2017

La giustizia penale minorile. Un patrimonio da preservare*.

Lucia Re  
(Università degli Studi di Firenze)




Il titolo che ho dato a questo contributo può far pensare che io intenda esprimere un punto di vista conservatore. E in effetti, questa mia riflessione muove dalla convinzione che sia necessario conservare un patrimonio giuridico, istituzionale e sociale che è andato accumulandosi, in particolare negli ultimi trent’anni: quello che possiamo chiamare il “patrimonio della giustizia penale minorile italiana”. Intendo, in particolare, sostenere che il nostro paese abbia in alcune norme e in alcune prassi che si sono sviluppate nell’ambito della giustizia penale minorile, una ricchezza cui attingere per assicurare una tutela dei diritti dei minori e delle minori in conflitto con la legge che sia all’altezza dei diritti e degli standard che l’Italia si è impegnata a garantire, sottoscrivendo le Convezioni internazionali in materia di diritti fondamentali.

Preservare, però, significa, in questo caso, non cristallizzare in una forma immodificabile, ma evitare che interventi inopportuni pregiudichino il mantenimento delle condizioni necessarie per una piena attuazione delle norme cui l’agire dello Stato deve conformarsi. Valorizzare ciò che di buono è stato fatto in alcune fasi storiche e soppesare ciò che resta di quella eredità – poco, probabilmente, per coloro che hanno vissuto da protagonisti la stagione delle riforme garantiste degli anni Ottanta del Novecento[2], molto, credo di poter dire, guardando alla involuzione cui le politiche penali e penitenziarie minorili sono andate incontro in molti paesi, anche europei – significa non celebrare il passato, ma porre le premesse per costruire il futuro, avanzando nella direzione indicata dal legislatore ormai quasi trent’anni fa, pur con i necessari aggiustamenti legati alla evoluzione sociale[3].

Il punto di riferimento cui dobbiamo guardare quando parliamo di giustizia penale per i minorenni è infatti la riforma del processo penale minorile, attuata con il D.P.R. 448 del 1988. Una riforma che ha seguito a distanza di pochi anni l’adozione da parte delle Nazioni Unite delle “Regole minime sull’amministrazione della giustizia dei minori” (le c.d. “Regole di Pechino” del 1985) e ha preceduto di un anno l’adozione della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza (1989). In conformità con la normativa internazionale, la riforma muove dall’idea che, come ha affermato la Corte costituzionale: “la giustizia minorile deve essere improntata all’essenziale finalità di recupero del minore deviante mediante la sua rieducazione ed il suo reinserimento sociale” (Corte Cost. sentenza n. 125 del 1992). Questa idea si è tradotta in alcuni principi che orientano l’intervento della giustizia penale nei confronti dei minorenni e che, benché ormai consolidati tanto da essere sintetizzati in un documento teso a illustrare il processo penale minorile pubblicato sul sito del Ministero della giustizia, vale forse la pena richiamare[4]:

1. Il “principio di adeguatezza” per il quale “il processo penale minorile deve adeguarsi, sia nella sua concezione generale, sia nella sua applicazione concretaalla personalità del minore e alle sue esigenze educative, in quanto deve essere teso alla reintegrazione del minore nella società”[5]. Tale principio è collegato in particolare all’art. 1 del D.P.R. 448/88 nel quale è stabilito, al primo comma, che le disposizioni relative al processo penale minorile sono applicate “in modo adeguato alla personalità e alle esigenze educative del minorenne” e, al secondo comma, che “Il giudice illustra all’imputato il significato delle attività processuali che si svolgono in sua presenza nonché il contenuto e le ragioni anche etico-sociali delle decisioni”[6].

2. Il “principio di minima offensività”, per il quale i giudici e gli operatori sono chiamati a decidere tenendo presente che l’ingresso di un minore nel sistema penale può mettere a rischio lo sviluppo della sua personalità e comprometterne l’immagine sociale, con il conseguente risultato di “degradarlo”[7] e “desocializzarlo”. I giudici e gli operatori hanno dunque l’obbligo di considerare tutti gli strumenti a loro disposizione per evitare l’ingresso del minore accusato di avere commesso un reato nel circuito penale. Il D.P.R. 448 del 1988 ha, a tal fine, com’è noto, previsto la possibilità che il giudice possa decidere il proscioglimento del minore accusato di un reato per irrilevanza del fatto (art. 27 D.P.R. 448/1988) o ordinare la sospensione del processo con messa alla prova (art. 28 D.P.R. 448/1988). Al minore può altresì, in alcune circostanze, essere concesso il perdono giudiziale (art. 169 c.p.; art. 32 D.P.R. 448/1988). Questi istituti hanno consentito nel tempo, e consentono tutt’oggi, a molti giovani di evitare la stigmatizzazione legata alla condanna penale.

3. Tali istituti rispondono anche a quello che è stato chiamato il “principio di autoselettività del processo penale”, in base al quale il giudice e gli operatori devono valutare in primis le esperienze educative del minore, la rete sociale in cui è inserito e le potenzialità che questa rete ha di preservarlo dal commettere reati. L’esigenza di non interrompere queste esperienze può essere valutata come prevalente sulla esigenza di proseguire il processo[8].

4. Proprio perché consapevole dell’effetto stigmatizzante che il processo penale può avere nei confronti degli imputati, soprattutto se minorenni, il legislatore ha inoltre orientato il processo penale minorile al rispetto del c.d. “principio di destigmatizzazione”, per il quale l’ordinamento deve garantire la tutela della riservatezza e dell’anonimato dei minori che entrano in contatto con le istituzioni della giustizia penale minorile rispetto alla società esterna[9].

5. Coerente con questo disegno è poi il fondamentale “principio di residualità della detenzione”, in base al quale la carcerazione deve essere considerata per i minori come una extrema ratio. La detenzione in un Istituto di pena per i minorenni (I.P.M.) è dunque valutata negativamente dal legislatore. Essa non risponde ai bisogni del minore, ma deve applicarsi solo ove ciò sia necessario per garantire insopprimibili esigenze di difesa sociale che non potrebbero essere soddisfatte altrimenti[10].

Proprio a questo scopo, la riforma del 1988 ha introdotto, accanto agli istituti che consentono al minore di non entrare nel circuito penale (irrilevanza del fatto, perdono giudiziale, messa alla prova), un ventaglio di misure cautelari non detentive (prescrizioni, permanenza in casa, collocamento in comunità) e la possibilità di infliggere ad alcune categorie di condannati sanzioni sostitutive (semidetenzione o libertà controllata)[11].

È stato così costruito un sistema pienamente conforme – sulla carta – ai principi sanciti nella coeva Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, adottata dalle Nazioni Unite, e, in particolare, all’art. 37, che, al secondo comma, stabilisce che: “nessun fanciullo sia privato di libertà in maniera illegale o arbitraria. L’arresto, la detenzione o l’imprigionamento di un fanciullo devono essere effettuati in conformità con la legge, costituire un provvedimento di ultima risorsa e avere la durata più breve possibile”. Si tratta di una norma che è stata più volte richiamata anche dalle istituzioni europee (è il caso ad esempio della Raccomandazione n. 20 del 2003 del Consiglio d’Europa)[12].

I principi ispiratori del processo minorile italiano sono inoltre stati recepiti dalla direttiva 2016/800approvata dalla Unione europea, concernente garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali[13], che è destinata a estendere questo modello a tutti gli Stati membri e dovrebbe vincolare anche il nostro paese ad attuarlo pienamente.

La riforma del processo penale minorile, tuttavia, non si è limitata a scoraggiare l’ingresso dei minori e delle minori nel circuito penale e il ricorso alla detenzione, ma ha previsto anche l’intervento coordinato dei servizi sociali (art. 6 del D.P.R. 448/1988), al fine di mantenere un collegamento costante fra le istituzioni della giustizia penale, comprese quelle detentive, e la rete sociale esterna (la rete pubblica dei servizi sociali e della scuola, il terzo settore, le reti private in cui sono inseriti i minorenni, ove queste possano giovare al loro recupero). Questo approccio – pur con le gravi carenze, in primis di organico che affliggono i servizi sociali italiani – ha contribuito a limitare la c.d. “devianza minorile”. Il numero dei minorenni che entrano nel circuito penale si è infatti progressivamente ridotto. Limitandosi ai dati relativi all’ultimo decennio, è, ad esempio, possibile constatare che sono diminuite la segnalazioni dell’autorità giudiziaria minorile ai servizi della giustizia minorile e si è ridotto il numero dei minori arrestati e fermati e quello dei minori che entrano negli I.P.M.[14].

L’opzione culturale che ha ispirato la riforma del 1988 ha anche consentito che, nel sistema della giustizia penale minorile italiana, andasse accumulandosi un rilevante patrimonio di conoscenze, competenze, capacità di dialogo, di lavoro in rete, di buone pratiche, costruite anche attraverso l’interazione di attori sociali diversi (istituzionali e non). Ciò è stato favorito anche dal diffondersi di una cultura più attenta alle esigenze dell’infanzia e dell’adolescenza, in particolare presso gli enti locali e il terzo settore, che in molti casi hanno incrementato negli ultimi anni il loro impegno nei confronti di quella che potremmo chiamare la “questione penale minorile”.

Si deve altresì segnalare che la riforma, concepita in un’epoca in cui ancora erano scarse le migrazioni verso il nostro paese e i minori che entravano nel circuito penale erano per lo più italiani – molti dei quali già inseriti all’interno del sistema scolastico obbligatorio o della formazione professionale[15] – ha saputo, pur con gravi momenti di crisi, sopravvivere al significativo mutamento della composizione della popolazione minorile coinvolta nel sistema della giustizia penale e, in particolare, alla novità rappresentata dall’ingresso nel circuito penale di un numero crescente di minori stranieri, molti dei quali hanno trovato proprio nel sistema della giustizia penale minorile l’unico intervento sociale che lo Stato italiano abbia indirizzato loro (e questo non è certo motivo di vanto per le nostre istituzioni). Mi riferisco in particolare ai minori stranieri non accompagnati e a quelli che, pur avendo dei riferimenti familiari sul territorio italiano, vivono in condizioni di grave marginalità sociale, nonché ad alcuni minori rom – stranieri o apolidi e, in minor misura, italiani – che, soprattutto nel Settentrione e nell’Italia centrale, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, hanno costituito la maggioranza dei detenuti negli I.P.M.[16]. La sovrarappresentazione di questi minori negli Istituti di pena era, ed è tutt’oggi, molto rilevante – basti pensare che al 15 maggio 2017 negli I.P.M. erano detenuti 93 ragazzi minorenni di nazionalità italiana e 93 stranieri[17] – ed è legata a una serie di “fattori di discriminazione multipla”: marginalità sociale, maggiore frequenza dei controlli nei loro confronti da parte delle forze di polizia legati allo status di stranieri, difficoltà di accedere agli strumenti di difesa, difficoltà linguistiche, ecc. Fino ad alcuni anni fa ad avere una forte incidenza sulla loro sovrarappresentazione negli I.P.M. era anche la tendenza degli operatori del settore e dei magistrati a considerare le loro condizioni di vita e le reti sociali in cui erano immersi quasi sempre inadeguate per la concessione della messa alla prova e delle misure alternative alla detenzione. Anche il collocamento in comunità veniva disposto nei loro confronti con minore frequenza rispetto ai minori italiani coinvolti nel sistema della giustizia penale. Gli stranieri – e i rom, sinti e camminanti – entravano dunque più facilmente nelle carceri minorili, in quanto destinatari della misura cautelare della reclusione in I.P.M. Negli ultimi anni si è tuttavia assistito a un nuovo orientamento, anche da parte della magistratura di sorveglianza, che, adeguandosi ai mutamenti sociali e analizzando con maggiore cura i contesti di inserimento dei minori stranieri, ha consentito che questi potessero accedere con maggiore frequenza agli istituti deflattivi previsti dal processo penale minorile, in particolare, appunto, alla messa alla prova. Si è inoltre ampliato il ricorso alla misura della detenzione in comunità[18]. In molti Istituti si è poi diffuso un ricorso non meramente formale alla mediazione linguistica e culturale e gli operatori si sono attivati per ideare interventi mirati a rispondere alle esigenze specifiche dei minori stranieri (corsi di alfabetizzazione, attività di mediazione interculturale, ecc.)[19].

Ciò non significa – si badi bene – che i minori stranieri e rom, sinti e camminanti non siano tutt’oggi discriminati all’interno del sistema penale italiano. Sussiste infatti un grave problema di “discriminazione strutturale”[20] nei loro confronti. Ciò vale ancor più per quei minori che, diventando maggiorenni mentre sono sottoposti a un provvedimento di giustizia, vanno incontro a una condizione di irregolarità una volta che tale provvedimento sia stato eseguito e sono dunque destinatari di un intervento “educativo” destinato fin dall’inizio al fallimento[21]. Nonostante questi problemi, mi pare corretto sottolineare che i giudici e gli operatori della giustizia penale minorile hanno in molti casi mostrato di possedere una cultura istituzionale e, direi, una fedeltà al mandato costituzionale, tali da avere messo in atto dei correttivi che, pur non essendo sufficienti, potrebbero essere ampliati e rafforzati.

La giustizia penale minorile, nonostante le gravissime inerzie che hanno caratterizzato il completamento del progetto inaugurato con la riforma del 1988 (si pensi alla mancata adozione di un ordinamento penitenziario minorile, più volte denunciata dal Comitato ONU[22], dal Consiglio d’Europa[23] e dalla Corte Costituzionale italiana[24]) e nonostante i numerosi attacchi che le sono stati mossi, soprattutto negli anni Duemila, a partire dalla proposta di riforma Castelli del 2003, è dunque riuscita finora a sopravvivere, a produrre risultati significativi e, almeno in parte, ad adattarsi ai tempi nuovi.

A quasi trent’anni dall’adozione del nuovo processo penale minorile e della Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza si può sostenere che molto resta da fare e che la realtà della “law in action” è ancora molto lontana da quanto è previsto dalla “law in books”. E tuttavia, alcuni traguardi sono stati raggiunti e potrebbero costituire la premessa per avanzare nella direzione di una piena attuazione della Convenzione. Oggi l’obiettivo dovrebbe essere portare a compimento il disegno riformatore progettato allora, adattandolo alle mutate condizioni sociali. A tal fine, un ruolo importante potrebbe essere svolto anche dai garanti per l’infanzia, in sinergia con i garanti dei diritti dei detenuti, sia a livello locale, che a livello nazionale. La previsione dei garanti è un segno di attenzione istituzionale nei confronti dell’infanzia e nei confronti delle persone sottoposte alla limitazione della libertà personale. La loro azione potrebbe essere potenziata, migliorando il coordinamento fra queste figure e valorizzandone l’operato.

Lo scenario attuale – mi riferisco soprattutto ai dati relativi alla c.d. “devianza minorile” – potrebbe persino condurre, ove vi fosse la volontà politica, al definitivo superamento della detenzione minorile, che è un vero e proprio “scandalo educativo”. E tuttavia, non sembra che le cose vadano nella direzione auspicata. Le istituzioni penali minorili si trovano ogni giorno ad affrontare pesanti criticità, che conducono in molti casi a gravi violazioni dei diritti dei minori che entrano in conflitto con la legge (penso all’autolesionismo molto diffuso negli I.P.M., ai casi di suicidio, alla difficoltà di fare fronte al disagio psichico di cui soffrono molti ragazzi autori di reati, ecc.). Ma, soprattutto, negli ultimi anni, sono state introdotte alcune importanti novità – e altre sono al momento in discussione – che rischiano di pregiudicare definitivamente la possibilità che il sistema della giustizia penale minorile possa operare nel pieno rispetto dei diritti dei minori. L’impressione è che, proprio perché valutato come “meno problematico” rispetto al sistema della giustizia penale degli adulti, esso sia fatto oggetto di interventi volti a ridurne i costi e/o a scaricare su di esso i problemi che affliggono il sistema penale e penitenziario rivolto agli adulti.

In particolare, un grave vulnus al sistema della giustizia minorile rischia di essere inflitto da quanto previsto dal Disegno di legge delega adottato alla Camera il 10 marzo 2017 e attualmente in discussione al Senato, volto a introdurre “Modifiche al codice di procedura civile”[25], che comporta novità dirompenti anche in ambito penale, poiché divide la giurisdizione civile minorile da quella penale e sopprime i Tribunali per i Minorenni e le Procure per i Minorenni, creando al loro posto sezioni specializzate presso i Tribunali ordinari. La riforma ha sollevato grandi preoccupazioni presso molti attori istituzionali e non che si occupano di tutela dei diritti dei minori: dall’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e per la famiglia[26], alla Unione Nazionale Camere minorili[27], a molte delle associazioni riunite nel “Gruppo di lavoro per la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza” (Gruppo CRC), coordinato da Save the Children, Italia[28]. Su di essa si è espresso criticamente anche il C.S.M., che, nel parere emesso il 13 luglio 2016, ha evidenziato che: “Il punto dell’iniziativa legislativa che desta le maggiori perplessità è senza dubbio l’abolizione della Procura della Repubblica specializzata nella materia dei diritti dei soggetti minorenni”. Il C.S.M., oltre a evidenziare che la previsione, al posto delle attuali Procure per i minorenni, di “gruppi specializzati in materia di persona, famiglia e minori”, senza specializzazione esclusiva, rischia di condurre a gravi disfunzionalità, anche a causa delle note carenze di organico che affliggono la magistratura italiana, paventa la dispersione del bagaglio di competenze e di esperienze di cui le attuali Procure sono portatrici. Esso afferma, in particolare, che: “del tutto eterogenea è l’attività delle procure presso il tribunale dei minorenni rispetto a quella esercitata dalle procure ordinarie che si muovono nella logica della repressione penale priva delle istanze di mediazione educativa proprie del settore minorile”. E aggiunge che: “Possono nutrirsi delle perplessità in ordine alla possibilità che l’impegno che è stato fino ad oggi esercitato per la costruzione del modello descritto di funzione requirente minorile possa essere ulteriormente mantenuto all’interno di un ufficio ordinario, da magistrati requirenti selezionati secondo le regole ordinarie, organizzati secondo i modelli degli uffici ordinari”. E conclude che: “Appare più ragionevole, e più conforme alle funzioni che gli sono affidate dall’ordinamento, che la Procura dei Minori mantenga una netta separazione da quella ordinaria, garantendosi così che essa sia composta solo da magistrati esperti del settore specifico (…)”[29].

Come per altre novità proposte negli ultimi anni, anche in questo caso, si è avviato un iter riformatore che si proponeva anche di rispondere ad alcuni problemi concernenti la giustizia minorile, quale la sovrapposizione fra competenze dei tribunali civili ordinari e competenze dei Tribunali per i minorenni, per poi far prevalere su ogni altra considerazione le esigenze di risparmio, che si pensa di soddisfare attraverso tagli e accorpamenti. Questa stessa impostazione si ritrova nella decisione di riorganizzare il Ministero della giustizia.

Come evidenziato nel 9° Rapporto stilato dal network di ONG che hanno costituito il Gruppo CRC[30], il 14 luglio 2015 è entrato in vigore il “Regolamento di riorganizzazione del Ministero della giustizia e riduzione degli uffici dirigenziali e delle dotazioni organiche” (D.P.C.M., 15 giugno 2015, n. 84) che ha determinato la creazione del nuovo “Dipartimento della giustizia minorile e di comunità”, in sostituzione del “Dipartimento per la giustizia minorile” (D.G.M.). Al nuovo Dipartimento sono stati affidati i compiti relativi alla esecuzione penale esterna per gli adulti, finora di competenza del “Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria” (D.A.P.). La riorganizzazione, nata in un clima segnato dalla condanna inflitta all’Italia dalla Corte europea dei diritti umani a causa del sovraffollamento penitenziario[31], è stata presentata ufficialmente come dettata sia da esigenze di risparmio, sia dall’intento di ampliare il ricorso alle misure alternative alla pena detentiva per gli adulti, prendendo a modello il processo penale minorile e attingendo al patrimonio di conoscenze e prassi accumulato negli anni in tale settore[32].

Le associazioni riunite nel Gruppo CRC avevano segnalato già nel Rapporto 2014-2015[33] il timore che le esigenze di risparmio da cui muoveva la riforma allora in discussione prevalessero su ogni altra esigenza e che l’area della esecuzione penale esterna degli adulti finisse per assorbire molte delle risorse umane ed economiche del Dipartimento, privando la giustizia minorile di mezzi adeguati e riducendone la specializzazione, la quale è necessaria perché essa possa rispondere ai principi dettati in materia di giustizia penale minorile dalla normativa nazionale e internazionale[34].

Il 17 novembre 2015 è stato adottato il Decreto attuativo del Regolamento, che ha istituito una “Direzione generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova”, cui sono affidati l’organizzazione ed il coordinamento degli uffici territoriali per l’esecuzione penale esterna degli adulti (UEPE), e una “Direzione generale del personale, delle risorse e per l’attuazione dei provvedimenti del giudice minorile”, che assorbe tutte le competenze che erano prima in capo al “Dipartimento della giustizia minorile”, ma cui è anche affidata anche la gestione delle risorse umane. Si tratta di competenze molto diverse.

Considerazioni critiche possono anche essere svolte circa le modalità con cui sta avendo attuazione il D.L. 26 giugno 2014 n. 92, convertito con modificazioni in Legge 11 agosto 2014, n.117, che ha esteso la competenza dei Servizi minorili per coloro che hanno compiuto il reato da minorenni fino ai 25 anni d’età. L’applicazione di questa modifica pone problemi, soprattutto per quanto concerne la detenzione negli I.P.M. sia di minori degli anni 18, che di giovani fino a 25 anni. Anche in questo caso si tratta di una innovazione che potrebbe essere approvata, dal punto di vista della filosofia cui si ispira. Essa mira infatti ad ampliare la fascia di giovani tutelati dal sistema della giustizia penale per i minorenni, riconoscendo che, anche nel caso di giovani adulti che abbiano commesso il reato da minorenni, sia rilevante evitare la stigmatizzazione e la desocializzazione prodotte dal carcere. Anche in questo caso, tuttavia, a determinare il cambiamento non è stata tanto la volontà di potenziare il funzionamento delle istituzioni penali minorili, quanto l’esigenza di ridurre il sovraffollamento nelle carceri per gli adulti. Non sono dunque state poste le condizioni perché questa innovazione potesse funzionare in modo appropriato. Eppure, il suo impatto sul sistema della giustizia penale minorile è molto significativo, poiché la componente dei giovani adulti all’interno della popolazione detenuta e sottoposta a misure nel circuito penale minorile è numericamente rilevante. Basti pensare che fra i soggetti presi in carico dagli Uffici di servizio sociale per i minorenni nell’anno 2017 (fino al 15 maggio) 9.068 erano giovani adulti, mentre i minori erano 6.847[35]. In particolare, al 15 maggio 2017, i giovani adulti erano più della metà del totale dei detenuti negli I.P.M.[36]. Benché apposite circolari ministeriali prevedano che, in conformità con la normativa internazionale, i minorenni siano separati sia di giorno che di notte dai detenuti di età compresa fra i 18 e i 25 anni, in molti I.P.M. non vi è la possibilità di attuare questa previsione[37]. Ciò conduce alla convivenza negli istituti di pena di adolescenti con giovani adulti che spesso, oltre ad aver ricevuto le condanne da minorenni per cui entrano in I.P.M., hanno già vissuto periodi di detenzione nelle carceri per adulti e possono dunque riproporre negli I.P.M. la sottocultura carceraria appresa nei penitenziari. Al di là di questo timore – che alcuni invitano a non sopravvalutare[38], ma che a mio avviso è almeno in parte fondato – vi è l’esigenza di predisporre programmi e interventi differenziati per una popolazione che presenta bisogni specifici. Basti pensare ai percorsi scolastici – che in gran parte gli ultra-ventunenni hanno già completato o non intendono avviare –, alla presenza di figli e di coniugi – frequente nel caso di detenute e detenuti ultra-ventunenni –, alla necessità di consentire l’avviamento o la continuazione di un percorso professionale adatto all’età, ecc.

Sempre all’insegna dell’ambivalenza che caratterizza gli attuali interventi in materia di giustizia penale per i minorenni, non si può non segnalare l’approvazione definitiva, avvenuta il 14 giugno 2017, con un voto di fiducia, della legge delega che prevede “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario”. Tale legge, invece di prevedere l’adozione di un ordinamento penitenziario ad hoc per i minori, si è limitata ad affidare al Governo il generico compito di adeguare l’ordinamento penitenziario alle esigenze educative dei detenuti minori di età, dettando alcuni criteri direttivi molto generali, che non sono altro che la traduzione delle norme internazionali già in vigore e della consolidata giurisprudenza costituzionale in materia. Non vi è quasi traccia nella riforma della elaborazione teorica e della discussione fra esperti avvenuta nell’ambito degli Stati generali dell’esecuzione penale convocati nel 2015 presso il Ministero della giustizia[39]. Il Tavolo 5 degli Stati generali, dedicato alla giustizia minorile, aveva prodotto una relazione[40], nella quale, fra le altre cose, proponeva: a) una rigorosa riformulazione del principio di territorialità dell’esecuzione della pena, che deve poter essere derogato solo previa autorizzazione del giudice; b) il ricorso a un parametro numerico per stabilire la ridotta capienza degli I.P.M. (non più di 10/15 posti); c) il potenziamento delle misure alternative per i minorenni; d) il rafforzamento dei contatti con il mondo esterno, in particolare con la previsione di un nuovo permesso trattamentale, che si aggiunga al permesso premio, e che possa essere fruito dal condannato anche in assenza di riferimenti familiari nel territorio nazionale; d) l’aumento del numero di colloqui mensili e la ricezione di buone prassi in materia (concessione di colloqui in presenza di qualsiasi tipo di legame affettivo, previsione di colloqui via Skype, ecc.)[41].

Un altro punto rilevante evidenziato dal Tavolo riguardava la modifica delle sanzioni disciplinari, che si proponeva di riservare a condotte oggettivamente gravi e di far sì che fossero ispirate a un modello educativo. Non tutte le proposte avanzate dal Tavolo 5 possono essere condivise[42], ma il metodo di lavoro inaugurato dagli Stati generali dovrebbe essere valorizzato. Il Governo dovrebbe, nell’attuazione della delega, riprendere queste proposte. Il timore, rafforzato anche dalla previsione che la riforma non preveda oneri aggiuntivi per lo Stato, è invece che questo non sia il tempo per riforme di grande respiro. Le esigenze di risparmio e un’azione legislativa e amministrativa improntata a rispondere, di volta in volta, solo ai bisogni più urgenti, a tentare di “governare l’emergenza”, rischiano di distruggere quanto in questi decenni si è faticosamente costruito. Vi è il pericolo di compromettere definitivamente il completamento di un disegno giuridico e politico, il quale è invece necessario per assicurare una tutela effettiva dei diritti dei minori che entrano in conflitto con la legge.



[*] Questo testo è la rielaborazione della relazione che ho tenuto il 6 ottobre 2016 presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, in occasione della “Giornata di dialogo su Diritti negati, diritti tutelati. I diritti dei bambini e delle bambine: percorsi di analisi e buone pratiche”. Ringrazio Thomas Casadei, Gianfrancesco Zanetti e Francesco Belvisi per l’invito, che mi ha consentito di tornare su alcune delle analisi che avevo svolto in occasione sia di ricerche passate, sia della redazione annuale dei Rapporti di monitoraggio sull’attuazione della Convenzione Onu dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia. Dal 2007, come membro del Centro l’Altro diritto Onlus, collaboro infatti con il “Gruppo di lavoro per la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza”, coordinato da Save the Children Italia, partecipando, come capofila, alla stesura del paragrafo dedicato ai minori in stato di detenzione e sottoposti a misure alternative inserito nei rapporti annuali di monitoraggio, cfr. http://gruppocrc.net/.

[2] Considerazioni in parte critiche sono state ad esempio svolte da Luigi Fadiga in Id., Il giudice dei minori, Bologna, Il mulino, 2010.

[3] Per un’interessante riflessione sulla Costituzione italiana che mi pare adottare questa impostazione cfr. L. Carlassare, Nel segno della Costituzione. La nostra Carta per il futuro, Milano, Feltrinelli, 2012.

[4]cfr. Ministero della giustizia, “Il sistema di giustizia minorile e il minore autore di reato” (2011),

https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12_1.wp?facetNode_1=0_6&facetNode_2=0_6_2&previsiousPage=mg_1_12&contentId=SPS973590 .

[5] Ibid.

[6] Ripercorrendo il dettato normativo, ho lasciato nel testo il riferimento al maschile “il minore”, che il lessico giuridico utilizza come universale per riferirsi tanto ai ragazzi quanto alle ragazze. Pur non concordando con questo uso, l’introduzione in questi passi anche del femminile complicherebbe troppo la lettura.

[7] Mi riferisco alle c.d. cerimonie di degradazione individuate all’interno del processo da Harold Garfinkel (cfr. Id., “Conditions of successful degradation ceremonies”, American Journal of Sociology, 61, 1956, pp. 420-424).

[8] Ministero della giustizia, “Il sistema di giustizia minorile e il minore autore di reato” (2011), cit.

[9] “Ciò avviene attraverso varie modalità quali, in particolare: 1. il divieto per i mezzi di comunicazione di massa di diffondere le immagini e le informazioni sull’identità del minore;2. lo svolgimento del processo senza la presenza del pubblico, in deroga al principio generale della pubblicità del processo penale (c.d. processo a porte chiuse). Tale disposizione può essere derogata solo su richiesta espressa del minore, che abbia già compiuto i sedici anni, e nel suo esclusivo interesse;3. la possibilità di cancellazione dei precedenti giudiziari dal casellario giudiziale al compimento del diciottesimo anno d’età” (Ibid.).

[10] Cfr. Ibid.

[11] Art. 30, 1 D.P.R. 448/1988: “Con la sentenza di condanna il giudice, quando ritiene di dover applicare una pena detentiva non superiore a due anni, può sostituirla con la sanzione della semidetenzione o della libertà controllata, tenuto conto della personalità e delle esigenze di lavoro o di studio del minorenne nonché delle sue condizioni familiari, sociali e ambientali”.

[12] Comitato dei ministri, REC (2003) 20, II, 1.

[13] Direttiva UE 2016/800 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2016.

[14] Cfr. dati in Ministero della giustizia, Dipartimento per la giustizia minorile, “II Rapporto sulla devianza minorile in Italia”, Quaderni dell’osservatorio sulla devianza minorile in Europa, Roma, Cangemi Editore, 2013, in particolare l’Introduzione di Isabella Mastropasqua.

[15] Per farsi un’idea dei minori cui si rivolgevano gli stessi ideatori della riforma, si può leggere il resoconto quasi etnografico di Gian Paolo Meucci, in Id., I figli non sono nostri. Colloqui di un giudice dei minorenni, Firenze, Vallecchi, 1974.

[16] Per un’analisi di questo passaggio in base ai dati raccolti nei fascicoli custoditi presso alcuni I.P.M. italiani con riferimento al decennio 1996-2006, nel quale il mutamento della composizione della popolazione detenuta minorile si è reso evidente, mi permetto di rinviare a G. Campesi, L. Re, G. Torrente, a cura di, Dietro le sbarre e oltre. Due ricerche sul carcere in Italia, Torino, L’Harmattan, 2010. Per un’analisi dei dati relativi ai minori denunciati e a quelli presi in carico dai servizi della giustizia penale minorile cfr. rispettivamente il sito dell’Istat (http://www.istat.it) e i dati pubblicati dal Dipartimento della giustizia minorile e di comunità sul sito del Ministero della giustizia (http://www.giustizia.it).

[17] A questi vanno aggiunti i giovani adulti (fino a 25 anni) detenuti negli I.P.M. Anche in questo caso si registra una sovrarappresentazione degli stranieri. Questi erano infatti 109 a fronte di 179 italiani. Purtroppo non vi sono dati ufficiali sulla presenza negli I.P.M. di ragazzi c.d. di “seconda generazione”, né sulla presenza dei minori rom, sinti e camminanti, poiché questi sono registrati secondo le diverse nazionalità. La ricerca qualitativa ha tuttavia periodicamente evidenziato la loro sovrarappresentazione in queste strutture (cfr. G. Campesi, L. Re, G. Torrente, a cura di, Dietro le sbarre e oltre. Due ricerche sul carcere in Italia, cit.). La sovrarappresentazione – particolarmente rilevante – delle ragazze rom si può comunque evincere anche dai dati relativi alle nazionalità presenti negli I.P.M., dove al 15 maggio 2017 erano detenute 11ragazze italiane e 38 straniere, le quali provenivano principalmente dalla ex Jugoslavia e dalla Romania, cfr. https://www.giustizia.it/resources/cms/documents/dgmc_quindicinale_15maggio2017.pdf

[18] Cfr. i dati statistici periodicamente pubblicati dal Servizio statistiche del Dipartimento della giustizia minorile e di comunità (http://www.giustizia.it). Vedi anche Ministero della giustizia, “II Rapporto sulla devianza minorile in Italia”, cit.

[19] Resta il nodo che questi interventi spesso non si coordinano a progetti di reinserimento sociale che consentano ai minori divenuti maggiorenni di regolarizzare il loro status di stranieri “irregolari”.

[20] Per un’analisi di questa con riferimento ai minori stranieri detenuti in Italia mi permetto di rinviare a L. Re, “Il “trattamento” degli esclusi. I minori stranieri detenuti in Italia”, in G. Campesi, L. Re, G. Torrente, a cura di, Dietro le sbarre e oltre. Due ricerche sul carcere in Italia, cit., pp. 52-84. Sui minori rom, sinti e camminanti cfr. L. Basilio, “Dal campo al carcere: la ghettizzazione dei minori rom e sinti in Italia”, ivi, pp. 85-113.

[21] Se, in quanto minorenni essi non possono infatti essere espulsi, una volta maggiorenni, concluso il processo o espiata la pena, rischiano di trovarsi come irregolari sul territorio italiano. L’art. 18, comma 6 del D.lgs. 286/98, che consente la loro regolarizzazione al compimento della maggiore età, è infatti ancora non pienamente applicato, benché sia sorto un indirizzo giurisprudenziale favorevole alla sua applicazione da parte di alcuni Tribunali per i Minorenni (è il caso ad esempio del Tribunale dei minorenni di Firenze).

[22] Cfr. Committee on the Rights of the Child,

Consideration of reports submitted by States parties under article 44 of the Convention, Concluding Observations Italy, 76.

[23] Comitato dei Ministri, REC (2003) 20, II, 5.

[24] Corte Costituzionale, sentenze 125/1992, 109/1997, 403/1997,450/1998, 436/1999.

[25] Atto Camera n. 2593; Atto Senato n. 2284.

[26] Cfr. il comunicato pubblicato dall’Associazione nel marzo del 2016: http://www.minoriefamiglia.it/pagina-www/mode_full/id_1195/

[27] Cfr. http://lnx.camereminorili.it/riforma-del-processo-civile-ddl-s-2248-osservazioni-uncm/

[28] Cfr. htttp://www.gruppocrc.net

[29] Consiglio superiore della Magistratura, delibera consiliare del 13 luglio 2016: http://www.csm.it/PDFDinamici/_12.pdf

[30] Come accennato, ho coordinato, come membro de L’altro diritto onlus, la redazione del paragrafo 3 (“Minori in stato di detenzione o sottoposti a misure alternative”) del capitolo 7 (“Misure speciali per la tutela dei minori”) del “9° Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, anno 2015-2016”, coordinato da Save the children, Italy (http://gruppocrc.net/IMG/pdf/ixrapportocrc2016.pdf ).

[31] Corte europea dei diritti umani, Torreggiani c. Italia, 8 gennaio 2013.

[32] Cfr. Gruppo CRC, “9° Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia”, anno 2015-2016, cit.

[33] Cfr. Gruppo CRC, “8° Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, anno 2014-2015”, coordinato da Save the children, Italy (http://gruppocrc.net/IMG/pdf/VIIIrapportoCRC.pdf), paragrafo 3, capitolo 7 (anche per questo Rapporto ho coordinato la redazione del suddetto paragrafo per l’altro diritto onlus, associazione capofila).

[34] Ibid., Sulla specializzazione della giustizia penale per i minorenni, Cfr. Guidelines of the Committee of Ministers of the Council of Europe on child-friendly justice adopted by the Committee of Ministers of the Council of Europe on 17 November 2010.

[35] Cfr. Dati Ministero della giustizia, https://www.giustizia.it/resources/cms/documents/dgmc_quindicinale_15maggio2017.pdf

[36] I detenuti maggiori di età negli I.P.M. erano 288 al 15 maggio 2017 a fronte di un totale di 474 detenuti, Cfr. ivi.

[37] Ciò è stato anche rilevato dal Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale nella sua relazione annuale al Parlamento del 2017, cfr. Garante nazionale dei detenuti, http://www.ilsole24ore.com/pdf2010/Editrice/ILSOLE24ORE/ILSOLE24ORE/Online/_Oggetti_Embedded/Documenti/2017/03/21/RELAZIONE-2017-compressed.pdf, p. 48.

[38] Mi riferisco in particolare ad alcune prese di posizione di Susanna Marietti (Coordinatrice dell’Associazione Antigone), soprattutto all’indomani dei tumulti scoppiati nell’I.P.M. di Airola all’inizio di settembre 2016, di cui la stampa (cfr. ad esempio, il quotidiano La Repubblica: http://napoli.repubblica.it/cronaca/2016/09/05/news/rivolta_carcere_minorile_nel_beneventano-147224409/ ) e i sindacati di polizia hanno riferito come di episodi di violenza orchestrati dai clan camorristici (cfr. S. Marietti, “Rivolta nel carcere minorile di Airola, ma la soluzione non è buttarli nelle galere ‘dei grandi’”, http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/09/07/rivolta-nel-carcere-minorile-di-airola-ma-la-soluzione-non-e-buttarli-nellinferno-delle-galere-dei-grandi/). Sebbene personalmente condivida le valutazioni di Marietti in ordine alla tendenza a esagerare la gravità di simili episodi da parte di alcuni sindacati di polizia, ritengo che urga ridisegnare in modo adeguato l’accoglienza degli ultra-ventunenni negli I.P.M.

[39]Cfr. https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_19.page;jsessionid=08QIhqWxWAwMo1fDj4z03eAL

[40] Cfr. https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_19_1_5.wp?previsiousPage=mg_2_19_1

[41] Ibid.

[42] Per le osservazioni critiche nei confronti di alcune proposte del Tavolo mi permetto di rinviare al testo del paragrafo 3 del capitolo 7 del “9° Rapporto di aggiornamento sul monitoraggio della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza in Italia, anno 2016-2016”, stilato dal Gruppo CRC, cit., in particolare p. 175