2005

A.M. Dershowitz, Why Terrorism Works, Yale University Press, New Haven 2002, trad. it. Terrorismo, Carocci, Roma 2003, ISBN 88-430-2476-0 (*)

1. Perché il terrorismo internazionale è così diffuso e potente? Perché è riuscito a organizzarsi in forme così capillari ed efficaci da diventare una minaccia per il mondo intero? La risposta di Alan M. Dershowitz, nel suo Why Terrorism Works - in questi giorni apparso in traduzione italiana presso Carocci - è talmente semplice da apparire provocatoria e disarmante nello stesso tempo: il terrorismo 'funziona' perché paga. E' il successo delle sue azioni che lo alimenta, lo diffonde e lo legittima circolarmente.

Secondo uno dei più celebri avvocati liberal degli Stati Uniti, docente di diritto penale ad Harvard, è del tutto irrilevante l'indagine sulle ragioni profonde - storico-politiche, economiche, sociali, culturali - del terrorismo. Anzi, questa indagine può essere pericolosa. L'errore più grave che gli avversari del terrorismo possono commettere è quello di attardarsi a riflettere sulle sue 'cause'. Nei confronti del terrorismo occorre adottare una strategia opposta: è necessario "non cercare mai di comprendere e di eliminare le sue supposte cause prime" e opporre invece un rifiuto intransigente, che non ammetta dialogo o negoziato.

Il messaggio da inviare ai terroristi non deve riguardare le loro ragioni o i loro fini: anche se le ragioni fossero ottime e le finalità legittime, dovrebbero comunque essere negate e respinte come non pertinenti. Non farlo significa istigare tutti coloro che si ritengono vittime dell'ingiustizia, dell'oppressione o dello sfruttamento ad usare il terrorismo per far valere la propria causa.

Per fermare i terroristi c'è secondo Dershowitz una sola strategia: impedire che essi ricavino vantaggi dalle loro azioni e far capire loro in anticipo che non otterranno alcun beneficio dalle loro imprese sanguinarie. Ma per spezzare il corto-circuito di cause ed effetti che sostiene il terrorismo internazionale è necessario intervenire con misure molto più energiche e coerenti di quelle che sono state usate finora. Occorre infliggere ai terroristi punizioni severe, 'inabilitare' i suoi militanti arrestandoli o uccidendoli, decidere misure preventive e sanzionatorie che includano la tortura, l'assassinio, l'infiltrazione di spie, la corruzione, il ricatto, le rappresaglie collettive, la distruzione delle case dei parenti degli attentatori suicidi.

Da questo punto di vista soltanto la replica degli Stati Uniti all'attentato dell'11 settembre è stata veramente appropriata ed efficace: contro l'Afghanistan "la prontezza e l'intensità della risposta militare" ha inviato un messaggio chiaro ai terroristi e al regime che li sosteneva. Una metafora efficace per rappresentare questa corretta strategia di inabilitazione, spiega Dershowitz, forse ispirandosi alle gabbie di Guantanamo, è lo zoo. Nello zoo gli animali feroci sono tenuti dietro le sbarre: "in tal modo non si cerca di modificare le propensioni naturali degli animali, ma si erige semplicemente una barriera insuperabile tra noi e loro".

Nel corso degli ultimi trent'anni, sostiene Dershowitz, la 'comunità internazionale' ha sistematicamente ricompensato i terroristi. In particolare lo hanno fatto alcuni governi europei - la Francia, la Germania, l'Italia -, gli organi delle Nazioni Unite, il Vaticano. La tragedia dell'11 settembre non si sarebbe verificata senza la grave, oggettiva complicità di chi ha consentito che la tolleranza venisse interpretata come incoraggiamento. Se questa tendenza venisse invertita i gruppi terroristici, in particolare quelli di ispirazione islamica, potrebbero venire rapidamente annientati.

Il riferimento implicito di queste tesi è al regime iracheno di Saddam Hussein. Quello esplicito è non solo ad Al Qaeda, ma anche e soprattutto all'Organizzazione per la Liberazione della Palestina e all'Autorità Nazionale Palestinese. Secondo Dershowitz è impossibile spiegare l'evento dell'11 settembre se non si fa riferimento alla dinamica e al successo del terrorismo palestinese. La lettura terroristica dell'intera vicenda che ha opposto il popolo palestinese all'occupazione militare dei suoi territori consente dunque a Dershowitz di negare in radice al popolo palestinese il diritto alla propria terra e a un proprio destino. Non solo, gli consente di caricarlo di una colpa gravissima: di essere stato all'origine del terrorismo suicida che ha portato alla strage di Manhattan. Non a caso nella copertina illustrata dell'edizione americana di Why Terrorism Works vengono accostate l'immagine di Osama bin Laden e quella di Yasser Arafat.

2. Il capitolo centrale del libro è dedicato a provare che i benefici che gli alleati europei e le Nazioni Unite hanno concesso al popolo palestinese a partire dal 1968 "hanno reso inevitabile l'11 settembre". Una tabella di quasi venti pagine registra in due colonne parallele le azioni terroristiche riconducibili a organizzazioni palestinesi, da una parte, e, dall'altra, un insieme di eventi politici e diplomatici riguardanti l'OLP e il suo leader Yasser Arafat. Secondo questo schema, non solo gli accordi di Oslo del 1993 e i negoziati di Camp David del 2000, ma persino l'attribuzione del premio Nobel per la pace a Yasser Arafat (oltre che a Yitzhak Rabin e Shimon Peres) e l'incontro del Pontefice romano a Betlemme con Arafat, devono essere interpretati come altrettante concessioni al terrorismo palestinese. Lo stesso riconoscimento internazionale dell'OLP è classificato da Dershowitz come un cedimento al terrorismo: una condanna unanime e un rifiuto assoluto di riconoscere l'OLP avrebbero sicuramente ridimensionato il conflitto arabo-israeliano e bloccato il terrorismo sul nascere.

La tesi centrale di Dershowitz è che "il terrorismo palestinese rappresenta un esempio paradigmatico di terrorismo che ha funzionato". E' grazie al successo dei palestinesi che il terrorismo ha contagiato altri popoli e si è internazionalizzato. Il popolo palestinese è oggi vincente e lo deve essenzialmente al suo uso spietato dell'arma terroristica. I leader palestinesi, in primis Yasser Arafat, sono riusciti, intrecciando abilmente l'arma del terrorismo e quella della diplomazia, a ottenere dall'amministrazione Clinton impegni concreti, come la creazione di uno Stato palestinese, la fine dell'occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza, il ritorno dei profughi. Ma queste generose concessioni non sono bastate. Dopo il fallimento di Camp David l'obbiettivo del terrorismo palestinese è di "estorcere concessioni ancora maggiori al governo israeliano, rendendo la vita in Israele e negli insediamenti ebraici sempre più invivibile". E alla fine riuscirà a realizzare tutti i suoi obiettivi.

Si tratta di una tesi aberrante. L'intera vicenda della seconda Intifada prova esattamente il contrario: prova la gravissima sconfitta del popolo palestinese, dovuta in parte anche all'uso del terrorismo. Il terrorismo ha offerto al governo Sharon e ai suoi sponsor statunitensi l'opportunità di realizzare il progetto sempre perseguito dall'estremismo sionista: quello di negare l'esistenza del popolo palestinese e di cancellarne l'identità storica. La politica sionista si è sempre espressa con grande coerenza. Ha distrutto, anche con metodi terroristici, un gran numero di villaggi palestinesi abbattendo decine di migliaia di case; ha cacciato centinaia di migliaia di palestinesi dalle loro terre; ha confiscato aree estesissime di terreni coltivati; si è illegalmente impadronito di Gerusalemme; ha invaso anche il misero 22% che resta oggi ai palestinesi con insediamenti di centinaia di colonie e con una fitta rete di strade che le collega fra loro e con Israele, interdette ai palestinesi; ha cancellato l'Autorità nazionale palestinese e costretto il suo leader in una gabbia di macerie; ha ridotto alla fame (e tra poco anche alla sete) centinaia di migliaia di civili; ha chiuso le scuole e le università palestinesi, incluse Al Qud e Birzeit; sta erigendo lungo il confine fra Israele e la Cisgiordania un muro di separazione che sottrae un altro 20% di terre fertili. Dov'è la vittoria del terrorismo?

3. La modalità con cui affrontare e sconfiggere il terrorismo internazionale è senza dubbio uno dei massimi problemi della nostra epoca. Da questo punto di vista Dershowitz ha perfettamente ragione. Ed è ovviamente importante non incoraggiare e incentivare il terrorismo. È altrettanto rilevante, inoltre, definire le misure concrete che devono essere prese per sconfiggere il terrorismo, facendogli mancare le giustificazioni ideali e il sostegno popolare. Ma è proprio per queste ragioni che l'intero apparato delle argomentazioni e delle proposte avanzate da Dershowitz è a mio parere da respingere con fermezza.

E' da respingere con la stessa fermezza con cui egli pensa che si debbano respingere le ragioni profonde del terrorismo. Why Terrorism Works è un libro tragicamente autoreferenziale. Il terrorismo, si potrebbe dire rovesciando le tesi di Dershowitz, funziona proprio perché si scrivono libri come Why Terrorism Works e ci sono governi che ispirano la loro lotta al terrorismo ai principi compendiati e raccomandati in questo libro. Sia nel microcosmo palestinese sia su scala mondiale il terrorismo funziona proprio perché le repliche strategiche che gli sono state opposte - la guerra in Afghanistan, la repressione etnocida della seconda Intifada, l'imminente guerra all'Iraq - sono esattamente quelle che Dershowitz pensa di proporre come qualcosa di nuovo e di risolutivo. Sono in realtà delle repliche sanguinarie quanto lo sono gli atti terroristici - moralmente altrettanto spregevoli - e per di più motivate non dalla disperata volontà di un popolo di resistere all'oppressione ma dalla spietata volontà di una grande potenza (e di un suo alleato militarmente efficientissimo e dotato di armi nucleari) di imporre al mondo una logica di potenza.

L'illustre giurista americano - paradossalmente famoso per la sua difesa dei diritti di libertà dei cittadini statunitensi - non fa che teorizzare e razionalizzare ex post una strategia antiterroristica già in corso da anni: quella di Sharon in Medio oriente e quella di Bush su scala globale. Una strategia che ha impedito sia alle Nazioni Unite, sia alla diplomazia europea di tentare una mediazione politica fra i contendenti ricorrendo a forze di interposizione e di peacekeeping. Non a caso Benjamin Netanyahu ha tessuto pubblicamente gli elogi di questo libro e del suo autore, esaltandone le doti di uncommon intellectual brilliance and moral courage. Ma in realtà la strategia che il libro raccomanda è già tragicamente fallita in Palestina e sta tragicamente fallendo su scala mondiale: in entrambi i casi trascina i contendenti in una spirale di odio, di paura, di distruzione e di morte che rischia di condurci alla terza guerra mondiale. Una guerra terroristica senza fine.

Danilo Zolo

*. Da Il Manifesto, 21 febbraio 2003.