2005

La guerra e l'Onu (*)

Luigi Ferrajoli

1. Un decennio di guerre.- Il passato decennio fu dichiarato nel 1990, dall'Assemblea generale dell'Onu, "decennio del diritto internazionale": avrebbe dovuto essere, dopo la fine della guerra fredda, il decennio del consolidamento della pace e delle istituzioni internazionali. Finita la divisione del mondo in blocchi, cessato l'incubo della guerra nucleare, venuto meno ogni pericolo di aggressione da parte di potenze nemiche, sembrava che nulla si opponesse a un futuro di pace e a una rifondazione delle relazioni internazionali basata su quella che Jürgen Habermas ha chiamato "una politica interna del mondo" (1) all'altezza dei grandi problemi del pianeta: il disarmo progressivo e una graduale cessazione della produzione di armi; la riduzione delle enormi disuguaglianze, responsabili ogni anno della morte per fame e malattie di milioni di esseri umani; una politica di sviluppo sostenibile della ricchezza e dell'economia, idonea a salvaguardare l'ambiente per le generazioni future. E' in questa prospettiva, del resto, che si erano orientate le Conferenze di Vienna e di Parigi sulla riduzione degli armamenti convenzionali, sull'eliminazione delle armi nucleari e di quelle chimiche e batteriologiche, sulla riforma della Nato e del vecchio Patto di Varsavia.

E' invece accaduto esattamente il contrario. Nel nuovo mondo unipolare, improvvisamente privato del Nemico e impegnato soltanto a celebrare i trionfi del libero mercato, si sono ignorati, e sono stati anzi aggravati, tutti i grandi problemi del pianeta. Si è così approfondito il divario tra paesi ricchi e paesi poveri, si è lasciato libero corso alle devastazioni dell'ambiente, si sono chiuse ermeticamente le nostre frontiere a masse crescenti di affamati, senza minimamente curarsi dell'odio e della rivolta che frattanto montavano contro l'Occidente e delle minacce alla pace e alla sicurezza generate dalla nostra miopia. Infine, si è supplito a questa imprevidenza irresponsabile e a questa totale incapacità di governo con la politica delle armi. Le spese militari dei paesi occidentali, primi tra tutti gli Stati Uniti, sono state, nel decennio, più che raddoppiate e sono state installate basi militari in tutti gli angoli del pianeta. E' stata rifondata e rafforzata la Nato ed è stato escluso, nel documento del 24 aprile 1999, ogni limite ai suoi poteri di intervento. E' così che abbiamo avuto, anziché il decennio del diritto internazionale, il decennio delle guerre: la guerra del Golfo del 1991; la guerra nel Kosovo del 1999, la guerra in Afghanistan dell'anno scorso; infine, la guerra annunciata che incombe contro l'Iraq.

Al tempo stesso si è sviluppato, nel senso comune, un processo di normalizzazione della guerra quale strumento di soluzione dei problemi e dei conflitti internazionali. Nell'opinione pubblica occidentale sono state ormai tranquillamente avallate come legittime le tre guerre passate, quelle nel Golfo, nel Kosovo e in Afghanistan. Una parte non irrilevante dell'opinione pubblica europea e la maggioranza, temo, dell'opinione pubblica americana ritengono oggi perfettamente legittima una guerra preventiva degli Stati Uniti contro l'Iraq, anche senza una specifica autorizzazione del Consiglio di sicurezza. La Carta dell'Onu, secondo costoro, è stata definitivamente archiviata. La schiacciante maggioranza, per così dire moderata, delle forze politiche - in Italia, dall'intero centro-destra alla maggioranza dell'Ulivo - ritengono infine legittima una guerra contro l'Iraq autorizzata dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu, confondendo l'Onu, ossia l'ordinamento internazionale istituito dalla Carta dell'Onu, con qualunque cosa il Consiglio decida, anche in contrasto con le norme in essa stabilite. L'espressione "pacifismo" o "pacifismo assoluto" è diventata frattanto poco meno che un insulto: equiparata nel migliore dei casi ad "anti-americanismo" pregiudiziale e, nel peggiore, a fuga dalla realtà e a ideologismo irresponsabile. Al contrario, l'adesione della sinistra alla guerra, quanto meno nel caso di un'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, viene presentata, dalla maggior parte dei commentatori, come un segno di "responsabilità", di "maturità politica" e di "affidabilità" come forza di governo.

2. L'Onu e la guerra.- E' questo senso comune, alimentato da luoghi comuni e da una totale noncuranza per quanto è disposto dalla Carta dell'Onu, che dobbiamo analizzare. Di solito esso non si fa carico di un'argomentazione razionale, né tanto meno giuridica a sostegno della guerra. Sono perciò preziosi gli interventi che a tal fine, anziché limitarsi alle contumelie nei confronti dei pacifisti, enunciano argomenti giuridici e razionali. Non parlo, ovviamente, delle posizioni dei falchi, favorevoli a schierarsi con gli Stati Uniti senza riserve né condizioni, né tanto meno scrupoli di carattere giuridico. Parlo della posizione di coloro che giudicano la guerra giuridicamente legittima, e l'adesione dell'Italia doverosa, se essa avvenisse con l'avallo dell'Onu, e precisamente del Consiglio di Sicurezza. E' quanto hanno sostenuto il presidente della Camera Pier Ferdinando Casini sulla "Repubblica" del 26 ottobre e poi Giorgio Napolitano sull'"Unità" del 5 novembre (2), in risposta entrambi al severo e ripetuto richiamo di Pietro Ingrao al rispetto dell'articolo 11 della nostra Costituzione.

L'argomentazione giuridica a sostegno di questa tesi è molto semplice. Primo: l'art.11 della nostra Costituzione non contiene soltanto il ripudio della guerra, ma anche "le limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni". Secondo: l'ordinamento istituito dalla Carta dell'Onu prevede, nell'art.42 del suo capitolo VII, che il Consiglio di sicurezza, ove accerti "una minaccia alla pace" e l'inadeguatezza delle misure "non implicanti l'impiego della forza armata", possa "intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale". Conclusione: l'intervento armato in Iraq sarà pienamente lecito e l'Italia non potrà non aderire, ove ottenga, scrive Napolitano, "il sigillo di un voto del Consiglio di sicurezza dell'Onu che la legittima come decisione non di guerra, ma, all'opposto, come decisione per la pace, per il suo mantenimento o ristabilimento". "La copertura dell'Onu", scrive a sua volta Casini, "rende senz'altro legittime azioni militari dell'Italia".

Perché questa argomentazione è tanto suggestiva e semplicistica quanto sommaria e fallace? Perché elude pressoché tutte le questioni che sono poste dalla Carta dell'Onu in materia di uso legittimo della forza. Segnalerò qui quattro questioni, alcune delle quali vengono spesso tra loro confuse nel dibattito politico e che occorre invece distinguere analiticamente.

La prima questione è se il terrorismo internazionale giustifichi la guerra. Questa domanda può essere a sua volta scomposta in altre due. La prima è del tutto indipendente dal diritto: la guerra è uno strumento idoneo a battere il terrorismo? La seconda è più propriamente giuridica: è sufficiente che il terrorismo sia riconosciuto come una minaccia alla pace perché possa legittimare una guerra?

La seconda questione riguarda il rapporto, che di solito si dà per scontato, tra la lotta al terrorismo internazionale e la minaccia di una guerra contro l'Iraq. Anche questa questione può essere scomposta in due domande. Innanzitutto, con quali argomenti si giustifica la guerra contro l'Iraq? perché l'Iraq appoggia il terrorismo, oppure perché è dotato o si sta dotando di armi di distruzione di massa? In secondo luogo: ammesso che questi presupposti siano provati, è legittimo in base ad essi una guerra preventiva?

La terza questione riguarda la natura dell'intervento armato che può essere autorizzato dal Consiglio di Sicurezza. Ammesso che nella condotta irachena ricorrano i presupposti per un uso della forza da parte dell'Onu, un simile uso della forza può consistere in una guerra? In altre parole: esiste una differenza, e in che cosa consiste, tra uso legittimo della forza da parte dell'Onu e guerra?

La quarta questione, infine, riguarda il senso del nostro "stare con l'Onu", e perciò la natura delle scelte che saremo chiamati a operare nell'ipotesi che, con o senza l'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, si arrivi a una guerra.

3. Guerra e terrorismo.- Cominciamo dalla prima questione. E' vero o no che il terrorismo è una minaccia alla pace? si chiedono Casini e Napolitano, richiamando subito dopo il nesso che lega la seconda parte del nostro articolo 11 e la previsione, nella Carta dell'Onu, di interventi armati contro minacce alla pace. Certamente si: il terrorismo è una minaccia alla pace. Ma una tale minaccia, dobbiamo aggiungere, se è una condizione necessaria, non è certo una condizione sufficiente a giustificare la guerra.

La questione si era già posta l'anno scorso, in occasione della guerra in Afghanistan. Dicemmo allora che nei confronti di un'organizzazione terroristica ramificata in decine di paesi la guerra - a parte qualunque considerazione di principio, morale o giuridica - è uno strumento del tutto inadeguato: idoneo a uccidere migliaia di persone innocenti ma non certo a sgominare, ma semmai ad alimentare, il terrorismo. I fatti ci hanno dato ragione, ed è incredibile che questo non sia riconosciuto da nessuno di quanti allora sostennero la guerra con il fine di debellare il terrorismo. Certamente, la guerra contro l'Afghanistan è stata vinta e l'orribile regime dei talebani è stato abbattuto. Ma non era questo lo scopo della guerra, né poteva legittimamente esserlo. Rispetto al suo scopo, che era la sconfitta del terrorismo, la guerra è fallita: migliaia di civili innocenti sono stati uccisi, ma Osama bin Laden e il mullah Omar sono sopravvissuti. In ogni caso il terrorismo non è stato affatto, da quella guerra, debellato: tanto è vero che lo si continua a invocare come giustificazione di una nuova guerra. A cosa è servita allora la guerra dell'anno scorso? E come possiamo pensare che una nuova guerra riuscirebbe a raggiungere l'obiettivo fallito dalla prima? Oppure, visto che si sa che il terrorismo di Al Qaeda è presente in decine di paesi, dobbiamo rassegnarci alla terribile prospettiva di una guerra planetaria infinita, con milioni di morti? E chi ci assicura, poi, che una guerra infinita riuscirebbe a debellare le organizzazioni terroristiche, e non avrebbe invece l'effetto di assecondarle, alimentarle, moltiplicarle in una spirale senza fine?

La verità è che il fallimento della guerra è dovuto alla sua totale incongruenza rispetto ai fini dichiarati. E questa incongruenza del mezzo della guerra rispetto al fine è già di per sé un sintomo della sua illiceità giuridica, cioè del suo contrasto con la razionalità strumentale storicamente sedimentatasi nelle forme e nei principi fondamentali del diritto. Giacché il terrorismo non è equiparabile alla guerra, la quale è solo tra Stati ("publicorum armorum contentio", la definì Alberico Gentili), bensì un fenomeno criminale, che va affrontato non con la guerra ma con la scoperta e la punizione dei colpevoli, non con gli eserciti ma con la polizia, non con le bombe ma con il difficile accertamento delle responsabilità. E richiede perciò mezzi diversi dagli inutili e spettacolari bombardamenti dal cielo: il coordinamento internazionale delle polizie dei vari paesi, le capacità investigative occorrenti a identificare e a neutralizzare la rete complessa delle organizzazioni clandestine e delle loro complicità, l'isolamento politico dei gruppi armati e, ovviamente, quell'impiego della forza necessario a disarmarli e a catturarli. Richiede, soprattutto, l'asimmetria tra crimine e pena istituita dal diritto, la cui efficacia e la cui forza simbolica risiedono precisamente nel suo interporsi nel ciclo altrimenti inarrestabile della violenza terroristica, della vendetta e della guerra, configurandosi nelle forme, rispetto a queste asimmetriche e alternative, della sanzione e della giurisdizione penale.

La guerra, al contrario, può soddisfare il desiderio di vendetta, può magari far vincere le elezioni, può servire a esorcizzare le paure, o anche a mettere le mani sul petrolio o a sperimentare nuove armi e ad esibire potenza e ruolo imperiale. Ma è del tutto controproducente come mezzo di difesa nei confronti dei terroristi. Per questo essa è tutto fuorché quella misura coercitiva non diciamo "necessaria", ma anche solo "adeguata" che è richiesta dall'art.42 della Carta dell'Onu "per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale".

4. Terrorismo internazionale e questione irachena.- Veniamo quindi alla seconda questione. Che rapporto c'è tra la lotta al terrorismo e l'attacco all'Iraq? Il presidente Bush e i suoi sostenitori hanno avuto l'abilità di mescolare la questione del terrorismo internazionale con quella dell'Iraq come se fossero la stessa, identica cosa. Sono così riusciti a mobilitare le paure dei cittadini americani a sostegno della guerra, quale che sia e pur che sia. Ora, ammesso - pur se non concesso ed anzi, come ho appena detto, escluso - che il terrorismo giustifichi la guerra, come si può usare un tale argomento per scatenare una guerra contro l'Iraq senza che ci siano prove che questo paese sia collegato al terrorismo di Al Qaeda, più di quanto non lo siano l'Arabia Saudita o decine di altri paesi tra i sessanta indicati dai servizi segreti americani come luoghi nei quali è ramificata la rete terroristica?

Certamente, Saddam Hussein è un orrendo dittatore, la cui cacciata sarebbe benefica per il popolo iracheno. Ma non può essere questa, sulla base della Carta dell'Onu e perfino del diritto internazionale del vecchio modello Westfalia, una giustificazione della guerra. Resta l'ipotesi, pur giudicata improbabile dai precedenti ispettori (3), che Saddam Hussein disponga di armi di distruzione di massa: ipotesi che il Consiglio di Sicurezza, con la sua risoluzione 1441 dell'8 novembre, ha dato incarico di accertare, nella maniera più approfondita, a una nuova commissione di ispettori. La domanda che dobbiamo porci è se sia legittima un'autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell'Onu a una guerra preventiva, qualora l'esito delle ispezioni fosse giudicato insoddisfacente.

Ora è ben vero che l'esistenza di simili armi, da chiunque detenute e soprattutto se in possesso di un dittatore irresponsabile, rappresenta una minaccia alla pace, e sarebbe opportuno e lungimirante procedere a una loro distruzione generalizzata. E tuttavia questa minaccia non è certo sufficiente a legittimare l'autorizzazione di una guerra preventiva. Sia il Consiglio di Sicurezza che la Corte internazionale di giustizia hanno più volte non soltanto escluso, ma condannato non diciamo la guerra ma perfino singole azioni militari intraprese contro l'astratto pericolo di un'aggressione da parte di Stati sospettati di essere in possesso di armi di distruzione di massa. C'è perfino un precedente che riguarda l'Iraq di Saddam Hussein: il 19 giugno 1981 il Consiglio di Sicurezza adottò, con il voto anche degli Usa, una risoluzione di condanna dell'attacco israeliano al reattore atomico Osiraq, vicino a Bagdad, respingendo la tesi di Israele secondo cui l'azione era stata giustificata dalla "necessità di difendersi dalla costruzione di una bomba atomica in Iraq" (4).

Il possesso di armi di distruzione di massa non sarebbe dunque sufficiente a giustificare una guerra preventiva, neppure se autorizzata dal Consiglio di Sicurezza. Armi di distruzione di massa sono detenute da decine di paesi, molti dei quali governati da dittatori. D'altro canto, l'ipotesi di una guerra di difesa preventiva, cioè finalizzata a prevenire l'impiego di tali armi in un possibile attacco dell'Iraq all'Occidente, è del tutto assurda, essendo tale attacco inverosimile; il solo pericolo semmai, qualora Saddam possedesse simili armi, sarebbe che ne facesse uso proprio se provocato dalla cosiddetta guerra "preventiva". Ma è l'idea stessa di una guerra preventiva o di un diritto di difesa preventiva che è radicalmente esclusa dalla Carta dell'Onu: il cui articolo 51 prevede soltanto, come presupposto del "diritto naturale di autotutela", "che abbia luogo un attacco armato".

5. Guerra e uso legittimo della forza.- Vengo ora alla terza questione all'inizio enunciata. Ammesso - e di nuovo non concesso, ed anzi nuovamente escluso - che esistano i presupposti per un intervento armato contro l'Iraq sotto l'egida dell'Onu, potrebbe esso avere, come purtroppo hanno avuto i tre interventi dello scorso decennio (contro l'Iraq, la Serbia e l'Afghanistan), la natura della guerra, con bombardamenti aerei, migliaia di vittime civili, devastazioni dell'ambiente e delle strutture produttive dei paesi aggrediti?

La risposta, ovviamente, è no. Ma non nel senso che si debba semplicemente non chiamare guerra, come sembra proporre Napolitano, ma "azione coercitiva internazionale" o "intervento di polizia internazionale" quella medesima cosa che ha tutti i caratteri della guerra, che è stata sperimentata nelle tre guerre degli scorsi anni e che ci si appresta a ripetere, con enormi spiegamenti di forza, nei confronti dell'Iraq. Questo è un gioco di parole, una truffa delle etichette già perpetrata nel corso della guerra in Afghanistan, rispetto alla quale è senz'altro preferibile la schiettezza di quanti chiamano la medesima cosa con il suo nome: "guerra", appunto. Preferibile, se non altro, perché la truffa delle etichette, oltre alla degradazione dei nemici a criminali, ha avuto l'effetto ulteriore di consentire la non applicazione ai nemici-criminali-terroristi del diritto umanitario di guerra: si pensi solo alle gabbie di Guantanamo nelle quali, in violazione delle convenzioni di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra, sono stati internati, con inammissibili vessazioni e mortificazioni, i talebani catturati.

Evidentemente, l'uso legittimo della forza previsto dagli articoli 42-48 della Carta dell'Onu per "mantenere la pace" non può che essere una cosa ontologicamente diversa dalla guerra. Diciamo dunque che esso non può essere una guerra, e non semplicemente, come scrive Napolitano in un secondo intervento apparso sull'"Unità" dell'9 novembre (5), che "non può essere chiamato guerra". "Per la contraddizione che non lo consente", come Napolitano aggiunge: ma nel senso che ciò che è in contraddizione con il fine del mantenimento della pace è che si faccia la guerra, e non che si chiami "guerra" ciò che appunto è una guerra.

Certo, può sembrare difficile identificare la differenza tra la guerra e l'"azione coercitiva internazionale" che, secondo l'articolo 42 della Carta, può essere intrapresa con "forze aeree, navali o terrestri"; tanto più che una simile azione presupporrebbe l'attuazione, finora mancata, dell'intero capitolo VII, a cominciare dall'istituzione del "Comitato di stato maggiore", investito dall'articolo 47 della "responsabilità della direzione strategica" dell'intervento "alle dipendenze del Consiglio di Sicurezza". Ma la differenza tra le due cose resta chiarissima, sia nella sostanza che nelle forme.

Innanzitutto l'impiego della forza previsto dalla Carta dell'Onu non può essere diretto a debellare il nemico, ma solo a neutralizzarlo ove ciò sia necessario "per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale". Deve trattarsi, in altre parole, di un uso controllato e limitato della forza, che escluda comunque il sacrificio di persone innocenti. In secondo luogo tale uso della forza deve svolgersi costantemente sotto la direzione del Consiglio di Sicurezza. La mancata attuazione del capitolo VII della Carta - la cui responsabilità, sia detto per inciso, ricade interamente sulle grandi potenze - non toglie affatto, ma al contrario comporta che il Consiglio non possa delegare interamente la gestione dell'intervento a uno o più Stati membri, ma debba al contrario mantenerne costantemente la direzione e il controllo, decidendo i mezzi da impiegare, l'inizio e la fine delle operazioni e tutte le fasi intermedie. "Il Consiglio di Sicurezza", dice l'articolo 53 con riferimento all'impiego di forze diverse da quelle previste dal capo VII, quali quelle istituite da accordi o da organizzazioni regionali (per esempio la Nato), "utilizza" tali forze "per azioni coercitive sotto la sua direzione", nessuna delle quali, aggiunge, "potrà venire intrapresa... senza la (sua) autorizzazione".

Basterebbe questo a escludere come illegittima una risoluzione dell'Onu che avesse previsto un qualche nesso automatico, come pretendevano gli Stati Uniti, tra la (valutazione della) sua violazione e (non diciamo la guerra ma) l'azione coercitiva internazionale. Ma, soprattutto, basta questo ad escludere come illegittima un'interpretazione della risoluzione 1441 dell'8 novembre, subito avanzata dai falchi statunitensi e fatta propria da esponenti della nostra destra, che vedesse un'implicita autorizzazione all'intervento armato nelle "serie conseguenze" in essa minacciate in caso di sue violazioni da parte dell'Iraq. Simili automatismi sono infatti esclusi inequivocabilmente, oltre che dai già menzionati articoli 47 3^ comma e 53 della Carta, dall'articolo 48, secondo il quale "l'azione necessaria per eseguire le decisioni del Consiglio di Sicurezza per il mantenimento della pace" deve essere intrapresa "secondo quanto stabilisca il Consiglio di sicurezza" medesimo. Se così non fosse una tale azione scadrebbe, inevitabilmente, nella guerra - la guerra per mantenere la pace! - come purtroppo è accaduto nelle precedenti guerre del decennio, a cominciare dalla prima guerra del Golfo.

Insomma, l'appello al diritto formulato dal pacifismo giuridico non equivale affatto alla rinuncia all'uso della forza. Al contrario, il diritto è precisamente la regolazione della forza: è la sua limitazione ai soli casi e nella sola misura in cui è necessaria per minimizzare la violenza; è il suo monopolio giuridico in capo a un organismo terzo e super partes; è la garanzia che il suo impiego non colpisca gli innocenti. E', in breve, la negazione della guerra, che è per sua natura violenza illimitata, sregolata e indiscriminata, così come la guerra è la negazione del diritto. Ed è, oltre tutto, il solo mezzo efficace per fronteggiare il terrorismo e le altre minacce alla pace.

6. Il futuro del diritto internazionale.- Infine, la quarta e ultima questione. Giorgio Napolitano raccomanda "fiducia nella capacità del Consiglio di Sicurezza di valutare tutti i rischi, i costi, le implicazioni di un'azione militare e di risolversi ad autorizzarla (almeno 9 Stati membri su 15) solo in caso di estrema, ineludibile necessità". Dopo quanto si è detto, dovrebbe essere chiaro che un simile caso "di necessità" non è oggi all'ordine del giorno. Il Consiglio di sicurezza, è opportuno ricordare, non è un sovrano assoluto. E' sottoposto alla Carta dell'Onu, sulla base della quale mancano oggi i presupposti perfino di quell'azione coercitiva che è prevista dal suo capitolo VII e che, comunque, non potrebbe mai essere una guerra.

Che vuol dire, allora, aver fiducia nell'Onu? Se ci sarà una guerra, i casi saranno due: o sarà un illecito dei soli Stati aggressori, oppure sarà un illecito cui avrà concorso, con il suo avallo, il Consiglio di Sicurezza. E in questo secondo caso, ben più grave e disastroso per il futuro del diritto internazionale, come potremmo avere fiducia nel Consiglio di Sicurezza che avesse avallato la guerra, ben sapendo che esso è stato sottoposto dal presidente americano alle pressioni sprezzanti, al limite dell'ultimatum ("non esiteremo ad agire da soli", "stiamo perdendo la pazienza"), che tutti abbiamo letto sui giornali?

Ma fortunatamente non siamo ancora a questo punto. Un'esplicita autorizzazione della guerra da parte del Consiglio di Sicurezza non c'è stata ed è probabile che non ci sarà. E allora, la questione su cui occorre confrontarsi, e sulla quale la sinistra rischia assurdamente di dividersi non è, genericamente, se dobbiamo o meno uniformarci alle decisioni dell'Onu, ma quali sono il significato e il fondamento di tali decisioni. Le questioni, precisamente, sono due, l'una subordinata all'altra.

Prima questione: le "serie conseguenze" di cui parla il punto 13 della risoluzione 1441 alludono a un'implicita, ipotetica e illegittima autorizzazione di un attacco armato in caso di fallimento delle ispezioni, oppure richiedono - in conformità alla Carta dell'Onu, e come hanno dichiarato i rappresentanti della Francia, della Russia e della Cina in un comunicato del 9 novembre - di essere deliberate con una seconda, apposita risoluzione? In concreto, tutte le varie forze politiche che in Italia dichiarano di schierarsi con l'Onu - Pier Ferdinando Casini e Giorgio Napolitano, per esempio - cosa faranno se gli Stati Uniti, sulla base di un'interpretazione chiaramente illegittima della risoluzione, decideranno di attaccare? Si accoderanno, oppure si opporranno, invocando, l'art.53 della Carta dell'Onu, secondo cui "le azioni coercitive" si svolgono "sotto la direzione" del Consiglio di Sicurezza, senza la cui "autorizzazione", deliberata evidentemente da un'esplicita e autonoma risoluzione, "nessuna azione coercitiva potrà venire intrapresa"?

Seconda questione, che si spera non si porrà mai: che fare, se ci si schiera con l'Onu, di fronte a una seconda risoluzione del Consiglio di Sicurezza che domani, ove si ritenessero fallite le ispezioni, esplicitamente autorizzasse la guerra? Per rispondere a questa domanda dobbiamo intenderci su che cosa vuol dire "schierarsi con l'Onu". Vuol dire stare dalla parte dell'ordinamento dell'Onu, quale risulta dalla sua Carta statutaria, oppure, aprioristicamente, dalla parte di un Consiglio di Sicurezza pur se esso autorizzasse una guerra in assenza dei presupposti e delle forme previste dalla Carta? Ovviamente vuol dire schierarsi in difesa dell'ordinamento dell'Onu, anziché delle sue violazioni. Ma anche questo non è affatto chiaro nel senso comune che si è venuto (de-)formando intorno all'Onu, e che sembra accomunare sia i sostenitori che gli oppositori della guerra. "Lei riconosce all'Onu", ha chiesto Bruno Vespa agli invitati in una sua trasmissione, "il diritto di decidere la guerra"? E tutti hanno risposto di si, pur dividendosi tra quanti avrebbero accettato e quanti avrebbero rifiutato una simile decisione, senza neppure porsi il problema della sua possibile illegittimità.

Ritorniamo a questo punto all'articolo 11 della nostra Costituzione. E' ben vero che esso deve essere letto per intero. Ma la sua seconda parte non deroga affatto alla prima, essendo la guerra ripudiata dalla Carta dell'Onu non meno che dalla nostra Carta costituzionale. Del resto le due carte nacquero nella stessa temperie storica e ideale e coincidono in parte perfino sul piano letterale. Le parole "come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali" del nostro articolo 11 sono infatti riprese dall'articolo 1, primo comma della Carta dell'Onu. E la sola eccezione da entrambe ammessa al divieto della guerra è la legittima difesa da un'aggressione in atto, prevista dall'art.51 della Carta dell'Onu e dall'art.52 della nostra Costituzione. Non solo: l'art.2, 4^ comma della Carta dell'Onu vieta non soltanto "l'uso", ma anche "la minaccia" dell'uso della forza.

Tutto questo vuol dire che se ci sarà la guerra essa sarà, comunque, una violazione della Carta dell'Onu e, per quanto ci riguarda, ove l'Italia aderisse, della nostra Costituzione. Sarà, sulla base dell'art.5, lettera d) dello Statuto della Corte penale internazionale entrato quest'anno in vigore, un "crimine di aggressione". Ma si tratterà, ben più che di un crimine, di una pesante ipoteca sul futuro del nostro pianeta. Giacché la lesione del diritto internazionale, più ancora di quanto non sia avvenuto con le altre guerre, sarebbe in questo caso a tal punto clamorosa e premeditata da configurarsi non già come un costo ma come un obiettivo, volto evidentemente a rifondare le relazioni internazionali non più sull'Onu ma sul dominio militare della superpotenza americana e sulla sovranità assoluta del suo presidente, nuovamente investito dell'antico, illimitato, diritto di guerra. L'idea di un "nuovo ordine" basato sul modello americano - "libertà, democrazia e libera impresa" - come unico modello legittimo, da imporre se lo si ritiene anche con le armi, è del resto apertamente espressa nel documento strategico inviato in settembre dal presidente Bush al congresso degli Stati Uniti. La domanda drammatica cui dovremo allora rispondere riguarda la natura di questo "nuovo ordine". Auspicabile o deprecabile che sia, è realistica una sua qualche attuazione? E' pensabile che il mondo possa essere governato con la guerra? O non ci attende, su questa strada, oltre a una guerra infinita, un futuro di violenze e di terrorismi, di infinite e sempre più terribili minacce alla pace e alla nostra stessa sicurezza?


Note

*. Da La rivista del Manifesto, 34, dicembre 2002, pp. 20-25.

1. "Con la fine dell'equilibrio del terrore", ha scritto Habermas, "sembra che sul piano della politica internazionale della sicurezza e dei diritti umani si sia dischiusa - nonostante tutti i contraccolpi - una prospettiva per ciò che C.F. von Weizsäcker ha definito 'politica interna del mondo' [Weltinnenpolitik]" (Die Einbeziehung des Anderen (1996), tr.it. di L. Ceppa, L'inclusione dell'altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano 1998, p.139. L'espressione è ripresa in J.Habermas, Die postnationale Konstellation (1998), tr.it. di L.Ceppa, La costellazione post-nazionale. Mercato globale, nazioni e democrazia, Feltrinelli, Milano 1999, pp.26 e 90-101. Si veda anche L.Bonanate, 2001: la politica interna del mondo, in "Teoria politica", XVII, 2001, n.1, pp.20-21 e il mio Per una sfera pubblica del mondo, ivi, n.3, pp.3-21.

2. P.F.Casini, La Costituzione non ci obbliga ad essere inermi, in "La Repubblica", 26.10.2002, pp.1 e 17; G.Napolitano, La guerra giusta esiste, in "l'Unità", 5.11.2002, pp.1 e 20.

3. Come ha ricordato L.Magri, La guerra preventiva, in questa rivista, n.32, ott.2002, p.3, una commissione dell'Onu incaricata di accertare il potenziale militare dell'Iraq concluse che esso era ridotto al dieci per cento rispetto a quello precedente alla guerra del Golfo.

4. Il caso è illustrato da A. Di Blase, Guerra preventiva e diritto internazionale, in corso di stampa, p.14 del dattiloscritto, ove sono altresì ricordate numerose risoluzioni del Consiglio di Sicurezza e pronunce della Corte internazionale di giustizia che hanno sempre escluso la legittimità di azioni di difesa preventiva.

5. G.Napolitano, Le azioni dell'Onu non sono guerra, in "l'Unità", pp.1 e 31.