2005

J.K. Cowan, M.-B. Dembour, R.A. Wilson (eds), Culture and Rights. Anthropological Perspectives, Cambridge University Press, Cambridge 2001, pp. 258

Il volume raccoglie alcuni contributi presentati al convegno su "Culture and Rights" tenutosi a Brighton nel 1997 e organizzato dalla University of Sussex. L'intento del libro, e prima ancora del convegno, è quello di esplorare, da un punto di vista giuridico e antropologico, le modificazioni che l'espansione a livello globale del regime dei diritti umani e l'instaurarsi di un ordine transnazionale hanno determinato sul concetto di diritti umani e su quello di cultura. In questo contesto la diade diritti/cultura rivela ben presto al suo interno una serie di sfaccettature profondamente antinomiche che non tardano a manifestarsi nella forma di una contrapposizione tra diritti e cultura. E questa antitesi, a sua volta, è parallela a un'altra, anch'essa cruciale per sciogliere i numerosi interrogativi che vengono sollevati: quella tra universalismo e relativismo, esplorata soprattutto nei contributi contenuti nella prima parte del volume.

Nel primo intervento Sally Engle Merry suggerisce l'opportunità di ridefinire entrambi i termini di questo dualismo, che affonda le sue radici più remote nei processi storici di colonizzazione e decolonizzazione, allo scopo di seguire con maggiore aderenza le trasformazioni in corso nell'epoca contemporanea. Sia le posizioni relativistiche che quelle universalistiche, da questo punto di vista, non sono sostenibili nelle loro forme più estreme. Se da un lato, infatti, i relativisti sono spesso legati a un concetto eccessivamente statico e monolitico di cultura, che si mostra incapace di cogliere le tensioni e le mutazioni interne a ciascuna comunità, dall'altro lato gli universalisti si espongono a una critica di segno opposto, non riuscendo a comprendere le implicazioni culturali racchiuse nello stesso processo di diffusione del linguaggio dei diritti umani. In realtà, codici di comunicazione transnazionali e particolarità locali sono spesso legati strettamente, nella misura in cui i primi si prestano a divenire oggetto di processi di appropriazione e creolizzazione.

Seguendo la stessa falsariga, il saggio di Marie-Bénédicte Dembour tenta di valutare l'impatto delle contrapposte posizioni relativista e universalista in rapporto alla tematica controversa delle mutilazioni genitali femminili. Analizzando la giurisprudenza francese in materia, Dembour coglie una sorta di oscillazione periodica fra pronunce improntate a una maggiore chiusura in nome della difesa di valori universali e tentativi di apertura verso la comprensione delle ragioni degli altri. Se ne dovrebbe concludere, sostiene Dembour, che sia il relativismo che l'universalismo sono insufficienti se assunti separatamente come posizioni esaustive. Ciò di cui abbiamo bisogno è piuttosto un tentativo di integrazione, in modo da evitare gli estremi dell'indifferenza relativista e dell'arroganza degli universalisti.

Nel terzo saggio, probabilmente il più controverso del volume, Heather Montgomery espone i risultati della sua ricerca sulla prostituzione infantile condotta in un villaggio della Thailandia. Secondo Montgomery dovremmo rivedere almeno in parte il nostro atteggiamento verso i genitori che tollerano la prostituzione dei loro figli, tenendo presente il quadro culturale della società thailandese in cui la devozione per la famiglia può condurre a vere e proprie forme di sacrificio personale. Senza entrare ulteriormente nei dettagli, si può almeno notare, tuttavia, che il caso della prostituzione infantile thailandese si presta scarsamente a essere ricondotto a un caso di conflitto tra valori di culture diverse. La prostituzione infantile è percepita anche dalla cultura thailandese e dagli stessi genitori dei minori coinvolti come uno scandalo e una vergogna. Sono soltanto le condizioni di estrema miseria e abiezione che possono renderla tollerabile, ma questa circostanza è purtroppo comune a molte altre situazioni, europee ed extraeuropee, di degrado e di abbandono.

Il contributo di Anne Griffiths mira a una valutazione critica della Convenzione delle Nazioni Unite del 1979 per l'eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. L'intento di Griffiths è di mostrare come le enunciazioni di principio del documento ONU, particolarmente quelle a favore della monogamia e della registrazione dei matrimoni, si rivelino inadeguate a fronteggiare positivamente situazioni locali particolari - ad esempio quella delle donne del Botswana, oggetto di una ricerca sul campo da parte dell'autrice. In questo senso, la legislazione internazionale dovrebbe mostrarsi maggiormente attenta ai contesti sociali e culturali, in direzione di un "pluralismo non-essenzialistico".

Nell'ultimo saggio della prima parte Thomas Hylland Eriksen discute le premesse e le conclusioni del documento dell'UNESCO del 1995, Our Creative Diversity. La principale contraddizione che viene segnalata da Eriksen risiede nell'ambiguità fra la valorizzazione della differenza culturale e l'opzione a favore di un'etica globale. La matrice intellettuale del documento viene rintracciata in una lettura tendenziosa di alcuni interventi di Lévi-Strauss, che vengono ricondotti alla concezione di Franz Boas delle culture come isole debolmente interconnesse le une con le altre. L'alternativa proposta da Eriksen consiste piuttosto nel riconoscimento della ridondanza del concetto boasiano di cultura. L'impiego di questa nozione è in ogni caso uno strumento analitico per rendere conto in maniera più adeguata di certe differenze. Ne segue che l'essenzialismo, l'ipostatizzazione romantica delle culture come esistenti per se, è ingiustificato. Per questo motivo possiamo decidere di fare a meno del concetto di cultura e vedere i cosiddetti diritti culturali - i diritti rivendicati dai membri di alcune comunità in considerazione della loro cultura - come applicazioni particolari di diritti individuali.

I quattro saggi contenuti nella seconda parte hanno un carattere marcatamente più empirico. Si tratta di quattro case studies che vertono, in maniere diverse, sull'identico tema dei diritti culturali come riconoscimento dell'identità di minoranze nazionali. Così, nel primo saggio Jane Cowan si sofferma sul concetto di "minorizzazione" per indicare il processo attraverso il quale i movimenti di attivisti nazionali si adoperano per creare, a partire da identità frammentate e plurali, ipotetiche collettività omogenee e coese. Cowan mostra come questo processo di costruzione identitaria sia largamente influenzato nel suo dipanarsi dagli standard politico-giuridici internazionali e particolarmente dai criteri adottati dalle organizzazioni delle Nazioni Unite. Il caso delle minoranze macedoni all'interno della Grecia, analizzato specificamente da Cowan, è in questo senso esemplare. I gruppi di lingua slava presenti nel territorio greco difficilmente possono essere ricondotti a una comune matrice identitaria, come vorrebbero gli esponenti dei movimenti nazionalisti che utilizzano il lessico dei diritti culturali per conseguire obbiettivi politici attraverso una maggiore visibilità internazionale. In situazioni in cui le vicende storiche hanno prodotto un elevato grado di frammentazione e la sovrapposizione di traiettorie identitarie distinte e fluttuanti, si avverte il pericolo che la riscoperta dell'identità originaria coincida con l'imposizione di un'identità nuova e tanto estranea quanto quella che dovrebbe sostituire. Per questi motivi, Cowan individua nel problema della rappresentanza politica delle organizzazioni nazionaliste uno dei temi centrali da affrontare nella discussione intorno ai diritti culturali.

Nel saggio successivo David Gellner esamina il tema della differenza culturale in riferimento alla storia recente del Nepal. In particolare, viene ricostruita l'evoluzione del concetto di casta attraverso i mutamenti istituzionali e il succedersi di tre diversi assetti costituzionali. Assistiamo così al passaggio dal vecchio codice del regime Rana, del 1854, che lasciava intatto l'ordinamento sociale tradizionale, alla nuova costituzione Panchyat, ricalcata sui modelli occidentali, fino alla più recente costituzione del 1990 che tenta di recuperare nelle categorie del multiculturalismo la molteplicità etnica e linguistica.

Il saggio di Rachel Sieder e Jessica Witchell segue da vicino la prospettiva tracciata da Cowan nel rappresentare il modo in cui l'influenza degli standard normativi internazionali contribuisce a dare forma concreta ai movimenti di rivendicazione dei diritti delle popolazioni indigene. In particolare, Sieder e Witchell, considerando il caso dei nativi del Guatemala, osservano come, per quanto la lotta per il riconoscimento dei diritti culturali vada intesa come risposta a una lunga storia di discriminazioni, l'orientamento riduzionista della normativa internazionale favorisca l'adozione di una strategia "essenzialistica" da parte degli attivisti nazionali. Questo aspetto è particolarmente evidente, ad esempio, nella proiezione idealizzata dell'antico diritto consuetudinario maya. L'effetto complessivo di queste reificazioni è tuttavia quello di rappresentare falsamente la complessa realtà sociale in cui le comunità indigene sono attualmente calate e conseguentemente di produrre un'ulteriore marginalizzazione dei loro membri.

Nell'ultimo saggio Colin Samson presenta i risultati della sua ricerca sugli indiani canadesi Innu. Samson mostra come gli Innu, tradizionalmente organizzati in tribù nomadi dedite alla caccia, siano stati oggetto di un intensa pressione "colonizzatrice" da parte delle autorità canadesi che li ha portati ad abbandonare le abitudini erratiche e ad assumere forme di vita sedentarie. Naturalmente questa trasformazione ha comportato la perdita di tutti i diritti e i legami con il territorio anticamente percorso. Questo effetto di sradicamento è inoltre reso ancora più profondo dal fatto che anche le procedure di consultazione previste nel contesto delle istituzioni per la salvaguardia dell'ambiente si rivelano sostanzialmente incapaci di assicurare la partecipazione concreta della cultura innu, poiché le sue forme di conoscenza "tradizionale" non corrispondono ai criteri fissati dal procedimento amministrativo.

Leonardo Marchettoni