2011

Tutela della pace o (ri)legittimazione della guerra giusta?
Kelsen e il diritto internazionale preso sul serio (*)

Tecla Mazzarese (**)

«L'eliminazione della guerra è [...] un problema di politica internazionale e il più importante strumento di politica internazionale è il diritto internazionale» (1).

«Colui che voglia avvicinarsi in modo realistico all'obiettivo della pace mondiale deve affrontare questo problema con equilibrio, come problema di lento e costante perfezionamento dell'ordinamento giuridico internazionale» (2).

1. La traduzione italiana delle Holmes Lectures del 1940-41

Negli ultimi vent'anni la guerra è (ri)diventata un fenomeno di ordinaria amministrazione tanto da non richiedere più troppi sforzi nell'invenzione di nuove acrobazie onomastiche per dissimularla come qualcosa di diverso da quello che realmente è (3). In un simile contesto, dubito che la pubblicazione della traduzione di un'opera come Diritto e pace nelle relazioni internazionali di H. Kelsen, delle sue Holmes Lectures tenute nel 1940-1941 appena emigrato negli Stati Uniti, possa davvero contribuire a richiamare l'attenzione (come suggerisce nel saggio introduttivo il suo traduttore C. Nitsch (4) e come anch'io in altre occasioni mi sono augurata (5)) sui termini nei quali il diritto sia o possa essere uno strumento per il mantenimento della pace, e, in particolare, sui termini nei quali, indipendentemente da quelli utilizzati dallo stesso Kelsen, sia ancora possibile, oggi, rivendicare e difendere il suo assunto della "pace attraverso il diritto".

Nondimeno, se non a una riflessione sulle "ragioni giuridiche del pacifismo" (6) che metta a confronto gli argomenti e le proposte di Kelsen con gli argomenti e le proposte di filosofi, giuristi e politologi che, come ad esempio N. Bobbio, J. Habermas, L. Ferrajoli, A. Cassese, R. Falk, E. Garzón Valdés ne hanno suggerito, secondo i casi, una riformulazione, una correzione, un'integrazione o uno sviluppo, mi auguro, e lo auguro a Nitsch che l'ha curata con grande attenzione e perizia, che la traduzione di quest'opera contribuisca almeno, e questo sarebbe sicuramente un importante risultato scientifico, a richiamare l'attenzione su un aspetto della produzione di Kelsen, quella, cioè, del Kelsen filosofo del diritto internazionale e politico del diritto (7), spesso sottovalutata e considerata sussidiaria o marginale rispetto a quella del Kelsen teorico della reine Rechtslehere.

Nonostante, come è già stato sottolineato da M. Losano (8) e da C. Nitsch (9), la bibliografia ufficiale curata dallo Hans Kelsen-Institut, sia composta più da lavori di diritto internazionale (106) e di diritto costituzionale (92) che non da lavori di teoria generale del diritto (96), le tesi di filosofia del diritto internazionale e di politica del diritto di Kelsen, infatti, raramente sono state oggetto di un'analisi che non fosse pesantemente condizionata e manifestamente subordinata dall'intento di vagliare criticamente la pretesa scientificità e avalutatività della reine Rechtslehre; raramente, cioè, sono state oggetto di un'analisi che si proponesse di ricostruirne l'impianto complessivo nella specificità, (in)coerenza ed eventuale problematicità della loro autonoma articolazione.

E' così, in particolare, anche nella letteratura italiana dove, significativamente, le traduzioni dei lavori di filosofia del diritto internazionale di Kelsen, spesso portate a termine a distanza di molti anni dalla loro apparizione, sono ancora rare, e, fino ad oggi, pubblicate a grandi intervalli di tempo le une dalle altre: sono di vent'anni fa, infatti, le prime due del 1989 e la terza del 1990, sia la traduzione di A. Carrino del saggio del 1920 Il problema della sovranità, sia quelle di L. Ciaurro del saggio del 1947 Il processo di Norimberga e il diritto internazionale e del saggio del 1944 La pace attraverso il diritto; ed è di dieci anni successiva, del 1999, la pubblicazione di Diritto internazionale e Stato sovrano, il volume curato da Losano che raccoglie saggi di Kelsen e del suo allievo U. Campagnolo.

Ora, a dieci anni dalla pubblicazione del volume curato da Losano, la traduzione di Diritto e pace nelle relazioni internazionali offre una nuova tessera, una tessera d'importanza tutt'altro che secondaria, per un'analisi che si proponga di ricostruire il puzzle dell'intero impianto della filosofia del diritto internazionale di Kelsen (10). Un puzzle indubbiamente complesso nel quale alcune tessere appaiono ridondantemente doppie (anche se in realtà non sempre sono del tutto identiche) e, altre, invece, reciprocamente incompatibili; un puzzle, in ogni caso, in relazione al quale, per capire dove e come collocare alcune delle sue tessere più importanti, può essere d'aiuto, per quanto quest'affermazione possa forse suonare paradossale, prestare attenzione ai fattori che negli ultimi vent'anni testimoniano di un'insofferenza, sempre più diffusa e manifesta, nei confronti dell'ispirazione pacifista del diritto internazionale del secondo dopoguerra (§ 2.).

In particolare, fare riferimento a questi elementi può essere utile, innanzitutto, per richiamare la distinzione fra due sensi molto diversi ai quali è possibile ricondurre la varietà di concezioni in cui, nel corso dei secoli, la dottrina della guerra giusta ha trovato espressione e per cercare di chiarire, in relazione a questa distinzione, qual è il senso che le può essere attribuito nei testi nei quali Kelsen ne fa menzione (§ 3.). E ancora, precisati i termini in cui parla di dottrina della guerra giusta (senza peraltro svilupparne o articolarne una propria concezione particolare), gli stessi elementi possono essere utili per individuare e distinguere i tre principali profili in relazione ai quali Kelsen sviluppa la propria analisi del rapporto fra diritto e pace (§ 4.). Non da ultimo, sempre gli stessi elementi possono essere utili anche per riscattare il pacifismo giuridico (kelseniano) dalle critiche di ingenuo idealismo normativo di cui è (stato) fatto bersaglio dal parte del (neo)realismo (§ 5.).

2. Crisi e contestazione del pacifismo giuridico nel nuovo (dis)ordine internazionale

Il 9 novembre 1989, poco più di vent'anni fa, il crollo del muro di Berlino segnava, simbolicamente, la fine della guerra fredda. In quei giorni molti pensarono e scrissero che finalmente era "scoppiata la pace". In realtà, inaspettatamente, anche se forse non del tutto sorprendentemente, con la conclusione della guerra si è invece assistito ad un progressivo capovolgimento dell'ideologia che nel secondo dopoguerra, con la Carta dell'Onu del 1945 e con la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948, aveva proclamato la messa al bando della guerra e rivendicato la pace attraverso i diritti. Con la conclusione della guerra fredda, infatti, nel nuovo (dis)ordine internazionale che si è andato delineando, si è progressivamente affermata una nuova ideologia, opposta e contraria alla precedente, improntata alla (ri)legittimazione della guerra (anche ma non solo) in nome della tutela dei diritti; una "ideologia capovolta", come icasticamente sintetizza M. Bovero, «dalla pace attraverso i diritti ai diritti attraverso la guerra» (11).

La prima guerra del Golfo, quella del 1991, la guerra del Kosovo del 1999, le guerre contro l'Afghanistan del 2001 e contro l'Iraq del 2003 (l'una e l'altra ancora in corso anche se di entrambe già alcuni anni fa, avventatamente, era stata proclamata la conclusione e rivendicata la vittoria), la ricorrente minaccia di un nuovo conflitto contro l'Iran e, secondo le tensioni del momento, quella di un possibile conflitto contro lo Yemen e/o contro la Corea del Nord (12), testimoniano, tutte, pur nella specifica diversità degli argomenti di volta in volta utilizzati per giustificarle, una sempre più manifesta indifferenza, quando non addirittura un'esplicita contestazione, dell'impianto pacifista della Carta dell'Onu; un'insofferenza sempre meno dissimulata tanto nei confronti del netto e radicale ripudio della guerra, consentita, e a condizioni molto restrittive, esclusivamente nel caso di legittima difesa (art. 51), quanto nei confronti del divieto anche solo della minaccia dell'uso della forza nelle relazioni internazionali (art. 2).

Tale insofferenza nei confronti dell'impianto pacifista della Carta dell'Onu e, più in generale, di buona parte del diritto internazionale del secondo dopoguerra, non trova conferma solo nelle scelte dei governi dei paesi che hanno preso parte alle guerre e/o che hanno formulato le minacce di nuovi possibili conflitti armati degli ultimi due decenni (nelle scelte, cioè, dei governi dei paesi di un'alleanza Nato sempre più ipertrofica ed egemone (13)), ma anche, e non meno significativamente, nei commenti, nelle riflessioni e nelle analisi di diversi ambiti disciplinari sugli scenari dell'assetto internazionale successivo alla conclusione della guerra fredda.

Tre, in particolare, gli elementi di maggiore rilievo in questa letteratura di per sé vasta ed eterogenea nella pluralità di discipline delle quali è espressione: (a) le disinvolte invenzioni linguistiche per dissimulare o negare che alcuni dei conflitti armati degli ultimi vent'anni siano, a pieno titolo, guerre (§ 2.1.); (b) la (ri)proposizione della dottrina della guerra giusta nella sua variante etica (§ 2.2.); (c) la contestazione della messa al bando della guerra d'aggressione da parte del diritto (inter)nazionale e il suo esito (non voluto) di un pieno riscatto di ogni guerra come guerra giusta (§ 2.3.).

2.1. "La guerra è pace": i rinnovati fasti della neolingua orwelliana

Il primo elemento, forse il più inquietante e sicuramente il più insidioso della letteratura alla quale si sta qui facendo riferimento, è quello delle acrobazie onomastiche di chi, sulla falsariga della neolingua di G. Orwell di 1984, pretende che alcune delle guerre degli ultimi due decenni siano (state) operazioni di pace (14). Di chi, in particolare, ignorando se non addirittura negando la vasta e diffusa violazione dei diritti delle popolazioni coinvolte, vanta merito delle pretese operazioni di pace in nome della tutela dei diritti di donne, bambini e cittadini dei quali si lamenta che la libertà e la dignità siano mortificate da regimi totalitari o da quelle stigmatizzate come "riprovevoli" tradizioni culturali o religiose.

Il riferimento non è solo, prima dell'attentato del 2001 alle Twin Towers di New York, alla guerra del Kosovo, guerra in relazione alla quale sin dall'inizio la Nato ha rivendicato una giustificazione etica per bilanciare il suo carattere manifestamente illegittimo; il riferimento è anche, dopo l'attentato del 2001, alle guerre contro l'Afghanistan e contro l'Iraq, guerre, queste, in relazione alle quali il richiamo alla tutela dei diritti (di donne, bambini, dissidenti politici) e all'"esportazione della democrazia" ha giocato un ruolo sussidiario e di rincalzo, via via sempre più determinante man mano che le motivazioni originarie di quei conflitti (le motivazioni, cioè, della lotta al terrorismo e della difesa della sicurezza internazionale) hanno cominciato ad apparire progressivamente sempre meno fondate e convincenti (15).

2.2. La "guerra giusta" in nome del primato dell'etica sul diritto

Il secondo elemento della letteratura alla quale si sta qui facendo riferimento è quello della riaffermazione della dottrina della guerra giusta non nel senso di chi la identifica o la confonde con la regolamentazione giuridica della guerra (compreso il caso in cui il diritto vieti qualunque forma di guerra ad eccezione di quella per legittima difesa), ma al contrario, nel senso di chi, in aperto dissenso con la messa al bando della guerra sancita dall'art. 51 della Carta dell'Onu, rivendica, proponendone a volte un dettagliato catalogo, le ragioni politiche se non addirittura etiche che, indipendentemente da qualsiasi criterio giuridico di legittimità, non solo giustificherebbero ma addirittura renderebbero necessario il ricorso alla guerra. Esemplare, in tal senso, ma la letteratura in proposito è davvero vasta (16), What We're Fighting for, il manifesto del 2002 a sostegno delle "buone ragioni" dell'operazione Enduring Freedom, scritto da M. Walzer e firmato da sessanta fra i più noti e celebrati intellettuali nordamericani (17).

2.3. La "guerra giusta" come esito della contestazione (del pacifismo giuridico e) della criminalizzazione della guerra d'aggressione

Il terzo elemento della letteratura alla quale si sta qui facendo riferimento è quello, infine, della contestazione, netta e radicale, della "criminalizzazione della guerra di aggressione"; della contestazione, cioè, del principio del diritto internazionale (ma anche del diritto statale interno di molte democrazie costituzionali) che nel secondo dopoguerra ha sancito il ripudio della guerra. Esplicito, in chi propone tale contestazione, il richiamo a C. Schmitt e alla sua tesi secondo la quale la «negazione giuridica della guerra, senza una sua effettiva limitazione, ha come unico risultato quello di dar vita a nuovi tipi di guerra, verosimilmente peggiori, di portare a ricadute nella guerra civile o ad altre forme di guerra di annientamento» (18). In particolare, precisa D. Zolo che ne condivide e ne ripropone la tesi, secondo Schmitt «la criminalizzazione della guerra di aggressione è un ritorno alla nozione di bellum justum e all'intera tematica medievale della justa causa che Francisco de Vitoria aveva rielaborato per giustificare la conquista del nuovo mondo da parte delle potenze cattoliche» (19).

Tesi singolare, quella in esame, e non solo perché non sembra prestare eccessiva attenzione alla distinzione fra concezione giuridica e concezione etica (o comunque metagiuridica) del bellum justum; distinzione, questa, senza la quale non sarebbe neppure possibile render conto della posizione di chi, come nel caso già menzionato della guerra del Kosovo, rivendica il proprio intervento armato come guerra giusta sotto il profilo etico, perché, sotto quello giuridico, è illegittimo (20).

Tesi singolare, quella in esame, soprattutto perché, per un verso, disorienta il riferimento a Schmitt e, per altro verso, disorienta ancora di più il suo stesso assunto. In particolare, per un verso disorienta il riferimento a Schmitt, pensatore che, nonostante l'accorato monito riguardo ai possibili esiti nefasti della criminalizzazione della guerra, con le proprie opere ha elaborato un apparato teorico-concettuale nel quale ha trovato fondamento la politica espansionistica della Germania nazista di A. Hitler, la politica, cioè, che ha innescato il secondo conflitto mondiale (21). E, per altro verso, disorienta proprio per ciò che rivendica: non è chiaro, infatti, come l'astenersi dal vietare la guerra d'aggressione (per quanto, come a ragione lamenta Zolo, sia difficile un accordo sulla definizione della sua nozione (22) e per quanto un tale divieto sia stato reiteratamente violato (23)) possa di per sé scongiurare la radicalizzazione (nelle forme, nei modi e negli esiti) dei conflitti armati.

E infine, tesi singolare quella in esame, perché, per scongiurare il rischio che con la criminalizzazione della guerra d'aggressione possa proporsi una (nuova) versione della dottrina della guerra giusta, finisce con l'auspicare una situazione nella quale (non diversamente da quanto sancito dalla pace di Westfalia del 1648) ogni guerra diventa lecita e giusta se ed in quanto il diritto (inter)nazionale non vieti agli Stati, o alle loro mutevoli alleanze, di farvi ricorso ogni qualvolta lo ritengano utile o opportuno. Richiamando esplicitamente la posizione di Kelsen (24), un rilievo analogo è già stato formulato da Bobbio là dove scrive che «l'effetto dell'abbandono della dottrina della guerra giusta non [è] il principio: "Tutte le guerre sono ingiuste", ma esattamente il principio opposto: "tutte le guerre sono giuste"» (25).

3. Kelsen e la dottrina della guerra giusta

Sia la rinnovata fortuna di cui è stata oggetto la dottrina della guerra giusta per reclamare, in aperto contrasto con qualsiasi contestazione ne abbia denunciato il carattere giuridicamente illegittimo, le "motivazioni etiche" delle guerre degli ultimi vent'anni (§ 2.2.), sia, simmetricamente, i termini in cui, anche in ragione del timore di una riaffermazione della dottrina della guerra giusta, trova espressione la tesi che contesta la scelta di criminalizzare la guerra d'aggressione (§ 2.3.), testimoniano, l'una e gli altri, della necessità di distinguere due sensi di "guerra giusta", due nozioni radicalmente diverse l'una dall'altra sia per la loro connotazione ideologica sia, ancora più significativamente, per i diversi esiti pratici che l'una e l'altra possono veicolare. La distinzione fra queste due nozioni, indipendentemente dalle possibili varianti dell'una e dell'altra, è necessaria non solo, in generale, per orientarsi fra le differenti interpretazioni dei fattori che storicamente hanno spesso contribuito a contestare le "buone ragioni" del pacifismo giuridico, ma anche, in particolare in questa sede, per valutare l'(in)coerenza dei termini nei quali Kelsen ha tematizzato e rivendicato il pacifismo giuridico nella propria filosofia del diritto internazionale (§ 3.2. e poi ancora § 4.).

3.1. "Guerra giusta": due nozioni a confronto

Una prima nozione di "guerra giusta", nozione che corrisponde all'uso ciceroniano di "bellum justum", è quella secondo la quale una guerra è giusta se è possibile indicarne il fondamento giuridico, se, cioè, è dichiarata (e combattuta) conformemente a quanto è stabilito dal diritto (inter)nazionale. In questa sua prima accezione, cioè, "guerra giusta" non significa altro che guerra giuridicamente legittima.

Una seconda nozione di "guerra giusta", nozione oggi ricorrente anche nell'uso comune, è quella secondo la quale una guerra è giusta se è possibile individuarne una giustificazione politica, morale, etica o teologica indipendente da (e in ogni caso preminente rispetto a) quanto il diritto (inter)nazionale preveda o possa stabilire. In questo senso, alla fine degli anni novanta del novecento, un caso paradigmatico di guerra rivendicata come guerra giusta è stata quella della Nato in Kosovo; una guerra, questa, come si è già sottolineato (§ 2.), mossa in aperta e consapevole violazione del diritto internazionale vigente. In generale, in quest'accezione del termine, offrono un esempio paradigmatico di guerra giusta tanto la jihad rivendicata da alcune espressioni dell'integralismo islamico quanto, simmetricamente, la "guerra infinita" iniziata dall'amministrazione statunitense sotto la presidenza di G.W. Bush e teorizzata (in nome della necessità di difendere i valori "occidentali" della libertà e della democrazia (26)) da quella che può essere considerata una forma di "integralismo occidentale".

La prima delle due nozioni di "guerra giusta", pur nella varietà delle sue possibili concezioni, individua una categoria giuridica. La seconda delle due nozioni di "guerra giusta", pur nella varietà delle sue possibili concezioni, individua, invece, una categoria metagiuridica. Per quanto, poi, tra la prima e la seconda nozione si possa determinare una tensione o si possa stabilire una pluralità di relazioni diverse, le due nozioni, come ho già sottolineato, sono nettamente distinte quando non diametralmente opposte come appare evidente nel caso di chi rivendichi criteri di (il)legittimità della guerra per evitare che ogni stato vi possa fare ricorso contro qualsiasi altro stato per qualsiasi motivo e chi, invece, in nome di presunti valori irrinunciabili e di sedicenti motivazioni etiche pretende di poter muover guerra indipendentemente da qualsiasi criterio di (il)legittimità stabilito dal diritto.

In un lavoro di non molti anni fa, la necessità di distinguere queste due nozioni di guerra giusta è stata non solo menzionata ma fortemente enfatizzata da B. Conforti che ha contestato la plausibilità della nozione che individua una categoria giuridica, e ha auspicato una più attenta riflessione sulla seconda nozione, su quella, cioè, che rinvia ad una categoria metagiuridica. In particolare, dopo aver negato che «[esistano] veramente principi di diritto positivo internazionale che regolino lo jus ad bellum, il diritto di fare la guerra, nel senso di negarlo oppure nel senso di ammetterlo», e dopo aver esortato a «prendere atto [...] dell'impossibilità per il diritto internazionale generale di esprimere valutazioni al riguardo» (27), Conforti ha ammonito infatti che «riprendere il tema della guerra giusta significa [...] riportare il discorso nella sua giusta sede [...], significa riportarlo nell'ambito del diritto naturale», precisando che si tratta «di riprendere, sviluppare ed adattare ai nostri tempi le eterne verità che teologi, canonisti e giusnaturalisti hanno per primi cercato di indicare» (28).

Ora, per quanto non esplicitamente tematizzata né diffusamente indagata, la distinzione delle due nozioni di guerra giusta non è meno netta in Kelsen che in Conforti. In particolare, in una prospettiva diametralmente opposta a quella indicata da Conforti, Kelsen si occupa infatti della guerra giusta in termini non metagiuridici, ma giuridici. La nozione di guerra giusta che è possibile registrare in Kelsen è, cioè, quella che individua una categoria giuridica, non quella che rinvia ad una categoria metagiuridica (29).

3.2. Kelsen: "guerra giusta" e messa al bando della guerra nel diritto internazionale del novecento

Prima di procedere all'individuazione di alcuni degli argomenti che consentono di confermare che in Kelsen quella di "guerra giusta" è solo una categoria giuridica, può essere utile segnalare un dato lessicale e sollevare un dubbio preliminare, di carattere generale.

Il dato lessicale, una spia linguistica ancor prima che una dirimente conferma di carattere concettuale, è l'uso in Kelsen della locuzione tedesca "rechtsmäßiger Krieg" (una locuzione, cioè, che, manifestamente, della guerra individua non un presunto fondamento etico quanto piuttosto un criterio giuridico di legittimità). E ancora, un'ulteriore conferma lessicale, del tutto coerente e conseguente con quella precedente, è offerta nella nota in cui, nel 1952, in Principle of International Law, dopo la prima ricorrenza di "guerra giusta" ("just war"), Kelsen si preoccupa di avvertire che, nell'accezione in cui lo sta usando, il termine "giusto" ("just") significa «"giuridico" nel senso del diritto internazionale positivo» («"legal" in the sense of positive international law») (30).

Il dubbio preliminare, di carattere generale, indipendente da qualsiasi altra considerazione gius-filosofica relativa all'analisi del rapporto fra diritto e pace nei suoi diversi lavori, riguarda invece la plausibilità stessa di poter considerare Kelsen un teorico della guerra giusta (31). Dubbio, questo, giustificato dalla considerazione che Kelsen, ignorando la complessità e pluralità delle diverse concezioni in cui storicamente ha trovato espressione (32), in realtà non elabora affatto né propone una propria concezione della dottrina della guerra giusta ma, molto più semplicemente, usa la locuzione "teoria della guerra giusta" come termine di sintesi per designare una delle due interpretazioni contrapposte del diritto internazionale generale; di quel diritto internazionale generale, cioè, con il quale, nel corso degli anni e tenendo conto dei suoi cambiamenti, già a partire dalla conclusione della prima guerra mondiale, si è sempre andato confrontando ogni volta che ha scritto del possibile rapporto fra guerra e diritto. In particolare, nelle Holmes Lectures del 1941-1942, non diversamente che in General Theory of Law and State del 1945 e in Principle of International Law del 1952, "teoria della guerra giusta" è una locuzione utilizzata principalmente, se non esclusivamente, per designare una tesi interpretativa (o, se si preferisce, una tesi di carattere dogmatico): la tesi, cioè, secondo la quale nel «diritto internazionale generale, la guerra è proibita in linea di principio, essendo ammissibile solo come reazione nei confronti di una violazione del diritto internazionale» (33). Tesi interpretativa, questa, del diritto internazionale generale, che Kelsen, pur consapevole dei suoi aspetti dubbi e problematici, difende rispetto alla tesi interpretativa opposta (o, se si preferisce, alla contrapposta tesi di carattere dogmatico) secondo la quale, contrariamente a quella precedente, «la guerra non è né un illecito né una sanzione» e «[o]gni Stato, che non sia espressamente vincolato da un particolare trattato ad astenersi dal muovere guerra contro un altro [...] può procedere alla guerra contro un altro Stato per qualsiasi motivo, senza violare il diritto internazionale» (34).

4. Diritto e pace in Kelsen

Il dato lessicale e il dubbio preliminare di carattere generale non esauriscono tutti gli argomenti che consentono di replicare a chi contesta Kelsen perché teorico della guerra giusta (35). Accanto e oltre all'uno e all'altro è possibile proporre infatti una pluralità di argomenti più specificamente gius-filosofici che consentono non solo di confermare la connotazione esclusivamente giuridica della sua concezione della guerra giusta ma anche, e ancora più significativamente, di affermare che tale connotazione giuridica è improntata non tanto (come per secoli è stato caratteristico di molte teorizzazioni della guerra giusta) alla giustificazione e legittimazione (di alcune forme e modi) della guerra, quanto piuttosto alla sua ferma condanna e alla sua risoluta messa al bando (come, già a partire dalla conclusione del primo conflitto mondiale, per un secolo, faticosamente e ad oggi indubbiamente senza risultati apprezzabili (36), il diritto internazionale si è più volte preoccupato di affermare) (37); una pluralità di argomenti che consentono di mostrare, cioè, che per Kelsen quella della guerra giusta non è altro, come lui stesso ha più volte esplicitamente affermato già dal 1942, che «la teoria [che] costituisce la base di numerosi documenti di grande importanza nel diritto internazionale positivo» (38): il Trattato di Versailles del 1919, il Patto della Società delle Nazioni del 1920, il Patto Briand-Kellogg del 1928 e, dal 1945, la Carta dell'Onu.

Gli argomenti in questione si possono formulare, per un verso, a partire da una (ri)lettura dell'impianto della filosofia del diritto internazionale di Kelsen nella compiutezza della sua complessità e articolazione, e, per altro verso, prestando maggiore attenzione, in particolare, ai termini nei quali Kelsen intende e scandisce l'assunto che dà il titolo al secondo dei suoi saggi scritti dopo l'emigrazione negli Stati Uniti: l'assunto cioè (spesso citato, ripreso, parafrasato (39), o, a volte, criticamente ridimensionato (40)) della pace attraverso il diritto.

In entrambi i casi, sia riguardo alla (ri)lettura dell'impianto della filosofia del diritto internazionale di Kelsen sia riguardo a una più attenta riflessione sui termini nei quali Kelsen configura il proprio assunto della pace attraverso il diritto, è opportuna una duplice avvertenza metodologica: (a) la prima, tanto ovvia quanto spesso disattesa, è quella di non confondere o contaminare profili d'analisi che lo stesso Kelsen tiene distinti, di non confondere, in particolare, profilo dogmatico-ricognitivo, teorico-esplicativo e politico-normativo; (b) la seconda è quella di non ridurre, come spesso accade in letteratura, la complessa rete di interazioni, non sempre univoche e non sempre aproblematiche, della reine Rechtslehre con l'impianto complessivo della sua filosofia del diritto internazionale, esclusivamente ai termini della recezione della tesi gius-filosofica della coercizione come tratto distintivo e imprescindibile del concetto stesso di diritto e/o ai termini dell'(in)coerenza rispetto alle due tesi logico-epistemologiche dell'avalutatività della scienza giuridica e della necessaria unitarietà del diritto (nazionale e internazionale) che ne costituisce l'oggetto.

4.1. Proposte di politica del diritto internazionale

La necessità di non confondere ordini di considerazioni differenti è ben presente in Kelsen che, per quanto non si preoccupi eccessivamente di enfatizzarla, tiene attentamente distinti non solo il profilo politico-normativo da quello teorico-esplicativo del rapporto fra diritto e pace (41), ma anche ognuno dei due profili da un terzo profilo, di carattere dogmatico-ricognitivo (42), dal profilo, cioè, in cui mette a confronto proposte di politica del diritto o problemi di teoria generale del diritto con il diritto positivo, con le norme, cioè, tanto del diritto internazionale generale quanto del diritto internazionale dei trattati (43).

Di questi tre profili, nell'analisi kelseniana, quello preordinato e gerarchicamente sovraordinato agli altri è il profilo di politica del diritto (44). Ed è a questo primo profilo, di carattere politico, che va ricondotta la rivendicazione di tre assunti, concettualmente distinti ma per Kelsen complementari, che informano e condizionano l'intero impianto della sua filosofia del diritto internazionale : (a) la rivendicazione della pace come valore; (b) la rivendicazione del diritto come strumento (necessario ma non esclusivo né tanto meno sufficiente) per la tutela della pace; e (c) la rivendicazione della piena giuridicità del diritto internazionale.

L'enunciazione forse più esplicita del carattere politico di questi tre assunti, nella loro concatenazione e complementarità, è quella del 1944 quando, nella Prefazione di Peace through Law, Kelsen scrive «la guerra è un assassinio di massa, la più grande disgrazia della nostra cultura; [...] garantire la pace mondiale deve essere il nostro principale obiettivo politico, un obiettivo molto più importante della scelta tra democrazia e dittatura, o tra capitalismo e socialismo. Non esiste, infatti, la possibilità di un sostanziale progresso sociale finché non sia istituita una organizzazione internazionale tale da impedire effettivamente la guerra tra le nazioni della terra» (45).

Per Kelsen, quindi, quello della pace attraverso il diritto è un assunto di politica del diritto, non di un'adiafora scienza giuridica o di una pretesa reine Rechtslehre, e, dichiaratamente, lo è da molto prima del 1944. Già nel 1920, infatti, nell'immediato primo dopoguerra, Kelsen presenta in termini etico-politici la contrapposizione sia fra pacifismo e imperialismo, sia fra le due forme di monismo giuridico (questo sì un assunto gnoseologico irrinunciabile della reine Rechtslehre) che possono essere strumento di affermazione dell'imperialismo, o, invece, del pacifismo: il monismo improntato al primato del diritto statale, da un lato, e dall'altro, il monismo improntato, invece, al primato del diritto internazionale. Già dal 1920, infatti, Kelsen scrive che «l'ipotesi giuridico-conoscitiva del primato del particolare ordinamento giuridico statale si accoppia all'egoismo statale di una politica imperialista» (46) mentre «l'ipotesi del primato del diritto internazionale» consente, invece, di sancire che gli «ambiti di validità territoriali [dei singoli Stati] debbano essere considerati giuridicamente delimitati l'uno rispetto all'altro» così che «ingerenze violente ed invasioni, quell'espansionismo che costituisce l'essenza dell'imperialismo, appaiano antigiuridiche» (47).

Già dal 1920 quello che Kelsen teorizza è, quindi, una dottrina della piena giuridicità del diritto internazionale (e non, come gli si contesta, una dottrina della guerra giusta); piena giuridicità dalla quale Kelsen non può e non vuole prescindere perché ritiene che il diritto sia uno strumento necessario per il mantenimento della pace. Kelsen teorizza una dottrina della piena giuridicità del diritto internazionale ed è di questo assunto politico che si preoccupa tanto di delineare un modello teorico che ne mostri la plausibilità e ne fondi l'attuabilità (§ 4.2.), quanto, e con non minore attenzione, di vagliare, sotto il profilo dogmatico, se ed in che termini il legislatore (inter)nazionale, nel susseguirsi dei propri diversi interventi, (non) ne consenta una (efficace) realizzazione attenta al valore del mantenimento della pace (§ 4.3.).

4.2. Problemi di teoria del diritto internazionale: le (in)coerenze con la reine Rechtslehre

Sono due, in particolare, gli assunti della reine Rechtslehre dai quali Kelsen appare più manifestamente condizionato nella definizione e articolazione della propria filosofia del diritto internazionale.

Il primo, di matrice logico-epistemologica, è quello del monismo giuridico: l'assunto, cioè, secondo il quale diritto interno statale e diritto internazionale devono essere ricondotti, con una scelta politica che stabilisca quale dei due prevalga sull'altro (se il diritto interno su quello internazionale, o, viceversa, il diritto internazionale su quello interno), ad uno stesso ordinamento giuridico la cui unitarietà, garantita da un'unica norma fondamentale, è condizione necessaria perché sia possibile (una) conoscenza (scientifica) del diritto, perché, cioè, del diritto sia possibile conoscenza e sia possibile elaborarne una scienza giuridica.

Il secondo, di matrice gius-filosofica, è quello del carattere coercitivo del diritto e delle sue norme: l'assunto, cioè, secondo il quale la sanzione è il tratto che individua e distingue le norme il cui insieme costituisce un ordinamento giuridico.

Nel loro condizionamento (in)diretto della sua filosofia del diritto internazionale, entrambi gli assunti sono stati oggetto, in letteratura, di numerose critiche e contestazioni.

In particolare, in relazione al primo dei due assunti, quello cioè di matrice logico-epistemologica relativo al monismo giuridico, si è spesso contestata l'incoerenza fra l'avalutatività alla quale Kelsen vuole improntata la reine Rechtslehre, da un lato, e, dall'altro, il carattere dichiaratamente politico tanto della rivendicazione della piena giuridicità del diritto internazionale quanto, e ancora più significativamente, del suo primato sul diritto statale interno in nome del valore della pace e della sua tutela giuridica. Incoerenza, questa, là dove la sua denuncia si rivelasse fondata o almeno convincente, che sembra interessare però solo le sorti della reine Rechtslehre e del suo progetto di fondare una scienza giuridica improntata al rigore dei canoni del neopositivismo logico ma non anche le sorti della kelseniana filosofia del diritto internazionale e del suo progetto politico del pacifismo giuridico. Non solo. La denuncia di questa prima incoerenza sembra dettata da quella stessa commistione fra livello logico-epistemologico e livello politico, fra piano descrittivo-cognitivo e piano assiologico-normativo, che pretende contestare in Kelsen. Questa denuncia sembra tradire, cioè, una possibile confusione fra avalutatività della scienza giuridica (della quale Kelsen è stato certo un fermo assertore con la propria reine Rechtslehre) e adiaforicità del diritto e delle sue norme (assunto a dir poco bizzarro e comunque del tutto estraneo alla reine Rechtslehre e, più in generale, all'intera opera di Kelsen) (48). Confondendo (pretesa) avalutatività della scienza giuridica e conclamata non adiaforicità del diritto e delle sue norme, questa denuncia sembra escludere, cioè, la possibilità che un assertore della avalutatività della scienza giuridica possa anche, in ambiti e contesti diversi dalle proprie riflessioni logico-epistemologiche, formulare proposte di politica del diritto che, se accolte, interverrebbero a modificare l'oggetto di descrizione e di conoscenza della scienza giuridica (49).

In relazione al secondo dei due assunti, quello cioè di matrice gius-filosofica sul carattere coercitivo del diritto e delle sue norme, in letteratura si è spesso contestata una seconda incoerenza che, simmetricamente alla prima, sembra riflettersi, se fondata, direttamente sulle sorti della kelseniana filosofia del diritto internazionale e del suo progetto politico-normativo ma non anche sulle sorti della reine Rechtslehre e del suo progetto logico-epistemologico; in questo caso, infatti, la (pretesa) incoerenza è quella fra il pacifismo al quale si vuole improntato il diritto internazionale, da un lato, e, dall'altro, l'esigenza di qualificare la guerra non solo come illecito ma anche come sanzione in modo che, fatto salvo il carattere coercitivo del diritto internazionale, se ne possa reclamare la piena giuridicità e il carattere vincolante delle sue norme. Anche in questo caso, non diversamente da quello precedente, l'incoerenza contestata a Kelsen non si rivela però pienamente convincente. In particolare, la denuncia di questa seconda incoerenza non si rivela del tutto convincente né quando, com'è ricorrente in letteratura, la si consideri in sé, isolatamente, non prestando (eccessiva) attenzione ad altri assunti e proposte che in Kelsen integrano e scandiscono le forme e i modi del pacifismo giuridico, né, ancor meno, quando invece di questi altri assunti e proposte si tenga conto.

In particolare, considerata in sé, la contestazione dell'incoerenza in esame non è del tutto convincente perché sembra ignorare, o quantomeno sottovalutare, il fatto che secondo Kelsen l'unica guerra che il diritto internazionale dovrebbe qualificare come sanzione, e quindi autorizzare come "contro-guerra", è la guerra di legittima difesa, la "contro-guerra", cioè, alla quale uno stato può ricorrere quando sia vittima di una guerra d'aggressione (50). Così, se la sanzione della "contro-guerra" altro non è che la legittima difesa nei confronti di una guerra d'aggressione, allora, ancora una volta, vale il rilievo al quale si è già accennato in relazione alla nozione kelseniana di "guerra giusta": nell'un caso e nell'altro si conferma, cioè, che Kelsen non sta teorizzando nulla di diverso da quello che il diritto internazionale del novecento ha faticosamente cercato di sancire mettendo al bando la guerra, nel 1945, con la Carta dell'Onu e, ancora prima, nel 1919 con il Trattato di Versailles, nel 1920 con il Patto della Società delle Nazioni e nel 1928 con il Patto Briand-Kellogg.

Ma non solo. La denuncia dell'incoerenza in esame appare ancora meno convincente se, nel prenderla in esame, si tiene conto dei termini nei quali, in Kelsen, l'istituzione di "una corte internazionale permanente con giurisdizione obbligatoria", competente a giudicare non solo di crimini di guerra ma anche, e non meno significativamente, di crimini contro la pace, trovi la sua principale giustificazione in una critica radicale tanto della "contro-guerra" quanto della rappresaglia come sanzioni del diritto internazionale (51). L'insistenza con la quale, soprattutto in Peace through Law, Kelsen reclama la necessità di concentrare gli sforzi per «pervenire ad un trattato internazionale concluso dal maggior numero di Stati, vincitori e vinti, che istituisca una Corte internazionale titolare di una giurisdizione obbligatoria» (52) non è dettata, infatti, solo da valutazioni di ingegneria istituzionale. Non è dettata, cioè, esclusivamente dalle sue considerazioni sulle ragioni del fallimento della Società delle Nazioni (53), ma è motivata anche e soprattutto dalla ferma convinzione che «un trattato internazionale [...] che istituisca una Corte internazionale titolare di una giurisdizione obbligatoria [...] significa che tutti gli Stati della Lega costituita in questo [stesso] trattato dovrebbero essere obbligati a rinunciare alla guerra e alle rappresaglie come strumenti di regolazione dei conflitti, a sottoporre tutte le loro controversie senza eccezione alla decisione della Corte e ad applicare fedelmente le sue decisioni» (54); è dettata, cioè, dalla ferma convinzione che «tutti gli stati della Lega dovrebbero essere obbligati a rinunciare alla guerra e alle rappresaglie» perché queste «sanzioni internazionali [...] non sono dirette contro l'individuo la cui condotta ha violato il diritto internazionale [ma] sono dirette contro lo Stato come tale, cioè contro i cittadini di quello Stato, contro individui che non hanno commesso il delitto o che non hanno avuto la capacità di prevenirlo» (55).

Una corte internazionale permanente, competente, come quella ipotizzata da Kelsen, a decidere di crimini di guerra e di crimini contro la pace, scanditi gli uni e gli altri, così come vuole il diritto penale, in termini di responsabilità personale, se realizzata avrebbe potuto conseguire infatti un triplice obiettivo: (a) il primo, etico-politico, di punire non chi è innocente (come accade con la guerra e le rappresaglie) ma, al contrario, solo chi sia davvero responsabile, con le proprie scelte di governo, di mettere a rischio la pace e la sicurezza internazionale; (b) il secondo, ancora una volta etico-politico, di offrire uno strumento di prevenzione della guerra (di aggressione e di legittima difesa); e (c) il terzo, gius-filosofico, di confermare la coercizione come tratto distintivo del diritto internazionale e come fondamento della sua piena giuridicità.

Ad oggi, la proposta di Kelsen di una Corte internazionale permanente con giurisdizione obbligatoria, competente a giudicare di crimini di guerra e di crimini contro la pace, non è stata ancora pienamente realizzata.

L'ultimo passo in questa direzione, quello dell'istituzione della Corte penale internazionale con il Trattato di Roma del 1998 entrato in vigore il primo luglio del 2002, per quanto rappresenti un progresso significativo rispetto ad altre forme di giustizia penale internazionale del secondo novecento (56), non ha ancora superaro infatti molti ostacoli: in particolare, per un verso, le maggiori superpotenze (Cina, Federazione Russa, Israele, Stati Uniti) non hanno ratificato il Trattato del 1998 e hanno spesso ostacolato il funzionamento della Corte (57), e, per altro verso, non sembra neppure imminente la soluzione delle difficoltà relative alla definizione del principale crimine sul quale la Corte è chiamata a giudicare, quello, cioè, della "guerra di aggressione" (58).

Per quanto riguarda invece il primo passo verso una giustizia penale internazionale nel secondo dopoguerra (59), quello del processo di Norimberga e dell'Accordo di Londra del 1945 con il quale veniva istituito il Tribunale penale internazionale che lo avrebbe celebrato, sono note le numerose critiche delle quali è stato oggetto. Tra le più puntuali e le più radicali proprio quelle di Kelsen che non constatano però, come vogliono i critici del pacifismo giuridico e della giustizia penale internazionale, il fallimento della sua proposta ma, al contrario, ne lamentano il disconoscimento di aspetti essenziali. Con le proprie critiche, infatti, Kelsen non rinnega né rivede i termini nei quali nel 1944 aveva delineato la propria proposta dell'istituzione di una Corte internazionale permanente con giurisdizione obbligatoria quanto, piuttosto, denuncia e contesta il modo in cui l'Accordo di Londra e il processo di Norimberga li abbiano ignorati o travisati (60).

Poche ultime notazioni. Per quanto, in letteratura, oggetto di maggiore attenzione siano stati quelli dei quali si è sin qui discusso nel presente paragrafo, è opportuno ricordare altri due assunti della reine Rechtslehre il cui ruolo non è affatto secondario in relazione all'impianto teorico della kelseniana filosofia del diritto internazionale: quello della natura costitutiva e quello della funzione prescrittiva del diritto e delle sue norme. Assunti, questi, che consentono, l'uno, di aggiungere un nuovo argomento per rispondere a chi denuncia l'incoerenza del pacifismo giuridico kelseniano là dove si qualifica la guerra non solo come illecito ma anche come sanzione, e, l'altro, di replicare a chi, in nome del realismo, contesta il pacifismo giuridico (anche ma non solo kelseniano) in ragione del fallimento del diritto internazionale del novecento di mettere al bando la guerra (d'aggressione).

In particolare, l'affermazione della natura costitutiva del diritto (l'affermazione, cioè, secondo la quale è il diritto a stabilire, contingentemente e mutevolmente, cosa abbia valore di illecito e cosa di sanzione perché non v'è nulla che di per sé, "in natura", abbia la valenza dell'uno o dell'altra (61)) mostra come, sotto il profilo teorico, Kelsen possa benissimo fare salvo l'assunto del carattere coercitivo del diritto internazionale proponendo sanzioni altre e diverse dalla "contro-guerra" e dalle rappresaglie; sanzioni altre e diverse come, ad esempio, quelle che lo stesso Kelsen ha teorizzato per punire i crimini di guerra e i crimini contro la pace che (là dove si istituisse e soprattutto non si boicottasse) dovrebbero essere decise da una Corte internazionale permanente con giurisdizione obbligatoria.

D'altra parte, come verrà ulteriormente ribadito di seguito (§ 5.1.), l'affermazione della funzione prescrittiva del diritto consente di replicare a chi invoca il realismo (delle relazioni internazionali) per contestare il pacifismo giuridico che, proprio in quanto prescrizioni (e non "inconfutabili" leggi scientifiche o "miracolose" formule magiche) le norme del diritto internazionale (come qualsiasi norma del diritto statale interno) possono essere (e spesso sono) violate. Non solo. Proprio perché è perfettamente consapevole della ineludibile possibilità della loro violazione, Kelsen considera il diritto internazionale solo uno strumento necessario e nient'affatto sufficiente al mantenimento della pace. La liceità giuridica della guerra di legittima difesa (al di là di qualsiasi riserva sull'(in)opportunità di qualificarla come sanzione (62)) non è dettata quindi (solo) da astratte esigenze teorico-concettuali o da poco avvertiti condizionamenti gius-filosofici quanto piuttosto dal realismo della constatazione (confermata e tutt'altro che smentita dalle critiche di Kelsen al processo di Norimberga) che la comunità internazionale non era (e, peraltro, continua a non essere) pronta (o disposta) a rinunciare alla guerra d'aggressione come strumento di prevaricazione e di sopraffazione politica ed economica.

4.3. Confronto dialettico con il diritto internazionale positivo

Accanto e oltre ai due profili, l'uno di carattere politico-normativo (§ 4.1.), l'altro di carattere teorico-esplicativo (§ 4.2.), un terzo profilo di centrale importanza nell'impianto della filosofia del diritto internazionale di Kelsen è quello di carattere dogmatico-ricognitivo, è quello, cioè, relativo alla grande attenzione che Kelsen ha sempre prestato (tanto nella rivendicazione di proposte politiche quanto nell'affermazione di tesi teoriche) al diritto internazionale positivo, sia quello generale sia quello dei trattati. Attenzione che trova espressione, in una combinazione variabile nelle sue diverse componenti secondo la specificità del tema o la particolare motivazione che le ha sollecitate, in analisi nelle quali sono compresenti: (a) una ricognizione (esegetica) del dato normativo che non trascura la pluralità delle sue possibili letture ma, al contrario, spesso ne propone un confronto dialettico; (b) una critica, quali che siano o possano essere le loro diverse letture, di quei dati normativi dai quali Kelsen dissente per questioni tecnico-giuridiche o, secondo i casi, in ragione dei valori (etico-politici) dei quali possono essere espressione; e non un ultimo (c) una proposta costruttiva dei termini nei quali modificare o (ri)definire i dati normativi del diritto internazionale positivo che sono stati sottoposti a critica.

Così, in particolare, ci sono lavori, come ad esempio l'imponente volume del 1950 che propone un'analisi minuziosamente dettagliata del diritto delle Nazioni Unite o quello del 1952 (riedito in una versione aggiornata e parzialmente modificata a cura di R.W. Tucker) sui principi del diritto internazionale, nei quali la dimensione espositiva ed esegitico-ricognitiva prevale su quella critico-innovativa. Lavori, questi, nei quali Kelsen si preoccupa di difendere, e per nulla sorprendentemente lo fa in chiave politica, la "legittimità" della prospettiva dogmatica (in inglese il termine usato è "juristic") della propria analisi del diritto internazionale positivo; una prospettiva, cioè, nella quale i problemi del diritto internazionale sono affrontati "da un punto di vista giuridico" (63) e non politico. Nonostante l'apparente bisticcio lessicale (o, peggio ancora, nonostante il timore di una possibile incoerenza concettuale), la rivendicazione politica della legittimità di un'analisi giuridica del diritto internazionale positivo in Kelsen non è altro che l'iterazione dell'assunto politico a lui particolarmente caro della piena giuridicità del diritto internazionale e delle sue norme. Né, peraltro, Kelsen ne fa mistero. Non ne fa mistero, in particolare, nella Prefazione al volume sui principi del diritto internazionale, quando, polemicamente, enfatizza il carattere giuridico del proprio libro in aperto dissenso da «coloro che scrivono di diritto internazionale, i quali, pur non osando negare il carattere giuridico e quindi vincolante di questo ordinamento sociale» sostengono che del diritto internazionale sia più appropriato occuparsi in una prospettiva non giuridica perché la loro principale preoccupazione, questa la denuncia di Kelsen, è quella di giustificare la possibilità di non applicare il diritto internazionale vigente là dove questo dovesse risultare in contrasto con quelli che «chi scrive considera gli interessi del proprio paese» (64). E ancora, Kelsen non ne fa mistero neppure nell'incipit della Prefazione al volume sul diritto delle Nazioni Unite nel quale in termini netti e perentori, puntualizza che il proprio libro offre un'analisi «dogmatica [juristic], non politica, dei problemi delle Nazioni Unite», un'analisi, cioè, che «si occupa del diritto dell'Organizzazione e non del suo ruolo, effettivo o auspicato, nel gioco delle potenze internazionali» (65).

Simmetricamente, accanto e oltre ai lavori nei quali quella prevalente è la dimensione espositiva ed esegetico-ricognitiva, ci sono molti lavori nei quali la dimensione preminente è, invece, quella critico-propositiva, la dimensione, cioè, in cui il diritto internazionale positivo è un termine di confronto dialettico del quale si criticano gli aspetti ritenuti problematici o, secondo i casi, in relazione ai quali si propongono innovazioni o riforme. Sono questi, in particolare, molti dei lavori ai quali, nei paragrafi precedenti, si è già fatto più volte riferimento prendendo in esame le proposte politiche e le tesi teoriche nelle quali si articola la filosofia del diritto internazionale di Kelsen. Sono questi, cioè, i lavori nei quali, in termini diversi secondo che siano stati scritti nel primo dopoguerra (66) o, invece, negli anni del secondo conflitto mondiale (67) piuttosto che nel secondo dopoguerra (68), Kelsen (ri)formula le proposte politiche e (ri)definisce le tesi teoriche della propria filosofia del diritto internazionale in relazione ai diversi dati normativi in cui, di volta in volta, il diritto internazionale positivo trova espressione e/o delle diverse ragioni che, secondo i casi, ne sollecitano una riforma.

5. Il realismo del pacifismo giuridico

E, da ultimo, qualche rilievo a margine della critica al pacifismo giuridico (kelseniano) di ingenuità del suo idealismo normativo. La critica, spesso ricorrente fra chi rivendica una prospettiva (neo)realista nell'analisi delle relazioni internazionali, a volte sembra avere ad oggetto più il pacifismo che non il diritto come strumento per garantire la pace, altre volte, invece, sembra avere ad oggetto non tanto il pacifismo quanto piuttosto l'idoneità del diritto (inter)nazionale a garantire la pace.

Ora, nel primo caso, in quello cioè in cui il bersaglio sia il pacifismo e non il diritto come strumento per garantire la pace, il preteso (neo)realismo rivendicato nell'analisi delle relazioni internazionali non è altro che un espediente per avvalorare un'opzione politica simmetrica e contraria a quella del pacifismo: l'opzione di chi condivide e riafferma dinamiche e logiche (neo)imperialiste di governo e di prevaricazione da parte di quelle che, di volta in volta, sono le potenze che dominano lo scenario mondiale. Indiscutibilmente insidiosa nei suoi possibili esiti, quella in esame non costituisce quindi una vera critica perché, non diversamente da quella del pacifismo giuridico, è essa stessa, per quanto simmetrica e contraria, nient'altro che una rivendicazione politica.

Nel secondo caso, invece, quello cioè in cui il bersaglio sia non il pacifismo ma l'idoneità del diritto quale strumento per il mantenimento della pace, il richiamo ad una prospettiva (neo)realista delle relazioni internazionali si configura sì come una vera critica ma non è del tutto convincente. Non lo è, in particolare, per un duplice ordine di ragioni: (a) il primo è che il pacifismo giuridico (kelseniano) individua nel diritto solo uno strumento necessario e non certo uno strumento sufficiente, di per sé risolutivo, per il mantenimento della pace (§ 5.1.); (b) il secondo è che il (neo)realismo, una volta contestato il diritto e denunciata la pluralità dei suoi limiti e delle sue insidie, non indica quale strumento o quali strategie alternative possano consentire il mantenimento della pace (§ 5.2.). Due ordini di ragioni, questi, che nient'affatto sorprendentemente consentono, l'uno e l'altro, non solo di riscattare il pacifismo giuridico (kelseniano) dalla critica di ingenuo idealismo normativo ma anche di rivendicare, a pieno titolo, il realismo del suo progetto politico.

5.1. Solo una condizione necessaria

Che il diritto, quasi magicamente, possa avere un ruolo di per sé risolutivo e dirimente nel garantire la pace mondiale è un'ingenuità che a torto i (neo)realisti rimproverano al pacifismo giuridico (kelseniano). A torto, perché questa convinzione di fatto è estranea al pacifismo giuridico anche ma non solo nella sua variante kelseniana.

In particolare, ci sono più argomenti che consentono di affermare che per Kelsen il diritto non è «lo strumento di pacificazione dei rapporti fra gli Stati» (69) (così come Nitsch propone di leggere l'incipit dell'Introduzione alle Holmes Lectures «Law is, essentially, an order for the promotion of peace» (70)), quanto piuttosto solo uno dei suoi diversi strumenti; uno strumento indubbiamente irrinunciabile tanto da rivendicarlo come condizione necessaria, ma non così risolutivo da considerarlo anche una condizione sufficiente.

Al di là di qualsiasi esercizio interpretativo sulle possibili letture di singoli enunciati o di singoli sintagmi come ad esempio "peace through law" (letture, peraltro, che spesso non confutano affatto la ricostruzione che qui si propone), una prima conferma che il diritto sia considerato solo uno strumento necessario viene dai termini nei quali Kelsen si confronta costantemente con le diverse forme in cui il diritto internazionale positivo trova espressione; confronto che, come si è già sottolineato (§ 4.3.), non elude ma al contrario spesso si incentra proprio sugli aspetti dubbi e problematici che, di volta in volta, del diritto internazionale positivo giustificano critiche o sollecitano proposte di modifiche o riforme. Un rapporto, quello critico-propositivo di Kelsen con il diritto internazionale positivo, che non ignora né sottovaluta, ma al contrario testimonia, non solo della fallibilità del diritto (esemplari in tal senso le considerazioni sulle ragioni dell'insuccesso della Società delle Nazioni) ma anche, e non meno significativamente, del suo carattere insidioso (si pensi, in particolare, alle critiche radicali nei confronti dell'Accordo di Londra del 1945 e al processo di Norimberga) anche quando al diritto (internazionale) si ricorra in nome della pace o della giustizia internazionale.

E ancora, un'ulteriore conferma deriva dal fatto che la consapevolezza della fallibilità e delle insidie dello strumento giuridico di cui testimoniano le sue analisi del diritto internazionale positivo non è il frutto di considerazioni empiriche o contingenti quanto piuttosto la conseguenza di almeno tre assunti teorici centrali (anche ma non solo) della reine Rechtslehre: i primi due sono quelli, dei quali si è già fatto cenno (§ 4.2.), della funzione prescrittiva e della natura costitutiva del diritto e delle sue norme; il terzo, strettamente connesso all'uno e all'altro, è l'assunto relativo alla cesura fra essere e dover essere e, quindi, fra le norme giuridiche, da un lato, e, dall'altro, ciò (atti, fatti, eventi o comportamenti) di cui esse stabiliscono la specifica valenza giuridica. Assunti, questi, nella loro complementarità, che testimoniano di una concezione del diritto e delle sue norme non come di univoci e inconfutabili dictamina rectae rationis ma, al contrario, come risultato di atti di volontà, mutevoli e contingenti, di quella che, secondo contesti storici differenti, di volta in volta è l'autorità normativa. Non a caso, come si è ricordato nelle pagine precedenti (§ 4.1.), già dal 1920, distinguendo le due possibili versioni del monismo giuridico, la sua preferenza per quella in cui è il diritto internazionale ad essere preminente sul diritto statale interno, è esplicitamente rivendicata come opzione "etico-politica", un'opzione etico-politica, dettata, realisticamente, dalla convinzione che l'opzione politica opposta, giuridicamente altrettanto possibile e plausibile, avrebbe offerto meno garanzie per la tutela della pace.

5.2. Rifiuto del pacifismo giuridico o nient'altro che una sua riformulazione?

Si potrebbe ancora obiettare, forse, che avere precisato che per il pacifismo giuridico (kelseniano) il diritto è solo uno strumento necessario, non basta di per sé a sgombrare definitivamente il campo da tutte le diffidenze, (neo)realiste e non, nei confronti del diritto (anche ma non solo come strumento idoneo al mantenimento della pace). Nondimeno, posto ovviamente che oggetto delle critiche, (neo)realiste e non, non sia il pacifismo in sé, non è chiaro quale strumento diverso da quello giuridico possa realisticamente, porre un argine, per quanto fragile e incerto, al sopruso e alla prevaricazione del più forte.

In particolare, contestate, come accade in prospettiva (neo)realista, la criminalizzazione della guerra d'aggressione, la giustizia penale internazionale, la tutela (inter)nazionale dei diritti (siano essi denominati "umani" o "fondamentali"), la messa al bando di pratiche delle quali per quanto possano apparire odiose non si esclude che in alcuni contesti possano essere espressione di tradizioni culturali da rispettare, contestato tutto ciò, sembrano rimanere due sole alternative possibili.

La prima alternativa sembra essere quella del ritorno a un improbabile stato di natura dal quale sia assente qualsiasi forma di limitazione alla libertà. Anche se, interrogativo tutt'altro che marginale, non è chiaro la libertà di chi dovrebbe essere priva di limitazioni: se quella dei singoli individui, o, invece, quella dei gruppi culturali o religiosi di cui i singoli individui possono essere membri, o, ancora, quella degli stati e/o delle formazioni sovrastatali di cui i singoli individui possono essere cittadini. Alternative, queste, che, com'è ovvio, sono tutt'altro che complementari o anche solo compatibili.

La seconda alternativa, invece, posto che ad essere oggetto di contestazione non sia il diritto internazionale in sé ma le sue connotazioni "universalistiche" del secondo dopoguerra, non sarebbe altro (quale che sia il nuovo modello "pluralista" proposto in alternativa a quello "universalista") che la (ri)definizione di una nuova versione del pacifismo giuridico; una (ri)definizione che, quali che ne possano essere i termini, finirebbe col riproporre cioè nient'altro che l'assunto kelseniano della pace attraverso il diritto.

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Note

*. In: "Rivista internazionale di Filosofia del diritto", 87 (2010), n. 4, pp. 519-556

**. Dipartimento di Scienze giuridiche dell'Università di Brescia.

1. H. Kelsen [1944, trad. it. p. 55].

2. H. Kelsen [1944, trad. it. pp. 36-37, corsivo mio].

3. Quest'affermazione trova un'eloquente conferma nei termini nei quali, a differenza di quanto accadeva ancora nei primi anni del 2000, oggi, in Italia, politici e mezzi di comunicazione commentano gli accadimenti nei quali, di volta in volta, sono coinvolti soldati italiani che integrano il contingente di forze armate internazionale attualmente impegnate in diversi conflitti armati: dismessa infatti la preoccupazione di presentare e giustificare gli interventi ai quali essi partecipano come "operazioni di pace", sempre più spesso si ammette e riconosce apertamente che quelli in cui i soldati italiani sono impegnati sono "scenari di guerra". In particolare, "scenari di guerra" non più evocati, com'è accaduto negli anni passati, per stigmatizzare (anche ma non solo) la violazione dell'articolo 11 della Costituzione italiana, ma, al contrario, se non per sollecitarne una modifica almeno per proporne una (ri)lettura che non precluda l'adozione del codice penale militare di guerra. Così, ad esempio, A. Cassese [2009], in relazione ad alcune discusse affermazioni del Ministro della Difesa Ignazio La Russa relative alle forze armate italiane in Afghanistan, scrive: «La Russa ha giustamente sostenuto che è ora di riconoscere che i nostri militari partecipano ad un conflitto armato internazionalizzato. E quindi è ipocrita applicare loro il codice penale militare di pace». Secondo Cassese, in particolare, la Costituzione italiana «non persegue un imbelle pacifismo» e, oltre alla partecipazione «ad una guerra di legittima difesa individuale [...] o collettiva», consente «il ricorso alla violenza bellica autorizzato dal Consiglio di Sicurezza [...] che miri a ristabilire la pace, la democrazia e il rispetto dei diritti umani»; ciò posto, e posto che quella in Afghanistan è «una guerra guerreggiata», Cassese condivide, «nell'interesse dei nostri militari ma anche delle popolazioni dei territori in cui essi combattano», la proposta del Ministro La Russa di «una nuova normativa organica che regoli sia la condotta della guerra sia le conseguenze penali della violazione delle leggi sulla guerra, da parte dei nostri militari».

4. C. Nitsch [2009, pp. LXXVII-LXXX].

5. Così, in particolare, in T. Mazzarese [2003 b] e [2006].

6. L'espressione riprende il titolo di L. Ferrajoli [2004], volume a cura di G. Pisarello che raccoglie, in traduzione spagnola, alcuni importanti saggi su guerra e diritto scritti da Ferrajoli negli ultimi vent'anni.

7. E, in questa direzione, merito di Nitsch è non solo quello di un'attenta traduzione delle Holmes Lectures ma anche quello di due saggi (anche ma non solo documentatissimi): uno, del 2005, sul tema della guerra giusta in Kelsen; il secondo, del 2009, che introduce la traduzione del volume, più specificamente incentrato sulla redazione delle Holmes Lectures e sulle peripezie (accademiche) che hanno accompagnato la decisione di Kelsen, ormai in pericolo anche a Ginevra, di emigrare negli Stati Uniti.

8. M. Losano [2001].

9. C. Nitsch [2005].

10. Va inoltre segnalato, come ulteriore contributo per la ricostruzione di questo puzzle, U. Campagnolo [2010], un interessante volume nel quale Losano (che ne è l'ideatore ancor prima che il curatore) ha raccolto «gli appunti presi da Umberto Campagnolo durante le lezioni e nelle conversazioni ginevrine con Kelsen, nonché le note di lettura che traevano spunto da quel contesto»; volume, come precisa ancora nel suo saggio introduttivo M. Losano [2010, p. 7], «utile anche per vedere quali temi, nei primi anni dell'esilio ginevrino, erano al centro dell'attenzione degli internazionalisti che facevano capo a Kelsen nell'Institut Universitaire de Hautes Études Internationales di Ginevra».

11. M. Bovero [2006].

12. Nonostante il premio Nobel per la pace assegnatogli nel 2009, a pochi mesi dalla sua elezione a presidente degli Stati Uniti, B. Obama non è ancora riuscito, infatti, a prendere nettamente le distanze dalle linee di politica estera del suo predecessore G.W. Bush. E, per quanto non siano mancati alcuni segnali incoraggianti, come il ritiro delle truppe statunitensi dall'Iraq nell'agosto del 2010 e il nuovo impegno per la pace in Medio Oriente, l'attuale politica estera statunitense non sembra ancora in grado di contribuire a una piena riaffermazione dell'impianto pacifista della Carta dell'Onu del 1945.

13. Sempre più ipertrofica perché, con la dissoluzione dell'Unione Sovietica, la Nato ha progressivamente inglobato molti dei paesi prima aderenti al Patto di Varsavia; sempre più egemone perché, dopo la conclusione della guerra fredda, la Nato ha gradualmente ridefinito il proprio ruolo e la propria funzione sovrapponendoli, in un antagonismo non sempre dissimulato, a quelli dell'Onu. Con toni e valutazioni differenti, sul punto richiamano l'attenzione, ad esempio, I. Mortellaro [1999] e M. Clementi [2002].

14. Sul punto ho già richiamato più volte l'attenzione; da ultimo, in particolare, in T. Mazzarese [2008, pp. 86-87].

15. Sulla guerra del Kosovo, non diversamente che sulla guerra contro l'Afghanistan e contro l'Iraq, la letteratura è sempre più vasta; lo testimoniano (nonostante la loro inevitabile incompletezza) le bibliografie tematiche della rubrica Guerra, diritto e ordine globale.

16. Per una ricognizione della letteratura sul tema, si rinvia ancora una volta alle bibliografie tematiche della rubrica Guerra, diritto e ordine globale.

17. Ricorrente, in Walzer, l'attenzione per quello che lui stesso denomina "lo statuto morale della guerra" non solo dopo l'attentato dell'11 settembre, come testimoniano ad esempio i saggi pubblicati nel volume Arguing about War del 2004, ma, com'è noto, già a partire del suo fortunatissimo Just and Unjust Wars del 1977.

18. Così, ad esempio, in D. Zolo [2006 a, p. 4] da cui riprendo la citazione di C. Schmitt [1974, trad. it. p. 351].

19. D. Zolo [2006 a, p. 4]. Con esplicito riferimento a Zolo e ai suoi numerosi lavori in tema di guerra e diritto, una lettura critica della contestazione della criminalizzazione della guerra è proposta (con argomenti non sempre analoghi a quelli indicati di seguito nel testo) da P. Parolari [2007, pp. 588-591].

20. Esemplari sotto questo profilo (anche) i rilievi di D. Zolo [2000, pp. 80-89].

21. Dato, questo, del quale D. Zolo [2006 a] fa solo un rapido cenno, in nota, alla p. 11.

22. D. Zolo [2006 a, pp. 20-23].

23. D. Zolo [2006 a, pp. 9-20] e [2006 b, pp. x-xi].

24. Il riferimento, in particolare, è a H. Kelsen [1944] e [1945].

25. N. Bobbio [1991, pp. 55-56].

26. Che l'uno e l'altro siano valori "occidentali" è dubbio sia perché, storicamente, l'"Occidente" li ha reiteratamente violati non meno spesso di quanto li abbia celebrati, sia perché, come fra altri ha rivendicato A. Sen [2002] e [2006], libertà e democrazia non sono affatto valori esclusivamente "occidentali".

27. B. Conforti [2003, p. 586].

28. B. Conforti [2003, p. 587].

29. Da qui, forse, proprio perché indifferente ad una fondazione e ad una trattazione in termini metagiuridici, il giudizio sbrigativamente negativo che B. Conforti [2003, p. 584] dà dell'analisi di Kelsen (rectius: dei normativisti kelseniani): «La trattazione dello jus ad bellum nei positivisti di ogni genere e specie, in essi compresi i normativisti kelseniani, a patire dalla fine del secolo XIX e fino ad oltre la metà del XX [...] è estremamente povera».

30. H. Kelsen [1952, pp. 34, n. 16]; interessante segnalare che la stessa notazione è ripresa anche nel 1967, nella seconda edizione aggiornata e rivista a cura di R.W. Tucker, alla n. 22 di p. 29.

31. Diversa, ad esempio, la posizione di C. Nitsch [2005, p. 574] che tematizza invece la «rielaborazione kelseniana della dottrina tradizionale del bellum iustum», tematizzazione che riprende anche in [2009, pp. XLIX-LII]

32. Nel richiamare alcune delle più significative formulazioni della teoria del bellum justum a partire dall'antica Grecia, H. Kelsen [1942, pp. 43-45, trad. it. pp. 44-45] non presta infatti eccessiva attenzione né alla distinzione, né al rischio della possibile confusione, fra le due nozioni, giuridica e metagiuridica, di bellum justum: così, ad esempio, delle concezioni di Sant'Agostino e di Isidoro da Siviglia, Kelsen segnala l'influenza ciceroniana ma non indica quali ne siano i tratti distintivi e innovativi. E ancora, le stesse notazioni del 1942, poco attente ad un reale approfondimento storico-filosofico del bellum justum, ritornano, e solo in alcune opere apparse fra i primi anni quaranta e i primi anni cinquanta del novecento, in H. Kelsen [1945, trad. it. p. 340] e [1952, pp. 34-35; seconda ed. 1967, pp. 30-31].

33. Così, ad esempio, H. Kelsen [1942, trad. it., p. 46].

34. H. Kelsen [1942, trad. it., p. 36].

35. Così, ad esempio, D. Zolo [2000, p. 112] quando scrive: «Hans Kelsen accoglie la teoria della "guerra giusta" in un contesto che vorrebbe essere ispirato al pacifismo. [...] Il giusformalista e pacifista kantiano Hans Kelsen [non] rinuncia [...] a fare della dottrina etica della "guerra giusta" la condizione della giuridicità dell'ordinamento internazionale» (corsivo mio).

36. Per quanto la conseguenza della sua negazione, rivendicata da chi si richiama al realismo politico, sia (non solo logicamente e giuridicamente ma anche politicamente) indebita, nondimeno è un dato inconfutabile che la tesi della pace attraverso il diritto sia stata reiteratamente smentita nel novecento: il Trattato di Versailles del 1919, l'istituzione della Società delle Nazioni nel 1920 e il Patto Briand-Kellogg del 1928 non sono riusciti infatti a scongiurare la seconda guerra mondiale, così come l'istituzione dell'Onu nel 1945 si è rivelata impotente tanto nei confronti della proliferazione delle innumerevoli guerre locali e regionali del secondo dopoguerra quanto, dopo la conclusione della guerra fredda, nei confronti delle sempre più frequenti guerre internazionali che continuano a susseguirsi dalla prima guerra del Golfo nel 1991.

37. In un contesto nel quale non si fa riferimento a Kelsen, la distinzione della quale si fa menzione nel testo è tracciata da N. Bobbio [1979, ried. 1997, pp. 57-58] che scrive «La teoria della guerra giusta [...] ha assolto nella storia due funzioni diverse: ora è stata accolta per negare la validità delle [teorie bellicistiche], ora è stata accolta per negare la validità delle [teorie pacifistiche]. Nella teologia cattolica, a cominciare da S. Agostino, ha assolto la prima funzione: si trattava allora di confutare la tesi, attribuita ai primi padri della chiesa [...] che [...] ogni guerra fosse sempre illecita. Nella rinascita del giusnaturalismo dopo la prima guerra mondiale, la teoria della guerra giusta [...] è stata resuscitata per assolvere la funzione contraria: si è trattato, questa volta, di confutare le teorie realistiche della storia e della politica che [...] erano giunte alla conclusione che tutte le guerre sono lecite».

38. H. Kelsen [1942, p. 38, trad. it. p. 39, corsivo mio]. Più volte ribadita in lavori diversi, la riduzione della dottrina della guerra giusta al divieto dei trattati internazionali del novecento di muover guerra se non in casi particolarissimi, ricorre anche in H. Kelsen [1960, trad. it. p. 354] e [1979, trad. it. p. 14]. In particolare, in quest'ultimo volume, postumo, commentando il saggio di F.S.C. Northrop [1959], a proposito dell'influenza dello sviluppo delle scienze naturali sul diritto, Kelsen scrive: «Northrop dice: "Nell'era atomica gli uomini civili non possono chiaramente permettersi di fare la guerra". Ma già molto tempo prima della scoperta dell'energia atomica la guerra era stata proibita dal diritto internazionale (Patto Briand-Kellogg, il principio del bellum justum)».

39. Si pensi, ad esempio, a "Democracy through law", la denominazione assunta dalla Commissione di Venezia, istituita il 10 maggio 1990 dal Consiglio d'Europa, per discutere e suggerire soluzioni possibili ai problemi di ingegneria istituzionale che le venivano sottoposti dai paesi (in particolare da quelli asiatici dell'area dell'ex Unione Sovietica) che intendevano adeguare la propria forma di governo agli standard delle democrazie costituzionali. Lavori, quelli svolti dalla Commissione di Venezia, poco noti e, soprattutto, poco valorizzati da una comunità internazionale spesso distratta se non addirittura insofferente nei confronti dei precetti del diritto internazionale (non meno che nei confronti degli episodici tentativi di una loro possibile attuazione); una comunità internazionale che, già dalla prima guerra del Golfo del 1991, si è dimostrata più propensa all'arroganza della "democracy through war" che non a una attenta e prudente strategia di "democracy through law".

40. Così, ad esempio, D. Zolo [2006 a] quando polemicamente scrive di "peace through criminal law" per stigmatizzare, dell'assunto kelseniano, il profilo relativo all'istituzione di una corte penale internazionale con giurisdizione obbligatoria e, soprattutto, per contestare chi, con o senza riferimento a Kelsen e al suo assunto, negli ultimi decenni è andato attribuendo un ruolo sempre più rilevante alla giustizia penale internazionale.

41. Con specifico riferimento alle Holmes Lectures, la dstinzione fra un profilo politico e un profilo teorico nell'analisi di Kelsen è esplicitamente tracciata da C. Nitsch [2009, p. XXXIX].

42. Alla distinzione fra un profilo politico e un profilo dogmatico nell'analisi di Kelsen accenna, ad esempio, Ch. Leben [1996, p. 108].

43. Grande enfasi tanto sul carattere complementare quanto sulla necessità di tenere distinti i tre profili d'analisi della politica del diritto, della teoria generale del diritto e della dogmatica giuridica di recente è stata posta, ad esempio, da L. Ferrajoli [2007].

44. Sorprende, o forse più semplicemente conferma la scarsa attenzione in letteratura per la sua filosofia del diritto internazionale, che in S.L. Paulson [1990, pp. 81-82], nell'elenco proposto dei principali temi di "teoria politica" nell'opera di Kelsen, non si faccia menzione delle sue proposte e rivendicazioni relative al pacifismo giuridico. Secondo Paulson, com'è noto uno dei più autorevoli esperti della sua opera, sono quattro, infatti, i temi di politica del diritto che "forse si possono distinguere" in Kelsen: (a) la teoria della democrazia; (b) le analisi relative alle principali istituzioni politiche e giuridiche, ivi compresi parlamentarismo, federalismo, revisione costituzionale e riforma elettorale; (c) la critica delle ideologie anche ma non solo con riferimento alla teoria della giustizia e a quella del diritto naturale; (d) la critica del marxismo austriaco e più in generale del socialismo.

45. H. Kelsen [1944, trad. it., pp. 35-36, corsivo mio].

46. H. Kelsen [1920, trad. it., p. 465].

47. H. Kelsen [1920, trad. it., pp. 467-468, corsivo nel testo].

48. Così, ad esempio, sorprende l'affermazione di H. Bull [1986, p. 330] secondo la quale: «per tutta la vita Kelsen si è opposto ai tentativi di contaminare l'esposizione del diritto (the exposition of the law) con il diritto naturale o la sociological jurisprudence, ribadendo che il diritto è una disciplina scientifica di carattere tecnico (law is a scientific and technical discipline)» (traduzione e corsivo miei). Sorprende, e giustifica il dubbio della possibile commistione segnalata nel testo, perché, secondo Kelsen, a (poter) avere carattere scientifico non è il diritto, ma la dottrina pura del diritto; ad avere carattere scientifico è la dottrina pura del diritto se ed in quanto essa faccia astrazione da ciò che il diritto e le sue norme possono (contingentemente) prescrivere e dai valori dei quali l'uno e le altre possano essere espressione.

49. Simmetricamente, sempre confondendo (pretesa) avalutatività della scienza giuridica e conclamata non adiaforicità del diritto e delle sue norme, alla reine Rechtslehre si è rimproverato di prestarsi a "legittimare" e accordare dignità giuridica a qualsiasi ordinamento giuridico, anche agli ordinamenti di regimi totalitari come quelli fascista e nazista.

50. Critico contro la lettura proposta nel testo è L. Ferrajoli [2007, vol. II, p. 502] che, facendo propria la tesi di L. Gianformaggio [1992] secondo la quale la guerra è sempre e comunque "negazione del diritto", rivendica che, in caso di guerra d'aggressione, la reazione ammessa dalla Carta dell'Onu (nessuna menzione è fatta dei trattati internazionali del primo novecento) non sia «qualificabile, a rigore, come "guerra"» quanto piuttosto «come legittima difesa dalla guerra».

51. Di questo argomento non sembra tener conto M. Jori [2008, pp. 60-61] quando afferma che «[p]er Kelsen, il diritto internazionale è un diritto primitivo e la guerra è l'unica sanzione coattiva concepibile di tale diritto» (corsivo mio); e ancora, mostrando di condividere le ragioni di questa posizione che ascrive a Kelsen, Jori puntualizza inoltre che «chi rifiuta la tesi della guerra-sanzione-giuridica sembra non considerare [...] il costo di un modello o concetto di diritto internazionale [...] distaccato da ogni applicazione della forza coattiva e quindi [...] non-diritto o comunque diritto inerme, in quanto regolerebbe tutti i rapporti internazionali, eccetto quelli coattivi».

52. H. Kelsen [1944, trad. it., p. 51].

53. H. Kelsen [1944, trad. it., pp. 84-89].

54. H. Kelsen [1944, trad. it., p. 51].

55. H. Kelsen [1944, trad. it., p. 106].

56. In letteratura sono ricorrenti critiche e riserve non solo riguardo ai processi di Norimberga, di Tokyo e di quello, celebrato a Gerusalemme nel 1961, contro Otto Adolf Eichmann, ma anche riguardo ai due Tribunali ad hoc dell'Aja e di Arusha istituiti, rispettivamente, il primo, nel 1993, per giudicare dei crimini commessi a partire dal 1991 nei conflitti della ex Jugoslavia, e, il secondo, nel 1994, per giudicare dei crimini commessi, sempre nel 1994, durante gli scontri interetnici in Ruanda. Così, ad esempio, pur nella diversità dei toni e degli accenti, in D. Zolo [2000, pp. 124-168] e [2006 a], A. Cassese [2002], S. Zappalà [2002, pp. 1321-1340], E. Orrù [2010].

57. Alcune prime indicazioni su questo problema sono in T. Mazzarese [2003 a, p. 36, n. 12]; per una ricognizione aggiornata e per preziose indicazioni bibliografiche, cfr. E. Orrù [2010, pp. 33-35].

58. Il primo comma dell'articolo 5 del suo Statuto indica l'aggressione assieme ad altri tre tipi di crimini sui quali la Corte ha giurisdizione: i crimini di genocidio, i crimini contro l'umanità e i crimini di guerra. A differenza di questi ultimi tre tipi di crimini dei quali, nei suoi articoli successivi, lo Statuto offre una caratterizzazione abbastanza dettagliata, del crimine di aggressione, invece, il secondo comma dell'articolo 5 afferma che comincerà ad essere oggetto della giurisdizione della Corte solo quando, sette anni dopo l'entrata in vigore dello Statuto, verrà precisata la sua definizione e verranno indicate le condizioni alle quali potrà essere perseguito. Ad oggi, però, nonostante lo Statuto sia entrato in vigore il primo luglio 2002, più di otto anni fa, un accordo sulla sua definizione non è stato ancora raggiunto. Sulle ragioni e sui termini di questo problema, cfr., ad esempio, W.A. Schabas [2001, pp. 26-28], G. Gaja [2002], D. Zolo [2007].

59. Antecedente a quella segnata dai processi di Norimberga (1945-46) e di Tokyo (1946-48), una prima svolta verso l'affermazione di una giustizia penale internazionale, attenta alla responsabilità personale dei crimini di guerra e dei crimini contro la pace, si ha, a conclusione del primo conflitto mondiale, con l'incriminazione dell'imperatore Guglielmo II di Hoenzollern, sancita dall'articolo 227 del Trattato di Versailles del 1919, per «oltraggio supremo contro la moralità dei trattati». Fortemente criticato da C. Schmitt [1974, trad. it., pp. 339-346], di questo precedente v'è spesso menzione in letteratura; così, ad esempio, in A. Cassese [2002, pp., 4-5] e D. Zolo [2006 a, pp. 24-25].

60. Quattro, in particolare, i principali limiti dell'Accordo di Londra denunciati da H. Kelsen [1947]: (i) il primo è quello delle deroghe all'applicazione del principio della responsabilità penale personale nel caso di imputati che appartengano a "gruppi o organizzazioni" che la Corte dichiari "criminali"; (ii) il secondo è quello della mancata ratifica dell'Accordo di Londra da parte dei paesi di cui erano cittadini gli imputati processati perché, afferma Kelsen, se «un tribunale è istituito per rendere alcuni individui penalmente responsabili per la violazione di un trattato da parte del loro Stato, non rappresenta esattamente un progresso del diritto internazionale generale istituire tale tribunale senza il consenso dello Stato accusato della violazione del trattato» (trad. it., p. 113); (iii) il terzo è che «il principio della responsabilità penale individuale per la violazione delle regole del diritto internazionale che proibiscono la guerra non è stato affermato come un principio generale del diritto, ma come una regola applicabile solo nei confronti degli stati sconfitti da parte dei vincitori [...] il principio affermato nell'Accordo di Londra per la punizione dei criminali di guerra appartenenti all'Asse europeo non è stato inserito [infatti] nella Carta delle Nazioni Unite» (trad. it., p. 114); (iv) il quarto limite, secondo Kelsen «ancora più discutibile», è, infine, che «il tribunale istituito dall'Accordo [di Londra] fosse composto esclusivamente dai rappresentanti degli Stati vittoriosi» (trad. it., p. 115).

61. Nota l'affermazione di H. Kelsen [1945, p. 161] secondo la quale come Re Mida trasformava in oro tutto ciò che toccasse, così, il diritto trasforma in giuridico (dà cioè una specifica valenza e connotazione giuridica a) tutto ciò che è oggetto della propria disciplina e regolamentazione.

62. Sono critici nei confronti della qualificazione della guerra non solo come illecito ma anche come "sanzione" del diritto internazionale, ad esempio, F. Rigaux [1996] e L. Ferrajoli [2007, vol. I, p. 502, e vol. II, p. 621, n. 40].

63. Come si legge in H. Kelsen [1952, p. viii]: «a treatise on International law deals with the problems concerned only from a juristic, and that means from a legal point of view».

64. H. Kelsen [1952, p. viii].

65. H. Kelsen [1950, edizione del 2000, p. xiii, traduzione mia]; ancora più efficace, però, nella versione originale: «This book is a juristic -not a political- approach to the problems of the United Nations. It deals with the law of the Organisation, not with its actual or desired role in the international play of powers».

66. Così, ad esempio, H. Kelsen [1920].

67. Così, ad esempio, H. Kelsen [1942], [1944], [1945].

68. Così, ad esempio, H. Kelsen [1947].

69. Così, C. Nitsch [2005, p. 541, corsivo mio].

70. H. Kelsen [1942, p. 1].