2005

A. Sen, La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un'invenzione dell'Occidente, Mondadori, Milano 2004, ISBN 8804529954

Non si può giudicare un autore da un volumetto di ottanta pagine, e tantomeno dal risvolto di copertina della traduzione italiana. Altrimenti, leggere delle "inattese difficoltà militari e politiche incontrate dalla coalizione anglo-americana nel secondo dopoguerra iracheno" spingerebbe ad un moto di ripulsa nei confronti di Amartya Sen. Occorre dire che in realtà Sen si mostra meno fiducioso nelle intenzioni e nei progetti della coalition of the willings di quanto non sembrino i redattori mondadoriani: Sen sostiene che "non c'è ragione di stupirsi" per lo scetticismo nei confronti della possibilità di introdurre immediatamente la democrazia in Iraq. Tali dubbi sono resi inevitabili - scrive Sen con un eccesso di cautela accademica - dalle "evidenti ambiguità negli obiettivi dell'occupazione e la mancanza di chiarezza sul processo di democratizzazione" (p. 5).

In ogni caso La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un'invenzione dell'Occidente, (in realtà, la traduzione di un articolo del 2003 e di una conferenza del 1999) non può certo reggere il confronto con i saggi e i volumi in cui Sen ha discusso dei rapporti fra etica, politica ed economia, ha proposto un'integrazione fra approccio utilitarista e teorie dei diritti, ha elaborato la teoria delle capabilities. Ma, pur nei suoi limiti evidenti, ha il merito di interrogarsi intorno ad alcuni problemi-chiave della politica contemporanea, a cominciare da quello sul presente e il futuro della democrazia.

La tesi di fondo dei due saggi è che le obiezioni scettiche "sull'opportunità di proporre la democrazia per popoli che, a quanto si afferma, non la 'conoscono'" (p. 6) e "su ciò che la democrazia può effettivamente realizzare nei paesi più poveri" (p. 7) presuppongono una concezione 'troppo ristretta' e 'limitata' della democrazia. Identificano cioè la democrazia con le 'votazioni pubbliche' o il 'governo della maggioranza'. Una corretta concezione della democrazia, invece, rimanda per Sen al rawlsiano "esercizio della ragione pubblica" (p. 8) e dunque alla "garanzia di un dibattito pubblico libero e di interazioni deliberative nel pensiero e della pratica politica", alla "salvaguardia della 'diversità delle dottrine'" (p. 10). In altri termini "La democrazia è un sistema che esige un impegno costante, e non un semplice meccanismo (come il governo della maggioranza), indipendente ed isolato da tutto il resto" (pp. 61-62).

Se le cose stanno così, sostiene Sen, la democrazia non è un'invenzione dell'Occidente: sarebbe un errore considerare che "il sostegno alla causa del pluralismo, della diversità e delle libertà fondamentali" (p. 11) "la tolleranza" e "l'apertura alla discussione" siano "caratteristiche specifiche - e forse uniche - della tradizione occidentale" (p. 21). Sen produce una serie di esemplificazioni storiche. Ci parla dell'importanza del consenso nella "struttura dello Stato [sic]" africano tradizionale (p. 15) e contesta l'immagine delle culture cinese e giapponese come monoliticamente gerarchiche: non solo va considerata l'importanza dell'apporto buddista, ma lo stesso Confucio non sembrava un fanatico dei 'valori asiatici' (cfr. pp. 74-75). Sen insiste sull'esperienza indiana, citando l'organizzazione politica delle antiche città-Stato e soprattutto il caso di due imperatori, Ashoka e Akbar che, a distanza di diciannove secoli (nel III a.C. e nel XVI d.C.) si impegnarono per promuovere la tolleranza, tutelare l'eterodossia e sviluppare il pluralismo. Opportunamente, ricorda anche che nel XII secolo Maimonide dovette fuggire dall'Europa antisemita e trovare rifugio presso il Saladino, e che ai tempi del tollerante Akbar Giordano Bruno veniva arso in Campo dei Fiori.

A questi argomenti Sen collega le sue note tesi relative al rapporto fra libertà e democrazia da un lato e sviluppo economico e lotta alla povertà, dall'altro. La contestazione delle tesi dei teorici degli Asian Values, secondo le quali vi sarebbe "una contraddizione di fondo fra diritti civili ed efficienza economica" (p. 53), non lo spinge a stabilire un nesso causale fra sviluppo economico e diritti umani, come hanno fatto altri illustri teorici contemporanei, a cominciare da Habermas. D'altra parte, sostiene Sen "i diritti politici e civili conferiscono al popolo l'autorità necessaria per richiamare l'attenzione sui propri bisogni generali e per esigere un adeguato intervento da parte dello Stato" (p 55). In questo senso la democrazia sconfigge le carestie: non si danno evidenze empiriche di gravi carestie in regimi democratici, ma solo in colonie imperiali, dittature militari, regimi a partito unico. Infatti, in presenza di un evento drammatico come una carestia un governo non può resistere alle critiche di un'opinione pubblica libera. Più difficile, ammette Sen, è sensibilizzare l'opinione pubblica in presenza di "una costante, seppur non estrema, condizione di denutrizione" (p. 31). D'altra parte, prosegue Sen riproponendo il suo topos del confronto fra India e Cina, la democrazia allunga la vita. Nel 1979, con le riforme economiche, in Cina è stata abolita l'assicurazione sanitaria garantita e gratuita, e l'opinione pubblica non ha potuto opporsi. Ciò non è avvenuto in India, che negli anni successivi ho così quasi colmato il gap in termini di speranza di vita che la separava dal vicino asiatico.

Non c'è dubbio che qui Sen dia un contributo - utile e autorevole - al riconoscimento delle radici interculturali del pluralismo e del pluralismo intrinseco alle differenti 'culture', denunciando i limiti di ricostruzioni à la Huntington, ma anche di alcune versioni del 'multiculturalismo' contemporaneo. E altrettanto opportuna è un discussione della nozione di democrazia al di là della visione procedurale tipica della 'scienza politica' del Novecento. Tuttavia le tesi di Sen, nella condizione attuale delle relazioni internazionali, potrebbero essere utilizzate per un argomento di questo tipo: la democrazia non è un sistema politico occidentale, ma ha radici plurali e un valore universale; dunque è legittimo 'esportare' la democrazia. Il minimo che si può dire di questo argomento è che incorre nella fallacia logica conosciuta come 'paralogismo': 'democrazia' significa nella prima proposizione qualcosa come 'ogni sistema che ammette libera discussione e pluralismo' e nella seconda uno specifico sistema politico. E Sen non si preoccupa di contrastare argomenti di questo tipo, né si interroga sull'altrettanto paradossale programma di imporre libertà e pluralismo manu militari.

In ogni caso, Sen sostiene che non solo la democrazia ha radici universali ed effetti positivi per ogni popolazione (non è un 'lusso' riservato ai popoli ricchi). Essa esprime valori universali, anzi 'è' un valore universale, tanto da costituire alla fine del XX secolo una sorta di opzione di default "che si considera giusta a meno che non sia in qualche modo espressamente negata" (p. 48). In primo luogo, secondo Sen, "la partecipazione politica e sociale costituisce un valore intrinseco per la vita e il benessere dell'uomo" (p. 62). In secondo luogo, "la democrazia ha un importante valore pratico per accrescere l'attenzione ottenuta dal popolo quando dà voce alle proprie richieste e pretende di svolgere un effettivo ruolo politico". In terzo luogo, ha una "funzione costruttiva": la pratica della democrazia offre ai cittadini l'opportunità di imparare gli uni dagli altri, e alla società quella di formare i propri valori e di definire le proprie priorità" (p. 63). Alla luce di queste tesi, Sen sostiene che per attribuire alla democrazia valore universale non è necessario che si eserciti su di essa un consenso generale. Piuttosto, occorre "stabilire se in ogni parte del mondo gli uomini possano avere ragioni per considerarlo tale" (p. 67). E questo è il caso della democrazia che nel corso del XX secolo - sostiene Sen con un'argomentazione di tipo storico-pragmatico - si è diffusa a partire dai suoi luoghi di origine, "ricevendo immediato appoggio e spontanea accoglienza" (p. 69).

Anche qui le osservazioni acute di Sen scontano un deficit di problematizzazione. Argomentando in favore dell'universalità del valore della democrazia Sen si espone al rischio di fornirne una concezione tanto ampia e inclusiva da finire per essere estremamente povera di contenuto. La nozione di 'democrazia', tanto ospitale da includere qualsiasi regime (dalla democrazia diretta al modello Westminster, al dispotismo illuminato) che consenta o tolleri il libero confronto di opinioni, rischia di essere inservibile. E soprattutto non sembra costituire un termine di riferimento adeguato per elaborare solidi controargomenti alle tesi sull''occidentalizzazione del mondo', o sui 'doni avvelenati' dell'universalismo.

Luca Baccelli