2005

F. Fukuyama, Esportare la democrazia. State-building e ordine mondiale nel XXI secolo, Lindau, Torino 2005, pp. 173, ISBN 88-7180-531-3

Nel linguaggio politologico statunitense, per "state-building" intendiamo la creazione o il rafforzamento endogeno delle istituzioni di governo. L'espressione "nation-building" si riferisce piuttosto al potere politico esercitato direttamente da autorità occupanti, o indirettamente da un'influenza di tali autorità sui governi locali. Fukuyama rileva che questa coppia di concetti occupa oggi il centro del dibattito politologico. La prima tesi che regge il suo libro è che lo Stato nazionale sia la soluzione, non il problema: soltanto esso è riuscito, lungo gli ultimi secoli, e può ancora riuscire ad assicurare l'ordine sociale entro i confini che governa, e ad evitare il caos - sebbene non periodici conflitti, anche violenti - a livello planetario. Se i governi sono deboli, provvisori, incompetenti o addirittura inesistenti, si dissolve ogni opportunità di convivenza civile e di sviluppo socioeconomico. La seconda tesi afferma - nonostante l'autore eviti con cura di condannare gli interventi militari statunitensi di occupazione - che il nation-building tende a funzionare poco e male (pp. 56-58 e 133-139). Dalle due tesi segue che lo state-building costituisce il prerequisito per ogni azione costruttiva, civile o socioeconomica che essa sia.

Si tratta, ad avviso dell'autore, di un punto di vista che torna in auge dopo una lunga parentesi; esso è infatti stato trascurato dai teorici del Washington Consensus, i quali si sono concentrati sulle esigenze di riduzione dei settori pubblici, senza esaminare le esigenze di "capacità statale": la forza o l'efficacia con la quale lo Stato opera, pochi o tanti che siano i suoi ambiti. Ma una cosa è comprimere l'ambito statale, ossia le funzioni e gli obiettivi assunti dai governi, altra cosa è implementare la "capacità" dello Stato, ossia la sua capacità di formulare ed eseguire politiche, nonché di promulgare e far rispettare leggi.


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Quadrante I Quadrante II
Quadrante III Quadrante IV
  AMBITO FUNZIONI STATALI →

Il grafico sopra illustra come la dimensione della capacità statale si combina con la dimensione dell'ambito statale. Gli economisti liberisti sostengono che il quadrante I è la posizione in cui la crescita viene massimamente favorita. I riformisti, sensibili alla vulnerabilità dei più deboli, scambiano volentieri un poco di efficienza con più giustizia sociale, collocandosi nel quadrante II. Se ci si sposta, entro il quadrante III, vicino all'origine degli assi, la crescita cessa, in quanto lo Stato non riesce nemmeno a garantire compiti minimi quali il rispetto dei diritti di proprietà. Infine, nel quadrante IV abbiamo uno Stato elefantiaco ed insieme incapace: secondo Fukuyama, è questa la condizione di parecchi paesi in via di sviluppo. Ovviamente, per uscire dalle secche dei quadranti III e IV, è più importante aumentare la forza statale, che non ridurne l'ambito di (in)azione. Ciò viene confermato da un confronto tra Europa e Usa: il tratto comune è la forza dei loro Stati, ben capaci in media di esercitare le leve del governo politico, mentre la divergenza tra le due parti dell'Occidente riguarda l'estensione dei compiti e delle finalità degli Stati medesimi.

Il passo successivo dell'analisi consiste nel chiedersi come trapiantare istituzioni politiche forti nei paesi in via di sviluppo. La risposta, oltre che esser calata negli specifici contesti, deve, annota Fukuyama, distinguere tra le componenti della capacità istituzionale che sono altamente trasferibili e quelle che non lo sono. La progettazione e gestione organizzativa della pubblica amministrazione è una componente retta da conoscenze relativamente codificabili e da pratiche alle quali si può essere addestrati. Più esattamente, vi sono alcune attività ad alta specificità e con decisioni poco numerose - si pensi alla modifica del tasso d'interesse da parte di una banca centrale - che ben si prestano a essere edificate ex novo: bastano un pugno di tecnocrati scesi col paracadute sul paese, al limite, per istituirle; mentre vi sono altre attività, a bassa specificità e con tanti centri decisionali - come l'istruzione e il sistema legale - in cui la pubblica amministrazione è più difficilmente plasmabile. Anche la progettazione del sistema politico nel suo insieme può contare su un corpo di saperi abbastanza sedimentati e ben applicabili. Invece il processo di edificazione della legittimità - l'accettazione sociale delle norme - è sfuggente, cangiante e poco replicabile. Ancor peggio va per i fattori culturali e valoriali, che per loro natura non possono essere importati dall'esterno e assimilati in tempi brevi. Questi ultimi due elementi - le basi della legittimità e della cultura - contribuiscono a spiegare, annota Fukuyama, perché certe istituzioni politiche, sebbene "buone" e "valide" di per sé, non siano spontaneamente domandate dalla gran parte delle popolazioni di certi paesi. Riconosciuto tutto ciò, l'indagine di Fukuyama sostanzialmente si arresta: «la comunità internazionale sa come fornire servizi di governo; sa molto meno come creare istituzioni indigene autosufficienti [...] a causa di un'insufficiente domanda locale di riforme» (pp. 61-62). Mentre l'autore ha il merito di porre l'enfasi su un problema cruciale, le sue coordinate teoriche non gli permettono di trarre alla luce elementi di soluzione. Al riguardo, almeno due limiti intellettuali vanno segnalati. Il primo riguarda il perpetuarsi dello statocentrismo: l'idea che fuori dagli Stati nazionali alberghi lo stato di natura. «Coloro che hanno parlato di un crepuscolo della sovranità - i fautori del libero mercato a destra come i convinti multilateralisti a sinistra - devono spiegare che cosa sostituirà il potere degli stati-nazione sovrani nel mondo contemporaneo. Ciò che di fatto ha colmato il vuoto è stata un'accozzaglia eterogenea di multinazionali, organizzazioni non governative, organizzazioni internazionali, organizzazioni criminali, gruppi terroristici e così via, i quali possono anche detenere un certo grado di potere o di legittimità, ma raramente detengono entrambi nello stesso momento» (p. 159). Questo approccio si lascia sfuggire grande parte delle novità nella governance planetaria oggi emergente: si veda la mia recensione a Governare la globalizzazione di David Held, in questo sito. Il secondo limite concerne piuttosto la teoria del capitale sociale o della fiducia intersoggettiva che Fukuyama abbraccia e che ha svolto in suoi libri precedenti. Come vari critici hanno argomentato, si tratta di una teoria priva di mesofondamenti, nei reticoli sociali, e di microfondamenti, nei comportamenti individuali: ne discende che i valori e le norme rimangono "agganciati al cielo" e dunque inspiegati. Essi o ci sono o non ci sono. Appare così impossibile delucidare i percorsi concreti tramite cui essi possano radicarsi in luoghi ove mancano.

Nicolò Bellanca