2005

Il diritto all'acqua come diritto sociale e come diritto collettivo (*)

Danilo Zolo

0. Premessa

La mia relazione ha come tema centrale il diritto all'acqua inteso come "nuovo" diritto sociale e come diritto collettivo. Come "diritto sociale" il diritto all'acqua può essere rivendicato dai cittadini di una determinata comunità nei confronti delle proprie autorità politiche e deve essere perciò socialmente garantito da tali autorità. Come diritto collettivo il diritto all'acqua può essere rivendicato entro l'ordinamento giuridico internazionale dalle autorità politiche legittimamente rappresentanti di un popolo insediato in un determinato territorio. Sono perciò orientato a considerare il diritto all'acqua non semplicemente come un 'diritto soggettivo', e neppure, d'altra parte, come un generico 'diritto universale', o 'diritto dell'umanità', o, tanto meno, come un 'diritto naturale'.

La mia relazione si divide in quattro parti. Nella prima parte esamino l'attuale disciplina dell'ordinamento internazionale vigente sul tema del diritto all'acqua e della gestione delle risorse idriche, in particolare delle risorse idriche condivise da più comunità politiche. Nella seconda parte presento una serie di argomenti a favore del diritto all'acqua e all'uso delle risorse idriche sia come 'diritto sociale' di ciascun membro di una determinata comunità, sia come 'diritto collettivo' di questa comunità. Nella terza parte analizzo rapidamente, dal punto di vista del diritto all'acqua come diritto sociale e come diritto collettivo, la situazione del popolo palestinese, cioè di un popolo sottoposto da decenni ad una occupazione militare. Concludo esaminando brevemente alcune ipotesi di iniziativa internazionale che il popolo palestinese, rappresentato dalla sua Autorità nazionale, potrebbe prendere per ottenere il riconoscimento e la soddisfazione concreta del suo 'diritto collettivo' all'acqua e all'uso delle risorse idriche del suo territorio. L'ipotesi più interessante sembra essere l'impostazione della rivendicazione del diritto all'acqua del popolo palestinese come questione mediterranea.

1. Diritto internazionale e diritto all'acqua

La prima osservazione da fare è che non esiste nel diritto internazionale vigente un'esplicita formulazione normativa del diritto soggettivo all'acqua e neppure un'esplicita qualificazione dell'acqua dolce come possibile oggetto di un diritto collettivo. Si tratta senza dubbio di una grave lacuna dell'ordinamento internazionale che andrebbe rapidamente colmata, come da circa un decennio reclamano vari movimenti e associazioni nazionali e internazionali.

La prima iniziativa internazionale che ha tematizzato il diritto all'acqua è stata la Conferenza delle Nazioni Unite sull'acqua, che si è tenuta a Mar de la Plata, in Argentina, nel 1977. Nella dichiarazione finale si sosteneva che "tutti hanno diritto di accedere all'acqua potabile in quantità e qualità corrispondenti ai propri bisogni fondamentali". Successivamente, nel settembre del 1990, le Nazioni Unite hanno promosso a Nuova Delhi la Conferenza finale del Decennio internazionale dell'acqua potabile e nel gennaio 1992 si è svolta a Dublino la Conferenza della Nazioni Unite su acqua e ambiente che si è conclusa con l'importante "Dichiarazione finale di Dublino". Questa prima fase di iniziative internazionali si è conclusa con la Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo, tenuta a Rio de Janeiro nel giugno del 1992, nel corso della quale il problema dell'acqua è stato ampiamente trattato (1). Più recentemente e in modo particolarmente efficace si sono espressi il Gruppo di Lisbona e la fondazione Mario Soares, che nel settembre del 1998 hanno promosso il 'Manifesto dell'acqua' (The Water Manifesto), i due Forum Mondiali per l'acqua di Marrakesh (1997), dell'Aja (2000) (2), cui si sono aggiunti i Forum Sociali Mondiali di Porto Alegre e i Forum alternativi mondiali dell'acqua di Firenze (2003) e di Ginevra (2005)

Nonostante questa serie di importanti iniziative, le norme internazionali, come del resto quelle nazionali, non offrono oggi una risposta minimamente adeguata alle minacce politiche e ai problemi ambientali dovuti alla crescente domanda di acqua e ai conflitti che ne derivano. La domanda globale di acqua cresce rapidamente a causa dell'espansione demografica della specie umana e del diffondersi del modello tecnologico-industriale, tipico della modernità occidentale. Simultaneamente decresce la quantità di acqua potabile a disposizione delle popolazioni a causa delle turbolenze climatiche, dell'inquinamento sempre più diffuso e dei fenomeni di salinizzazione delle acque dolci. Quasi un miliardo e mezzo di esseri umani oggi non dispongono in quantità sufficienti di acqua potabile e si prevede che questa cifra raddoppi entro il 2020.

Nell'ampia fascia dei paesi poveri e deboli muoiono ogni anno oltre 2 milioni di bambini per mancanza d'acqua o a causa dell'acqua insalubre, quest'ultima essendo responsabile dell'80 per cento delle malattie epidemiche. La mancanza di acqua si traduce inoltre in una drastica diminuzione della produzione alimentare e in un aumento della fame e delle malattie legate alla denutrizione. Alcune aree del mondo sono particolarmente colpite dal fenomeno, in particolare l'America latina, l'Africa subsahriana, l'Africa del nord e il medio Oriente. Per queste ragioni le contese per l'acqua tendono a farsi sempre più aspre e spesso, come ha sostenuto Vandana Shiva (3), i conflitti territoriali sono conflitti in larga parte per l'accaparramento delle risorse idriche e degenerano in forme violente anche a causa dell'assenza di un quadro giuridico e di istituzioni regionali e internazionali in grado di risolverli.

Alcuni autori, fra questi il giurista italiano Luigi Ferrajoli (4), sostengono che il riconoscimento di un diritto all'acqua, come diritto rilevante entro l'ordinamento internazionale, può considerarsi implicito in diverse dichiarazioni e convenzioni multilaterali. Lo è anzitutto come un corollario del diritto alla vita enunciato, come è noto, dall'art. 3 della "Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo", del 1948. Se, come recita questo articolo, "Ogni individuo ha diritto alla vita", allora se ne può inferire che ogni individuo ha diritto all'acqua, se è empiricamente vero che l'acqua dolce, nelle sue varie utilizzazioni, in primis quelle alimentari e quelle igieniche, è una condizione essenziale per la sopravvivenza dell'homo sapiens.

Naturalmente si tratta di un corollario molto generico, per di più presente in un documento internazionale emesso da un organo come l'Assemblea generale delle Nazioni Unite le cui delibere sono prive di forza vincolante. Inoltre la Dichiarazione Universale non contiene formulazioni normative di tipo imperativo, e manca di norme secondarie che riguardino la garanzia dei diritti enunciati e prevedano sanzioni a carico dei comportamenti lesivi di tali diritti. Si è anche sostenuto che un diritto all'acqua si può inferire dagli articoli 22 e 25 della medesima Dichiarazione, che attribuiscono ad ogni individuo il diritto alla sicurezza sociale e il diritto alla salute.

Documenti più rilevanti sul piano normativo sono il "Patto sui diritti civili e politici" (International Covenant on Civil and Political Rights) e il "Patto sui diritti economici, sociali e culturali" (International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights), entrambi del 1966. Il primo, sottoscritto e ratificato da oltre 130 Stati, compreso Israele, all'art. 6 prescrive che "Ogni essere umano ha un diritto intrinseco alla vita. Questo diritto deve essere protetto dal diritto" (5). Il secondo, all'art. 1, enuncia il diritto dei popoli "a disporre liberamente delle proprie ricchezze e risorse naturali" (6). Manca anche qui un riferimento esplicito al diritto all'acqua e alle risorse idriche, ma non ci sono dubbi che l'inferenza sia del tutto legittima nel senso che ogni comunità umana ha diritto alla utilizzazione delle proprie risorse idriche in quanto risorse naturali. Resta tuttavia irrisolto il problema di definire il predicato "proprie" quando le acque di superficie o le falde freatiche appartengano a più Stati: senza questa specificazione la norma resta sostanzialmente priva di efficacia regolativa e deve lasciare il posto, come vedremo, a regole consuetudinarie, normativamente più deboli. Si potrebbe indirettamente far leva anche sugli articoli 9, 11 e 12 dell'ultimo Patto citato, che enunciano il diritto alla sicurezza sociale, alla alimentazione, alla salute. Ma anche qui si tratta di formulazioni indirette e generiche e, soprattutto, non sostenute da norme di attuazione che possano rendere effettivo il diritto dei popoli all'acqua. E secondo una concezione realista del diritto internazionale - non idealista e normativista - le prescrizioni normative per le quali non sono previsti strumenti di attuazione di tipo amministrativo o giudiziario sono al più esortazioni di carattere morale, nobili auspici, non diritto positivo internazionale. Manca l'aspetto caratteristico del diritto: la possibilità che in ultima istanza le sue prescrizioni possano essere applicate o sanzionate in forma coattiva.

Considerazioni analoghe si possono fare in merito alle disposizioni internazionali in materia di utilizzazione delle acque fluviali e lacustri, delle falde freatiche e in genere delle fonti sotterranee. Il diritto internazionale è carente anche su questo tema. Si può tuttavia ricordare la convenzione di Helsinki, del marzo 1992, sulla protezione e sull'uso dei fiumi e dei laghi internazionali in ambito europeo - e quindi con applicazione soltanto regionale - che ha istituito una Conferenza degli Stati membri per dare attuazione alla convenzione. E merita di essere menzionata la risoluzione dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite sugli usi non destinati alla navigazione dei corsi d'acqua internazionali e la connessa "Convention on the Law of Non-Navigational Uses of International Water Courses" (1997), che però non è ancora entrata in vigore, non essendo stata raggiunta la quota delle 35 ratifiche necessarie (7). Da segnalare in questo documento sono gli articoli che riprendono le massime consuetudinarie risalenti alle celebri "Regole di Helsinki", dedicate agli usi delle acque dei "fiumi internazionali", adottate ad Helsinki nel 1966 dall'International Law Association (ILA). Gli articoli 5 e 6 obbligano i paesi interessati a una "equa e ragionevole utilizzazione delle acque"; l'art. 7 formula il principio della "innocuità" degli interventi idrologici e cioè vieta di recare un "danno rilevante" (substantial injury) al flusso delle acque internazionali, mentre l'art. 8 stabilisce l'obbligo della cooperazione fra Stati nella gestione di acque internazionali (8).

Complessivamente si deve concludere che siamo in presenza di una sostanziale anomia (e anarchia) internazionale, sia per quanto riguarda la proclamazione e la tutela del diritto all'acqua e del dovere di cooperazione nell'uso delle risorse idriche internazionali, sia per quanto riguarda l'apprestamento di strumenti di garanzia per la protezione di questi interessi e valori (9).

Un discorso a parte, naturalmente, andrà fatto a proposito di un tema molto più specifico e cioè quello del rapporto fra potenze occupanti e territori occupati in relazione all'utilizzo delle risorse idriche nazionali e internazionali. Il tema riguarda drammaticamente la situazione palestinese. Anche in questo caso la situazione normativa è carente, non essendoci documenti internazionali che si pronuncino esplicitamente sul tema delle risorse idriche. Questo non toglie che dalle "Regulations" annesse alla IV Convenzione della Conferenza dell'Aja del 1907, e dalla IV Convenzione di Ginevra del 1949 si possono inferire, come dirò, alcuni importanti principi normativi che riguardano la gestione delle risorse idriche.

2. Il diritto all'acqua come diritto naturale, come diritto sociale e come diritto collettivo

Se l'ordinamento giuridico internazionale è gravemente carente, non mancano invece, come ho accennato, associazioni e movimenti internazionali che in questi ultimi anni hanno fatto del diritto all'acqua un tema di discussione e di rivendicazione di rilievo globale e che hanno anche tentato di proporne una formulazione normativa.

2.1. Il diritto all'acqua come diritto naturale. Il documento che ha aperto la strada a queste iniziative è il Water Manifesto, redatto nel settembre 1998 da un comitato internazionale guidato dall'ex Presidente della repubblica portoghese, Mario Soares. Quattro sono le sue idee-chiave:

  1. l'acqua è fonte insostituibile di vita e un "bene vitale" che appartiene a tutti gli abitanti della terra in comune;
  2. l'acqua è un patrimonio dell'umanità e per questo è una risorsa che, diversamente da ogni altra, non può essere oggetto di proprietà privata;
  3. La società umana come tale, ai diversi livelli della sua organizzazione, deve garantire anche in termini economici il diritto all'accesso all'acqua a tutti senza alcuna discriminazione;
  4. la gestione dell'acqua richiede istituzioni democratiche, di democrazia partecipativa e rappresentativa. Per questo è urgente organizzare, a livello globale, un "Network of Parliaments for Water", lanciare campagne di informazione internazionale e istituire un "World Observatory for Water Rights".

Nella scia di questo documento sono state avanzate molte altre proposte - soprattutto da parte di movimenti transnazionali di carattere sociale o ecologico, come i Forum sociali, Attac, i fautori del "Contratto mondiale dell'acqua", etc. - che si battono per l'idea dell'acqua come "bene comune universale", che come tale non può divenire oggetto di un diritto patrimoniale da parte di soggetti privati e tanto meno mercificato. Essendo un "dono della natura" e non un prodotto dell'invenzione umana - si sostiene - l'acqua può essere oggetto soltanto di un "diritto naturale" del quale sono titolari tutti i membri dell'umanità. Si tratta di una sorta di giusnaturalismo idrologico, che talora, in particolare in Vandana Shiva, assume i connotati di un'"etica globale" con accenti religiosi molto suggestivi (10). Per la tutela di questo "diritto naturale" si propone l'istituzione di organismi di carattere internazionale come il "World Water Parliament", l'istituzione di un Fondo Internazionale per l'acqua e di Corti internazionali ad hoc.

Non è mancato anche uno sforzo di precisazione normativa di questo "diritto naturale", nel senso che lo si è inteso come possibile oggetto di un "servizio pubblico" entro le varie comunità umane. Questo servizio pubblico dovrebbe garantire a tutti i cittadini il consumo gratuito dell'acqua sino ad una certa quantità (ad esempio 40 litri giornalieri per persona, come "minimo vitale"), il consumo di una quantità superiore a costi crescenti sino ad una certa quota (ad esempio sino a 130 litri giornalieri per persona, come "uso necessario") e una forte penalizzazione economica per i consumi più elevati, in modo da disincentivare gli sprechi. Si tratta ovviamente di posizioni caratterizzate da una forte ideologia globalistica ed ecologistica, che meritano il massimo rispetto per la loro ispirazione morale e il loro slancio umanitario.

2.2. Il diritto all'acqua come nuovo diritto sociale. Da un punto di vista realistico, tuttavia, non si può non osservare che oggi l'acqua potabile - a differenza dell'acqua marina, dell'aria, della luce solare o dello spazio extra-terrestre - non è un "bene naturale" e tanto meno un bene universale che possa essere attribuito come un "diritto naturale", qualsiasi significato normativo si intenda attribuire a questo termine. In realtà, ciò di cui oggi gli uomini hanno un bisogno vitale - l'acqua per uso alimentare, sanitario e agricolo, che non supera in quantità l'1% dell'acqua totale "naturale" - è sempre più il prodotto scarso, conteso e vulnerabile dell'intervento umano. Il problema centrale è per un verso la garanzia dell'accesso all'acqua di milioni di persone che per ragioni politiche, economiche ed ecologiche non sono in grado di disporne, così come non dispongono di cibo sufficiente e di farmaci a prezzi accessibili. Per un altro verso cruciale è la protezione del diritto all'uso delle fonti idriche da parte di comunità politiche deboli, povere od oppresse, che si vedono confiscare il loro diritto all'acqua da paesi ricchi e potenti e da altrettanto ricche e potenti corporations internazionali, come, ad esempio, le francesi Ondeo (ex Suez Lyonnaise des Eaux) e Veolia (ex Vivendi), la tedesca Rwe e la statunitense American Water Works, Queste imprese sono fra l'altro sostenute nella loro mercificazione dell'acqua da istituzioni internazionali come il Fondo Monetario internazionale, la Banca Mondiale e la Word Trade Organization (WTO) (11).

Per queste ragioni penso che il diritto all'acqua debba essere concepito e rivendicato non come una sorta di libertà negativa - l'uso indisturbato di un bene che la natura ha messo a disposizione di tutti gli uomini - ma, anzitutto, come un "diritto sociale" (12).Come osserva Luigi Ferrajoli, il paradigma del diritto alla vita quale fu teorizzato alle origini della civiltà giuridica moderna - come "diritto a non essere ucciso" e cioè come semplice immunità o "libertà negativa" - è profondamente cambiato e include anche il "diritto alla sussistenza" in senso proprio. Contrariamente all'ideologia liberale classica, per la quale la sopravvivenza era un fenomeno naturale, affidato al rapporto dell'uomo con la natura, al suo lavoro personale e alla sua libera iniziativa, oggi sopravvivere non è più un fatto naturale, ma un fatto sociale, affidato alle possibilità di lavoro, di consumo e di sussistenza offerte dall'integrazione sociale. Il diritto all'acqua come diritto alla sopravvivenza è dunque un diritto alla solidarietà sociale - non diversamente dal diritto alla salute, all'istruzione, alla casa - che richiede rilevanti prestazioni da parte della collettività politica. Si tratta di un "nuovo" diritto sociale, che oggi nessuna costituzione liberale contempla, lasciando i cittadini completamente indifesi. E' un diritto sociale "nuovo", perché nuovo è il bisogno ad esso sottostante, generato dalla crescente scarsità del bene necessario, dalla sperequazione con la quale è distribuito o è accessibile, dalle contese provocate dalla competizione per il suo accaparramento. Come è sempre accaduto nella storia, anche in questo caso un diritto soggettivo emerge e si afferma attraverso il conflitto sociale. Quando la privazione, l'oppressione o lo sfruttamento raggiungono livelli intollerabili, il linguaggio e la teoria dei diritti danno la forma più adeguata alle rivendicazioni sociali (13).

Il problema è dunque quello di una diffusa riforma degli ordinamenti nazionali che includa fra i diritti sociali costituzionalmente garantiti e azionabili in giudizio il diritto di accesso all'acqua e di consumo dell'acqua e affronti il problema della garanzia di questo diritto a favore di tutti i membri del gruppo sociale, a partire dai più disagiati ed emarginati. Per ora soltanto l'Uruguay, grazie alle pressioni del movimento Agua y Vida, nell'ottobre del 2004 ha inserito il diritto all'acqua nella sua Costituzione. Sarebbe nello stesso tempo necessario impegnare i governi a destinare risorse pubbliche per la costruzione di adeguate strutture di distribuzione dell'acqua, a offrire garanzie sanitarie sulla sua qualità, a praticare costi limitati, escludendo ogni forma di mercificazione dell'acqua necessaria al consumo primario per fini alimentari e igienici. E occorrerebbe reprimere gli sprechi, sanzionare il danneggiamento delle strutture e impedire l'inquinamento delle fonti.

2.3. Il diritto all'acqua come diritto collettivo. In secondo luogo, il diritto all'acqua deve essere inteso, a mio parere, come un "diritto collettivo". Uso l'espressione "diritto collettivo" - un termine sostanzialmente estraneo alla teoria dei diritti dell'uomo di matrice occidentale - nel senso che ha assunto a partire dalla Conferenza delle Nazioni Unite a Vienna del 1993 e che è stato precisato sulla base dei lavori teorici di Will Kymlicka (14). A Vienna un'aspra controversia oppose i sostenitori occidentali dell'universalità e indivisibilità dei diritti dell'uomo come diritti individuali ai sostenitori non occidentali dei "diritti collettivi", come il diritto allo sviluppo economico, alla protezione della identità linguistica e culturale delle minoranze etniche, alla eliminazione della povertà. Alla luce delle intuizioni di Kymlicka, i diritti collettivi non sono intesi semplicemente come diritti soggettivi riconosciuti ai membri di un gruppo: sono diritti che il gruppo come tale, attraverso i suoi organi e i suoi rappresentanti, può esercitare a nome di tutti i suoi membri all'interno di un determinato ordinamento giuridico, nazionale o internazionale.

Da questo punto di vista non ha molto senso fissare degli standard quantitativi di gratuito o legittimo consumo dell'acqua, validi per tutti i paesi e tutte le comunità. Ogni comunità, oltre il limite minimo coincidente con la stretta sopravvivenza, ha esigenze molto diverse da far valere in forme rivendicative o conflittuali. Come scrive Shiva, presso un gran numero di comunità sociali il diritto all'acqua è, come il diritto alla propria lingua e ai propri costumi, un diritto alla identità del gruppo, e non è soltanto una condizione della sua sopravvivenza fisica. La negazione del diritto alle risorse e l'erosione del controllo sociale sulle proprie risorse e sui propri mezzi di produzione ledono l'identità culturale di un gruppo. Se l'identità collettiva non viene più elaborata attraverso l'esperienza socializzata della coltivazione dei campi, degli orti e dei giardini, delle attività artigianali, della trasmissione degli usi e dei miti, la cultura si riduce a un "guscio negativo", in cui gli individui rivendicano esigenze puramente economiche, appiattite in termini di puro consumo. Se il rapporto sociale con l'acqua - e con il cibo - è rispettato e protetto nelle sue forme consolidate nel tempo, il diritto all'acqua assume una importante valenza simbolica che appartiene al gruppo come tale e non semplicemente ai singoli membri del gruppo. Si pensi al rapporto fra i corsi d'acqua e la qualità dell'ambiente e, più in generale, fra l'umidità del terreno e i tipi di colture, di abbigliamenti e di costumi alimentari, per non parlare dei miti identitari collegati ai grandi fiumi, dal Nilo al Gange, al Rio de la Plata, al Missisipi, al Tigri, all'Eufrate, al Giordano (15). Ed è il caso di ricordare che il geofilosofo tedesco Ernst Kapp, nel suo libro Philosophische oder vergleichende allgemeine Erdkunde, del 1845, aveva classificato le grandi civiltà antiche assumendo l'acqua come criterio della sua tassonomia, distinguendo tre tipi di civiltà: le culture potamiche, quelle talassiche e quelle oceaniche. Carl Schmitt ne ha ricavato, come è noto, la suggestiva contrapposizione fra civiltà terrestri e civiltà oceaniche (16).

3. Il diritto all'acqua del popolo palestinese

Sia il diritto di accesso all'acqua dei singoli cittadini palestinesi, sia il diritto collettivo del popolo palestinese all'uso delle proprie risorse idriche oggi è gravemente violato. Le violazioni si devono allo Stato di Israele che, dopo essersi attribuito il 78% dei territori della Palestina mandataria, dal 1967 occupa militarmente i territori palestinesi di Gerusalemme est, della Cisgiordania e della striscia di Gaza. Desidero dichiarare che quanto sosterrò in questo paragrafo a proposito degli illeciti internazionali commessi dallo Stato di Israele in tema di diritto all'acqua si basa quasi esclusivamente su fonti israeliane, in particolare sulla documentazione fornita da B'Tselem, Israeli Information Center for Human Rights in the Occupied Territories. E' una documentazione che si segnala per il suo rigore e per la sua imparzialità (17).

1. Le violazioni riguardano anzitutto il "diritto sociale" di ciascun cittadino palestinese all'accesso all'acqua dolce. Questo diritto, come abbiamo visto, discende, sia pure indirettamente, dai documenti internazionali - in particolare il "Patto sui diritti civili e politici" e il "Patto sui diritti economici, sociali e culturali", del 1966 - che tutelano il diritto alla vita, alla sicurezza sociale, alla alimentazione, alla salute. Questi valori e questi diritti sono gravemente minacciati dall'imponente prelievo che Israele fa delle risorse idriche palestinesi, in particolare nella falda acquifera occidentale della Cisgiordania, e dalle limitazioni imposte alla popolazione palestinese nell'uso di acqua per fini alimentari e igienici. Le restrizioni sono state imposte in particolare con l'Ordinanza militare n. 92 del 1967, che aveva proibito ai palestinesi di costruire, possedere o amministrare un impianto idrico senza un apposito permesso dell'autorità militare (dal 1982 questa autorità è stata sostituita dalla Compagnia idrica israeliana, Mekorot). Nel corso di decine di anni solo pochissimi permessi sono stati accordati ai palestinesi, e comunque i loro pozzi non devono andare oltre i 140 metri di profondità, mentre quelli israeliani possono raggiungere anche gli 800 metri (18). Sono state inoltre fissate delle quote di prelievo, sono stati espropriati pozzi e sorgenti di palestinesi assenti, si è fatto divieto di irrigare nelle ore pomeridiane, la fatturazione dell'acqua non fa alcuna distinzione fra israeliani e palestinesi nonostante il tenore di vita molto diverso (19). La conseguenza è che, per quanto riguarda il consumo totale di acqua, un israeliano consuma in media 370 metri cubi per anno, mentre un palestinese ne usa da 107 a 156. Per di più, le centinaia di colonie installate all'interno dei territori palestinesi, sia in Cisgiordania che a Gaza, contribuiscono in modo decisivo a violare - in alcuni casi a vanificare - il diritto sociale all'acqua dei palestinesi. I coloni israeliani usano fra i 640 e i 1.480 metri cubi d'acqua pro capite per anno. Oggi nella West Bank solo il 5% dei terreni coltivati dai palestinesi è irrigato (non più di come era nel 1967), mentre è irrigato circa il 70% delle aree coltivate dai coloni israeliani (20).

2. Le violazioni riguardano, in secondo luogo, il diritto collettivo del popolo palestinese all'uso delle fonti idriche nazionali e internazionali. Questo diritto è sancito da norme consuetudinarie del diritto internazionale generale che risalgono alle regole di Helsinki del 1966 e alla "Convention on the Law of Non-Navigational Uses of International Water Courses", del 1997 (21). In base all'art. 6 della Convenzione, lo Stato di Israele ha il dovere di usare le acque internazionali - condivise in questo caso con il popolo palestinese - secondo il principio della "sovranità limitata" di ciascuno Stato sulle risorse idriche internazionali. E questo principio impone a ciascuno Stato un'"equa e ragionevole utilizzazione delle acque", che eviti di recare danni alla qualità e al flusso delle acque condivise dagli altri Stati, lo impegna alla cooperazione nella gestione della acque e lo obbliga a tenere informati gli altri Stati della sua politica idrica. In realtà Israele non ha mai consultato le autorità palestinesi, ha sempre preso decisioni unilaterali ed oggi soddisfa il 25,3% delle sue esigenze idriche sottraendo acqua dalle falde freatiche della Cisgiordania. Complessivamente l'85% dell'acqua palestinese viene usata dagli israeliani, mentre ai palestinesi non è consentito di usare l'acqua del Giordano e dello Yarmouk. D'altra parte l'acqua del Giordano è inquinata perché Israele fa defluire acqua salata dall'area del Lago di Tiberiade nel basso Giordano. Inoltre il prelevamento di acqua dal Lago di Tiberiade per mezzo del National Water Carrier - la gigantesca conduttura idrica che si estende dal Giordano al deserto del Negev - ha ridotto notevolmente la portata del Giordano (22).

3. Le violazioni riguardano, in terzo luogo, i diritti che al popolo palestinese, in quanto sottoposto ad occupazione militare, vengono riconosciuti dal diritto umanitario di guerra stabilito dalle "Regulations" della Conferenza di Pace dell'Aja del 1907 (23) e dalla IV Convenzione di Ginevra del 1949 (24). Alla luce di queste norme uno Stato occupante non acquista il diritto di sovranità sul territorio occupato e sulle sue risorse naturali. L'occupante esercita una semplice autorità di fatto, in una situazione per definizione provvisoria. In questa cornice normativa l'art. 43 delle "Regulations" dell'Aja vietava allo Stato di Isreale, in quanto Stato occupante, di introdurre modificazioni nella legislazione in vigore al momento dell'occupazione. Le ordinanze militari che le autorità israeliane hanno emesso per disciplinare a proprio vantaggio l'uso delle risorse idriche e la distribuzione dell'acqua nei territori occupati hanno invece profondamente alterato la disciplina giuridica preesistente. Inoltre le "Regulations" dell'Aja distinguono tra proprietà "mobili" e proprietà "immobili", distinzione di grande rilievo dati i limiti da esse posti allo sfruttamento dei beni immobili da parte dello Stato occupante. Quest'ultimo è autorizzato ad esercitare de facto la propria autorità sulle proprietà mobili in ragione delle sue esigenze militari, ma non su quelle immobili, come sicuramente devono intendersi le falde acquifere della Cisgiordania e di Gaza (25). Infine, l'art. 27 della quarta Convenzione di Ginevra vieta allo Stato occupante ogni discriminazione fra i residenti all'interno dei territori occupati. Dal punto di vista della quantità d'acqua fornita ai coloni e della regolarità di tali rifornimenti la disciplina introdotta dalla autorità israeliane discrimina invece nettamente la popolazione palestinese, in particolare nei periodi estivi. E' il caso di ricordare che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, basandosi anche su alcune risoluzioni della Assemblea Generale delle Nazioni Unite, è stato molto netto nel condannare lo sfruttamento abusivo da parte dello Stato di Israele delle risorse idriche palestinesi (26).

4. E' necessario aggiungere che il diritto all'acqua del popolo palestinese oggi è ulteriormente violato dalla costruzione del Muro in Cisgiordania. Su questo punto è sufficiente citare i paragrafi 293-297 del documento presentato nel gennaio 2004 dalla delegazione palestinese alla Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite, che era stata incaricata dalla Assemblea Generale di esprimere un'opinione a proposito della legalità della costruzione del Muro e che, come è noto, si è pronunciata asserendone l'illegalità internazionale. La costruzione del Muro - si legge nel documento - sta avendo un pesante impatto sulle comunità insediate in prossimità del Muro o tra il Muro e la Linea Verde. Ci sono casi in cui il Muro separa gli agricoltori dalle sorgenti d'acqua, perché esse si trovano al di qua o al di là del Muro, impedendo loro di usarle. Si prevede che, quando sarà ultimata la costruzione della sezione occidentale del Muro, il prodotto agricolo annuale della Cisgiordania diminuirà di circa il 23%, mentre diminuirà di circa il 42% quando anche la sezione orientale del Muro sarà completata. Questa sezione avrà inoltre l'effetto di separare la popolazione palestinese dalla valle del Giordano e dal Mar Morto, impedendole per sempre lo sfruttamento agricolo di queste potenziali risorse idriche (27).

4. Il diritto all'acqua del popolo palestinese come questione mediterranea.

Ci sono delle ipotesi realistiche di rivendicazione e di soddisfazione concreta del diritto all'acqua del popolo palestinese? E' ovvio che il conflitto per l'acqua è solo un aspetto - anche se uno dei più rilevanti - del conflitto per la liberazione del popolo palestinese dall'occupazione e dall'oppressione che subisce da decenni. Non si risolve il problema dell'acqua se non si risolve, assieme, quello della costituzione di uno Stato palestinese, della sua piena indipendenza, integrità e continuità territoriale, della liberazione della striscia di Gaza e dell'intera Cisgiordania dalla colonie israeliane tuttora in continua, sempre più illegale espansione, nonostante ogni retorica Road Map. Non si risolve il problema dell'acqua senza una soluzione ragionevole del problema di Gerusalemme e dei rifugiati palestinesi. E tuttavia si può almeno accennare a qualche iniziativa specifica che potrebbe essere intrapresa nella speranza che la via della pace si faccia meno ardua.

Una prima via è una energica partecipazione di rappresentanti del popolo palestinese alle iniziative che il movimento mondiale per l'acqua sta prendendo con successo crescente, a cominciare dai Forum Mondiali per l'acqua. Il prossimo Forum mondiale per l'acqua si potrebbe tenere a Ramallah?

Un'altra strada aperta è, ovviamente, quella del ricorso alle istituzioni internazionali, a cominciare dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite e del Consiglio di Sicurezza. Potrebbe essere tentata una iniziativa analoga a quella che ha portato ad un'importante vittoria simbolica del popolo palestinese sul tema del Muro: il ricorso al parere della Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite. Ma, è facile prevederlo, anche in questo caso non si andrebbe molto più in là di un successo simbolico. Il Consiglio di Sicurezza, d'altra parte, è condizionato dal potere di veto degli Stati Uniti che, salvo rarissime eccezioni, hanno sempre tutelato unilateralmente gli interessi israeliani a danno di quelli palestinesi.

Una ipotesi interessante e forse promettente può essere l'impostazione della "questione palestinese" - per usare una espressione cara a Edward Said (28) - come "questione mediterranea", sia in un senso generale, sia nel senso specifico del problema dell'acqua. Nel giro di circa vent'anni ogni abitante del Nordafrica e del Medio Oriente, compreso Israele, avrà a disposizione l'80% di quantità d'acqua in meno. Le risorse interne di acqua per ogni paese mediterraneo sono in media di 985 chilometri cubi all'anno, ma sono distribuite in modo molto disomogeneo tra il Nord (74%), l'Est (21%) e il Sud (5%). I paesi più ricchi di risorse d'acqua (Francia, Italia, Turchia, i paesi della ex Jugoslavia) dispongono di più dei due terzi delle risorse idriche dell'intera regione (29). Se la disponibilità d'acqua viene espressa come valore pro capite all'anno, lo scenario si fa ancora più allarmante: si passa da meno di 100 metri cubi per anno nella striscia di Gaza e nell'isola di Malta a più di 10.000 metri cubi all'anno in Albania e nella ex Jugoslavia. Su un totale di 25 paesi mediterranei, 8 di questi, con una popolazione complessiva di 115 milioni di abitanti, si trovano al di sotto della soglia considerata critica (1.000 metri cubi per abitante all'anno). In Israele, Giordania, Libia, Malta, Territori Palestinesi e Tunisia le risorse idriche sono già al di sotto della soglia considerata di povertà idrica (500 metri cubi per abitante all'anno) (30).

Se questo scenario è attendibile, sembra evidente che la comunità dei popoli mediterranei è il primo soggetto che dovrebbe essere investito del problema del diritto all'acqua del popolo palestinese e del conflitto con lo Stato di Israele, e tentare di impostarlo e di risolverlo nel quadro dei problemi idrici generali che riguardano l'intera regione. L'area mediterranea non è una semplice espressione geografica. Come è noto, esiste ed è attivo, nonostante i suoi gravi limiti, il programma di cooperazione euro-mediterranea lanciato a Barcellona nel 1995. Il programma associa 15 paesi europei e 12 paesi della riva sud ed est del Mediterraneo: Marocco, Algeria, Tunisia, Egitto, Giordania, l'Autorità Nazionale Palestinese, Israele, Libano, Siria, Cipro e Turchia. E' il solo accordo internazionale nel quale Israele e l'Autorità Palestinese si trovino uno accanto all'altro. Come è altrettanto noto, quest'area mediterranea diverrà entro il 2010 una zona di libero scambio (Euromed) con l'intento di promuovere lo sviluppo economico dell'area, accanto a quello culturale, sociale ed umano (31). In questo quadro potrebbe avere senso proporre anzitutto la costituzione di una Water Authority euro-mediterranea. Più in generale, il popolo palestinese - sul tema dell'acqua, ma non solo - potrebbe assumere l'iniziativa di una mobilitazione euro-mediterranea, coinvolgendo l'opinione pubblica e le energie civili presenti sulle sponde del Mediterraneo e contrastando ogni tentativo di fare del Mediterraneo e del Medio Oriente - si pensi alla strategia del Broader Middle East - un'area subordinata alle strategie egemoniche dell'impero atlantico.

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Note

*. Questo testo è la relazione presentata al convegno internazionale "Water Values and Rights", tenutosi a Ramallah, in Palestina, nei giorni 2-4 maggio 2005, per iniziativa della Palestine Academy for Science and Technology e dell'United Nations Development Program. L'autore è grato a Fiamma Bianchi Bandinelli, Pietro Costa, Tecla Mazzarese, Mariano Mingarelli, Stefano Pietropaoli, Lucia Re, Filippo Ruschi, Emilio Santoro e in modo particolare Luigi Ferrajoli e Antonio Cassese per avere letto e criticato in anticipo le sue pagine.

1. In particolar modo dall'"Agenda 21", al capitolo 18. In esso si indicavano interventi integrati nello sviluppo, gestione e utilizzo delle risorse idriche, e stilato un dettagliato programma che riguardava l'utilizzo urbano dell'acqua, la protezione degli ecosistemi, delle risorse idriche e della qualità dell'acqua, e mirava a garantire l'acqua come bene necessario alla salute, per alleviare la povertà, per garantire l'irrigazione e quindi la produzione alimentare.

2. Il Forum è stato organizzato dal Consiglio Mondiale dell'Acqua, istituito nel 1994 dalla Banca Mondiale con la collaborazione di alcuni governi e di grandi imprese. Nello stesso periodo è stata istituita la Global Water Partership, che ha lo scopo di avvicinare autorità pubbliche e investitori privati.

3. Si veda V. Shiva, Water Wars: Privatisation, Pollution and Profit, Cambridge (Mas.), South End Press, 2002, trad. it., Milano, Feltrinelli, 2003, passim.

4. Cfr. L. Ferrajoli, L'acqua come bene comune e il diritto all'acqua come diritto fondamentale, Relazione al Convegno internazionale sul diritto all'acqua, Gorizia, 8 febbraio 2003.

5. Si veda l'International Covenant on Civil and Political Rights, del 16 dicembre 1966.

6. Si veda l'International Covenant on Economic, Social and Cultural Rights, del 16 decembre 1966.

7. La Convenzione è stata adottata dall'Assemblea Generale con 104 voti favorevoli, 3 contrari e 26 astensioni.

8. Cfr. Al-Qaryouti, B., Le risorse idriche nel diritto internazionale con particolare riferimento alla Palestina, Firenze, Edizioni Cultura della Pace, 1999, passim.

9. Cfr. V. Shiva, Water Wars, trad. it. cit., pp. 33-50.

10. Ibid., pp. 49-50.

11. Ibid., pp. 10, 95-112. Si veda inoltre M. Laimé, Man Bassa sulla linfa vitale delle città, "Monde diplomatique-il manifesto", 12 (2005), 3, pp. 10-1; dello stesso autore si veda: Dossier de l'eau. Pénurie, pollution, corruption, Paris, Seuil, 2003.

12. Uso il primo termine secondo la tassonomia elaborata da Thomas Marshall, che distingue fra diritti civili, diritti politici e diritti sociali; cfr. T.H. Marshall, Citizenship and Social Class, in T.H. Marshall, Class, Citizenship and Social Development, Chicago, The University of Chicago Press, 1964, pp. 78-9.

13. Cfr. L. Ferrajoli, op. cit., passim.

14. Cfr. ad esempio W. Kimlicka, Liberalism, Community and Culture, Oxford, Oxford University Press, 1989. Si veda inoltre A. Facchi, I diritti nell'Europa multiculturale, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 21-36. Contra J. Habermas, Kampf um Anerkennung in der demokratischen Rechtsstaat, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1996, trad. it. Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 87-8.

15. Cfr. V. Shiva, Water Wars, trad. it. cit., p. 12.

16. Cfr. C. Schmitt, Land und Meer. Eine weltgeschichtliche Betrachtung, Stuttgart, Klett-Cotta, 1954, trad. it. Milano, Adelphi, 2002, p. 25. Per Kapp la storia del mondo inizia con la civiltà potamica, e cioè la civiltà fluviale degli assiri, dei babilonesi e degli egizi, fiorita nel territorio mesopotamico compreso fra il Tigri e l'Eufrate e lungo il Nilo. Segue la civiltà talassica e cioè la civiltà dei mari interni e del bacino del Mediterraneo, cui appartengono l'antichità greco-romana e il medioevo mediterraneo. Infine, con la scoperta dell'America e la circumnavigazione della terra, si afferma la civiltà 'oceanica': inaugurata dai popoli iberici, sarebbe stata dominata - lo è tuttora - dagli anglosassoni.

17. Si veda: B'Tselem, The Israeli Information Center for Human Rights in the Occupied Territories, Disputed Waters: Israel's Responsibility for the Water Shortage in the Occupied Territories, ed. by Y. Lein, N. Abu-Rokaya and M. J'bara-Tibi, September 1998; B'Tselem, The Israeli Information Center for Human Rights in the Occupied Territories, The Water Crisis in the Occupied Territories, January 2005; si veda inoltre N.D. Baddour, Occupational Hazard: Slippery When Wet, Miftah.

18. Cfr V. Shiva, Water Wars, trad. it. cit, pp. 85-6.

19. Cfr. M. Canepa, Tutto comincia dall'acqua, "Limes", 1 (2001), pp. 191-2.

20. Cfr. J. Isaac and W. Sabbah, Water Resources and Irrigated Agriculture in the West Bank, Jerualem: Applies Research Institute, 1998, pp. III-IV; si veda inoltre V. Shiva, Water Wars, trad. it. cit., pp. 84-6.

21. Sulle regole internazionali di carattere consuetudinario si veda la ricostruzione storica in V. Shiva, Water Wars, trad. it. cit., pp. 88-94.

22. Cfr. J. Isaac and W. Sabbah, Water Resources and Irrigated Agriculture in the West Bank, cit., p. iii.

23. Le "Regulations" sono annesse alla Quarta Convenzione (Hague Convention IV - The Laws and Customs of War on Land) della Conferenza di Pace dell'Aja dell'ottobre 1907, entrata in vigore nel gennaio 1910.

24. Il testo della Quarta Convenzione di Ginevra (Geneva Convention relative to the Protection of Civilian Persons in Time of War) del 12 agosto 1949, si può vedere nella rubrica Guerra, diritto e ordine globale.

25. L'art. 55 delle "Regulations" annesse alla IV Convenzione della Conferenza dell'Aja del 1907 stabilisce che: "The occupying state shall be regarded as an administrator and usufructuary of public buildings, real estate, forests and agricultural estates belonging to the ostile State, and situated in the occupied country. It must safeguard the capital of these properties, and administer them in accordance with the rules of usufruct"; cfr. Med Intelligence, L'eau en Palestine, ed. by J.-M. Staebler, December 2000.

26. Nel 1979, con la Risoluzione 446, il Consiglio di Sicurezza ha istituito una Commissione con il compito di "studiare ed esaminare con cura la diminuzione delle risorse naturali, in particolare le risorse idriche nei Territori Occupati, con lo scopo di assicurare la protezione dei Territori posti sotto occupazione". Le raccomandazioni fatte da questa Commissione vennero approvate dal Consiglio di Sicurezza con la Risoluzione 465 del 1980. Gli studi condotti da questa Commissione avevano stabilito che "i cambiamenti causati dallo Stato di Israele nei territori occupati, inclusa Gerusalemme, costituiscono una violazione della IV Convenzione di Ginevra e delle pertinenti decisioni in relazione a tale problema adottate dal Consiglio di Sicurezza". Le altre principali Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza riguardanti la Palestina e i Territori Occupati sono le seguenti: 237 e 242 del 1967; 252 del 1968; 267 e 271 del 1969; 338, 339 e 340 del 1973; 298 del 1976.

27. Si veda: International Court of Justice, Legal Consequences of the Construction of a Wall in the Occupied Palestinian Territori (Request for an Advisory Opinion). Written Statement submitted by Palestine, 30 January 2004, paragrafi 293-297. Sul tema si veda inoltre: N.D. Baddour, Occupational Hazard: Slippery When Wet, cit., passim; A.R. Tamini, Muro d'acqua.

28. Cfr. E. Said, The Question of Palestine, New York, Wintage Books Edition, 1992.

29. Cfr. M. Canepa, Tutto comincia dall'acqua, cit., pp. 185-92.

30. Ibid., p. 186.

31. Cfr. R. Pepicelli, 2010, un nuovo ordine mediterraneo?, Catania, Mesogea, 2004.