2005

Un dialogo su 'Guerra, diritto e ordine globale' (*)

Tecla Mazzarese, Danilo Zolo

T.M. Chi dice umanità, il tuo volume recentemente pubblicato da Einaudi, è una critica serrata di quella che, da qualche anno, sembra poter diventare una nuova categoria giuridica del diritto internazionale: la 'guerra umanitaria'. Una guerra cioè, che, come la guerra combattuta dalla Nato in Kosovo, assuma la tutela dei diritti fondamentali quale propria giustificazione e legittimazione. Ricostruzione ampiamente documentata della guerra della Nato in Kosovo, il tuo volume, però, non si esaurisce in una lettura puntuale delle sue diverse fasi e in una denuncia dei molti interessi sottaciuti di quella guerra, sia politici che economici. Chi dice umanità è tutto questo, ma è anche e soprattutto un saggio di filosofia politica che, in termini tutt'altro che rassicuranti (a volte si direbbe volutamente provocatori, e comunque a mio parere problematici), mette in discussione non solo la possibilità, ma anche l'opportunità di una ridefinizione del diritto internazionale in senso cosmopolitico. Inizio col chiederti: qual è esattamente l'inganno che, nella scia di Carl Schmitt, ritieni nasconda l'uso dell'espressione 'guerra umanitaria'?

D.Z. L'inganno al quale allude il titolo del mio libro non è propriamente una scoperta di Carl Schmitt. È l'inganno al quale normalmente ricorre una potenza militare -- o un'alleanza fra potenze militari -- per giustificare la guerra che sta conducendo o che intende condurre. Si tratta di coprire o minimizzare le motivazioni particolaristiche dell'uso della forza per dare risalto alle sue finalità universalistiche, in termini di valori morali o di principi razionali. E si tratta di presentare il proprio avversario come un nemico dell'umanità, del bene comune o della ragione. In Occidente questa funzione è stata svolta per secoli dalla dottrina del justum bellum, elaborata fin dai primi secoli dell'era cristiana da una folta schiera di moralisti e di teologi. Essa è stata usata per giustificare soprattutto le guerre di aggressione, quelle che richiedono un maggiore sforzo di mobilitazione retorica del consenso: dalle crociate allo sterminio degli indios americani, alle guerre coloniali, alla guerra in Vietnam. Anche oggi, per bocca delle sua massima autorità, la Chiesa romana si è pronunciata a favore della legittimità morale dell'uso della forza per ragioni 'umanitarie'. Al posto delle vecchie motivazioni 'universalistiche' -- la diffusione della fede cristiana, lo sviluppo della civiltà, la difesa della pace mondiale -- oggi si fa ricorso alla finalità 'umanitaria': l'uso della forza è legittimo e doveroso quando è il solo mezzo per mettere fine a gravi violazioni dei diritti dell'uomo in atto in un determinato paese. Nel mio libro ho sostenuto che la giustificazione umanitaria della guerra, come le tradizionali giustificazioni etico-teologiche, è essa stessa uno strumento bellico. Poiché la guerra richiede un grande impiego di risorse materiali e di energie intellettuali -- ed espone a gravissimi rischi --, è del tutto ovvio che i belligeranti si impegnino a produrre a proprio favore un'elevata dose di 'consenso universalistico'. Per di più, in una situazione di crescente globalizzazione dell'orizzonte politico e comunicativo, la motivazione umanitaria oggi è particolarmente efficace perché consente di contrapporre l''opinione pubblica mondiale' e l''etica universale' al particolarismo deviante del singolo Stato o regime politico che si intende colpire.

T.M. Ma al di là dell''inganno umanitario' tu ti sei riferito a 'pretese' della guerra per il Kosovo di carattere non solo morale ma anche direttamente giuridico...

D.Z. Sì, è vero. Ho parlato anche di altre 'pretese' della guerra umanitaria. Mi sono riferito anzitutto alla pretesa di contrapporre l'imparzialità formale delle istituzioni internazionali -- non solo le Nazioni Unite, ma anche il G8, l'Osce e addirittura la Nato -- al particolarismo degli interessi nazionali o etnici perseguiti nei conflitti locali. Ho sostenuto che le attuali istituzioni internazionali non sono politicamente neutrali, né sono strutturate secondo criteri di universalità normativa. L'esempio più significativo è offerto dalle Nazioni Unite, che oggi sono considerate come l'istituzione internazionale più 'universale'. Le Nazioni Unite non solo si fondano sul presupposto particolaristico della rappresentanza di governi nazionali e non di 'cittadini del mondo' (e neppure di 'popoli'), ma sono caratterizzate dal particolarismo estremo della discriminazione fra membri permanenti e membri non permanenti del Consiglio di Sicurezza. Come è noto, ai membri permanenti, che sono le cinque potenze uscite vincitrici dall'ultima guerra mondiale -- una qualità tutt'altro che 'universalistica' -- è stato addirittura attribuito un potere di veto nelle procedure decisionali del Consiglio di Sicurezza. In secondo luogo si tratterebbe di verificare accuratamente -- è un delicato tema di filosofia del diritto -- la pretesa universalistica della dottrina occidentale dei diritti dell'uomo, sulla quale si fonda la stessa assunzione di terzietà e imparzialità della giustizia penale internazionale, in particolare della giurisdizione del Tribunale dell'Aja. Ho infine discusso due pretese strettamente giuridiche dalla 'guerra umanitaria': in primo luogo la legalità, sulla base del diritto internazionale vigente, del ricorso alla guerra per ragioni umanitarie, con o senza l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza; in secondo luogo la congruità giuridica dell'uso della forza -- incluso l'uso di armi di distruzione di massa come le cluster bombs e i proiettili all'uranio impoverito -- con la finalità dichiarata: la protezione dei diritti dell'uomo. È il controverso tema kelseniano della guerra come 'sanzione giuridica'.

T.M. Quella che con macabra fantasia onomastica è stata denominata 'guerra umanitaria' non è ancora, però, una categoria del diritto internazionale. Né, forse, lo diventerà a breve. Così almeno sembrerebbe lasciar sperare il (parziale) ripensamento di Antonio Cassese riguardo alla tesi (della quale era stato tra i più convinti e autorevoli sostenitori) secondo la quale la guerra in Kosovo, sebbene illegittima perché in violazione delle norme del diritto internazionale vigente, potesse, nondimeno, essere considerata come l'affermazione di una nuova norma consuetudinaria: della norma, cioè, che sancisse la guerra quale strumento di intervento nel caso di grave, diffusa e reiterata violazione dei diritti fondamentali.

D.Z. Antonio Cassese, quando era ancora giudice del Tribunale dell'Aja, aveva sostenuto in interviste giornalistiche e in un lungo saggio, apparso sul primo numero del 1999 dell''European Journal of International Law', che la guerra della Nato era non solo eticamente apprezzabile, ma anche giuridicamente legittima. Era legittima perché a suo parere l'attacco militare della Nato contro la Repubblica jugoslava, pur essendo lesivo della Carta delle Nazioni Unite, dava avvio ad una nuova consuetudine di diritto internazionale che rendeva legale l'uso della forza per ragioni umanitarie anche senza l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. Obiettai che l'argomento non era convincente per una serie di ragioni empiriche e, per di più, finiva per raccomandare la massima ex iniuria oritur jus. Se accolto, avrebbe introdotto nell'ordinamento internazionale un elemento di radicale incertezza del diritto, in violazione di qualsiasi principio di rule of law. Ricordo che Norberto Bobbio, in una intervista all''Unità', dichiarò di condividere la mia tesi e mi pare che oggi si possa dire che, anche all'interno della dottrina giuridica internazionale, l'opinione di Antonio Cassese, per quanto autorevole, è rimasta isolata. Cassese stesso, in un secondo intervento sulla medesima rivista (n. 4, del '99), ha fortemente attenuato la sua tesi iniziale. Più recentemente egli si è spinto fino a criticare la decisione del Procuratore generale del Tribunale dell'Aja, Carla del Ponte, che ha archiviato per manifesta infondatezza le denunce formali, presentate al Tribunale, che accusavano la Nato di gravi violazioni del diritto bellico commesse durante i bombardamenti della Serbia e del Kosovo.

T.M. Per quanto il (parziale) ripensamento di Antonio Cassese sull'intervento di una nuova norma consuetudinaria nel diritto internazionale in tema di 'guerre umanitarie' possa sembrare rassicurante, certo non possono però dirsi scongiurati tutti i timori sulle possibili tentazioni di delineare un nuovo jus ad bellum, declinato in termini di tutela sovranazionale dei diritti fondamentali.

D.Z. Hai ragione. Il rischio di un ritorno ad una fase radicalmente 'vestfaliana' -- cioè anarchica -- delle relazioni internazionali è oggi reale, come è stato sostenuto fra gli altri da un'autorevole esperta di diritto internazionale come Marina Spinedi. È il pericolo del ritorno ad una legittimazione diffusa del jus ad bellum e di un suo esercizio discrezionale da parte di grandi potenze dotate di un soverchiante potere militare (tecnologico, informatico, nucleare o quasi-nucleare). Allarmanti sono state, durante la Guerra per il Kosovo, le dichiarazioni di un esponente di primo piano dell'amministrazione statunitense, come il vicesegretario di Stato, Strobe Talbott, per il quale la Nato doveva attribuirsi il diritto di decidere l'uso della forza in modo autonomo rispetto ad ogni altra istituzione internazionale. Questa tesi era del resto già stata sostenuta dalla Resolution del novembre 1998 dell'Assemblea Parlamentare del Patto Atlantico. Questa tendenza è stata assecondata, consapevolmente o meno, dai filosofi, dai politologi e dai giuristi occidentali che per ragioni etiche, etico-giuridiche o giuridiche hanno approvato l'intervento della Nato contro la Jugoslavia, pur avendone riconosciuta la contrarietà alla Carta delle Nazioni Unite.

T.M. Come valuti in proposito l'imbarazzante silenzio sul ripudio della guerra -- di ogni guerra che non sia di legittima difesa (self-defence) -- nella Carta dei diritti recentemente approvata a Nizza dall'Unione Europea?

D.Z. È un silenzio imbarazzante, certo, ma non so in che misura sia anche imbarazzato ... La Carta dei diritti è stata approvata a Nizza dai paesi dell'Unione Europea in modo molto sbrigativo, come un rituale burocratico di scarso rilievo. Temo che la Carta dei diritti europea resterà a lungo un 'diritto di carta'. Assai più importante, a mio parere, è il tema del riarmo dell'Europa e della sua possibilità di dotarsi di un dispositivo militare in qualche misura autonomo rispetto alle strategie egemoniche degli Stati Uniti. Ma anche qui i vincoli e le incertezze sono notevoli, anche a causa dell'atteggiamento perennemente ambiguo della Gran Bretagna, come è emerso ancora una volta a proposito della moratoria dell'uso delle armi ad uranio impoverito. La proposta di moratoria, condivisa dalla grande maggioranza dei paesi europei, è stata contrastata dalla Gran Bretagna per i suoi speciali rapporti di solidarietà militare e industriale con gli Stati Uniti.

T.M. Torniamo all'intervento della Nato in Kosovo, intervento del quale hai fermamente denunciato (anche) l'illegittimità giuridica. Hai scritto, infatti, di 'guerra contro il diritto', di 'eversione del diritto internazionale'. E a chi, come Antonio Cassese, all'inizio del conflitto rivendicava l'emergere di una nuova norma consuetudinaria di diritto internazionale, hai causticamente replicato, come hai testé ricordato, che così ex iniuria oritur ius. Questi tuoi giudizi sono, tutti, di matrice legalista: parafrasando una fortunata espressione dworkiniana, sembrano ammonire a prendere il diritto internazionale 'sul serio'. È così? Se sì, come conciliare questo monito con le tue critiche di stampo realista (sia in Chi dice umanità, sia, già, in Cosmopolis, Feltrinelli 1995 e in I Signori della pace, Carocci 1998) a chi, come Jürgen Habermas, auspica un 'diritto cosmopolitico', fondato sulla cittadinanza universale e sull'universale tutela dei diritti fondamentali? O a chi, come Norberto Bobbio e Luigi Ferrajoli (e, prima di loro, Immanuel Kant e Hans Kelsen) auspica, per quanto non sempre in termini coincidenti, una qualche forma di globalismo giuridico come fondamento e garanzia della pace?

D.Z. Capisco bene la difficoltà che sollevi. Se si assume un punto di vista realistico nella teoria delle relazioni internazionali, ti domandi, che rilievo si può attribuire al diritto internazionale come strumento di pacificazione del mondo? La mia risposta è che l'adesione al realismo politico non comporta una squalificazione del diritto internazionale come sterile formalismo o come puro idealismo normativo. Questa era forse la posizione del vecchio realismo politico internazionale, à la Hans Morgenthau: le relazioni internazionali, si sosteneva, sono 'determinate' da una logica statale di ottimizzazione della potenza che fa affidamento esclusivamente sulla forza delle armi. Tutto il resto conta assai poco. Personalmente mi sento più vicino alle posizioni del neorealismo politico internazionale (George Modelski, Robert Gilpin, Robert Keohane, fra gli altri) che ha abbandonato ogni schematismo deterministico e positivistico. Condivido in particolare la lezione di Hedley Bull, un autore nello stesso tempo realista e neo-groziano (penso al suo capolavoro, The Anarchical Society, inspiegabilmente non ancora tradotto nel nostro paese). Per Bull il compito dell'ordinamento internazionale è di garantire un ordine politico-giuridico 'minimo', non certo di promuovere l'unità politica e morale dell'umanità. Come Bull e come i realisti, da Machiavelli a Weber, ritengo che la dimensione conflittuale definisca la politica e sono dunque ben lontano dall'idealismo normativo del motto kelseniano peace through law, ispirato al moralismo e al pacifismo kantiano. E sono del tutto contrario all'idea dell'unificazione politico-giuridica del pianeta, sostenuta da quello che ho chiamato il 'globalismo giuridico' (Jürgen Habermas, Richard Falk e in parte anche Bobbio). Questo non toglie che io attribuisca un'importantissima funzione al diritto e alle istituzioni internazionali: quello di contribuire a contenere gli effetti distruttivi dei conflitti fra gli Stati, introducendo nei rapporti internazionali forme e procedure di rule of law, che rendano meno arbitrario l'uso della forza, in particolare da parte delle grandi potenze, e contribuiscano a tutelare i diritti dei popoli e dei gruppi culturali più deboli. E sono preoccupato, come lo è Maria Rosaria Ferrarese -- ti segnalo il suo bel libro Le istituzioni della globalizzazione, uscito recentemente presso 'il Mulino' --, per l'attuale processo in atto che sembra portare verso una 'privatizzazione' del diritto internazionale che lo relega a funzioni di lex mercatoria globale, senza più alcun ruolo, per così dire, di 'diritto pubblico internazionale'. La 'strategia minimale' cui aderisco non si propone l'ambizioso -- a mio parere del tutto velleitario -- obiettivo dei fautori del cosmopolitismo: un governo mondiale che realizzi la giustizia e la democrazia internazionale, la pace universale, la tutela dei diritti, l'equilibrio ecologico e demografico, lo sviluppo economico, etc. È assai dubbia la realizzabilità di un progetto di questo tipo in un mondo 'globalizzato', nel quale si allarga sempre più la forbice fra una minoranza di paesi ricchi e potenti e una grande maggioranza di paesi poveri e deboli. Ma c'è anche il problema della desiderabilità dell'obiettivo cosmopolitico. L'unificazione politico-giuridica del pianeta rischierebbe di produrre una drastica riduzione della complessità politica e culturale del mondo, sotto l'egida di poteri fortemente interventisti ed autoritari, gestiti, come è ovvio, dalle grandi potenze. E provocherebbe la reazione di quello che già oggi viene chiamato global terrorism.

T.M. Queste tue affermazioni, però, sembrano comportare non tanto un rifiuto del globalismo giuridico, quanto piuttosto una critica delle forme e dei modi in cui alcuni filosofi della politica ne hanno auspicato la realizzazione e/o argomentato la giustificazione. Infatti, per quanto possa essere minimo l'ordine politico-giuridico che, nella prospettiva neorealista, il diritto internazionale è chiamato a garantire, sembra difficile considerare tale ordine qualcosa di diverso da una forma (una delle possibili forme) di globalismo giuridico. E ancora, gli argomenti dei fautori dichiarati del globalismo giuridico sono, forse, meno ingenui ed improbabili di quanto appaiano in alcune critiche (neo)realiste. Lo stesso Kelsen (che anche in Chi dice umanità un po' ingenerosamente citi come teorico della guerra giusta), nel 1944, in Peace through Law, offre una ricca panoramica delle difficoltà contro le quali non può non scontrarsi l'attuazione di un globalismo giuridico: una panoramica di difficoltà relative, retrospettivamente, alle ragioni del fallimento della Società delle nazioni, e, prospetticamente, ai termini in cui poter dar vita ad una nuova e diversa Lega delle Nazioni.

D.Z. Da anni vado proponendo come emblema di un possibile ordine giuridico mondiale, con struttura policentrica e non gerarchica, il fenomeno dei 'regimi internazionali', studiato e teorizzato da neo-realisti come Robert Keohane e Stephen Krasner. È l'idea che, in presenza di una elevata interdipendenza dei fattori internazionali, la negoziazione multilaterale sia una fonte di produzione e di applicazione del diritto internazionale che opera efficacemente nonostante l'assenza - anzi grazie all'assenza - di un governo centrale. Pur essendo prevalentemente il prodotto consapevole dell'interazione fra attori statali, i 'regimi internazionali' godono di una relativa autonomia rispetto alle fonti di potere che li hanno inizialmente costituiti e suppongono un contesto normativo fluido e dinamico. Del resto, questo vale ormai largamente, a dispetto dell'assunzione kelseniana dell'unità, completezza e coerenza dell'ordinamento giuridico, anche all'interno degli Stati, se è vero che nelle società postindustriali è in atto una crisi della capacità regolativa dell'ordinamento statale e si moltiplicano le aree di autonomia regolativa ultra legem e, spesso, contra legem. Secondo una classica proposizione sistemica, in condizioni ambientali di elevata complessità, interdipendenza e turbolenza, l'ordine non può che essere flessibile e policentrico, essenzialmente non gerarchico. Kelsen, al contrario, auspica persino, in nome dell'unità dell'ordinamento giuridico mondiale, un completo superamento della diversità e pluralità delle culture e dei sistemi giuridici, concepita come un ostacolo alla pace. Aggiungo, per rispondere alla tua osservazione parentetica, che mi pare indubitabile che Kelsen, in particolare nel suo saggio Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts, del 1920, abbia fatto della dottrina della guerra giusta addirittura la condizione di giuridicità dell'ordinamento internazionale.

T.M. Apprezzo i tuoi argomenti, e tuttavia continuo a pensare che ci sia un'incoerenza tra la tua ferma denuncia dell'illegittimità giuridica della guerra in Kosovo, da un lato, e, dall'altro, il tuo atteggiamento critico nei confronti dell'assunto della pace attraverso il diritto (il kelseniano peace through law). Così come mi sembra che ci sia un'incoerenza, simmetrica e opposta, in chi, ad esempio Jürgen Habermas e Norberto Bobbio, da un lato afferma l'assunto della pace attraverso il diritto, ma, dall'altro lato, giustifica un intervento che, come quello in Kosovo, è stato attuato in piena violazione del diritto internazionale. Non credi che se si assume che il diritto possa essere uno strumento di garanzia della pace per ciò stesso non si possa consentire con una guerra che violi le norme di diritto internazionale? E, simmetricamente, non pensi che se si nega che il diritto possa essere strumento di garanzia della pace per ciò stesso si depotenzi qualsiasi critica di illegittimità di una guerra?

D.Z. Penso di aver già risposto, almeno in parte, a questa tua domanda. Soltanto dal punto di vista di un realismo politico molto dogmatico -- che coincida con un radicale nichilismo giuridico -- non avrebbe senso denunciare l'illecito internazionale commesso dalle potenze occidentali che hanno attaccato la Federazione jugoslava senza esserne stati autorizzati dal Consiglio di Sicurezza. Aggiungo che questa denuncia ha una notevole efficacia retorica anche come semplice argomento ad hoc: come critica dell'incoerenza di chi ha sostenuto in passato -- penso all'intervento degli Stati Uniti e dei loro alleati nel Golfo Persico, nel 1991 -- di aver usato la forza delle armi in ottemperanza agli obblighi che gli derivavano dalla sua appartenenza alla comunità giuridica internazionale. Detto questo, confermo che a mio parere è illusorio pensare che il diritto internazionale sia il solo strumento -- o anche semplicemente lo strumento principale -- per una riduzione della violenza internazionale e un contenimento dei suoi effetti distruttivi. Accanto al diritto ci sono molti altri ambiti funzionali da prendere in considerazione: l'economia, la cultura, l'educazione, la comunicazione, la religione, la diplomazia. E non andrebbe trascurata l'importanza stessa del conflitto politico e sociale per una evoluzione del mondo in una direzione che renda l'uso della violenza meno spietato e distruttivo.

T.M. Teoreticamente forse poco coerente con una posizione improntata al realismo politico, la tua denuncia dell'illegittimità giuridica della guerra in Kosovo è, nondimeno, a mio parere condivisibile. Allarmante, invece, per quanto, forse, meno incoerente con il realismo politico, è il tuo rifiuto, come strumento di tutela sovranazionale dei diritti fondamentali, non solo della guerra, ma anche di altre forme di tutela quale quella, da molti oggi sollecitata, dell'istituzione di un tribunale penale internazionale permanente.

D.Z. Capisco che la mia scarsa simpatia teorica e politica nei confronti di quello che ho chiamato il nuovo 'internazionalismo giudiziario' possa apparirti allarmante. Personalmente trovo più preoccupante l'eccessiva fiducia con cui molti pensano che il destino del mondo -- la pace, la protezione dei diritti fondamentali, la giustizia -- possa essere affidato alle sentenze di una burocrazia giudiziaria internazionale. Le mie obiezioni riguardano sia, in generale, il significato simbolico e l'efficacia di una giurisdizione penale internazionale, sia il progetto specifico del Tribunale penale internazionale (ICT), il cui statuto è stato approvato nell'estate del 1998 a Roma. In generale, ed anche qui sono concorde con la lezione realistico-groziana di Bull, ritengo che l'esperienza del passato ci mostri che la giustizia amministrata dai Tribunali penali internazionali ha sinora violato, assieme ad alcuni irrinunciabili principi del diritto moderno, anche fondamentali diritti individuali di habeas corpus, come il divieto della istituzione di Tribunali speciali, l'eguaglianza di fronte alla legge, l'irretroattività del diritto penale, la pubblicità degli atti di incriminazione, l'imparzialità del potere giudiziario, l'autonomia politica delle procure, una minima certezza del diritto penale sostanziale e processuale. Quanto all'efficacia delle giurisdizioni penali -- sia quelle del secondo dopoguerra, sia quelle degli anni novanta del secolo scorso e ancora oggi in vigore -- essa è stata esigua dal punto di vista repressivo e addirittura nulla dal punto di vista dissuasivo. Si è trattato di una giustizia 'esemplare' e 'selettiva', come ha sostenuto per primo Hedley Bull a proposito del Tribunale di Norimberga e come ha recentemente dichiarato, con dignità e coraggio, il nuovo presidente jugoslavo, Vojislav Kostunica, di fronte al procuratore Carla Del Ponte, giunta a Belgrado per esigere l'immediata consegna di alti esponenti del precedente governo, incluso Slobodan Milosevic. Il Tribunale dell'Aja, in particolare, che avrebbe dovuto garantire la 'legalità internazionale' della condotta bellica di tutte le parti belligeranti nelle due guerre dei Balcani, ha dato prova di una completa sudditanza alle aspettative politiche della potenze occidentali -- in primis degli Stati Uniti --, che lo hanno voluto, costantemente sostenuto sul piano finanziario e assistito militarmente. La Nato, anche dopo il suo attacco illegale alla Repubblica jugoslava, ha continuato a svolgere la funzione di polizia giudiziaria del Tribunale, in strettissima collaborazione con la sua Procura generale. E non si è interrotto il cospicuo flusso di denaro, pubblico e privato, con il quale gli Stati Uniti hanno sin dall'inizio contribuito a garantire l'attività del Tribunale, in violazione del suo stesso Statuto, che prescrive che la sua attività venga finanziata con le risorse del bilancio ordinario delle Nazioni Unite. L'insistenza con cui l'attuale Procuratore Carla Del Ponte pretende che il nuovo governo jugoslavo le consegni gli esponenti del precedente governo incriminati dal Tribunale (mentre era in pieno svolgimento l'attacco militare della Nato contro la Repubblica jugoslava) è una arrogante derisione di ogni elementare senso di giustizia. Soltanto pochi mesi fa la medesima Procura ha liberato da ogni responsabilità, senza aver svolto la minima indagine e con una procedura arbitraria, le autorità politiche e militari della Nato, responsabili di aver causato la morte di alcune migliaia di persone innocenti e di aver provocato nei territori della Bosnia, della Serbia e del Kosovo danni ambientali dalle conseguenze incalcolabili per la salute dei civili e dei militari coinvolti, in particolare, ma non solo, a causa dell'uso di proiettili all'uranio impoverito e al plutonio.

T.M. Non credi che, per quanto possano essere fondate riserve e preoccupazioni riguardo ad una piena autonomia e/o imparzialità di un'istituzione quale quella di un tribunale penale internazionale permanente, la sua assenza continui, nondimeno, a consentire impunità incomparabilmente più gravi? Rinunceresti forse alla giurisdizione penale nazionale perché non è sempre imparziale e oggettiva? Saresti pronto ad affermare la necessità di fare a meno della giurisdizione penale nazionale in quanto questa non può non essere, come per altro ogni altra forma di giurisdizione, in certa misura discrezionale?

D.Z. Non ho la minima esitazione ad affermare che una giurisdizione penale internazionale che viola nel modo clamoroso che ho descritto le regole più elementari del rule of law -- oltre che il suo Statuto -- andrebbe abolita. Ed anche per quanto riguarda il progetto del nuovo Tribunale sono leciti secondo me molti dubbi, anche se vanno registrate due positive novità rispetto all'esperienza precedente: anzitutto il fatto che questo Tribunale non è un Tribunale speciale illegalmente creato dal Consiglio di Sicurezza, ma è il frutto di un trattato internazionale (che però incontra molte difficoltà ad essere ratificato). È importante, in secondo luogo, l'attribuzione alla sua competenza anche dei 'crimini contro la pace' -- e cioè del crimine di aggressione internazionale -- che sono invece esclusi dalla competenza del Tribunale dell'Aja. Vanno segnalati però, oltre ai limiti generali cui ho già accennato, due aspetti, gravemente regressivi, che minacciano l'autonomia della nuova Corte internazionale. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite avrà il potere di impedire o sospendere, a sua discrezione, le iniziative della Procura della Corte: si ripresenta dunque, nella forma più acuta, la tensione fra il particolarismo politico del massimo organo delle Nazioni Unite e l'aspirazione universalistica di una giurisdizione penale ancorata alla dottrina dei diritti dell'uomo. Il secondo aspetto riguarda la sorprendente disposizione dell'articolo 116 dello Statuto approvato a Roma, che apre le casse della Corte ai "contributi volontari di Governi, organizzazioni internazionali, privati, società ed altri enti", trasformando così in previsione normativa per il finanziamento della futura Corte la prassi illegittima del Tribunale dell'Aia. In uno Stato di diritto -- fondato sulla divisione dei poteri e attento alla tutela dei diritti soggettivi -- sarebbe impensabile che un Tribunale penale venisse finanziato da una delle possibili parti in causa: poniamo, finanziato dalla Fiat e competente a giudicare le cause di lavoro fra la direzione dell'impresa e i suoi dipendenti. La mia tesi generale è che soltanto una strutturazione giuridica e istituzionale dei rapporti internazionali che si richiami in qualche modo allo schema del rule of law può dare senso ad una giurisdizione penale internazionale ed evitare che la giustizia internazionale sia anch'essa un inganno, una odiosa parodia della jurisdictio. Ma oggi non esiste alcuno 'Stato di diritto' internazionale.

T.M. Dell'intervento Nato in Kosovo non hai solo denunciato l'illegittimità giuridica, ma hai anche negato, con non minore fermezza, la giustificabilità etica e lo hai fatto proprio in ragione del suo preteso fondamento: la tutela dei diritti fondamentali. Hai negato, in particolare, che la tutela dei diritti fondamentali potesse offrire un fondamento alla giustificabilità etica della guerra in Kosovo non tanto (argomento al quale pure fai cenno anche se solo di sfuggita) perché la guerra non può che essere essa stessa violazione, e su larga scala, di diritti fondamentali, quanto piuttosto perché ritieni falsa la tesi dell'universalità dei diritti fondamentali. Perché tanto rilievo ad una contestazione, scomoda e quasi provocatoria, dell'universalità dei diritti fondamentali?

D.Z. Sono su questo punto perfettamente d'accordo con te. Il tema dell'universalità dei diritti dell'uomo è, nello stesso tempo, molto delicato e cruciale. Nel mio libro ho scritto alcune pagine per sostenere la tesi del carattere dubbio dell'universalità dei diritti dell'uomo. La mia tesi è che, rebus sic stantibus, questa dottrina è fortemente intrisa di valori -- per me importantissimi -- che appartengono alla tradizione politica occidentale e risentono della filosofia individualistica del liberalismo, con al centro l'endiadi liberty and property. Mi oppongo soprattutto all'idea che la dottrina dei diritti fondamentali possa essere 'esportata' con mezzi coercitivi: la guerra, la giurisdizione penale, la pressione economica, la comunicazione propagandistica. Mi oppongo, al di là delle mie personalissime propensioni morali, alle quali non attribuisco alcuna universalità, in nome della differenziazione e della complessità del mondo, che a mio parere è un bene prezioso anzitutto dal punto di vista evolutivo, sia ecologico che etologico.

T.M. In un brano citatissimo di un suo lavoro del 1964, Bobbio afferma che "Il problema di fondo relativo ai diritti dell'uomo è oggi non tanto quello di giustificarli, quanto quello di proteggerli. È un problema non filosofico ma politico". Ora, la tua contestazione dell'universalismo dei diritti fondamentali sembra comportare non solo la rinuncia alla ricerca di un loro fondamento ultimo (di una loro giustificazione), ma, molto più radicalmente, anche la rinuncia alla loro protezione. Si tratta di una riaffermazione del problema filosofico o di una diversa valutazione, rispetto a quella di Bobbio, dei termini del problema politico?

D.Z. Su questo punto sono in realtà in sintonia con Norberto Bobbio: la dottrina dei diritti dell'uomo manca di un fondamento filosofico che ne giustifichi in termini universali la pretesa deontologica. Ha origini storiche in Europa, in vicende secolari, segnate da una alta conflittualità. Questo non impedisce minimamente che lo 'Stato di diritto' e la dottrina dei diritti fondamentali siano il lascito civile, giuridico e politico più alto che oggi ereditiamo dalla vecchia Europa classico-cristiana ed illuministica. Ma è un'eredità preziosa per noi occidentali, che diviene tuttavia oppressione e imperialismo culturale se viene assecondata nelle sue implicite ambizioni universalistiche. Bobbio sostiene -- e anche qui sono perfettamente d'accordo con lui -- non solo che non è possibile fondare teoreticamente i diritti, ma che ciò non è neppure importante o utile al fine della loro concreta applicazione. Schumpeter ha scritto che ciò che distingue un uomo civile è la sua capacità di combattere con coraggio e generosità a favore di una causa, senza credere che si tratti del bene o della verità.

T.M. Combattere con coraggio e generosità a favore di una causa significa auspicarne l'affermazione, essere convinti almeno delle sue buone ragioni. Ma, in che modo e a quale titolo battersi con coraggio e generosità per l'affermazione dei diritti fondamentali, o di quelli che, con una locuzione essa stessa di matrice universalistica, hai prima indicato come "diritti dei popoli e dei gruppi culturali più deboli"? In che modo battersi con coraggio e generosità per la loro affermazione se la tua analisi tende ad escludere il ricorso non solo (come è pienamente condivisibile) alla guerra, ma (come, invece, è disorientante) anche a qualsiasi altra forma (giurisdizionale, economica, culturale) di intervento e/o di condizionamento? E ancora, a che titolo battersi con coraggio e generosità per l'affermazione di questi diritti se la tua analisi tende a sottolinearne le cattive e non le buone ragioni?

D.Z. Ciò che intendo sottolineare è che si può, con buone ragioni, difendere i propri valori senza considerarli universali e senza pretendere di imporli ai nostri interlocutori. La scelta di operare con spirito di solidarietà con i popoli e le culture più deboli non ha la minima universalità normativa, non più di un atteggiamento opposto, di solidarietà con i potenti. La scelta dipende da opzioni molto soggettive, che possono essere anche soltanto di carattere emotivo e persino estetico. Lo stesso, delicatissimo problema delle mutilazione sessuale femminile di milioni di donne in alcuni paesi africani dovrebbe essere affrontato, a mio parere, con un approccio relativistico, che tenga in grande considerazione i significati interni che entro ciascuna tradizione culturale assumono pratiche e credenze che, considerate dall'esterno, con occhi occidentali, non possono che apparire irrazionali o, come nel caso dell'infibulazione femminile, gravemente lesive dell'integrità fisica e psichica di giovani donne. Io non sostengo l'incommensurabilità delle culture ma l'esigenza di un confronto che sia radicalmente immune da presunzioni missionaristiche, fondate su una presunzione di verità e di certezza morale. La pace, la democrazia, lo sviluppo economico e lo sviluppo umano non sono 'esportabili' da missionari, mercanti e militari: le famose tre 'm' dell'universalismo coloniale.

T.M. Ma è poi davvero così radicale il tuo rifiuto dell'universalismo dei diritti umani? Non c'è proprio nessun diritto fondamentale del quale sei disposto ad ammettere l'universalità? Leggendo Chi dice umanità, così come leggendo altri tuoi lavori, un'eccezione in realtà sembra esserci: la pace come diritto fondamentale, universale e irrinunciabile, la cui tutela (così come in Kant, Kelsen, Habermas, Bobbio, Ferrajoli) è essa stessa condizione imprescindibile per la tutela di ogni altro diritto fondamentale. Che cosa rispondi?

D.Z. Francamente preferirei non risponderti, perché temo di deludere, con la mia risposta, una tua profonda aspettativa (e assieme alla tua, quella dei nostri possibili lettori). Non credo che la pace possa essere costruita come un diritto fondamentale, universale e irrinunciabile, degli individui, a meno che questo non significhi il diritto all'integrità fisica, intellettuale e affettiva delle persone. Ma anche così continuerei ad avere qualche perplessità teorica, soprattutto se questo diritto venisse concepito come un postulato teologico-metafisico, di valore assoluto e quindi in qualche modo universalmente normativo. Ciò che posso dire, senza forzare le mie convinzioni più profonde, è che la guerra moderna -- sproporzionatamente e indiscriminatamente distruttiva di beni e di vite umane -- non può essere usata come uno strumento 'giuridico' a tutela dei diritti degli uomini e delle donne, tanto più se riconosciuti come soggetti dell'ordinamento internazionale. La guerra dev'essere respinta come negazione e distruzione della diversità, della dignità e della bellezza.


*. Da La società degli individui, 4 (2001), 2.