
e i minori che entravano nel circuito penale erano per lo più italiani
– molti dei quali già inseriti all’interno del sistema scolastico
obbligatorio o della formazione professionale[15] – ha saputo, pur con gravi momenti di
crisi, sopravvivere al significativo mutamento della composizione della
popolazione minorile coinvolta nel sistema della giustizia penale e, in
particolare, alla novità rappresentata dall’ingresso nel circuito
penale di un numero crescente di minori stranieri, molti dei quali
hanno trovato proprio nel sistema della giustizia penale minorile
l’unico intervento sociale che lo Stato italiano abbia indirizzato loro
(e questo non è certo motivo di vanto per le nostre istituzioni). Mi
riferisco in particolare ai minori stranieri non accompagnati e a
quelli che, pur avendo dei riferimenti familiari sul territorio
italiano, vivono in condizioni di grave marginalità sociale, nonché ad
alcuni minori rom – stranieri o apolidi e, in minor misura, italiani –
che, soprattutto nel Settentrione e nell’Italia centrale, a partire
dalla seconda metà degli anni Novanta, hanno costituito la maggioranza
dei detenuti negli I.P.M.[16].
La sovrarappresentazione di questi minori negli Istituti di pena era,
ed è tutt’oggi, molto rilevante – basti pensare che al 15 maggio 2017
negli I.P.M. erano detenuti 93 ragazzi minorenni di nazionalità
italiana e 93 stranieri[17] –
ed è legata a una serie di “fattori di discriminazione multipla”:
marginalità sociale, maggiore frequenza dei controlli nei loro
confronti da parte delle forze di polizia legati allo status di
stranieri, difficoltà di accedere agli strumenti di difesa, difficoltà
linguistiche, ecc. Fino ad alcuni anni fa ad avere una forte incidenza
sulla loro sovrarappresentazione negli I.P.M. era anche la tendenza
degli operatori del settore e dei magistrati a considerare le loro
condizioni di vita e le reti sociali in cui erano immersi quasi sempre
inadeguate per la concessione della messa alla prova e delle misure
alternative alla detenzione. Anche il collocamento in comunità veniva
disposto nei loro confronti con minore frequenza rispetto ai minori
italiani coinvolti nel sistema della giustizia penale. Gli stranieri –
e i rom, sinti e camminanti – entravano dunque più facilmente nelle
carceri minorili, in quanto destinatari della misura cautelare della
reclusione in I.P.M. Negli ultimi anni si è tuttavia assistito a un
nuovo orientamento, anche da parte della magistratura di sorveglianza,
che, adeguandosi ai mutamenti sociali e analizzando con maggiore cura i
contesti di inserimento dei minori stranieri, ha consentito che questi
potessero accedere con maggiore frequenza agli istituti deflattivi
previsti dal processo penale minorile, in particolare, appunto, alla
messa alla prova. Si è inoltre ampliato il ricorso alla misura della
detenzione in comunità[18].
In molti Istituti si è poi diffuso un ricorso non meramente formale
alla mediazione linguistica e culturale e gli operatori si sono
attivati per ideare interventi mirati a rispondere alle esigenze
specifiche dei minori stranieri (corsi di alfabetizzazione, attività di
mediazione interculturale, ecc.)[19].
Ciò non significa – si badi bene – che i minori stranieri e
rom, sinti e camminanti non siano tutt’oggi discriminati all’interno
del sistema penale italiano. Sussiste infatti un grave problema di
“discriminazione strutturale”[20]
nei loro confronti. Ciò vale ancor più per quei minori che, diventando
maggiorenni mentre sono sottoposti a un provvedimento di giustizia,
vanno incontro a una condizione di irregolarità una volta che tale
provvedimento sia stato eseguito e sono dunque destinatari di un
intervento “educativo” destinato fin dall’inizio al fallimento[21]. Nonostante questi problemi, mi pare
corretto sottolineare che i giudici e gli operatori della giustizia
penale minorile hanno in molti casi mostrato di possedere una cultura
istituzionale e, direi, una fedeltà al mandato costituzionale, tali da
avere messo in atto dei correttivi che, pur non essendo sufficienti,
potrebbero essere ampliati e rafforzati.
La giustizia penale minorile, nonostante le gravissime inerzie
che hanno caratterizzato il completamento del progetto inaugurato con
la riforma del 1988 (si pensi alla mancata adozione di un ordinamento
penitenziario minorile, più volte denunciata dal Comitato ONU[22], dal Consiglio d’Europa[23] e dalla Corte Costituzionale italiana[24]) e nonostante i numerosi attacchi che
le sono stati mossi, soprattutto negli anni Duemila, a partire dalla
proposta di riforma Castelli del 2003, è dunque riuscita finora a
sopravvivere, a produrre risultati significativi e, almeno in parte, ad
adattarsi ai tempi nuovi.
A quasi trent’anni dall’adozione del nuovo processo penale
minorile e della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e
dell’adolescenza si può sostenere che molto resta da fare e che la
realtà della “law in action” è ancora molto lontana da quanto è
previsto dalla “law in books”. E tuttavia, alcuni traguardi sono stati
raggiunti e potrebbero costituire la premessa per avanzare nella
direzione di una piena attuazione della Convenzione. Oggi l’obiettivo
dovrebbe essere portare a compimento il disegno riformatore progettato
allora, adattandolo alle mutate condizioni sociali. A tal fine, un
ruolo importante potrebbe essere svolto anche dai garanti per
l’infanzia, in sinergia con i garanti dei diritti dei detenuti, sia a
livello locale, che a livello nazionale. La previsione dei garanti è un
segno di attenzione istituzionale nei confronti dell’infanzia e nei
confronti delle persone sottoposte alla limitazione della libertà
personale. La loro azione potrebbe essere potenziata, migliorando il
coordinamento fra queste figure e valorizzandone l’operato.
Lo scenario attuale – mi riferisco soprattutto ai dati
relativi alla c.d. “devianza minorile” – potrebbe persino condurre, ove
vi fosse la volontà politica, al definitivo superamento della
detenzione minorile, che è un vero e proprio “scandalo educativo”. E
tuttavia, non sembra che le cose vadano nella direzione auspicata. Le
istituzioni penali minorili si trovano ogni giorno ad affrontare
pesanti criticità, che conducono in molti casi a gravi violazioni dei
diritti dei minori che entrano in conflitto con la legge (penso
all’autolesionismo molto diffuso negli I.P.M., ai casi di suicidio,
alla difficoltà di fare fronte al disagio psichico di cui soffrono
molti ragazzi autori di reati, ecc.). Ma, soprattutto, negli ultimi
anni, sono state introdotte alcune importanti novità – e altre sono al
momento in discussione – che rischiano di pregiudicare definitivamente
la possibilità che il sistema della giustizia penale minorile possa
operare nel pieno rispetto dei diritti dei minori. L’impressione è che,
proprio perché valutato come “meno problematico” rispetto al sistema
della giustizia penale degli adulti, esso sia fatto oggetto di
interventi volti a ridurne i costi e/o a scaricare su di esso i
problemi che affliggono il sistema penale e penitenziario rivolto agli
adulti.
In particolare, un grave vulnus al sistema della
giustizia minorile rischia di essere inflitto da quanto previsto dal
Disegno di legge delega adottato alla Camera il 10 marzo 2017 e
attualmente in discussione al Senato, volto a introdurre “Modifiche al
codice di procedura civile”[25],
che comporta novità dirompenti anche in ambito penale, poiché divide la
giurisdizione civile minorile da quella penale e sopprime i Tribunali
per i Minorenni e le Procure per i Minorenni, creando al loro posto
sezioni specializzate presso i Tribunali ordinari. La riforma ha
sollevato grandi preoccupazioni presso molti attori istituzionali e non
che si occupano di tutela dei diritti dei minori: dall’Associazione
italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia[26], alla Unione Nazionale Camere minorili[27], a molte delle associazioni riunite nel
“Gruppo di lavoro per la Convenzione sui diritti dell’infanzia e
dell’adolescenza” (Gruppo CRC), coordinato da Save the Children, Italia[28]. Su di essa si è espresso criticamente
anche il C.S.M., che, nel parere emesso il 13 luglio 2016, ha
evidenziato che: “Il punto dell’iniziativa legislativa che desta le
maggiori perplessità è senza dubbio l’abolizione della Procura della
Repubblica specializzata nella materia dei diritti dei soggetti
minorenni”. Il C.S.M., oltre a evidenziare che la previsione, al posto
delle attuali Procure per i minorenni, di “gruppi specializzati in
materia di persona, famiglia e minori”, senza specializzazione
esclusiva, rischia di condurre a gravi disfunzionalità, anche a causa
delle note carenze di organico che affliggono la magistratura italiana,
paventa la dispersione del bagaglio di competenze e di esperienze di
cui le attuali Procure sono portatrici. Esso afferma, in particolare,
che: “del tutto eterogenea è l’attività delle procure presso il
tribunale dei minorenni rispetto a quella esercitata dalle procure
ordinarie che si muovono nella logica della repressione penale priva
delle istanze di mediazione educativa proprie del settore minorile”. E
aggiunge che: “Possono nutrirsi delle perplessità in ordine alla
possibilità che l’impegno che è stato fino ad oggi esercitato per la
costruzione del modello descritto di funzione requirente minorile possa
essere ulteriormente mantenuto all’interno di un ufficio ordinario, da
magistrati requirenti selezionati secondo le regole ordinarie,
organizzati secondo i modelli degli uffici ordinari”. E conclude che:
“Appare più ragionevole, e più conforme alle funzioni che gli sono
affidate dall’ordinamento, che la Procura dei Minori mantenga una netta
separazione da quella ordinaria, garantendosi così che essa sia
composta solo da magistrati esperti del settore specifico (…)”[29].
Come per altre novità proposte negli ultimi anni, anche in
questo caso, si è avviato un iter riformatore che si proponeva
anche di rispondere ad alcuni problemi concernenti la giustizia
minorile, quale la sovrapposizione fra competenze dei tribunali civili
ordinari e competenze dei Tribunali per i minorenni, per poi far
prevalere su ogni altra considerazione le esigenze di risparmio, che si
pensa di soddisfare attraverso tagli e accorpamenti. Questa stessa
impostazione si ritrova nella decisione di riorganizzare il Ministero
della giustizia.
Come evidenziato nel 9° Rapporto stilato dal network
di ONG che hanno costituito il Gruppo CRC[30], il 14 luglio 2015 è entrato in vigore
il “Regolamento di riorganizzazione del Ministero della giustizia e
riduzione degli uffici dirigenziali e delle dotazioni organiche”
(D.P.C.M., 15 giugno 2015, n. 84) che ha determinato la creazione del
nuovo “Dipartimento della giustizia minorile e di comunità”, in
sostituzione del “Dipartimento per la giustizia minorile” (D.G.M.). Al
nuovo Dipartimento sono stati affidati i compiti relativi alla
esecuzione penale esterna per gli adulti, finora di competenza del
“Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria” (D.A.P.). La
riorganizzazione, nata in un clima segnato dalla condanna inflitta
all’Italia dalla Corte europea dei diritti umani a causa del
sovraffollamento penitenziario[31],
è stata presentata ufficialmente come dettata sia da esigenze di
risparmio, sia dall’intento di ampliare il ricorso alle misure
alternative alla pena detentiva per gli adulti, prendendo a modello il
processo penale minorile e attingendo al patrimonio di conoscenze e
prassi accumulato negli anni in tale settore[32].
Le associazioni riunite nel Gruppo CRC avevano segnalato già
nel Rapporto 2014-2015[33] il
timore che le esigenze di risparmio da cui muoveva la riforma allora in
discussione prevalessero su ogni altra esigenza e che l’area della
esecuzione penale esterna degli adulti finisse per assorbire molte
delle risorse umane ed economiche del Dipartimento, privando la
giustizia minorile di mezzi adeguati e riducendone la specializzazione,
la quale è necessaria perché essa possa rispondere ai principi dettati
in materia di giustizia penale minorile dalla normativa nazionale e
internazionale[34].
Il 17 novembre 2015 è stato adottato il Decreto attuativo del Regolamento,
che ha istituito una “Direzione generale per l’esecuzione penale
esterna e di messa alla prova”, cui sono affidati l’organizzazione ed
il coordinamento degli uffici territoriali per l’esecuzione penale
esterna degli adulti (UEPE), e una “Direzione generale del personale,
delle risorse e per l’attuazione dei provvedimenti del giudice
minorile”, che assorbe tutte le competenze che erano prima in capo al
“Dipartimento della giustizia minorile”, ma cui è anche affidata anche
la gestione delle risorse umane. Si tratta di competenze molto diverse.
Considerazioni critiche possono anche essere svolte circa le
modalità con cui sta avendo attuazione il D.L. 26 giugno 2014 n. 92,
convertito con modificazioni in Legge 11 agosto 2014, n.117, che ha
esteso la competenza dei Servizi minorili per coloro che hanno compiuto
il reato da minorenni fino ai 25 anni d’età. L’applicazione di questa
modifica pone problemi, soprattutto per quanto concerne la detenzione
negli I.P.M. sia di minori degli anni 18, che di giovani fino a 25
anni. Anche in questo caso si tratta di una innovazione che potrebbe
essere approvata, dal punto di vista della filosofia cui si ispira.
Essa mira infatti ad ampliare la fascia di giovani tutelati dal sistema
della giustizia penale per i minorenni, riconoscendo che, anche nel
caso di giovani adulti che abbiano commesso il reato da minorenni, sia
rilevante evitare la stigmatizzazione e la desocializzazione prodotte
dal carcere. Anche in questo caso, tuttavia, a determinare il
cambiamento non è stata tanto la volontà di potenziare il funzionamento
delle istituzioni penali minorili, quanto l’esigenza di ridurre il
sovraffollamento nelle carceri per gli adulti. Non sono dunque state
poste le condizioni perché questa innovazione potesse funzionare in
modo appropriato. Eppure, il suo impatto sul sistema della giustizia
penale minorile è molto significativo, poiché la componente dei giovani
adulti all’interno della popolazione detenuta e sottoposta a misure nel
circuito penale minorile è numericamente rilevante. Basti pensare che
fra i soggetti presi in carico dagli Uffici di servizio sociale per i
minorenni nell’anno 2017 (fino al 15 maggio) 9.068 erano giovani
adulti, mentre i minori erano 6.847[35]. In particolare, al 15 maggio 2017, i giovani adulti
erano più della metà del totale dei detenuti negli I.P.M.[36]. Benché apposite circolari ministeriali
prevedano che, in conformità con la normativa internazionale, i
minorenni siano separati sia di giorno che di notte dai detenuti di età
compresa fra i 18 e i 25 anni, in molti I.P.M. non vi è la possibilità
di attuare questa previsione[37].
Ciò conduce alla convivenza negli istituti di pena di adolescenti con
giovani adulti che spesso, oltre ad aver ricevuto le condanne da
minorenni per cui entrano in I.P.M., hanno già vissuto periodi di
detenzione nelle carceri per adulti e possono dunque riproporre negli
I.P.M. la sottocultura carceraria appresa nei penitenziari. Al di là di
questo timore – che alcuni invitano a non sopravvalutare[38], ma che a mio avviso è almeno in parte
fondato – vi è l’esigenza di predisporre programmi e interventi
differenziati per una popolazione che presenta bisogni specifici. Basti
pensare ai percorsi scolastici – che in gran parte gli ultra-ventunenni
hanno già completato o non intendono avviare –, alla presenza di figli
e di coniugi – frequente nel caso di detenute e detenuti
ultra-ventunenni –, alla necessità di consentire l’avviamento o la
continuazione di un percorso professionale adatto all’età, ecc.
Sempre all’insegna dell’ambivalenza che caratterizza gli
attuali interventi in materia di giustizia penale per i minorenni, non
si può non segnalare l’approvazione definitiva, avvenuta il 14 giugno
2017, con un voto di fiducia, della legge delega che prevede “Modifiche
al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento
penitenziario”. Tale legge, invece di prevedere l’adozione di un
ordinamento penitenziario ad hoc per i minori, si è limitata ad
affidare al Governo il generico compito di adeguare l’ordinamento
penitenziario alle esigenze educative dei detenuti minori di età,
dettando alcuni criteri direttivi molto generali, che non sono altro
che la traduzione delle norme internazionali già in vigore e della
consolidata giurisprudenza costituzionale in materia. Non vi è quasi
traccia nella riforma della elaborazione teorica e della discussione
fra esperti avvenuta nell’ambito degli Stati generali dell’esecuzione
penale convocati nel 2015 presso il Ministero della giustizia[39]. Il Tavolo 5 degli Stati generali,
dedicato alla giustizia minorile, aveva prodotto una relazione[40], nella quale, fra le altre cose,
proponeva: a) una rigorosa riformulazione del principio di
territorialità dell’esecuzione della pena, che deve poter essere
derogato solo previa autorizzazione del giudice; b) il ricorso a un
parametro numerico per stabilire la ridotta capienza degli I.P.M. (non
più di 10/15 posti); c) il potenziamento delle misure alternative per i
minorenni; d) il rafforzamento dei contatti con il mondo esterno, in
particolare con la previsione di un nuovo permesso trattamentale, che
si aggiunga al permesso premio, e che possa essere fruito dal
condannato anche in assenza di riferimenti familiari nel territorio
nazionale; d) l’aumento del numero di colloqui mensili e la ricezione
di buone prassi in materia (concessione di colloqui in presenza di
qualsiasi tipo di legame affettivo, previsione di colloqui via Skype,
ecc.)[41].
Un altro punto rilevante evidenziato dal Tavolo riguardava la
modifica delle sanzioni disciplinari, che si proponeva di riservare a
condotte oggettivamente gravi e di far sì che fossero ispirate a un
modello educativo. Non tutte le proposte avanzate dal Tavolo 5 possono
essere condivise[42], ma il
metodo di lavoro inaugurato dagli Stati generali dovrebbe essere
valorizzato. Il Governo dovrebbe, nell’attuazione della delega,
riprendere queste proposte. Il timore, rafforzato anche dalla
previsione che la riforma non preveda oneri aggiuntivi per lo Stato, è
invece che questo non sia il tempo per riforme di grande respiro. Le
esigenze di risparmio e un’azione legislativa e amministrativa
improntata a rispondere, di volta in volta, solo ai bisogni più
urgenti, a tentare di “governare l’emergenza”, rischiano di distruggere
quanto in questi decenni si è faticosamente costruito. Vi è il pericolo
di compromettere definitivamente il completamento di un disegno
giuridico e politico, il quale è invece necessario per assicurare una
tutela effettiva dei diritti dei minori che entrano in conflitto con la
legge.
[*] Questo testo è la
rielaborazione della relazione che ho tenuto il 6 ottobre 2016 presso
l’Università di Modena e Reggio Emilia, in occasione della “Giornata di
dialogo su Diritti negati, diritti tutelati. I diritti dei bambini e
delle bambine: percorsi di analisi e buone pratiche”. Ringrazio Thomas
Casadei, Gianfrancesco Zanetti e Francesco Belvisi per l’invito, che mi
ha consentito di tornare su alcune delle analisi che avevo svolto in
occasione sia di ricerche passate, sia della redazione annuale dei
Rapporti di monitoraggio sull’attuazione della Convenzione Onu dei
diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia. Dal 2007, come
membro del Centro l’Altro diritto Onlus, collaboro infatti con il
“Gruppo di lavoro per la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e
dell’adolescenza”, coordinato da Save the Children Italia,
partecipando, come capofila, alla stesura del paragrafo dedicato ai
minori in stato di detenzione e sottoposti a misure alternative
inserito nei rapporti annuali di monitoraggio, cfr.
http://gruppocrc.net/.
[2] Considerazioni in
parte critiche sono state ad esempio svolte da Luigi Fadiga in Id., Il
giudice dei minori, Bologna, Il mulino, 2010.
[3] Per
un’interessante riflessione sulla Costituzione italiana che mi pare
adottare questa impostazione cfr. L. Carlassare, Nel segno della
Costituzione. La nostra Carta per il futuro, Milano, Feltrinelli,
2012.
[4]cfr. Ministero
della giustizia, “Il sistema di giustizia minorile e il minore autore
di reato” (2011),
https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.wp?facetNode_1=0_6&facetNode_2=0_6_2&previsiousPage=mg_1_12&contentId=SPS973590
.
[5] Ibid.
[6] Ripercorrendo il
dettato normativo, ho lasciato nel testo il riferimento al maschile “il
minore”, che il lessico giuridico utilizza come universale per
riferirsi tanto ai ragazzi quanto alle ragazze. Pur non concordando con
questo uso, l’introduzione in questi passi anche del femminile
complicherebbe troppo la lettura.
[7] Mi riferisco alle
c.d. cerimonie di degradazione individuate all’interno del processo da
Harold Garfinkel (cfr. Id., “Conditions of successful degradation
ceremonies”, American Journal of Sociology, 61, 1956, pp.
420-424).
[8] Ministero della
giustizia, “Il sistema di giustizia minorile e il minore autore di
reato” (2011), cit.
[9] “Ciò avviene
attraverso varie modalità quali, in particolare: 1. il divieto per i
mezzi di comunicazione di massa di diffondere le immagini e le
informazioni sull’identità del minore;2. lo svolgimento del processo
senza la presenza del pubblico, in deroga al principio generale della
pubblicità del processo penale (c.d. processo a porte chiuse). Tale
disposizione può essere derogata solo su richiesta espressa del minore,
che abbia già compiuto i sedici anni, e nel suo esclusivo interesse;3.
la possibilità di cancellazione dei precedenti giudiziari dal
casellario giudiziale al compimento del diciottesimo anno d’età” (Ibid.).
[10] Cfr. Ibid.
[11] Art. 30, 1
D.P.R. 448/1988: “Con la sentenza di condanna il giudice, quando
ritiene di dover applicare una pena detentiva non superiore a due anni,
può sostituirla con la sanzione della semidetenzione o della libertà
controllata, tenuto conto della personalità e delle esigenze di lavoro
o di studio del minorenne nonché delle sue condizioni familiari,
sociali e ambientali”.
[12] Comitato dei
ministri, REC (2003) 20, II, 1.
[13] Direttiva UE
2016/800 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2016.
[14] Cfr. dati in
Ministero della giustizia, Dipartimento per la giustizia minorile, “II
Rapporto sulla devianza minorile in Italia”, Quaderni
dell’osservatorio sulla devianza minorile in Europa, Roma, Cangemi
Editore, 2013, in particolare l’Introduzione di Isabella Mastropasqua.
[15] Per farsi
un’idea dei minori cui si rivolgevano gli stessi ideatori della
riforma, si può leggere il resoconto quasi etnografico di Gian Paolo
Meucci, in Id., I figli non sono nostri. Colloqui di un giudice dei
minorenni, Firenze, Vallecchi, 1974.
[16] Per un’analisi
di questo passaggio in base ai dati raccolti nei fascicoli custoditi
presso alcuni I.P.M. italiani con riferimento al decennio 1996-2006,
nel quale il mutamento della composizione della popolazione detenuta
minorile si è reso evidente, mi permetto di rinviare a G. Campesi, L.
Re, G. Torrente, a cura di, Dietro le sbarre e oltre. Due ricerche
sul carcere in Italia, Torino, L’Harmattan, 2010. Per un’analisi
dei dati relativi ai minori denunciati e a quelli presi in carico dai
servizi della giustizia penale minorile cfr. rispettivamente il sito
dell’Istat (http://www.istat.it) e i
dati pubblicati dal Dipartimento della giustizia minorile e di comunità
sul sito del Ministero della giustizia (http://www.giustizia.it).
[17] A questi vanno
aggiunti i giovani adulti (fino a 25 anni) detenuti negli I.P.M. Anche
in questo caso si registra una sovrarappresentazione degli stranieri.
Questi erano infatti 109 a fronte di 179 italiani. Purtroppo non vi
sono dati ufficiali sulla presenza negli I.P.M. di ragazzi c.d. di
“seconda generazione”, né sulla presenza dei minori rom, sinti e
camminanti, poiché questi sono registrati secondo le diverse
nazionalità. La ricerca qualitativa ha tuttavia periodicamente
evidenziato la loro sovrarappresentazione in queste strutture (cfr. G.
Campesi, L. Re, G. Torrente, a cura di, Dietro le sbarre e oltre.
Due ricerche sul carcere in Italia, cit.). La sovrarappresentazione
– particolarmente rilevante – delle ragazze rom si può comunque
evincere anche dai dati relativi alle nazionalità presenti negli
I.P.M., dove al 15 maggio 2017 erano detenute 11ragazze italiane e 38
straniere, le quali provenivano principalmente dalla ex Jugoslavia e
dalla Romania, cfr.
https://www.giustizia.it/resources/cms/documents/dgmc_quindicinale_15maggio2017.pdf
[18] Cfr. i dati
statistici periodicamente pubblicati dal Servizio statistiche del
Dipartimento della giustizia minorile e di comunità (http://www.giustizia.it). Vedi
anche Ministero della giustizia, “II Rapporto sulla devianza minorile
in Italia”, cit.
[19] Resta il nodo
che questi interventi spesso non si coordinano a progetti di
reinserimento sociale che consentano ai minori divenuti maggiorenni di
regolarizzare il loro status di stranieri “irregolari”.
[20] Per un’analisi
di questa con riferimento ai minori stranieri detenuti in Italia mi
permetto di rinviare a L. Re, “Il “trattamento” degli esclusi. I minori
stranieri detenuti in Italia”, in G. Campesi, L. Re, G. Torrente, a
cura di, Dietro le sbarre e oltre. Due ricerche sul carcere in
Italia, cit., pp. 52-84. Sui minori rom, sinti e camminanti cfr. L.
Basilio, “Dal campo al carcere: la ghettizzazione dei minori rom e
sinti in Italia”, ivi, pp. 85-113.
[21] Se, in quanto
minorenni essi non possono infatti essere espulsi, una volta
maggiorenni, concluso il processo o espiata la pena, rischiano di
trovarsi come irregolari sul territorio italiano. L’art. 18, comma 6
del D.lgs. 286/98, che consente la loro regolarizzazione al compimento
della maggiore età, è infatti ancora non pienamente applicato, benché
sia sorto un indirizzo giurisprudenziale favorevole alla sua
applicazione da parte di alcuni Tribunali per i Minorenni (è il caso ad
esempio del Tribunale dei minorenni di Firenze).
[22] Cfr. Committee
on the Rights of the Child,
Consideration of reports submitted by States parties under
article 44 of the Convention, Concluding Observations Italy, 76.
[23] Comitato dei
Ministri, REC (2003) 20, II, 5.
[24] Corte
Costituzionale, sentenze 125/1992, 109/1997, 403/1997,450/1998,
436/1999.
[25] Atto Camera n.
2593; Atto Senato n. 2284.
[26] Cfr. il
comunicato pubblicato dall’Associazione nel marzo del 2016:
http://www.minoriefamiglia.it/pagina-www/mode_full/id_1195/
[27] Cfr.
http://lnx.camereminorili.it/riforma-del-processo-civile-ddl-s-2248-osservazioni-uncm/
[28] Cfr.
htttp://www.gruppocrc.net
[29] Consiglio
superiore della Magistratura, delibera consiliare del 13 luglio 2016:
http://www.csm.it/PDFDinamici/_12.pdf
[30] Come accennato,
ho coordinato, come membro de L’altro diritto onlus, la redazione del
paragrafo 3 (“Minori in stato di detenzione o sottoposti a misure
alternative”) del capitolo 7 (“Misure speciali per la tutela dei
minori”) del “9° Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della
Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia,
anno 2015-2016”, coordinato da Save the children, Italy (http://gruppocrc.net/IMG/pdf/ixrapportocrc2016.pdf
).
[31] Corte europea
dei diritti umani, Torreggiani c. Italia, 8 gennaio 2013.
[32] Cfr. Gruppo
CRC, “9° Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione
sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia”, anno
2015-2016, cit.
[33] Cfr. Gruppo
CRC, “8° Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione
sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, anno
2014-2015”, coordinato da Save the children, Italy (http://gruppocrc.net/IMG/pdf/VIIIrapportoCRC.pdf),
paragrafo 3, capitolo 7 (anche per questo Rapporto ho coordinato la
redazione del suddetto paragrafo per l’altro diritto onlus,
associazione capofila).
[34] Ibid.,
Sulla specializzazione della giustizia penale per i minorenni, Cfr.
Guidelines of the Committee of Ministers of the Council of Europe on
child-friendly justice adopted by the Committee of Ministers of the
Council of Europe on 17 November 2010.
[35] Cfr. Dati
Ministero della giustizia,
https://www.giustizia.it/resources/cms/documents/dgmc_quindicinale_15maggio2017.pdf
[36] I detenuti
maggiori di età negli I.P.M. erano 288 al 15 maggio 2017 a fronte di un
totale di 474 detenuti, Cfr. ivi.
[37] Ciò è stato
anche rilevato dal Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute
o private della libertà personale nella sua relazione annuale al
Parlamento del 2017, cfr. Garante nazionale dei detenuti, http://www.ilsole24ore.com/pdf2010/Editrice/ILSOLE24ORE/ILSOLE24ORE/Online/_Oggetti_Embedded/Documenti/2017/03/21/RELAZIONE-2017-compressed.pdf,
p. 48.
[38] Mi riferisco in
particolare ad alcune prese di posizione di Susanna Marietti
(Coordinatrice dell’Associazione Antigone), soprattutto all’indomani
dei tumulti scoppiati nell’I.P.M. di Airola all’inizio di settembre
2016, di cui la stampa (cfr. ad esempio, il quotidiano La Repubblica:
http://napoli.repubblica.it/cronaca/2016/09/05/news/rivolta_carcere_minorile_nel_beneventano-147224409/
) e i sindacati di polizia hanno riferito come di episodi di violenza
orchestrati dai clan camorristici (cfr. S. Marietti, “Rivolta nel
carcere minorile di Airola, ma la soluzione non è buttarli nelle galere
‘dei grandi’”,
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/09/07/rivolta-nel-carcere-minorile-di-airola-ma-la-soluzione-non-e-buttarli-nellinferno-delle-galere-dei-grandi/).
Sebbene personalmente condivida le valutazioni di Marietti in ordine
alla tendenza a esagerare la gravità di simili episodi da parte di
alcuni sindacati di polizia, ritengo che urga ridisegnare in modo
adeguato l’accoglienza degli ultra-ventunenni negli I.P.M.
[39]Cfr.
https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_19.page;jsessionid=08QIhqWxWAwMo1fDj4z03eAL
[40] Cfr.
https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_19_1_5.wp?previsiousPage=mg_2_19_1
[41] Ibid.
[42] Per le
osservazioni critiche nei confronti di alcune proposte del Tavolo mi
permetto di rinviare al testo del paragrafo 3 del capitolo 7 del “9°
Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione sui
diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, anno 2016-2016”,
stilato dal Gruppo CRC, cit., in particolare p. 175