2006

La teoria della guerra giusta in Francisco de Vitoria e il dibattito sulla conquista

Giuseppe Tosi

Potremmo affermare, molto sommariamente, che esistono tre grandi tradizioni o dottrine sulla guerra che si intrecciano e si intersecano, ma che possono essere analiticamente distinte: le dottrine che affermano la guerra come qualcosa di "necessario", inerente alla natura delle cose e delle vicende umane, qualcosa che è parte costitutiva dei rapporti umani e perciò, in certa misura da essi inestirpabile; le dottrine che, pur condividendo fino a un certo punto la tesi della inevitabilità della guerra, si pongono il problema della sua limitazione e delle condizioni del suo esercizio, e che compongono la lunga tradizione della "guerra giusta" e infine le dottrine che sono contrarie alle guerra in ogni sua manifestazione e difendono la sua abolizione verso la prospettiva della pace, se possibile, ... perpetua.

E' sintomatico notare che nell'Antichità non abbiamo una vera dottrina della guerra: né Platone né Aristotele dedicano ad essa un trattato (non esiste un capitolo ad essa dedicato nella Politica): l'unica vera grande riflessione sulla guerra è quella di Tucidide e dei grandi tragici. E' possibile pensare che la guerra non fosse tematizzata perché ritenuta qualcosa de naturale e necessario che apparteneva all'ambito dello jus gentium, quando non addirittura del diritto naturale, ed ammesso dai costumi e dalle leggi di tutti i popoli che affermavano la loro identità contro l'identità del nemico. Esiste una riflessione sulla stasi, la sedizione e la guerra interna o civile come la chiamiamo noi, ma non una sulla guerra, anche se ovviamente sarebbe possibile forse ricostruirla attraverso varie fonti: anche gli antichi sapevano distinguere tra guerra pubblica e conflitto privato e de certa forma avevano dei procedimenti perché la guerra fosse considerata "giusta". Per esempio, Aristotele afferma varie volte nella Politica che la guerra è uno strumento al servizio della pace e critica le potenze militariste e espansioniste (come Sparta) che impongono una educazione eccessivamente militare al suo interno e promuovono all'esterno un governo dispotico sui loro vicini (1).

Ad ogni modo la guerra diventa un problema ed é tematizzata come una questione con il cristianesimo, nella misura in cui il messaggio evangelico è chiaramente e apertamente contrario non solo alla guerra ma a qualsiasi violenza. Basterebbero a dimostrare ciò poche famose citazioni:

"Vi hanno detto: occhio per occhio, dente per dente; ma io vi dico: non resistete al malvagio, ma a chi vi colpisce sulla guancia destra porgete anche l'altra.

Vi hanno detto: amate il vostro prossimo e odiate il vostro nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici, benedite coloro che vi vogliono del male, fate il bene a coloro che vi odiano..." (Matt. 5, 38-45); "A chi ti toglie il mantello, offrigli anche la tunica"; "Rimetti la spada nel fodero perché chi di spada ferisce di spada perisce"

Nonostante le possibili interpretazioni in contrario (basate su passaggi indiretti del vangelo come il famoso "date a Cesare ciò che è di Cesare e Dio ciò che è dei Dio") il messaggio evangelico è un messaggio inequivocabilmente e essenzialmente pacifico, pacifista e non violento. Sebbene non sia una dottrina elaborata e argomentata filosoficamente è la fonte di ispirazione permanente di dottrine religiose e morali che sono radicalmente contrarie alla guerra. E, come è noto, è stato così per lungo tempo: nei primi secoli del cristianesimo, quando non era ancora una religione tollerata e poi ufficialmente ammessa nell'Impero, questa dottrina era una communis opinio all'interno delle chiese e delle comunità cristiane; anche se, come accade con la schiavitù che non fu certo abolita dal cristianesimo, il cristianesimo non abolì certamente gli eserciti e già nei primi tempi i soldati erano ammessi nella comunità cristiana e ai cristiani non era proibito il servizio militare.

Con Agostino di Ippona, nel IV/V secolo, abbiamo un punto di inflessione della dottrina, nel momento in cui egli ammette l'uso della forza per combattere i Donatisti, cambiando di opinione rispetto al suo pensiero anteriore e modificando anche la dottrina della Chiesa a rispetto non solo degli eretici ma in generale dell'uso della violenza. Con Agostino inizia la tradizionale dottrina della guerra giusta e dei suoi quattro presupposti:

  1. l'autorità competente,
  2. la retta intenzione,
  3. le giuste cause (che si possono riassumere nella vindicta iniuriam acceptam, nel ricupero del bottino che il nemico aveva sottratto, nel risarcimento dei danni inferti dal nemico e nel ristabilimento della pace);
  4. Queste tre condizioni si riferiscono soprattutto al diritto a dichiarare la guerra (jus ad bellum), mentre la quarta condizione si riferisce alle regole di conduzione della guerra e alla giusta proporzione fra l'offesa subita e la risposta armata.

Al momento in cui avviene il dibattito sulla conquista del Nuovo Mondo, le tre dottrine che ho delineato sommariamente erano ben presenti e rappresentate: la dottrina della guerra giusta era stata ormai consolidata dalla tradizione scolastica, la teoria della guerra necessaria, anche se non in modo esplicito, era presente in quei pensatori "realisti" come Marsilio da Padova nel Medioevo e Machiavelli nel '500, mentre c'era in atto un rinnovamento del pacifismo o dell'evangelismo cristiano sia ad opera di Erasmo e Moro, sia - in maniera diversa e contraddittoria - ad opera di Lutero.

La dottrina di Francisco de Vitoria (1483-1546) (2) sulla guerra deve essere inserita quindi in questo contesto storico e concettuale. I testi principali nei quali Vitoria affronta il tema della guerra giusta sono le due relectiones dedicate alla questione del Nuovo Mondo, la relectio di Indis (1538) (3) e la relectio de Jure Belli (1539) (4). Inoltre egli affronta il tema nel commento alla Secunda Secundae di Tommaso (questio 40. De bello, in due occasioni, nella edizione da lui curata a Parigi nel 1512 e nelle lezioni ordinarie tenute a Salamanca nel 1534). Si trovano anche dei lunghi riferimenti al problema della guerra nella Relectio de Protestate Civili (1528) e nella Relectio de Temperantia (1537). (5) Il testo classico di riferimento rimane comunque la Relectio de Jure Belli dove Vitoria presenta, di maniera sintetica e chiara la sua posizioni sul diritto di guerra.

I contesti storici nei quali Vitoria sviluppa la sua riflessione sono, da un lato la Conquista del Nuovo Mondo e dall'altro le vicende dell'Europa del primo Cinquecento divisa al suo interno dalle guerre fra potenze cristiane sia a causa dei conflitti religiosi sia per la lotta fra l'Imperatore e i nascenti stati nazionali (principalmente la Francia di Francesco I) e minacciata al suo esterno dall'espansione dell'impero ottomano. I due contesti sono profondamente diversi, e richiedono una diverso approccio: nel primo caso si tratta di giustificare una guerra di conquista di territori assolutamente sconosciuti, dall'altra di chiamare all'unità il mondo cristiano - profondamente lacerato dalle divisioni religiose e politiche interne - per fronteggiare la minaccia dell'espansione dell'impero turco ottomano.

Il differente contesto implica anche differenti interlocutori con i quali Vitoria si confronta. Nel dibattito sul Nuovo Mondo sono i "peruleros", come li chiama con disprezzo nella famosa lettera al padre Arcos e i loro apologeti, primo fra tutti Juan Ginès de Sepúlveda che, nei due trattati sulla guerra, (6) difendeva un avvicinamento molto più stretto fra religione e militarismo e una posizione senz'altro più bellicista nell'affrontare la questione del Nuovo Mondo. Nel dibattito sulla situazione europea gli interlocutori di Vitoria saranno, esplicitamente Lutero e implicitamente Erasmo da Rotterdam che, nella l'Institutio principis cristiani (1516) e nella Quaerela pacis (1517) (7) aveva sostenuto una forma radicale di pacifismo cristiano.

Le posizioni di Vitoria sulla guerra giusta cambiano secondo i contesti a cui si riferiscono e agli interlocutori con i quali dialoga: nel caso del Nuovo Mondo, Vitoria è preoccupato in contrastare le atrocità commesse dai conquistadores verso i popoli recenter inventi di cui egli aveva notizia chiara attraverso i missionari domenicani. Nel caso delle vicende europee, se Vitoria invita alla moderazione e alla pacificazione fra i principi cristiani, è invece durissimo nei confronti dei perpetui hostes cioè dei nemici storici della cristianità, rappresentati, in quel momento, dai turchi.

Come è stato osservato da vari interpreti, fra i quali il Giacon, nella sua classica opera sulla Seconda Scolastica, il principale contributo di Vitoria e della Scuola di Salamanca si riferisce a temi etico-politici più che metafisici (8) e, come ha giustamente osservato Luppi: "Gli scritti di Vitoria non sono mai trattati sistematici e organici basati su principî generali, ma piuttosto applicazioni di tali principi alla soluzione di casi concreti" (9) Era stato così per la relectio dedicata al tema allora attualissimo degli indios e lo sarà per la questione della guerra che divideva la cristandad europea e ne minacciava la stessa esistenza di fronte all'invasione turca.

Il pensiero di Vitoria è stato variamente e contraddittoriamente interpretato; ne è stata fatta soprattutto una lettura sub specie modernitatis, cioè una lettura "all'interno di un processo 'evolutivo' del pensiero giuridico e politico che avrebbe il suo esito naturale e quasi il suo culmine nelle prevalenti ideologie laiche e secolariste dei 'diritti dell'uomo'" (10). In questo modo, si promuove allo stesso tempo l'esaltazione del passato rispetto alla modernità e il riconoscimento della "modernità" del passato, con che facendo, a una lettura apologetica e spesso trionfalistica se ne aggiunge una anacronistica. (11) In questa prospettiva si inseriscono, per esempio, gli studiosi iberici che hanno collaborato alla pubblicazione di una serie di testi e commenti che va sotto il nome, già di per se significativo, di "Corpus Hispanorum de Pace". (12) Secondo Luciano Pereña, direttore editoriale della collana, la Scuola di Salamanca è la "Scuola della pace" (13) e il suo fondatore, Francisco de Vitoria viene esaltato come un umanista (defensor de lo humano (14)), "maestro della pace", "antiimperialista e democratico", creatore di uno "spirito nuovo di comprensione e tolleranza", propugnatore dell'unità europea e di un sistema di "garanzie e principi della pace internazionale tali come il blocco economico e diplomatico", che trovava nella mediazione del Papa la forma "naturale e organica" di risolvere i conflitti interni all'Europa. (15)

Per quanto sia possibile, cercheremo di evitare letture deformanti del pensiero di Vitoria che proiettano sul passato i problemi e il linguaggio tipici della contemporaneità, cercando di rispettare la concettualità propria dell'autore e del contesto storico in cui si inserisce. (16) L'ipotesi che vorremmo sostenere, è che Vitoria è un autore tipicamente di transizione, che si colloca in un momento di passaggio da un paradigma a un altro, o da una concettualità politica a un'altra. Egli usa il linguaggio antico, in una apparente fedeltà alla tradizione, per risolvere problemi nuovi: e in questo risiede l'ambivalenza del suo pensiero che da adito a una molteplicità di interpretazioni. È un pensiero, che dietro l'apparente chiarezza, sicurezza e autorità dell'esposizione e del metodo scolastico, nasconde paradossi, aporie e questioni non risolte.

Presenteremo la dottrina di Vitória sulla guerra giusta nei due contesti storici citati e nelle due opere che ad essi si riferiscono, cioè le due relectiones De Indiis, inserendola nel contesto più generale della concezione vittoriana della relazioni internazionali e dello jus gentium.

Jus gentium

Nella seconda parte della De Indis, Vitoria realizza una spietata e lucida critica ai principali titoli che erano riconosciuti nel suo tempo per giustificare la Conquista. Afferma che l'Imperatore non è dominus totius orbis, come pretendevano i teologi imperiali; (17) nega che il Papa possieda la plenitudo potestatis negli affari temporali"; (18) non riconosce il diritto di scoperta (jus inventionis) come motivo legittimo di conquista affermando, in tono ironico che questo motivo era tanto legittimo quanto lo sarebbe la scoperta dell'Europa da parte dei popoli del Nuovo Mondo (non plus quam si ipsi invenissent nos); (19) ribadisce la dottrina che il rifiuto della fede cristiana, per se, non è motivo di guerra giusta. (20) Afferma che i peccati contro natura, come il cannibalismo e i sacrifici umani, commessi dai barbari del Nuovo Mondo non sono sufficienti per muovere una guerra; (21) sottolinea, non senza una certa ironia, che i "barbari" non si sono sottomessi per scelta volontaria, ma in seguito all'uso della forza; (22) e, finalmente nega il ricorso a una speciale concessione divina, allegato dagli apologeti della conquista che usavano e abusavano del paradigma della Terra Promessa. (23)

Con questa severa requisitoria, Vitoria ritira ogni pretesa di legittimità ai titoli comunemente ammessi come sufficienti e si impegna in una ricerca di nuovi argomenti e giustificazioni nella terza parte dedicata ai titoli legittimi. È in questo contesto che Vitoria presenta la sua concezione dello jus gentium. Mentre in opere precedenti aveva incluso lo jus gentium nell'ambito del diritto positivo, (24) nella De Indis prende posizione in modo preciso per la sua inclusione nell'ambito del diritto naturale o derivato dal diritto naturale: "Ciò si prova innanzitutto per il diritto delle genti che è di diritto naturale o derivato dal diritto naturale." (25) Inoltre modifica la tradizionale definizione dello jus gentium, affermando che: "Ciò che la ragione naturale stabilisce fra tutte le genti, si chiama diritto delle genti" (26)

Vitoria sostituisce omnes homines con omnes gentes, e attribuisce agli stati il ruolo di soggetti del diritto internazionale. Afferma, poi, il principio della naturale comunicazione e società fra i popoli, come principio di diritto naturale che orienta lo jus gentium e da questo principio deriva sette diritti ad esso connessi che si applicano al caso in questione, di cui citeremo i primi due. Il primo diritto è lo "jus peregrinandi et degendi", (27) al quale è associato lo "jus commercii". Si tratta del diritto alla libera circolazione delle persone e delle merci per lo scambio di quei beni che alcuni popoli hanno in eccesso e dei quali altri sono carenti. (28) L'argomento principale per giustificare il commercio fra gli uomini é la loro naturale parentela (cognatio) che egli afferma, negando la citazione di Plauto di che l'uomo è lupo dell'altro uomo:

E come si afferma nel Digesto I, 1, 3 (Corpus Juris Civilis) a rispetto della forza: fra tutti gli uomini la natura ha stabilito una certa parentela. Perciò è contro il diritto naturale che un uomo sia avversario di un altro uomo senza un motivo. Infatti l'uomo non è lupo dell'uomo, come disse il comico Plauto, ma è uomo" (29)

In nome di questa universale parentela, il diritto delle genti rende gli scopritori proprietari delle cose che non sono di nessuno "quae in nullius bonis sunt, iure gentium sunt occupantis." (30)

Il secondo titolo é lo "Ius praedicandi et annuntiandi Evangelium", (31) che Vitoria introduce come se fosse implicito nel primo; ma lo statuto giuridico dei due titoli non è uguale: mentre il primo titolo si fonda sul diritto naturale, il secondo riguarda il diritto divino, cioè il diritto-dovere per i cristiani di predicare e di propagandare il vangelo. La relazione e la compatibilità fra i due principi, come vedremo, non sarà del tutto facile. Vitoria, per esempio, giustifica il mandato conferito dal Papa ai principi cattolici iberici sui nuovi territori scoperti attraverso un'interpretazione estensiva del principio tomastico del potere temporale della Chiesa in ordine ad spiritualia. (32)

È in questo contesto di un diritto delle genti avente come soggetti non gli individui ma i popoli che devono mantenere fra loro relazioni di scambio di beni, di persone e di idee, che trovano il loro fondamento nella naturale amicizia e nell'interesse reciproco, che Vitoria introduce il tema della guerra giusta.

La guerra giusta e il nuovo mondo

Una volta definite le nazioni come soggetti di diritto internazionale e i principali diritti naturali che devono ispirare i loro rapporti, Vitoria affronta il terzo principio fondamentale della sua concezione dell'ordine mondiale, cioè la discussione sulla guerra giusta che sarà poi sviluppata nella relectio De Iure Belli successiva. (33) Se i barbari non permettono questa "libera circolazione" potranno, allora, essere legittimamente trattati con le armi:

Se i barbari volessero proibire agli spagnoli di fare le cose sopra citate - che appartengono al diritto delle genti, tali come il libero commercio e le altre cose di cui abbiamo parlato - gli spagnoli devono, in primo luogo con la ragione e la persuasione rimuovere questo impedimento/ostacolo e mostrare con tutte le ragioni e gli argomenti che essi non sono venuti per fare loro del male; ma in modo pacifico, per soggiornare e viaggiare senza provocare loro nessun incomodo o danno. E ciò deve essere mostrato non solo a parole ma con i fatti, come afferma il detto: conviene che il saggio faccia tutto ciò che è possibile innanzitutto con le parole. Solo in seguito se i barbari, nonostante le ragioni addotte, non volessero consentire, ma reagissero con la forza, gli spagnoli possono difendersi e fare tutto ciò che conviene alla loro sicurezza di accordo con la massima che è lecito respingere la forza con la forza. E non solo, ma possono erigere fortificazioni e strumenti di guerra. E se ricevono un'offesa possono riparare/vendicare l'offesa con la guerra indetta dalla legittima autorità del principe e mettere in moto tutti gli altri diritti di guerra. (34)

Il ricorso alla guerra è ammesso dopo che siano state esaurite tutte le forme di persuasione pacifica, non solo a parole, ma anche attraverso fatti concreti che mostrino la volontà pacifica degli spagnoli di instaurare un rapporto di scambio e di commercio su basi di reciproca utilità. La guerra è vista quindi come extrema ratio e, in un primo momento, ammessa solo come guerra puramente difensiva che non dà diritto di sottomettere il nemico e di farlo prigioniero:

E perciò se, spinti da questo timore, si uniscono per scacciare o uccidere gli spagnoli, è certamente lecito agli spagnoli difendersi, mantenendo le giuste misure di una difesa irreprensibile. Non è però lecito esercitare contro di loro gli altri diritti di guerra, come ucciderli, spogliarli dei loro beni, occupare le loro città, perché in quel caso sono innocenti come abbiamo supposto e temono con ragione. E perciò gli spagnoli devono sì proteggersi per quanto sia loro possibile con il minimo danno verso di loro, giacché si tratta di una guerra puramente difensiva". (35)

Il giustificato timore (et merito timent) che i barbari provano davanti agli spagnoli così diversi, armati e molto più forti di loro, può essere un motivo di guerra giusta da parte degli indigeni. In questo caso, ammette Vitoria, la guerra sarebbe giusta da ambo le parti, perché "ex una parte est ius et ex altera ignorantia invincibilis". L'ignoranza invincibile dei barbari deve essere tenuta in grande considerazione ("et hoc multum est considerandum") perché diversa è una guerra contro un nemico colpevole o ignorante: "Alia enim sunt iura belli adversus homines vere noxios (et iniuriosos) et alia adversus innocentes et ignorantes." (36) È importante segnalare però che l'ammissione della possibilità di una guerra giusta da parte degli indigeni non proviene da un loro diritto (ius) ma dalla loro ignoranza invincibile, che costituisce un'attenuante ma non un vero e proprio diritto (37).

Comunque, nel prosieguo dell'argomentazione, queste remore e raccomandazioni vengono progressivamente a cadere e la guerra diventa non solo difensiva ma anche offensiva e preventiva:

Ma se, dopo che gli spagnoli con tutta scrupolosità e coscienza sia a fatti che a parole, avessero mostrato che non dipendeva dal loro comportamento (perché agivano pacificamente e senza danno per i loro beni), e nonostante ciò i barbari perseverassero nella loro malvagità e lottassero per la perdizione degli spagnoli, allora gli spagnoli potranno agire non più come se fossero innocenti, ma come si agisce contro nemici perfidi, e possono mettere in atto tutti i diritti di guerra e spogliarli dei loro beni, e ridurli in schiavitù e deporre i loro signori pristini e sostituirli con nuovi (tuttavia di forma moderata secondo la qualità del fatto e delle offese). (38)

L'innocenza degli indigeni, se non altro a motivo dell'ignoranza invincibile, non viene più riconosciuta. Vitoria, partendo dal principio del diritto al libero commercio e della comune natura umana, arriva in un continuo crescendo a giustificare il diritto degli spagnoli a garantire questo libero commercio prima con la persuasione e le opere, poi con la guerra difensiva e finalmente con la guerra aggressiva verso gli indigeni che qui appaiono come perfidi hostes verso i quali si applica il diritto di guerra: la spoliazione, la riduzione in cattività e la deposizione dei loro legittimi signori.

Come in altri luoghi, quando percepisce che il suo discorso generale può essere interpretato come una licenza indiscriminata alla violenza, Vitoria introduce un invito alla moderazione e un'avvertenza: la guerra si giustifica solo in caso di aggressione e di impedimento oggettivo degli indigeni al libero commercio, altrimenti "nullam possent hispani ex hac parte praetendere iustam causam occupandi bona illorum non plus quam christianorum." (39) È significativo notare il principio di reciprocità che Vitoria introduce (non plus quam christianorum) qui come in altre occasioni (non plus quam si illi invenissent nos), ma che, come vedremo, non porta fino alle sue ultime conclusioni.

Queste giustificazioni basate sul diritto del libero commercio e sul diritto di predicare il vangelo, hanno fatto affermare ad alcuni interpreti che Vitoria è un ideologo del nascente mercantilismo moderno. (40)

La guerra giusta e il vecchio mondo

Il tema della guerra giusta sarà ripreso da Vitoria in modo sistematico nella relectio immediatamente successiva, la Relectio de iure belli. Il testo si inserisce nella lunga tradizione medievale che aveva consolidato la dottrina sulla guerra giusta, (41) il cui fondamento era rimasto sostanzialmente l'opera di Sant'Agostino, e appare nel momento in cui avveniva un grande dibattito contemporaneo sulla guerra e sui suoi metodi nella quale interverranno i principali intellettuali dell'epoca, preoccupati per i conflitti interni alla cristianità che si stavano intensificando con la scissione della cristianità operata dalla Riforma e dalla minaccia dell'invasione dell'Impero Turco Ottomano. Vitoria si inserisce in questo dibattito con un testo breve e conciso, considerato un classico nel suo genere, (42) per i nuovi contributi che egli introduce, e pieno di suggerimenti volti ad adattare il diritto di guerra alla nuova realtà degli stati nazionali emergenti e delle caratteristiche del diritto delle genti che lo stesso Vitoria aveva sbozzato.

Jus ad bellum

La prima questione da affrontare era se la guerra fosse compatibile con la religione cristiana, infatti il comportamento e le prescrizioni di Cristo nei vangeli sembrerebbero affermare l'impossibilità totale per il cristiano di fare la guerra. (43) Questi erano gli argomenti sollevati dai pacifisti come Erasmo e, per lo meno fino a un certo punto, da Lutero. Vitoria risponde alle obiezioni del pacifismo evangelico in modo un po' sbrigativo, ricorrendo alla distinzione tradizionale fra precetti e consigli: "Ad hoc satis videtur responderi quod haec sunt in consilio, non autem in praecepto", dottrina che considera come opinione unanime e costante della tradizione cattolica. Gli appare perciò strana e paradossale la tesi di Lutero che egli rifiuta nettamente:

Tuttavia Lutero, che non ha lasciato niente incontaminato, nega che i cristiani possano prendere le armi perfino contro i turchi, appoggiandosi nel passaggio della scrittura sopra citato e affermando che: se i turchi invadono la cristianità, ciò è per volontà di Dio alla quale non è lecito resistere" (44)

A ciò risponde Vitoria con vari argomenti, il principale è che la guerra appartiene al diritto naturale, e la legge evangelica non può andare contro ciò che è lecito per diritto naturale come mostra Tommaso. Questo ad ogni modo deve valere per lo meno per la guerra difensiva, perché è un principio elementare del diritto naturale "quia vim vi repellere licet". Anche la guerra offensiva, quella cioè fatta per vendicare una offesa, è legittima perché la sicurezza della Repubblica non potrebbe sussistere se non si dissuadesse il nemico dal commettere ingiustizie col timore della guerra, e la pace e la tranquillità di tutto l'orbe sarebbe impossibile se i malvagi potessero impunemente arrecare offese agli innocenti.

La legittima autorità: Repubblica o Impero? (45)

L'altro tema fondamentale che Vitoria affronta si riferisce alla legittima autorità, che è il primo requisito necessario perché una guerra sia giusta. (46) In quel momento storico esisteva una disputa all'interno della cristianità fra i principi e l'Imperatore: i principi erano formalmente sottoposti all'Imperatore, ma di fatto sempre più autonomi. Vitoria difende la tesi che anche una singola repubblica, e non solo l'Imperatore, è autorizzato a indire la guerra, infatti ogni repubblica costituisce uno stato perfetto come afferma Aristotele (47):

Ed è provato, come dice Aristotele nel libro III della Politica, che la repubblica deve bastare a si propria. Ma non può conservare il bene pubblico in modo soddisfacente una repubblica che non può vendicare una offesa e punire i nemici". (48)

Anche se Vitoria ammette l'autorità dell'Imperatore su più repubbliche perfette (49), riconosce allo stesso modo che i principi hanno il diritto di dichiarare la guerra senza l'autorizzazione dell'Imperatore:

Rispondo che senza dubbio possono muovere guerra: perché i re che sono soggetti all'Imperatore possono guerreggiare fra di loro, senza aspettare/rispettare l'autorità superiore. Perché, come si è detto, la repubblica deve bastare a se stessa e non potrebbe esserlo senza questa libertà e facoltà". (50)

Il concetto di società perfetta che si fonda sulla autarkeia aristotelica e tende a giustificare la politica di sovranità nazionale del Regno di Castiglia e Aragona contro le pretese imperialistiche dell'Imperatore e del Papa. (51)

Motivi per i quali non si può promuovere con giustizia la guerra

Vitoria affronta il secondo criterio stabilito dalla tradizione, quello dei motivi giusti di guerra: la diversità di religione, l'ampliamento dei territori e la gloria personale del principe non sono considerati motivi sufficienti.

Per negare la diversità di religione come motivo giusto, (52) Vitoria fa un riferimento esplicito al quarto titolo non legittimo per il dominio dei barbari esposto nella seconda parte della De Indis, ribadendo lo stesso argomento.

Vitoria nega che il semplice desiderio di ampliare i territori (53) possa essere un motivo giusto perché, se così fosse, tutti troverebbero dei motivi validi per aumentare il proprio territorio e si darebbe il caso in cui entrambi i belligeranti fossero innocenti: "quia alia esset aeque iusta causa belli ex utraque parte, et sic essent omnes innocentes". La teoria della guerra giusta, infatti, ha come sua caratteristica fondamentale che solo uno dei due contendenti ha ragione e l'altro ha necessariamente torto (salvo il caso eccezionale della ignoranza invincibile). (54)

Questo è uno dei punti discriminanti, secondo Carl Schmitt fra le teorie che, come quelle di Vitoria, difendono la guerra giusta nel doppio senso di ius ad bellum e ius in bello, e invece le teorie moderne per le quali ci si limita allo ius in bello, cioè a limitare le offese durante il conflitto bellico, ma non ci si domanda più sulla liceità della guerra, non ci si chiede più chi ha ragione o chi ha torto, perché si parte dal presupposto che entrambi hanno le loro ragioni per promuovere una guerra, fra le quali ci può essere anche la conquista territoriale.

L'interesse proprio del principe non può essere un motivo giusto perché, in questo caso, il principe si trasformerebbe in tiranno, como afferma Aristotele, e quindi perderebbe la legittimità: "nam tyrannus ordinat regimen ad proprium quaestum et commodum; rex autem legitimus ad bonum publicum, ut tradit Arist. (4 Politicorum cap. 10). In questo caso, il tiranno che costringesse i cittadini ad una guerra non per il bene pubblico ma per il suo beneficio personale, li tratterebbe non più come cittadini ma come servi "cives servos facere". (55)

Questa affermazione, deve essere messa in relazione con le altre sull'origine del potere che, per Vitoria è conferito al principe dal popolo e deve essere esercitato per il bene del popolo: "Item (princeps) habet auctoritatem a republica, ergo debet uti illa auctoritate in bonum reipublicae". I cittadini sono liberi e non servi, nel senso aristotelico, cioè "liberi autem sunt propter se solos, non propter alios".

Queste esortazioni sono rivolte principalmente ai principi cristiani che in quel periodo, invece di unirsi per fronteggiare il nemico comune, si stavano dilacerando in continue guerra interne: il riferimento è ovviamente alla disputa fra Carlo V e Francesco I di Francia

L'unico motivo di guerra giusta rimane la riparazione delle offese ricevute: "ad vindicandum iniuriam acceptam" (56). Questa affermazione perentoria è giustificata ricorrendo all'autorità di Agostino e Tommaso e a principi di ragione evidenti, con l'avvertenza di che non tutte le offese sono motivo sufficiente per la guerra, infatti come prescrive il Deuteronomio: "Il tipo di pena deve essere conforme la giusta misura del delitto." (57) Ed è questo il terzo criterio di guerra giusta che Vitoria applica.

Jus in bello (58)

Vitoria si occupa poi dello "ius in bello" esaminando, in una prima parte, che cosa sia lecito fare durante una guerra e nella seconda con che misura e intensità. (59) E' lecito, dice Vitoria, fare tutto ciò che è necessario al bene pubblico e alla sua difesa, il che include il recupero delle cose sottratte e dei danni inferti dall'avversario; inoltre è lecito promuovere tutte quelle azioni che sono necessarie al mantenimento della pace e della sicurezza da nuovi attacchi dei nemici, come la distruzione delle loro roccaforti. (60) Infine è lecito anche vendicare le offese fatte dal nemico e punirli per tali offese, (61) infatti il Principe non ha solamente l'obbligo di recuperare i beni materiali ma anche di difendere l'onore della nazione: "Princeps autem non solum res alias sed honorem et auctoritatem reipublicae defendere habetur". Tale diritto gli conferisce una autorità non solo verso i suoi sudditi ma anche verso gli estranei, per impedirli di commettere altre offese. (62)

È in questo contesto che Vitoria affronta la questione centrale del "legittimo giudice fra le due parti" che risolve attribuendo questo ruolo allo stesso principe che muove una guerra giusta:

Se qualcuno è legittimo giudice di entrambe le parti che si fanno la guerra, può condannare l'aggressore ingiusto e gli autori della guerra, non solo a restituire i beni sottratti, ma anche a risarcire le spese belliche e tutti i danni. Ma il principe che conduce una guerra giusta, ha se stesso come giudice in caso di guerra, come abbiamo appena detto; perciò anch'egli può esigere dai nemici tutte queste cose". (63)

Questo è un punto importante nel pensiero di Vitoria, il quale non potendo più ricorrere alle supreme autorità medievali, il Papato e l'Impero, o meglio, tentando di far coesistere allo stesso tempo le due autorità con i nuovi regni, giunge a risultati problematici, come ammettere che il Re è giudice in causa propria, elemento che non è coerente con la teoria della guerra giusta, che prevede, appunto, un giudice super partes. Saremmo quindi in un momento di transizione fra una concezione medievale e una moderna che si svilupperà più avanti, soprattutto in seguito alle guerre di religione e alla consolidazione degli Stati nazionali. (64)

Vitoria comunque arriva ad affermare che questo intervento del principe non è solo legittimo per diritto delle genti ma anche per diritto naturale:

E' evidente che ciò è giusto anche per diritto naturale, perché la terra non può stare senza che ci sia qualcuno con forza e autorità sufficienti per dissuadere gli improbi dal nuocere ai buoni. E tutto ciò che è necessario per il governo e la manutenzione dell'ordine lo è per diritto naturale" (65)

Il contesto dell'argomentazione, giocata sulla differenza fra improbi e boni, ci fa supporre che egli abbia in mente la minaccia costituita dall'invasione dei turchi che collocava a rischio l'intera cristianità; infatti il ragionamento presuppone che sia possibile stabilire con assoluta certezza chi sia colpevole e chi sia innocente in questa guerra e che il principe abbia la vis e la auctoritas deterrendi improbos ne bonis noceant". (66) É parte della coerenza del discorso di Vitoria sulla guerra giusta la necessità di una autorità superiore che sia legitimus iudex utriusque partis gerentis bellum e che sia assolutamente nel giusto per avere l'autorità di dissuadere i malvagi e difendere i buoni. Allo stesso tempo, Vitoria si accorge che questa autorità non c'è più e quindi la attribuisce allo stesso principe che si torna il giudice in causa propria dei nemici colpevoli (hostes obnoxii).

Non è questo il caso degli indios, perché, come aveva detto nella "De Indiis": in utraque partem habent speciem boni aut mali, qualia sunt multa genera commutationum et contractum et negotiorum. Appare invece più plausibile che egli avesse in mente la guerra non contro i "barbari" ma contro gli infedeli mussulmani, perpetui hostes dei cristiani.

Problemi di coscienza

Dopo aver esposto con vigore questa teoria che, se non si può definire bellicista, non è certo pacifista, Vitoria presenta una serie di dubbi relativi sia allo jus ad bellum che allo ius in bello, che tendono a limitare la guerra a casi determinati e a stabilire regole "quantitative" che potessero limitare gli eccessi e soprattutto le conseguenze verso le popolazioni "innocenti". Ci limiteremo ad analizzare il secondo tipo di dubbi, relativi cioè allo jus in bello, a ciò che è lecito o no fare durante la conduzione della guerra e riassumere le indicazioni più importanti..

Il primo dubbio (67) si riferisce all'uccisione degli innocenti: essa è proibita quando è commessa in modo intenzionale: Nunquam licet per se et ex intentione interficere innocentem. Fra gli innocenti Vitoria colloca i bambini e le donne, anche nella guerra contro i turchi, e fra i cristiani, gli agricoltori inoffensivi, i magistrati, i pellegrini e i religiosi. (68) Ma, se è proibito uccidere gli innocenti intenzionalmente, può esserlo occasionalmente:

E' lecito uccidere gli innocenti, anche con conoscenza di causa, accidentalmente, per esempio nel caso di espugnare una fortezza o una città in una guerra giusta, nella quale pure si registra la presenza di molti innocenti, né gli ordigni possono fare distinzioni, né altre manovre possono sottrarre dal fuoco degli edifici che cadono su innocenti e colpevoli" (69)

Vitoria cerca subito di limitare questa possibilità teorica ricordando che la guerra non deve procurare danni maggiori di quelli che si vogliono evitare con la stessa guerra: "quod oportet cavere ne ex ipso bello sequantur maiora mala quam vitentur per ipsum bellum" e che perciò bisogna trovare una certa misura e non si possono uccidere molti innocenti per colpire pochi "nocentes".

Vitoria risponde poi al dubbio di chi crede legittimo uccidere i figli dei saraceni perché potranno arrecare danno in futuro:

Se sia lecito uccidere gli innocenti dai quali ci si può aspettare un futuro pericolo, come per esempio i figli dei saraceni che sono innocenti, ma che si può temere con fondamento che una volta diventati adulti, possano lottare contro i cristiani". (70)

Nonostante gli esempi biblici di Sodoma e Gomorra e alcune prescrizioni del Deuteronomio che ordinano lo sterminio di tutti i nemici di Israele (71), Vitoria si dichiara decisamente contrario a tale pratica perché, dice, non si può uccidere qualcuno per un peccato futuro che non ha ancora commesso:

Credo che in nessuno modo ciò sia lecito, perché non si può fare del male per evitare altri mali, anche nel caso che siano maggiori. Ed è certamente intollerabile che si uccida qualcuno per un peccato futuro". (72)

In questo modo Vitoria afferma che i prigionieri di guerra innocenti devono essere messi in libertà sia nelle guerre fra cristiani che in quelle contro gli infedeli.

Segue il secondo dubbio che si riferisce alla possibilità non di uccidere, ma per lo meno di spogliare gli innocenti dei loro beni in caso di guerra giusta. Vitoria risponde che questo è possibile nel caso che non ci sia altra maniera di risarcimento di guerra alternativa. Inoltre ammette il diritto di rappresaglia (repraesalia) degli offesi verso gli stranieri nel caso in cui l'autorità del re straniero non interviene per riparare al torto commesso dai suoi sudditi. Ma avverte che queste rappresaglie sono pericolose e danno origine a rapine.

Il terzo dubbio (73) si riferisce alla possibilità di prendere prigionieri gli innocenti. A questo risponde Vitoria che, in principio, è possibile perché "libertas et captivitas inter bona fortunae reputantur". Però che il ricorso alla schiavitù delle donne e dei bambini saraceni è ammesso (non sta qui in gioco la schiavitù degli uomini adulti saraceni che è fuori discussione perché pratica lecita), ma non nel caso delle donne e dei bambini cristiani che possono essere presi prigionieri solo per chiederne il riscatto ma non ridotti per essere ridotti in schiavitù.

Il quarto dubbio si riferisce alla possibilità di uccidere agli ostaggi caso il nemico non stia ai patti convenuti. Vitoria ammette questa possibilità solo per i nemici che hanno preso le armi e possono quindi essere condannati a morte, ma non per gli innocenti, cioè per le categorie prima definite.

Il quinto dubbio (74) si riferisce alla terribile questione della guerra di sterminio del nemico, la quale viene ammessa, anche se con restrizioni. Dice infatti il teologo di Salamanca che le cause della guerra giusta sono: ad defendendum nos et nostra, ad recuperandum res ablatas, ad vindicandum iniuriam acceptam, ad pacem et securitatem parandum. Ora, nel calore del combattimento non si può risparmiare nessuno di quelli che si oppongono con le armi; ma alla fine della battaglia quando i nemici non costituiscono più un pericolo per noi (ubi iam nullum est periculum ab hostibus), possono essere uccisi? Egli risponde affermativamente: "habita victoria et rebus iam extra periculum positis licet interficere nocentes". Questa tesi viene giustificata perché fra i motivi della guerra non c'è solo quello di recuperare il bene ma di vendicare l'offesa, "vendetta" che può arrivare fino allo sterminio del nemico.

E' provato che (la guerra si destina) non solo a recuperare i beni perduti ma anche a riparare l'offesa subita. Perciò, a causa dell'autore di una offesa passata, è lecito uccidere gli autori di offese" (75)

Vitoria ammette però che non tutti i casi è permesso uccidere i nemici per vendicare le offese, ma solo nei casi in cui la grandezza dei delitti e delle offese inferte dal nemico sia tale da giustificare una misura così estrema: "Oportet ergo habere rationem iniurias ab hostibus acceptae et damni illati et aliorum delictorum".

Lo sterminio dei nemici (aliquando licet et expedit interficere omnes nocentes) è ammissibile quando è l'unico mezzo per garantire la pace, come per esempio nel caso degli infedeli turchi che minacciavano di annichilire la cristianità.

E ciò é più evidente contro gli infedeli dai quali mai in nessuna condizione ci si può aspettare la pace. E perciò l'unico rimedio è eliminare tutti coloro che possono portare guerra a qualcuno, purché già fossero colpevoli. Ed è in questo modo che deve essere inteso il precetto di Deuteronomio 20. (76)

Fra i cristiani deve invece prevalere la moderazione: "pro mensura delicti sit plagarum modus" di fronte ai danni che lo sterminio dei prigionieri arrecherebbe alla cristianità e al mondo: "Si semper victor interficeret adversarios omnes, esset magna pernicies generis humani et christianae religionis et orbis cito in solitudine redigeretur" (77).

Il sesto dubbio (78) si riferisce alla possibilità di uccidere i prigionieri nella supposizione che siano colpevoli. Vitoria risponde che in teoria sarebbe possibile, ma esiste un costume dello "ius gentium" che lo vieta. (79)

Il settimo dubbio (80) riguarda argomenti tecnico-giuridici rispetto al bottino di guerra, che riassumiamo. Vitoria ammette che tutti i beni catturati in una guerra giusta passano al vincitore per risarcimento delle offese e dei danni e tutti i beni mobili dei perdenti, anche se eccedono la compensazione dei danni passano al vincitore. Ammette perfino il sacco di una città è nel caso in cui così lo esiga la guerra o sia necessario per mettere timore ai nemici o per "accendere" l'animo dei soldati (ad accendendum militum animos). Però raccomanda che questo avvenga solo in casi eccezionali e che sia espressamente autorizzato dai comandanti e non per iniziativa dei soldati (nel qual caso essi sono obbligati a restituire il mal tolto: tenetur ad satisfactionem et restitutionem).

Vitoria lascia per un momento il suo tono astratto e descrive con minuzia le atrocità della guerra: il sacco di Roma era avvenuto nel 1527 ed era stata una guerra fra cristiani, anzi contro la suprema autorità della cristianità, e con l'autorizzazione dell'Imperatore:

Da queste concessioni seguono molti mali crudeli e feroci che ultrapassano qualsiasi umanità, che sono commessi dai soldati, come stragi e torture di innocenti, ratto delle vergini, stupro delle spose, spoliazioni dei templi. Ed è senza dubbio ingiusto/iniquo distruggere una città, sopratutto se cristiana, senza un grande motivo ed una effettiva necessità" (81)

Inoltre non solo i beni mobili ma anche quelli immobili ("agrum et arces") possono essere trattenuti come compensazione dei danni, e perfino parte del territorio e alcune roccaforti e città ritenute strategiche, anche se in questo caso Vitoria invita di nuovo alla moderazione e alla restituzione dei territori una volta fatta la pace.

Vitoria ricorda che l'Impero Romano si è fondato sulle conquiste territoriali e nonostante ciò Cristo ha detto il famoso "date a Cesare ciò che è di Cesare", indirettamente giustificando e legittimando l'esistenza dell'Impero. Con questo, Vitoria non sta comunque giustificando una politica di annessione di territori che aveva esplicitamente scartato all'inizio.

L'ottavo dubbio (82) riguarda la possibilità di imporre tributi ai vinti. La risposta è positiva e continua sulla stessa logica precedente. Il nono dubbio (83) si riferisce alla legittimità di deporre i principi vinti in guerra e di sostituirli con altri o di annettere i loro territori. Qui Vitoria fa un passo indietro rispetto alla politica espansionista che stava giustificando e dice risolutamente che nessun guerra giusta può arrivare al punto di deporre il sovrano e annettere il principato: "Hoc non passim et ex quacqumque causa belli iusti licet facere". Ricorre di nuovo all'argomento della proporzionalità della pena all'offesa e afferma che questa regola è conforme il diritto positivo, naturale e divino e che annettere uno stato sarebbe inumano e crudele:

Perciò, ammesso che le offese provocate dai nemici siano un motivo sufficiente di guerra, non sempre lo saranno per lo sterminio dello stato nemico e la deposizione dei legittimi e naturali principi. Infatti ciò è assolutamente crudele e inumano. (84)

Se questo fosse vero, i re cattolici non avrebbero il diritto di deporre i veri principi e annettere il loro territori all'Impero cristiano, come invece avevano fatto con i popoli del Nuovo Mondo. Qui probabilmente Vitoria ha in mente più i principi cristiani che non i "barbari". Finalmente, egli ammette che in alcuni casi rarissimi e gravissimi, quando è in gioco la sopravvivenza della repubblica ("immineret grande periculum reipublicae nisi hoc fieret") si può cambiare il regime politico e i suoi governanti.

Le conclusioni finali della relectio hanno toni erasmiani e rappresentano un invito alla pace e alla moderazione: in modo abbastanza brusco, il consigliere del Principe lascia il posto al predicatore. Vitoria conclude con tre "canoni"che esortano alla moderazione e alla pace, (85) e ricorda ai principi che anch'essi, come cristiani sono tenuti ad osservare il comandamento dell'amore al prossimo e il riconoscimento della fratellanza umana:

Si deve anche riflettere che gli altri sono il prossimo, che dobbiamo amare come a noi stessi e che tutti noi abbiamo un unico e comune Signore davanti al cui tribunale dobbiamo tutti noi prestar conta dei nostri atti, (86)

Vitoria termina, dunque riconducendo il discorso nell'alveo dal quale l'aveva invece ritirato all'inizio della sua argomentazione, cioè nell'ambito della carità. Di fatto, con Vitoria e la Seconda Scolastica si ha uno spostamento della questio de bello. Mentre Tommaso, nella Secunda Secundae, l'aveva collocata nell'ambito della discussione dei vizi contrari alla carità senza dedicarle un trattamento sistematico e ampio e senza un riferimento alla justitia, gli scolastici di Salamanca, la collocano nell'ambito giuridico (De Justitia et Iure) inserendola in modo abbastanza ampio e sistematico nel dibattito sul diritto delle genti. Per questo le esortazioni evangeliche e i richiami continui ai principi della fraternità appaiono, di certa forma, giustapposti al discorso che si svolge autonomamente nella sua logica propria sul piano puramente giuridico.

Ius gentium e ius inter gentes

Il pensiero di Vitoria sulla guerra si inserisce quindi nell'alveo della tradizione della guerra giusta con argomenti che lo distinguono chiaramente dai "pacifisti" come Erasmo ma anche dai "bellicisti" come Sepulveda, sebbene in questo caso le differenze non siano così profonde come comunemente si ritenga, come ci sembra aver mostrato de una lettura attenta del testo.

Ma, nonostante la sua formale adesione alla tradizione della guerra giusta, il pensiero di Vitoria colloca questa tradizione in crisi e, alla fine la svuota di significato. Come sappiamo il fattore decisivo perché una guerra sia giusta è che ci sia un lato che ha ragione e un altro che ha torto: non può esserci una guerra giusta da entrambe le parti. Ora è giustamente questo aspetto che Vitoria mette in crisi, per lo meno due volte. Una prima volta nel dibattito sul Nuovo Mondo quando ammette l'ignoranza invincibile degli indios e afferma che questa ignoranza deve essere tenuta in grande considerazione perché in questo caso "ex una parte est ius et ex altera ignorantia invincibilis". E' anche vero che Vitoria non sviluppa questo aspetto e che sarà Bartolomé de Las Casas che, utilizzando gli argomenti di reciprocità di Vitoria, difenderà non solo l'ignoranza invincibile degli indios ma anche il loro jus, il loro diritto a difendersi e a promuovere una guerra giusta contro gli spagnoli.

L'altro momento decisivo del discorso di Vitoria si riferisce al giudice super partes, elemento imprescindibile nella dottrina tradizionale della guerra giusta, che invece Vitoria elimina riconoscendo il Re come giudice in causa propria. Come afferma Danilo Zolo:

Nelle intenzioni dei suoi ideatori scolastici, da Tommaso d'Aquino a Francisco de Vitoria e a Francisco Suarez, la distinzione [fra guerra giusta e ingiusta] doveva contribuire a limitare la guerra imponendo ai principi cristiani di condurre guerre giustificate da buone ragioni morali e combattute con mezzi leciti [...] L'intera dottrina rinviava al quadro politico della respublica christiana e supponeva la presenza di una indiscussa e stabile auctoritas spiritualis, dotata di una potestà giuridica internazionale: la Chiesa Cattolica Romana. [...] Soltanto con l'abbandono delle premesse teologico-morali e cosmopolite della dottrina medievale del justum bellum, si sarebbe affermato in Europa, a partire dal XVII secolo, il "diritto internazionale interstatale". Dato ormai per scontato che in assenza di una autorità morale universale tutti i contendenti avrebbero considerato giusta la propria guerra - bellum utriquem justum - il diritto internazionale interstatale (e non più cosmopolitico) si concentrò sulla definizione di regole esclusivamente formali e procedurali..." (87)

La dottrina della guerra è un elemento qualificante di una nuova concezione dello jus gentium e delle relazioni internazionali. Come è noto, per Schmitt la teoria della guerra giusta costituisce un discrimine fra il diritto internazionale medievale e quello moderno dello ius publicum europaeum:

La dottrina medievale della guerra giusta si situava in ogni caso nel quadro di una respublica christiana. [...] Questa dottrina doveva distinguere le faide e le guerre tra cristiani, cioè condotte fra avversari sottomessi all'autorità della Chiesa, da altri generi di guerra. Le crociate e le guerre di missione autorizzate dalla chiesa erano eo ipso guerre giuste, prescindendo dal fatto che fossero di aggressione o di difesa. Principi e popoli che invece si sottraevano all'autorità della Chiesa, come Ebrei e Saraceni, erano eo ipso considerati hostes perpetui. Il presupposto di tutto ciò era l'autorità giuridica internazionale esercitata da una "potestas spiritualis". [...] Il diritto internazionale europeo post-medievale, caratteristica dell'epoca interstatale che va dal XVI al XX secolo, cerca di respingere il principio della justa causa. Il punto di riferimento formale per la definizione della guerra giusta non è più l'autorità giuridica internazionale della Chiesa, ma l'eguale sovranità degli Stati." (88)

Per Schmitt, nonostante la critica alla dottrina del totius orbis dei teologi curialisti e la conseguente delegittimazione della Inter Cætera di Alessandro VI, la concezione vitoriana della communitas orbis non esce dai limiti della Respublica Christiana ed è lontana dalla dottrine dello ius inter gentes del moderno ius publicum Europaeum. (89) Infatti, afferma Schmitt, Vitoria, nonostante i suoi appelli alla comune parentela umana, non pone cristiani e non cristiani sullo stesso piano e non livella le differenze sociali, giuridiche e politiche prodottesi nel corso della storia dell'umanità. Basti pensare alla dottrina dei perpetui hostes che escludeva i giudei e i saraceni ma anche, come sottolinea Mechoulan, i popoli indigeni i quali, nonostante tutti i riconoscimenti del loro vero dominium, alla fine vengono qualificati come perfidi hostes.

Profondamente diversa è invece la lettura della teoria della guerra giusta di Vitoria, proposta da Luigi Ferrajoli, secondo il quale:

Rispondendo alle quattro tradizionali questioni in materia di guerra giusta Vitoria elabora una nuova dottrina di legittimazione della guerra giusta (e per suo tramite della conquista), ridefinita come riparazione delle "iniuriae" e quindi come strumento di attuazione del diritto. Ne risulta una configurazione giuridica della guerra come sanzione volta ad assicurare l'effettività del diritto internazionale che durerà inalterata fino al nostro secolo e giungerà fino a Kelsen. La guerra è lecita e necessaria, afferma Vitoria, proprio perché gli Stati sono sottoposti al diritto delle genti e, in mancanza di un Tribunale superiore le loro ragioni non possono essere fatte valere che con la guerra." (90)

Ferrajoli vede nella concezione della guerra come riparatrice delle iniuriae uno degli aspetti più innovativi e originali del pensiero di Vitoria e afferma che questa concezione consente a Vitoria - come poi a Ayala, Gentili e Grozio - di introdurre una lunga serie di limiti, sia quanto ai presupposti (ius ad bellum) sia quanto alla modalità (ius in bello): "Insomma, la violenza consentita è solo la minima necessaria, e il trattamento dei nemici è sottoposto al diritto". (91)

Da questo punto di vista, per Ferrajoli, le teorie successive implicheranno "un deciso regresso rispetto a quelle di Vitoria", perché non porranno limiti allo ius ad bellum, nè allo ius in bello e soprattutto concepiranno le relazioni interstatali come dominate dal bellum omnium contra omnes hobbesiano.

Inoltre per Ferrajoli, la "modernità" di Vitoria si può evincere dal fatto che lo ius prædicandi et annuntiandi evangelium viene da lui posto (fatto abbastanza singolare per un teologo) solo in seconda battuta, quasi fosse una conseguenza e un corollario di un diritto originario e fondante, che è lo ius peregrinandi et degendi e lo ius commercii. Vitoria appare quindi come il teorico del moderno diritto internazionale che riconosce come unici soggetti di diritto gli Stati sovrani che non hanno più un'autorità soprannazionale alla quale sottomettersi (92) e come unico diritto che regola le loro relazioni internazionali quello del libero commercio delle merci, delle persone, delle idee, insomma come il teorico del mercantilismo moderno. Come ha notato Ferrajoli, si tratta di un diritto internazionale apparentemente ugualitario ma minato da una profonda asimmetria che permette, di fatto, solo ai popoli europei di usufruire del libero commercio e quindi di iniziare il lungo processo di conquista e colonizzazione del mondo intero.

La vecchia idea universalistica della communitas medievale - Chiesa e Impero - viene riformulata e di fatto capovolta. Vengono respinte sia la pretesa del dominio dell'Imperatore su tutto il mondo che quella del potere temporale universale del Papa. E alla società universale medievale viene sostituita la società internazionale degli Stati nazionali, concepiti come soggetti giuridici indipendenti gli uni dagli altri, ugualmente sovrani ma subordinati ad un unico diritto delle genti. (93)

Non si tratta però dello ius publicum europaeum di Schmitt che non riconosce nessuna autorità giuridica o vincolo etico superiore a quello degli stati sovrani, bensì di una concezione del totius orbis nella quale il diritto delle genti vincola i rapporti tra gli Stati con forza di legge: l'umanità viene considerata come parte di una respublica universalis rappresentativa di tutto il genero umano:

Infine Vitoria giunge a concepire non solo l'universalis respublica delle genti, ma anche l'umanità come nuovo soggetto di diritto: "Habet enim totus orbis, qui aliquo modo est una respublica, potestatem ferendi leges aequas et convenientes omnibus, quales sunt in iure gentium... Neque licet uni regno nolle teneri iure gentium: est enim latum, totius orbis auctoritate". Un'idea, questa del totius orbis dell'umanità come persona morale rappresentativa di tutto il genere umano" che "è indubbiamente" - come ha osservato Antonio Truyol Serra - "la concezione più grandiosa e innovatrice di Francisco de Vitoria". (94)

Entrambe le interpretazioni ci sembrano insufficienti perché proiettano sul discorso di Vitoria presupposti contemporanei. Per Schmitt si trattava di delegittimare il nuovo ordine internazionale "universalista" - di cui Kelsen era il massimo teorico- che si stava affermando a partire dalla prima guerra mondiale, e successivamente con la costituzione della Società delle Nazioni e del processo di Norimberga, nel quale egli stesso si trovava come imputato. Schmitt considerava questo processo un ritorno alla concezione cosmopolita vitoriana della guerra giusta che esce dalla tradizione dello Jus publicum europaeum. Per Ferrajoli, con una lettura quasi che diametralmente opposta, si trattava di legittimare un nuovo ordine mondiale cosmopolita dove ci fossero sì Stati sovrani, vincolati però fra di loro da un ordine giuridico (e politico) superiore.

Cercando di rimanere nell'ambito delle intenzioni degli autori cinquecenteschi senza sovrapporre schemi e problemi a loro estranei, possiamo forse comprendere meglio il loro pensiero. Vitoria ha davanti a sé un problema di difficile soluzione: riconosce che le giustificazioni tradizionali basate sull'autorità del Papa e dell'Imperatore totius orbis non sono più sufficienti per il nuovo ordine che si viene delineando e le critica senza tentennamenti; d'altra parte non poteva lasciare teoricamente scoperto un tale vacuum morale e giuridico. Occorreva trovare altri fondamenti che garantissero non solo la legittimità della conquista dei nuovi territori ma anche il monopolio temporale e spirituale degli iberici nei confronti delle altre potenze cristiane; argomenti che non potevano essere ad hoc, ma fondarsi su principi validi universalmente. Da qui il tono del suo discorso che, nella terza parte della De Indis, si fa improvvisamente, come osserva Schmitt, a-storico e astratto: esiste una naturalis societas et communicatio fra tutti i popoli che vengono a formare così una unica communitas orbis, da cui discende lo ius peregrinandi, lo ius commercii, etc. Ma il vero obiettivo, anche se introdotto in seconda battuta, è quello di garantire lo ius praedicandi et annuntiandi evangelium che si giustifica allora come un aspetto del diritto universale alla libera circolazione delle idee, delle persone e delle merci. Inserendolo in un contesto più generale, egli può allora legittimare la propaganda religionis christianae, non più in nome di un preteso dominio spirituale del Papa su tutto il mondo, ma come conseguenza di un universale diritto di tutti gli uomini alla libera circolazione delle idee.

Il Papa, allora, che non ha giurisdizione sugli infedeli, ma che mantiene pur sempre verso i principi cristiani un potere temporale in ordine ad spiritualia, può:

Combatterli e proibire a tutti loro (i principi) non solo la predicazione ma anche il commercio se così conviene per la propagazione della religione cristiana, perché (il Papa) può comandare sulle cose temporali, quando ciò è conveniente per le cose spirituali. (95)

L'ordine iniziale si inverte e il diritto alla propagazione della religione cristiana che appariva subordinato a quello del libero commercio, diventa così autorevole da permettere l'interdizione dello stesso commercio, se ciò risulta conveniente (expedit) alla diffusione del cattolicesimo. Detto in altre parole, l'obiettivo principale di Vitoria è l'allargamento della Respublica Christiana fino all'inclusione dei nuovi popoli scoperti i quali si dimostravano un terreno fertile per la propagazione della fede, una volta che essa fosse stata predicata nei dovuti modi, cioè pacificamente, con l'esempio, la predicazione, ma anche illis invitis, ricorrendo alla guerra, nel caso ci si trovasse di fronte a un rifiuto violento alla propagazione del vangelo, che rendeva gli indigeni perfidi hostes.

Ma questo discorso non si applica nel caso della guerra nel Vecchio Mondo. Se avesse valore solo il principio della communitas orbis anche i saraceni (e i giudei), perpetui hostes, avrebbero potuto rivendicare lo jus peregrinadi et degendi e il diritto di annunciare la loro religione, ipotesi che Vitoria non avrebbe mai ammesso. D'altra parte, una volta enunciati i principi generali della naturale sociabilità e comunicazione, Vitoria forniva potenti argomenti, non certo ai saraceni che erano "fuori" dalla respublica christiana, ma alle potenze protestanti che infatti, a partire da Grozio, utilizzeranno i principi vitoriani per difendere la libertà dei mari, dei commerci e della libera propagazione della loro fede. Per aggirare questa obiezione Vitoria deve ricorrere all'autorità suprema del Papa, al quale solo spetta decidere il modo più conveniente per la propagazione della fede, che in quel tempo non era più la maxima autorictas del mondo cristiano.

La dottrina di Vitoria sul diritto di guerra occupa un ruolo significativo per capire la sua concezione dello Stato e delle relazioni internazionali. Il pensiero di Vitoria rimane nell'ambito del linguaggio e della concettualità tradizionale: ribadisce tutti gli elementi della dottrina della guerra giusta e li applica alle nuove questioni poste dal contesto storico. Ma la dottrina presupponeva un altro contesto storico e concettuale che stava rapidamente cambiando, cioè la presenza di una autorità super partes a cui ricorrere per legittimare i procedimenti previsti dalla dottrina. Nel momento in cui Vitoria ammette che il principe, in quanto espressione di una entità politica perfetta può legittimamente muovere guerra, anche senza il consenso dell'autorità superiore e può diventare giudice in causa propria, il suo discorso viene messo in crisi e gli ostacoli che Vitoria aveva frapposto sia allo jus ad bellum che allo jus in bello, perdono la loro efficacia, perché non hanno più una autorità superiore che sia riconosciuta da entrambe le parti in causa.

Il pensiero di Vitoria si situa così fra lo jus gentium medievale e lo jus publicum europeum dei nascenti Stati sovrani: riconosce l'esistenza di vincoli morali e teologici più che strettamente politici all'azione del Principe, ma non più una autorità con vis et auctoritas per far rispettare questi principi e vincoli morali (con l'eccezione del potere del Papa nell'ambito temporale in ordine ad spiritualia, che non valeva certo nell'Europa dello scisma protestante).

Quanto allo jus in bello, l'elemento decisivo ci pare essere la vindicta iniuriam acceptam la quale, come abbiamo visto, nonostante la dichiarate intenzioni di Vitoria di ridurre gli eccessi e gli orrori della guerra, diventa un potente strumento di legittimazione della guerra, che può arrivare fino allo sterminio di tutti i nocentes. Questo perché il concetto di iniuria può dare adito a interpretazioni molto estensive, come quelle che saranno utilizzate, per esempio, da Sepúlveda nei suoi trattati sulla guerra giusta verso gli indios.

È ovvio che il principe di Vitoria non è legibus solutus perchè deve rispettare la legge divina e naturale sopra di se e le leggi positive che egli stesso emana, e deve rispetto anche all'autorità morale del Papa in ordine ad spiritualia e, in un certo modo anche all'autorità dell'Imperatore. Ma, nel momento in cui Vitoria attribuisce al principe il governo di una repubblica perfetta, l'autorità per proclamare la guerra e l'arbitrio in causa propria egli apre il cammino a un potere quasi che illimitato del Principe sia negli affari interni che nelle relazioni esterne.

La vis e la auctoritas che per Vitoria caratterizzano l'esercizio del Potere stanno ormai saldamente nelle mani del principe dello Stato sovrano, che può "decidere" sulle sorti della pace e della guerra e quindi delimitare sia internamente che esternamente il raggio politico della sua azione non expectata auctoritate principis superioris.


Note

1. ARISTÓTELES, Politica cap. VII e VIII.

2. Francisco de Vitoria nasce a Burgos nel 1483, ed entra nell'ordine domenicano nel 1505. Dopo aver compiuto gli studi delle artes nella città natale (1505/1508) viene inviato dall'ordine a studiare filosofia e teologia presso l'Università di Parigi, in uno dei collegi aggregati alla Sorbona, il collegio di Saint Jacques, dove rimarrà dal 1508 al 1523 percorrendo tutto il curriculum studiorum fino al conseguimento del dottorato in teologia e l'inizio dell'insegnamento, prima nella facoltà di artes dello stesso collegio, poi nella facoltà di teologia. In questo periodo egli si fa curatore e editore di vari testi scolastici, fra i quali la nuova edizione della seconda parte della Summa Theologiae (Secunda Secundae) di Tommaso di Aquino (1512), sotto la supervisione del suo maestro Pietro Cockaert (1470/1514). Costui che inizialmente seguiva l'indirizzo nominalista prevalente negli ultimi due secoli a Parigi, si era successivamente fatto promotore di una riscoperta e rivalutazione del pensiero di Tommaso. Tiene delle lezioni sulla Summa Theologiae del dottore angelico al collegio di Saint Jacques, e promuove, assieme a un gruppo di allievi, fra i quali si distacca il Vitoria, la divulgazione del pensiero tomista e la nuova edizione delle sue opere. Nel 1523, ritorna in Spagna ed insegna teologia a Valladolid nel Collegio di San Gregorio fino al 1526. Nel 1526 viene eletto alla cattedra di Prima Teologia a Salamanca dove rimarrà fino alla sua morte, nel 1546. Vitoria non diede alle stampe nessuna opera in vita, e le sue famose relectiones furono pubblicate postume: Relectiones theologicae XII, 2 voll., Lione 1557. Vedi Ada Lamacchia Le relectiones di Francisco de Vitoria, in "La Filosofia nel Siglo de Oro", Bari 1995, pp.17-117. Nella biblioteca universitaria di Padova è possibile trovare una edizione del 1580: Reverendi patris F. Francisci Victoriae, ordinis praedicatorum, S.S. Theologiaes Professoris eximiis, atque in Salmanticensi Academia quandam cathedrae primariae moderationis incomparabilis RELECTIONES TREDECIM in duos tomos distributa. Per quendam Ingolstadianorum Theologorum ab innumeris propiemodum & gravibus mendis & vitiis vindicatae. Ingolstadii, Weissenhormiana apud Wolfangum Ederum, Anno MDXXC.

3. F. DE VITORIA, Relectio de Indis (1538), a cura di L. Pereña e J.M. Perez Prendes, Consejo Superior de Investigación Científica (CSIC), Madrid, 1967, Corpus Hispanorum de Pace (CHP), vol. V; nuova ed. ivi 1981. (In questa edizione sono compresi passaggi della relectio de temperantia (1537) relativi al potere dei e alla possibilità della guerra verso gli indios, e del Commentario alla Secunda Secundae di S. Tommaso (1534) relativi al potere spirituale della Chiesa sugli indios); e l'edizione italiana, F. DE VITORIA, Relectio de Indis. La Questione degli Indios, testo critico di L. Pereña, ed. italiana e trad. di A. LA MACCHIA, Bari 1996.

4. VITORIA, Francisco de. Relectio de Jure Belli (1539), a cura di L. Pereña, CSIC, Madrid, 1981, CHP Vol. VI.

5. Vedi: Comentarios a la Secunda Secundae de Santo Tomás, testo latino a cura de V. Beltrán de Heredia, 5 voll., Biblioteca de Teólogos Españoles, Salamanca 1932-35, Quaestio 40; Relectio de Protestate Civili (Madrid 1959), n.13 p. 168. Vedi anche il commento alla Quaestio 40 de bello che Vitoria aveva tenuto durante le lezioni ordinarie, nel 1534 e che è pubblicato in appendice alla edizione della De Jure Belli del Corpus Hispanorum de Pace (CHP).

6. SEPÚLVEDA, Juan Ginés de, De convenientia militaris disciplinae cum christiana religione dialogus, qui inscribitur Democrates, Impressum Romae apud Antonium Bladum, Anno Domini M.D.XXXV; e Democrates alter, seu de justis belli causis apud Indios, ed. critica con traduzione spagnola a cura di A. Losada, CSIC, Madrid 1951; 2 ed. ivi, 1984.

7. ERASMO DA ROTTERDAM, Il lamento della pace, a cura di Luigi Firpo, Utet, Torino 1967 (con la ristampa dell'editio princeps stampata da Froben, Basilea 1517; riedita anche da Tea, Milano 1993); L'educazione del principe cristiano in "La formazione cristiana dell'uomo", a cura di Orlandini Traverso, Rusconi, Milano 1989. Sulla diffusione del pensiero di Erasmo in Spagna, vedi il classico libro di BATAILLON, Marcel, Erasmo y España. Estudios sobre la historia espiritual del siglo XVI, Fundo de Cultura Economica, Mexico-Buenos Aires 1966.

8. "Nelle prefazioni ai due primi volumi di quest'opera su La Seconda Scolastica affermavo già che il contributo più importante e più attuale portato alla storia e allo sviluppo del pensiero filosofico dagli autori della Scolastica del periodo che va dalla metà del secolo XVI al primo decennio del secolo XVII, riguardava dottrine giuridiche e politiche piuttosto che dottrine gnoseologiche e metafisiche" GIACON, Carlo S.J., La Seconda Scolastica, Bocca Editori, Milano 1950, Vol III, p. 5.

9. LUPPI, op. cit., p. 476.

10. LUPPI, Sergio, Vis et auctoritas: i paradossi del potere nella filosofia politica di Francisco de Vitoria, in "I diritti dell'uomo e la pace nel pensiero di Francisco de Vitoria e Bartolomé de Las Casas", Studia Universitatis S. Thomae in Urbe. 29, Roma 4-6 marzo 1985, Massimo, Milano 1988. pp. 463-496, a p. 464.

11. Ver PEREZ LUÑO¸ Antonio Henrique, La polémica sobre el nuevo mundo. Los clásicos españoles de la filosofia del derecho, Editorial Trotta, Madrid 1992, p. 64.

12. Il Corpus Hispanorum de Pace costituisce una collana di testi originali, in edizione critica bilingue, di alcuni fra i più importanti teologi e giuristi spagnoli del XVI secolo, dalla Relectio De Indis di Vitória al De Legibus di Suarez, dal Tractatus de bello contra insulanos di Juan de La Peña al De Regia Potestate di Las Casas. Il Corpus Hispanorum de Pace edito dal "Consejo Superior de Investigación Científica" (CSIC) di Madrid, sotto la coordinazione di Luciano Pereña, ha iniziato le sue pubblicazione nel 1963 e contava, nel 1990 con 28 volumi pubblicati. L'intenzione apologetica si manifesta fin dal titolo della collezione e delle singole opere: accanto a quello originale in latino se ne aggiunge uno in spagnolo che è già una interpretazione del testo: De Indis o de la libertad de los indios, De iure belli o de la paz dinamica, De Regia Potestate o del derecho de autoderteminación.

13. "El magisterio de Vitoria hace indiscutiblemente de Salamanca la primera catedra europea sobre la paz. [...] Francisco de Vitoria es un maestro de la paz internacional". [...] Se proclama antiimperialista e democrático. Es mas cerca de la tesi de la coexistencia pacífica que del imperialismo cristiano". L. PEREÑA Estudio preliminar alla Relectio de Jure Belli di Francisco de Vitoria nell'edizione del "Corpus Hispanorum de Pace", Madrid 1981, p. 63 ss.

14. Nella presentazione alla Relectio de Indiis del "Corpus Hispanorum de Pace" troviamo affermazioni iperboliche come queste: "Es la llamada de lo humano contra el materialismo moderno, la segregación racial y la despersonalización de las masas. Vitória es todo un símbolo: La rebelión de la libertad del hombre contra la opresión del poder" (pp. I-VII).

15. "Vitoria terminó por crear un espiritu nuevo de comprención y tolerancia. Definió a España como un estado nacional, democratico e independiente del Papado y del Imperio.. Concibió a América como una comunidad de pueblos libres e protegidos politicamente por España. Defendió una Europa fuerte y unida sobre la alianza franco-española al servicio unicamente de la paz internacional". PEREÑA Estudio preliminar... cit., p. 65.

La preoccupazione per l'unità europea (che si identifica comunque con la politica di Carlo V), dice Pereña, porta Vitoria a cercare "garantias para aquel sistema de princípios en un conjunto de istituciones internacionales. Fueron el bloqueo economico y diplomático, las commissiones de investigación y la intervención de potencias neutrales" (IDEM, p. 55). Non è chiaro se e dove Vitoria presenti queste proposte così "attuali", perché non c'è nessuna referenza ai testi. In seguito Pereña afferma che per Vitoria: "La mediación del Papa parecía la forma natural y organica de resolver los conflitos internos de Europa", proprio nel periodo in cui l'autorità del Papa era profondamente scossa e contestata dalla Riforma protestante (IDEM, p. 60).

16. Vedi DUSO, Giuseppe Storia concettuale come filosofia politica, in "La logica del potere.", Laterza, Roma-Bari 1999, pp.3-34.

17. IDEM, 1, 2, 3, p. 42. "Dato quod Imperator esset dominus totius mundi, non ideo posset occupare provincias barbarorum et constituere novos dominios et veteres deponere et vectigalia capere".

18. IDEM, I, 2, 8, p. 51. "Papa nullam potestatem temporalem habet in barbaros istos, neque in alios infideles", perché il Papa ha potestà temporale solo "in ordinem ad spiritualia. Sed non habet potestatem spiritualem in illos, ut patet I ad Cor. 5, 12-13: "Quid ad me (enim mihi) de his, qui foris sunt, iudicare?

19. De Indis, I 2, 10, p. 54.

20. IDEM, I, 2, 20, pp. 65-66. "Ubi dicit quod infideles, qui nunquam susceperunt fidem, sicut gentiles et iudaei, nullo modo sunt compellendi ad fidem. Et est conclusio communis doctorum etiam in iure canonico et civili. Et probatur, quia credere est voluntatis. Timor autem multum minuit de voluntario (tertio Ethicorum) et ex timore servili dumtaxat accedere ad mysteria et sacramenta Christi sacrilegium est" Commenta Rizzi che "la libertà dell'atto di fede è un leit-motiv dell'azione missionaria nel Nuovo Mondo: soprattutto domenicani e gesuiti ne fanno un punto d'onore del loro metodo pastorale. Una certa coazione agli inizi della predicazione viene invece ammessa dai francescani, grandi apostoli della prima evangelizzazione in Messico, in base al compelle intrare della parabola del banchetto (Lc 14, 16-24) e dentro di una certa temperie apocalittica: cfr. J.L. PEHELAN, The Millennial Kingdom of Franciscans in the New World, Berkley-Los Angeles 1970, p. 5 ss.". RIZZI, America Latina... cit., 1991, p. 19.

21. "Principes christiani, etiam auctoritate Papae, non possunt coercere barbaros a peccatis contra legem naturae nec ratione illorum eos punire."

22. IDEM, ibidem. "Nec iste titulus est idoneus" perché "quia deberet abesse metus et ignorantia quae vitiant omnem electionem. Sed haec interveniunt in illiis electionibus et acceptationibus. Nescitur enim barbari quid faciunt, immo forte non intelligunt quid petunt hispani. Item hoc petunt circumstantes armati ab imbelli turba et meticulosi."

23. "SEPTIMUS TITULUS est qui posset praetendi, scilicet ex speciali dono Dei". De Indis, I, 2, 24, p.74. periculose crederetur alicui prophetiam asserenti contra communem legem et contra regulas Scripturae, nisi miraculis confirmaretur dicta sua. Quae tamen nulla proferuntur ab huiusmodi prophetis."

24. F. DE VITORIA, In II-II, q. 57, a 3. N.2. "Ius gentium potius debet reponi sub iure positivo quam sub iure naturali". Vedi PIZZORNI, Lo ius gentium..., cit., pp. 570-71.

25. «Probatur primo ex iure gentium, quod vel est ius naturale vel derivatur ex iure naturali (Inst. De iure naturali et gentium)».

26. De Indis, I, 3, 1, p. 77: «Quod naturalis ratio inter omnes gentes constituit, vocatur ius gentium»

27. De Indis, I, 3, I, p. 78: "PRIMA CONCLUSIO. Hispani habent ius peregrinandi in illas provincias et illic degendi, sine aliquo tamen nocumento barbarorum, nec possunt ab illis prohiberi."

28. De Indis, i, 3, 2, p. 80. Licet hispanis negotiari apud illos, sine patriae tamen damno, puta importantes <illuc> merces, quibus illi carent, et adducentes <illinc> vel aurum vel argentum vel alia quibus illi abundant. Nec principes eorum possunt impedire subditos suos ne exerceant commercia cum hispanis nec e contrario hispanos cum illis

29. «Et ut dicitur ff., De iustitia et iure, 1. ut vim: inter homines omnes cognationem quandam natura constituit. Unde contra ius naturale est ut homo hominem sine aliqua causa adversetur. Non enim homo homini lupus est, ut ait Comicus, sed homo. La prima citazione è tratta dai Digesta I, 1, 3, Corpus Iuris Civilis, ed. KREUGER-MOMMSEN, I, p. 2: "Ut vim atquem iniuriam propulsemus: nam iure hoc evenit, ut quod quisque ob tutelam corporis sui fecerit. Iure fecisse existimetur, et cum inter nos cognationem quandam natura constituit». La seconda, resa famosa da Hobbes, è tratta da PLAUTO, Asinaria "Lupus est homo homini, non homo, quom qualis sit non novit". Questa frase viene idealmente contrapposta a quella hobbesiana da chi ritiene Vitoria fondatore di un diritto internazionale umanista e universalista. Schmitt la legge in modo diverso: "Questo triplice homo suona piuttosto tautologico e neutralizzante; suona già in senso erasmiano, ma è ancora inteso cristianamente", e fa notare come, se è vero che Vitoria, "rifiutando il parere discorde di altri teologi, pone da un punto di vista giuridico (perlomeno nella prospettiva del diritto internazionale) i cristiani e i non cristiani sullo stesso piano", ciò non significa che per Vitoria "la qualità universale dell'essere uomini non richieda di per sé ancora il livellamento delle differenze sociali, giuridiche e politiche prodottesi nel corso della storia dell'umanità. Che i popoli barbari hanno bisogno di guida lo riconosce anche Vitoria", non solo ma la sua dottrina dei saraceni come perpetui hostes si fondava su "profonde distinzioni fra gli uomini e sulla grande diversità del loro status". SCHMITT, Il Nomos della terra... cit., pp. 109-110. Anche per H. Mechoulan "questa communitas orbis di Vitoria non era affatto universale e altro non era che la "società spagnola" del suo tempo convenientemente universalizzata: da essa restavano esclusi i giudei e i saraceni "eterni nemici della religione cristiana" (De Indis: I, I, 16, p. 30), e, sia pure in maniera problematica, anche gli indios dell'America." H. MECHOULAN, Vitoria, père du droit international?, in Actualité de la pensée juridique de Francisco de Vitoria par TRUYOL SERRA A., MECHOULAN H., HAGGENMACHER P., ORTIZ-ARCE A., MARINO P. et VERHOEVEN J., Préface de François Rigaux. Travaus de la Journée d'études organisée à Louvain-la-Neuve para le Centre Charles de Visscher pour le droit international le 5 décembre 1986, Bruxelles 1988, pp. 15-17. Citato da FERRAJOLI, La conquista delle Americhe... cit., nota 19, pp. 467-68.

30. "TERTIA PROPOSITIO. Si quae sunt apud barbaros communia, tam civibus quam hospitibus, non licet barbaris prohibere hispanos a communicatione et participatione illorum". De Indis, I, 3, 3, pp. 81-82.

31. "SECUNDUS TITULUS. Alius titulus potest esse scilicet causa religionis christianae propagandae. Christiani habent ius praedicandi et annunciandi Evangelium in provinciis barbarorum". De Indis, I, 3, 8, p. 87.

32. "SECUNDA CONCLUSIO. Licet hoc sit commune et liceat omnibus chistianis, tamen Papa potuit hoc negotium mandare hispanis et interdicere omnibus aliis". IDEM, I, 3, 9, p. 88.

33. F. DE VITÓRIA, Relectio de Jure Belli (1539), a cura di L. Pereña, Madrid 1981 (CHP Vol. VI). (Include anche la Quaestio 40 de bello, alle pp. 299-321).

34. De Indis, I, 3, 5, p. 83: "Si barbari vellent prohibere hispanos in supra dictis (a iure gentium, puta vel commercio vel aliis, quae dicta sunt), hispani primo debent ratione et suasionibus tollere scandalum et ostendere omni ratione se non venire ad nocendum illis, sed pacifice velle hospitari et peregrinari sine aliquo incommodo illorum; et non solum verbis, sed etiam re ostendere, iuxta illud: Omnia sapientes prius verbis experiri decet. Quod si reddita ratione barbari nollent acquiescere, sed vellent vi agere, hispani possunt se defendere et omnia agere ad securitatem suam convenientia quia vim vi repellere licet. Et non solum hoc, sed si aliter fieri non posset, possunt artes et munitiones aedificare. Et si acciperent iniuriam, illam auctoritate principis bello persequi et alia belli iura agere."

35. IDEM, I, 3, 5, p. 84: "Et ideo, si commoti hoc timore concurrerent ad exigendos vel occidendos hispanos, liceret quidem hispanis se defendere et servato moderamine inculpatae tutelae, nec alia belli iura licerent exercere in illos, puta vel parta victoria et securitate occidere illos vel spoliare vel occupare civitates illorum, quia in illo casu sunt innocentes (et merito timent) ut supponimus. Ed ideo debent hispani se tueri, sed quantum fieri poterir, cum minimo detrimento illorum, quia est bellum dumtaxat defensivum".

36. IDEM, I, 3, 5, p. 85.

37. Solo Bartolomé de Las Casas ammetterà come giusta la guerra mossa dagli indigeni contro i conquistadores.

38. IDEM, I, 3, 7, p. 85: "Immo si, postquam hispani omni diligentia et re et verbo ostendissent non stare per eos (quin barbari pacifice et sine damno suarum rerum agant), nihilominus barbari perseverarent in malitia sua et contenderent ad perditionem hispanorum, iam tunc non tanquam cum innocentibus, sed tanquam cum perfidis hostibus agere possent, et omnia belli iura in illos prosequi et spoliare illos et in captivitatem redigere et dominos priores deponere et novos constituere (moderate tamen pro qualitate rei et iniuriarum)."

39. IDEM, I, 3, 7, pp. 86-87: "Iste ergo est primus titulus, quo hispani potuerunt occupare provincias et principatum barbarorum, modo fiat sine dolo et fraude et non quaerant fictas causas belli. Si enim barbari permitterent hispanos pacifice negotiari apud illos, nullam possent hispani ex hac parte praetendere iustam causam occupandi bona illorum non plus quam christianorum."

40. Vedi per esempio la "sentenza" del tribunale permanente per i diritti dei popoli, in: AA.VV. 500 anni di solitudine. La conquista dell'America e il diritto internazionale, Tribunale Permanente dei Popoli, Bertani Editore, Verona, 1994 con introduzione di François Rigaux. Vedi anche FERRAJOLI, Luigi, La conquista delle Americhe e la dottrina della sovranità degli Stati, in "500 anni di solitudine. La conquista dell'America e il diritto internazionale", introduzione di François Rigaux. Tribunale Permanente dei Popoli, Bertani Editore, Verona, 1994, pp. 439-478; La conquista come paradigma. Bilancio di cinque secoli, in "Bozze" XV 1993, N° 1, 87-139; Conquista e sovranità degli Stati, in "Il Regno" XXXVIII, 1993, N° 3, 119-128.

41. Ver REGOUT, R.H.W., La doctrine de la guerre juste de S. Augustin à nos jour, Paris 1934; HAGGENMACHER, P., Grotius et la doctrine de la guerre juste, Paris, PUF 1983. DE LA BRIERE, Y., Le droit de juste guerre, 1938.

42. Il testo è associato a opere analoghe tali come il De jure belli di Alberico Gentili (1598) e il De jure belli ac pacis di Grotius (1625). Per un confronto fra le tre opere, vedi: HAGGENMACHER, P., Il diritto della guerra e della pace di Alberico Gentili, Atti del convegno "Quarta Giornata Gentiliana", 21.10.1991, Giuffrè, Milano 1995. Confrontando le 700 pagine del trattato di Gentili con l'opera di Vitoria, Haggenmacher commenta: "A riprova di ciò basti menzionare la Relectio de iure belli di Francisco de Vitoria, che è, nella sua stringatezza - non consta di più di alcune decine di pagine - un capolavoro". op. cit., p. 37.

43. "QUAESTIO PRIMA : AN OMNINO CHRISTIANIS SIT LICITUM BELLA GERERE. (I, 1): Quantum ad primum posset videri quod omnino bella sint interdicta christianis."

44. "Lutherus tamen, qui nihil reliquit incontaminatum, negat christianis etiam adversus turcos licere arma sumere, innixus tum in locis Scripturae supra positis, tum etiam quia dicit: Si turcae invadant christianitatem, illa est voluntas Dei cui resistere non licet."

45. QUAESTIO SECUNDA (II. 1): APUD QUEM SIT IUSTA AUCTORITAS INDICENDI VEL GERENDI BELLUM.

46. I quattro motivi di guerra giusta li ritroviamo, per esempio, in Sepúlveda nell'inizio del suo Democrates Secundus, La guerra, dice il retore di Cordova, per essere giusta, esige un'autorità legittima che la proclami, la buona intenzione di chi la promuove, la rettitudine nel suo sviluppo e l'esistenza di cause giuste che sono fondamentalmente tre: la riparazione per una ingiustizia sofferta (repellere iniuriam), il recupero del bottino ingiustamente sottratto e l'imposizione del giusto castigo a chi ha commesso l'offesa (iniuria). Ver SEPULVEDA, j. G. de, Democrates Secundus, p. 13,15,17: "Bellum iustum, non modo iustas suscipiendi causas, sed legitimam etiam auctoritatem, et rectam gerentis animum desiderat, rectamque gerendi rationem." Senza tali premesse la guerra non è giusta ma si trasforma in un latrocinio: "Minime vero, istud enim latrocinari esset, non belligerare" IDEM, p. 16.

47. SECUNDA PROPOSITIO: Quaelibet respublica habet auctoritatem indicendi et inferendi bellum.

48. "Et probatur quia ut Aristoteles tradit (3 Politicorum) respublica debet esse sibi sufficiens. Sed non posset suficienter servare bonum publicum, si non posset vindicare iniuriam et animadvertere in hostes. "Pro quo notandum quod perfectum est cui nihil deest, et imperfectum cui aliquid deest; quod totum est perfectum quid. Est ergo perfecta communitas aut respublica quae est per se unum totum, in qua non est alterius reipublicae pars, sed quae habet proprias leges, proprium concilium et proprius magistratus, quale est Regnum Castellae et Aragoniae et alii similes."

49. "Nec enim obstat quin sint plures principatus et respublicae perfectae sub uno principe. Talis ergo respublica aut princeps illius habet hanc autoritatem".

50. "Ad quod respondetur quod sine dubio possunt; ut reges qui sunt subiecti imperatori, possum invicem belligerare, non expectata auctoritate principis superioris. Quia, ut dictum est, respublica debet sibi ipsi esse sufficiens, nec tamen sufficere sibi sine ista libertate et facultate."

51. Pierre Mesnard riporta questi passi per giustificare la sua interpretazione che il pensiero politico di Vitoria, nonostante la sue tendenze internazionaliste, considera la società nazionale come l'unico soggetto di diritto pubblico, e che l'idea di "società perfetta" costituisce il supporto dell'idea di sovranità, che sarà sviluppata posteriormente da Bodin: "Vitoria, se crede alla solidarietà internazionale, non giunge assolutamente a concepire la necessità di un Super-Stato, e neppure di un organo di cooperazione internazionale. Il diritto di dichiarare guerra è da lui considerato come la condizione assoluta dell'autonomia politica; il vincitore resta libero di fissare le sanzioni e dettare le condizioni, che il nostro autore concepisce, per di più, molto severe [...] Nulla dunque viene a opporsi dal di fuori e neppure a sovrapporsi alla comunità civile come tale. Né Impero, né Papato teocratico, né super-Stato verranno ad integrare gli organismi nazionali come parti rispetto ad un tutto. Dal punto di vista che qui ci interessa, quello dell'autorità politica, nulla permette di contestare alla società civile il suo carattere di "comunità perfetta", ed appunto questo carattere costituisce il miglior supporto dell'idea di sovranità. Mesnard. PierreIl pensiero politico rinascimentale, Laterza, Bari 1964. p.129.

52. PRIMA PROPOSITIO: Causa iusti belli non est diversitas religionis.

53. SECUNDA PROPOSITIO: Non est iusta causa belli amplificatio imperii.

54. SCHMITT, Carl "Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello jus publicum europaem", traduzione e postfazione di E. Castrucci, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1991 (Der nomos der Erde im Volkerrecht des Jus Publicum Europaem, Dunker und Humboldt, Berlin, 1974) e BERTI, Enrico, Francisco de Vitoria nell'interpretazione di Carl Schmitt, in "L'universalità dei diritti umani nel pensiero cristiano del '500", op. cit. pag. 139/149. Come mostra Berti, ciò che sta in gioco in questo dibattito è la possibilità e la legittimità di giustificare una guerra. Per Vitoria, che continua e rinnova la tradizione medievale, "la guerra, non è un diritto degli Stati indipendentemente dalla sua causa, ma può essere giusta o ingiusta, a seconda della causa per cui viene mossa....". Questa concezione presuppone un giudizio etico e una autorità suprema che possa proferirlo e prevede una serie di condizioni sia per lo jus ad bellum che per lo jus in bello e si fonda su una visione tendenzialmente cosmopolita che non riconosce solo gli Stati come unico e inappellabile soggetto di diritto internazionale." ...

55. TERTIA PROPOSITIO: Nec enim est iusta causa belli gloria propria aut aliud commodum principis.

56. QUARTA PROPOSITIO: Una sola causa iusti belli est, scilicet iniuria accepta.

57. QUINTA PROPOSITIO: Non quaelibet et quantavis iniuria sufficit ad inferendum bellum. Iuxta mensuram delicti debet esse plagarum modus ...

58. QUAESTIO QUARTA: QUID ET QUANTUM LICEAT IN BELLO IUSTO

59. "In bello iusto licet omnia facere quae necessaria sunt ad bonum publicum et a defensionem boni publici. In bello iusto etiam licet recuperare res perdita vel pretium illarum ad unguem. Licet occupare ex bonis hostibus inpensam belli et omnia damna ab hostibus iniuste illata."

60. "Potest enim princeps iusti belli omnia quae sunt necessaria ad habendam pacem et securitatem ex hostibus, puta diruere arcem et alia omnia quae ad hoc expectat". L'argomento è tradizionale, e si fonda sulla giustificativa di tutte le guerre, cioè il mantenimento della pace: "Probatur quia, ut supra diximus, finis belli est pax. Ergo gerenti belli licent omnia quae necessaria sunt ad securitatem et pacem".

61. "Nec tantum hoc licet in bello iusto se habita victoria et recuperatis rebus et pace etiam et securitate habita, licet vindicare iniuriam ab hostibus acceptam et punire illos pro huiusmodi iniuriis."

62. "Princeps non tantum habet auctoritatem in suos sed etiam in extraneos, ad coercendum illos ut abstineat se ab iniuriis" e che questo é "iure gentium et orbis totius auctoritate".

63. "Item si quis esset legitimus iudex utriusque partis gerentis bellum, potest condemnare iniustos aggressores et actores belli, non solum ad restituendas res ablata, sed etiam ad resarciendum impensam belli et omnia damna. Sed princeps qui gerit iustum bellum, habet se in casu belli tanquam iudex, ut statim dicemus. Ergo etiam ille potest omnia illa ab hostibus exigere".

64. Secondo Schmitt inizia così la tradizione dello "jus publicum europaem" che è un diritto essenzialmente territoriale. Allo jus gentium medievale si sostituisce lo jus inter gentes moderno che regola i rapporti tra Stati sovrani. Per Schmitt, a partire dalla prima guerra mondiale, e successivamente con la costituzione della Società delle Nazioni e del processo di Norimberga (nel quale lui stesso si trovava come imputato di collaborazione con i nazisti) si nota un ritorno alla concezione cosmopolita vitoriana della guerra giusta che esce dalla tradizione dello Jus publicum europaeum. Vedi SCHMITT, Carl, Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello jus publicum europaeum, traduzione e postfazione di E. Castrucci, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1991 (1974).

65. "Immo videtur quod etiam iure naturali, quia videtur quod aliter orbis stare non posset nisi esset paenes aliquos vis et auctoritas deterrendi improbos ne bonis noceant. Et autem quae necessaria sunt ad gubernationem et conservationem ordinis, sunt de iure naturali".

66. In quel periodo infatti era all'ordine del giorno la convocazione di una "crociata" contro i turchi: nel 1530, a Bologna, l'Imperatore Carlo V aveva proposto una grande coalizione dei principi cristiani contro i turchi che assediavano l'Europa.

67. PRIMUM DUBIUM: An liceat in bello interficere innocentes.

68. "Etiam in bello contra turcas non licet interficere infantes. Patet quia sunt innocentes. Immo nec foeminas.. Innoxiis agricolis apud christianos; immo de alia gente togata et pacifica, peregrinos neque hospites qui sunt apud hostes, idem sequitur de clericis et religiosis."

69. "Per accidens autem etiam scienter aliquando licet interficere innocentes, puta cum oppugnantur arx aut civitas iuste, in qua tamen constat esse multos innocentes nec possunt machinae solvi vel alia tela vel ignis aedificiis subici quin etiam opprimatur innocentes sicut nocentes."

70. "An liceat interficere innocentes a quibus tamen futurum imminent periculum; ut puta, filii saracenorum sunt innocentes, sed timendum merito est ne facti adulti, pugnent contra christianos".

71. Il modello della conquista della terra santa da parte degli israeliani sarà utilizzato da Sepúlveda nel suo Democrates Secundus come giustificativa della conquista del Nuovo Mondo. Sepúlvada attacca frontalmente il principio fondante del discorso degli scolastici, identificando i precetti della legge naturale con quelli della legge divina positiva contenuti nel Deuteronomio e nelle prescrizioni di Yahvè al popolo ebreo. Inoltre l'esempio delle guerre bibliche che gli scolastici avevano considerato come un'eccezione ammessa da Dio per suo diretto intervento, viene invece da lui giustificato come modello da seguire. Vedi: Democrates alter, seu de justis belli causis apud Indios, ed. critica con traduzione spagnola a cura di A. Losada, CSIC, Madrid 1951; 2 ed. ivi, 1984, p. 41 e 45.

72. "credo quod nullo modo licet, quia non sunt facienda mala ut vitentur etiam mala maiora. Et intollerabile est profecto quod occidatur aliquis pro peccato futuro.

73. TERTIUM DUBIUM: Dato quod non liceat interficere pueros et innocentes, an saltem liceat ducere illos in captivitatem.

74. QUINTUM DUBIUM: An saltem in bello iusto liceat interficere omnes nocentes.

75. "Probatur quia non solum ordinatur ad recuperandas res perditas sed etiam ad vindicandum iniuriam. Ergo pro auctore iniuriae praeteritae licet interficere auctores iniuriae."

76. "Et hoc maxime videtur contra infideles, a quibus nunquam ullis conditionibus pax spectari potest. Ed ideo unicum remedium est omnes tollere qui contra arma ferre possunt, dummodo iam fuerint in culpa. Et ita intelligendum est praeceptum illud Deutoronomii 20» La raccomandazione del Deuteronomio è qui usata per giustificare una mensura senza limiti.

77. Bisogna anche considerare, afferma Vitoria, che la maggioranza dei soldati va alla guerra fidandosi della buona ragione del principe e che perciò possono essere tutti considerati innocenti da ambo le parti del conflitto e perciò ucciderli significherebbe uccidere un innocente: "Unde cum iam victi sunt et non est periculum ab illis, credo quod non licet illos interficere nec unum quidem ex illis, si praesumitur quod bona fide venerunt in praelium".

78. SEXTUM DUBIUM: An liceat interficere captivos, suposito etiam quod fuerint nocentes.

79. "Sed quia in bello multa iure gentium constituta sunt, videtur receptum consuetudine ut captivi, habita victoria et periculo transeunte, non interficiantur nisi forte sunt profugae".

80. SEPTIMUM DUBIUM (IV II, 7): Utrum omnia capta in bello fiant capientium et occupantium.

81. Sed quia ex huiusmodi permissionibus sequuntur multa saeva et crudelia mala praeter omnem humanitatem, quae a barbaris in militibus committuntur, innocentum caedes et cruciatus, virginum raptus, matronarum stupra, templorum spolia, ideo sine dubio sine magna necessitate et causa maxime civitatem christianam perdere iniquum est..:... p. 192.

82. OCTAVUM DUBIUM:Utrum liceat imponere victis hostibus tributa.

83. NONUM DUBIUM. (IV II,9): An liceat deponere principes hostium et novos constituere vel sibi retinere principatum.

84. «Ergo dato quod iniuria illata ab hostibus sit sufficiens causa belli, non semper erit sufficiens ad exterminationem status hostilis et a depositionem legitimorum et naturalium principum. Hoc enim est prorsus saevum et inhumanum».

85. "Supposito quod principes habent auctoritatem gerendi bellum, primum omnium debent non quaerere occasiones et causas belli, sed, si fieri potest, cum omnibus cupiant pacem habere ut Paulus praecepit (Rom 12).

Conflato iam ex iustis causis bello, oportet illud gerere non ad perniciem gentis contra quam bellandum est, sed ad consecutionem iuris sui et defensionem patriae, ut ex illo bello pax aliquando et securitas consequatur.

Parta victoria et completo bello oportet moderate et modestia christiana victoria uti, et oportet victorem existimare se iudicem sedere inter duas respublicas: alteram quae lesa est, alteram quae iniuriam fecit, ut non tanquam accusator sententiam ferat, sed tanquam iudex satisfaciat quidem lesae.

Sed quantum fieri poterit sine calamitate reipublicae nocentis, et maxime quia ut in plurimus praecipere inter christianos tota culpa et penes principes; nas subditi bona fide pro principibus pugnant. (Et est periniquum quod poeta ait: ut quicquid delirant reges, plectantur achivi).

86. "Debet autem recogitare quod alii sunt proximi, quos tenemur diligere sicut nos ipsos et quod habemus nos omnes unum communem Dominum ante cuius tribunal debemus reddere rationem omnes nos de actibus nostris".

87. ZOLO, Danilo, Cosmopolis. La prospettiva del governo mondiale, Feltrinelli, Milano, 1995, pag. 98/99.

88. SCHMITT, Il nomos della terra... cit., pp. 132-133.

89. SCHMITT, Il Nomos della terra..., cit., pp. 109-110; H. MECHOULAN, Vitoria, père du droit international?, in Actualitè de la pensée juridique de Francisco de Vitoria, cit., pp. 15-17.

90. Cf. FERRAIOLI, La conquista delle Americhe... cit., pp. 448-449.

91. FERRAJOLI, Luigi La sovranità nel mondo moderno. Nascita e crisi dello Stato nazionale, Anabasi, Milano 1995, p. 17-18. Ad una lettura attenta del testo, questa interpretazione ci appare discutibile, infatti è proprio la vindicta iniuriam che permette a Vitoria di giustificare addirittura lo sterminio del nemico, anche se in caso estremo.

92. Secondo Pierre Mesnard, Vitoria è l'autore che "più ha contribuito a precisare l'idea di sovranità" che sarà poi chiaramente definita da Bodin. Citando la Relectio de iure belli di Vitoria, l'autore mostra come "in questo trattato importante, considerato in tutti i suoi aspetti, non troviamo la minima traccia di un'autorità internazionale che possa imporre il proprio arbitrato alle parti o almeno intervenire con successo per evitare i conflitti o stabilire le sanzioni. Per cui alla concezione medievale dell'Impero Vitoria sostituirebbe già una concezione moderna basata "sull'equilibrio fra stati sovrani". Vitoria condanna l'imperialismo e la teocrazia papale, pur ammettendo una comunità universale fondata sul diritto naturale di comunicazione e associazione, ma per Mesnard questa concezione straordinariamente nuova e cosmopolita del diritto internazionale non arriva alla formulazione di uno stato soprannazionale o di una autorità soprannazionale, piuttosto, come il De iure belli mostra chiaramente, ad un equilibrio fra stati sovrani. P. MESNARD, Il pensiero politico rinascimentale, cit., pp. 127-128.

93. FERRAJOLI, La conquista delle Americhe..., cit., pp. 442-443.

94. IDEM, p. 443: La citazione di Vitoria è tratta dalla Relectio de potestate civili (1528), in Relectiones Teológicas del Maestro Fray Francisco de Vitoria, a cura di Luis. G. Getino, Madrid 1934, 21, p. 207. L'altra citazione è tratta da: A. TRUYOL SERRA, Premisses philosophiques et historiques du 'totus orbis' de Vitoria, in "Anuario de las Asociación Francisco de Vitoria", vol. II, 0. 179 ss.

95. De Indis, I, 3, 9, p. 88: «eis committere et interdicere omnibus aliis, et non solum interdicere praedicationem, sed etiam commercium, si hoc ita expedit ad religionis christianae propagationem, quia potest ordinare temporalia, sicut expedit spiritualibus».