2005

La guerra che verrà

Gino Strada

All'inizio del 1999, quando uscì Pappagalli Verdi, vivevamo in un mondo diverso.

Anche le guerre erano, per certi aspetti, diverse.

Le avevo conosciute, in oltre dieci anni di lavoro tra i conflitti, come orribili e vigliacche, come macelli senza senso.

In Medio Oriente e in Asia, in Africa e in America latina si continuava a morire per ragioni diverse. In alcuni casi si chiamavano guerre di indipendenza, in altri guerre sante o guerre di liberazione, e tante altre cose ancora.

Molti di noi pensavano che in fondo, in ogni guerra, ci fossero grandi interessi economici, una voglia di danaro e di potere che le ragioni "ufficiali" dei conflitti non riuscivano a nascondere del tutto. Così riuscivamo a identificare alcuni degli ingredienti di un conflitto, a volte perfino a decifrare chi stava soffiando sul fuoco per trarre dalla guerra enormi vantaggi.

Avevamo anche la certezza che le molte decine di conflitti che si combattevano nel pianeta si traducessero poi, tutte, in un grande massacro di civili. Ci derivava da una osservazione giornaliera, continuativa: le vittime che finivano sui tavoli operatori dei vari ospedali di Emergency avevano facce inequivocabili.

Una conferma ci era venuta sfogliando registri operatori e migliaia di cartelle cliniche, per definire una specie di identikit delle vittime, per individuare quanti possibili combattenti avevamo operato.

La percentuale di "persone armate" che restavano ferite o mutilate in ogni conflitto non arrivava, in nessun caso, al dieci percento.

Dati certi, con margini di errore statistico davvero irrilevanti: nove volte su dieci, in ogni guerra, era chi non portava armi a esserne colpito.

Il 34 per cento delle vittime erano bambini sotto i quattordici anni: una vittima su tre un bambino.

Ogni 3 pallottole a segno la vita di un bambino che se ne va? Così si è radicata ancora di più in Emergency la convinzione che le guerre fossero semplicemente una cosa rivoltante.

La guerra ci sembrava uno strumento antico e primitivo, un cancro che l'umanità non sapeva estirpare: su questo punto, ci eravamo sbagliati.

Ci era tragicamente sfuggito, e non solo a noi, che la guerra, anziché essere un pesante retaggio del passato, si stava piuttosto trasformando in terribile prospettiva per il futuro nostro e delle prossime generazioni.

In sala operatoria, vedevamo le devastazioni provocate sui corpi umani dalle bombe e dalle mine, dai proiettili e dai razzi.

Non riuscivamo, invece, a cogliere gli effetti di altre armi "non convenzionali": la finanza e i prestiti internazionali, gli accordi commerciali, "gli aggiustamenti strutturali" imposti alle politiche di molti Paesi poveri, la nuova corsa agli armamenti nei Paesi più ricchi.

Due mesi dopo l'uscita del libro, ci arrivò addosso la prima delle nuove guerre, la "guerra umanitaria".

La guerra, cioè l'uso delle armi contro qualcuno, può mai essere considerata un atto "umanitario"?

Ammazzare dovrebbe, al contrario, essere considerato un gesto disumano. E il "non uccidere", anche quando non rispettato, fa parte da molto tempo della cultura della specie umana.

Invece con la guerra in Kosovo è stata elaborata la teoria della "guerra umanitaria". La guerra ne usciva legittimata, benedetta, la guerra come strumento per imporre, ripristinare, garantire i diritti umani...

Sarebbe però sbagliato liquidare la questione dicendo che si trattava solamente di una scusa, l'ultima inventata, per giustificare la guerra.

La guerra umanitaria era molto di più: per i "diritti degli esseri umani", non per voglia di conquista o di vendetta e neanche per danaro, diventava lecita, perfino auspicabile, la loro soppressione.

Per i diritti di chi? dei sopravvissuti, o più semplicemente dei più forti e dei più potenti, che solitamente sono anche i più ricchi?

Così, inneggiando ai diritti umani, è stato tolto a molti il diritto fondamentale, il diritto alla vita, a restare vivi.

Dove sono i diritti umani, per le vittime di guerra?

"In the last decade alone - secondo un'agenzia delle Nazioni Unite - more than 2 million children have died as a direct result of armed conflict, and more than three times that number have been permanently disabled or seriously injured".

E ancora: "An estimated 20 million children have been forced to flee their homes and more than 1 million children have been orphaned or separated from their families».

Tutto questo succede sotto i nostri occhi: ogni anno, tre milioni di bambini, sei bambini al minuto, muoiono o restano feriti e mutilati, o hanno la propria vita distrutta e sconvolta dalla guerra, mentre da noi si celebra la "Giornata dell'infanzia" e ci si pavoneggia con la "Carta dei diritti del bambino".

Può la coscienza civile sopportare tutto questo? Non credo.

Forse per nascondere questa verità è stata coniata l'espressione più razzista e infame che io conosca: "effetti collaterali".

Già, la guerra, e a maggior ragione le guerre umanitarie, combattute dai Paesi militarmente più forti e dotati delle armi più devastanti, producono "effetti collaterali".

Così tre milioni di bambini, ogni anno, perdono i propri lineamenti, il proprio nome, il proprio sorriso, per diventare semplicemente, disposable items, esseri senza diritti. Lo stesso vale, ovviamente, per donne e uomini vittime delle guerre: non sono più esseri umani, sono "il prezzo da pagare".

Se anche un solo essere umano ne viene escluso, non è più lecito parlare di diritti umani, che per definizione appartengono a tutti. Si tratta, piuttosto dei privilegi dei più forti, degli "inclusi", che rivendicano per sé i diritti che negano agli altri.

Non ho mai sentito, e mi sarei indignato allo stesso modo se fosse successo, chiamare le tremila vittime dell'attacco terroristico alle Torri Gemelle "effetti collaterali" della jihad.

Al contrario, come è giusto e umano che sia, quelle vittime sono state piante e ricordate per quello che erano: esseri umani falciati dalla follia omicida della guerra. Le loro foto sono lì, sul luogo che è diventato la loro tomba, e ci sono i fiori, e il dolore dei loro famigliari.

Almeno cinquemila civili afgani furono uccisi, sepolti dalle bombe statunitensi qualche mese dopo l'attentato di New York, vittime del terrorismo della guerra. La stessa sorte è toccata a più di diecimila civili iracheni.

Più del doppio dei civili curdi che nel 1998, ad Halabja, vennero sterminati con i gas chimici da elicotteri Hugues and Bell, forniti dagli USA al dittatore iracheno.

Abbiamo visto qualcuno dei loro volti, sulle libere televisioni dei Paesi ricchi e democratici?

No, anche loro effetti collaterali.

E' questa la follia razzista che sta dominando il mondo di oggi: il credere fermamente che esistano cittadini i cui diritti debbano essere rispettati e altri, molto più numerosi, che possono invece essere esclusi dalla fruizione dei diritti, che possono essere sacrificati.

Accettare - e ancora prima proporre - la teoria della guerra umanitaria significa conferire dignità morale all'assassinio.

Uccidere smette così di essere un crimine, una tragedia da evitare ad ogni costo, per diventare scelta giusta, addirittura dettata da motivazioni etiche. "Umanitarie", per l'appunto.

Qualche eco simile era già arrivato qualche anno prima, con l'intervento militare nei Balcani, ma é stato con la guerra in Kosovo che la teoria della guerra umanitaria é stata formulata appieno e subito applicata.

L'allora Presidente del Consiglio dei Ministri italiano, un esponente della sinistra che sarà ricordato come uno degli "inventori" della guerra umanitaria ebbe a scrivere, disucutendo l'opportunità di un intervento di truppe di terra nel conflitto: "L'opzione fu discussa... ma poi decidemmo di continuare con l'azione aerea integrata dall'intervento umanitario".

Così l'intervento umanitario, cioè il lavoro di chi cerca di dare una mano a persone che soffrono, di salvare, se possibile, vite umane, veniva considerato una integrazione dei bombardamenti, un fatto sinergico con la distruzione e la morte. Un'altra infamia.

Lo stesso Governo italiano, che partecipava alla guerra in aperta violazione dell'articolo 11 della Costituzione Italiana, oltreché della vacillante legalità internazionale, varò allora una operazione, chiamata "Missione Arcobaleno".

Ai cittadini italiani venne chiesto - con una martellante campagna televisiva - di donare soldi per gli aiuti umanitari, e gli italiani, generosi come sempre, versarono una cifra pari all'incirca a 70 milioni di dollari USA.

Quei soldi, come molti altri, finirono in buona parte in scandali, sprechi, forse qualche appropriazione indebita. Tra l'altro, i cittadini italiani non videro mai - sulle televisioni che li avevano invitati a contribuire - che cosa era stato fatto dei soldi loro.

Visitando il sito internet di Missione Arcobaleno qualcuno venne a conoscenza che il primo progetto "umanitario" previsto era un investimento di 2,5 milioni di dollari per ampliare la rete di telefoni cellulari nella regione.

Stupefacente: ai contribuenti italiani erano stati chiesti soldi mostrando lacrimevoli immagini di "profughi in fuga dalla pulizia etnica", non teenagers disperati perché il loro cellulare non prendeva il segnale...

Quella pagina internet sparì in breve tempo, e non se ne seppe più molto.

Ma non erano certo questi, gli aspetti più preoccupanti.

E' stato molto più grave, ad esempio, che molte organizzazioni, in questo caso faccio fatica ad aggiungere l'aggettivo "umanitarie", non abbiano esitato un secondo nell'accettare i soldi dei governi impegnati nella guerra.

"Pecunia non olet!" è stata la filosofia rapidamente fatta propria da moltissime organizzazioni non governative (NGO's), e in modo molto frettoloso, per non farsi scappare l'occasione, senza fermarsi a riflettere.

Senza fiutare la trappola.

Senza pensare, ad esempio, alle conseguenze del contribuire all'operazione di legittimazione della guerra affiancandosi o arrivando subito dopo che i militari avevano finito "il loro lavoro".

Due anni dopo, in Afghanistan, si è ripetuto con qualche ritocco lo stesso copione.

Le diverse organizzazioni, dalle Agenzie delle Nazioni Unite alla Croce Rossa internazionale alle NGO's, sono letteralmente scappate dall'Afghanistan nel giro di pochi giorni, immediatamente dopo l'11 settembre.

Finiti i bombardamenti su Kabul e dintorni, dopo la conquista della capitale da parte dei mujaheddin avvenuta il 13 novembre 2001 e dopo che i marines si erano insediati nella vicina base militare di Baghram, le organizzazioni sono tornate in massa, molto più numerose di prima, molte di loro statunitensi, una vera e propria invasione.

Una specie di operazione in due tempi, il tempo delle bombe e quello degli aiuti, in successione, un'operazione "integrata".

Ancora una volta, gli stessi Governi che avevano prodotto ulteriori lutti in un Paese devastato dalla guerra da un quarto di secolo, finito di spianare villaggi con bombe da sette tonnellate, hanno messo a disposizione fondi - in realtà qualche briciola se paragonata ai costi della guerra e all'entità delle devastazioni - per i cosiddetti aiuti umanitari.

E le organizzazioni, molte delle quali non avevano mai pensato di intervenire prima in Afghanistan, sono arrivate numerose, desiderose di accaparrarsi i contratti per la "ricostruzione".

Emergency, che non aveva mai abbandonato l'Afghanistan dopo la tragedia del World Trade Center, dicendo a voce alta "no alla guerra" - una voce fuori dal coro, in quei giorni - e aveva continuato a portare assistenza medica e chirurgica alle vittime, anche nella Kabul talebana, fu aspramente criticata, anche da molte delle organizzazioni, per essersi rifiutata di accettare i soldi della guerra, l'elemosina dei vincitori.

"Non siamo né a favore né contro questa guerra" dichiarò in una intervista televisiva il responsabile di una delle più importanti organizzazioni, riferendosi ai bombardamenti sull'Afghanistan.

Al di là della soggettività dei singoli operatori, molte NGO's hanno scelto di "integrarsi" nel progetto della guerra, con il silenzio seguito, e insieme imposto, dalla dipendenza economica da chi praticava la guerra.

Così il processo di integrazione, di sinergia tra le bombe e gli aiuti, aveva segnato un passo importante.

Chi aveva interesse a presentare la faccia buona della guerra - la guerra che porta gli aiuti, la guerra che migliora la condizione umana - aveva capito tutta l'importanza di avere al proprio fianco il mondo umanitario.

Nel febbraio 2003, alla vigilia della aggressione all'Iraq, la strategia venne ulteriormente perfezionata.

Un team di Emergency, essendo allora impossibile raggiungere Baghdad dal nord, dal cosiddetto Kurdistan iracheno, si trovava ad Amman con un cargo di medicinali e attrezzature chirurgiche, pronto a partire verso la capitale irachena.

In quei giorni, ci contattò personale della Ambasciata USA in Giordania, proponendo una riunione. Con nostra grande sorpresa, i funzionari che vennero ad incontrarci fornirono un biglietto da visita con l'acronimo HACC: "Humanitarian Assistance Coordination Center".

Un mese prima della guerra, militari e agenti dei servizi entravano direttamente nel mondo degli aiuti, non più limitandosi a fornire danaro alle varie agenzie, ma assumendo il compito di coordinarne le attività: una sorta di gestione diretta, in cui i promotori della guerra diventavano in prima persona il soggetto responsabile degli aiuti, lasciando alle organizzazioni il ruolo di subcontractors.

Così in aprile, nella Baghdad "liberata" e trasformata in campo di battaglia, si tenevano ogni giorno, nell'Hotel Palestine pullulante di giornalisti e di marines, "riunioni di coordinamento degli aiuti" - peraltro assolutamente inesistenti - presiedute dai militari statunitensi con la partecipazione di qualche funzionario delle poche organizzazioni presenti.

Mentre la società civile ha visto milioni di persone impegnate nella battaglia per la pace, dal mondo degli aiuti umanitari non si è levata una voce unanime e forte di condanna della guerra.

Signori della vita e della morte, gli apparati militari hanno anche una grande potenza di fuoco mediatico che li fa signori delle parole. Hanno imposto un nuovo uso del termine «umanitario» violandone il significato originario.

Sono così finite, ed è stata anche questa una tragedia, la neutralità e l'indipendenza del lavoro umanitario, si è persa etica, cultura, identità.

Col Kosovo sono nate di fatto le organizzazioni umanitarie "embedded", come "embedded" sarebbero stati molti giornalisti quattro anni dopo in Iraq.

Esattamente quello che volevano, predicavano, speravano i politici sostenitori della guerra.

In Iraq, l'integrazione, la collusione, la sinergia voluta ed accettata tra attività militari e attività umanitarie ha avuto una conseguenza pratica disastrosa.

Dopo che militari e agenti dei servizi hanno iniziato a circolare nei luoghi di guerra con automezzi molti simili a quelli tradizionalmente usati dalle NGO, bianchi Land Cruiser a volte con la scritta "Humanitarian Help" sulla fiancata, neanche per le popolazioni è stato più chiaro chi era chi e chi faceva che cosa.

Il risultato finale di questo processo è stata la drastica riduzione degli interventi umanitari, essendo venute a mancare le condizioni minime di sicurezza, proprio nelle situazioni in cui più grandi sono le necessità.

La "guerra umanitaria" è riuscita a cambiare il mondo umanitario, e non solo.

La guerra umanitaria ha cambiato la guerra.

L'ha resa più vicina, più disponibile. La guerra é stata nobilitata, oggi appare meno rivoltante, più seducente.

Si accetta che in nome dei diritti umani, gli esseri umani possano e debbano venire uccisi.

Varcato consapevolmente questo confine, si é fuori dal campo della ragione umana, e certamente al di fuori di ogni forma di civiltà.

Passato quel confine, non stupisce lo sviluppo della "guerra umanitaria" nella sua successiva declinazione: la guerra preventiva.

Se è giusto, lecito, addirittura "umanitario" uccidere altri esseri umani, perché aspettare?

Lo si faccia subito, il prima possibile.

Con la scelta della guerra, dell'arbitrio e della forza come strumenti per regolare i problemi e i rapporti tra gli uomini, è cambiata anche la nostra storia: il nostro futuro rischia in realtà di essere un viaggio verso il passato.

La guerra umanitaria e la guerra preventiva sono una rottura con la nostra cultura, un tentativo di azzerare il pensiero etico e politico degli ultimi secoli.

Stiamo andando a ritroso nella Storia, non solo nella storia del pensiero umano.

Avevamo sperato diversamente.

La generazione dei nostri padri, all'indomani della Seconda Guerra mondiale, aveva creduto di poter costruire un futuro più rispettoso di tutti, basato su premesse diverse da quelle che avevano condotto alla devastazione e allo sconvolgimento dell'Europa e del pianeta.

Lo sviluppo tecnico e scientifico - speravano - avrebbe poi aiutato a risollevarsi e contribuito a migliorare la condizione di molti, se non di tutti, gli abitanti del pianeta.

Non di per sé, certo, non in modo automatico. Non senza alcuni principi di fondo necessari a regolare la convivenza umana, non senza strumenti per verificarne il rispetto.

La nascita delle Nazioni Unite e della Dichiarazione Universale, rispondevano proprio a quel bisogno di definire regole comuni e di riorganizzare il mondo perché davvero una analoga tragedia non avesse più possibilità di accadere, "mai più".

"Tutti gli uomini nascono liberi ed eguali in dignità e diritti": inizia così, il primo Articolo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

Una solenne promessa, un proposito, un obiettivo da perseguire.

Più di mezzo secolo dopo, quelle parole suonano sarcastiche, quasi offensive.

Non solo gli uomini ancora oggi nascono diversi nei propri diritti e nella propria libertà - nascere a Kabul o a Francoforte, a Baghdad o a Oslo non è la stessa cosa - ma queste differenze, dopo la nascita, tendono ad aumentare sempre di più; molto più che in passato, la forbice si apre, il divario si allarga.

In aperta contraddizione con le premesse e le promesse che dovevano segnare la storia del secolo da poco concluso, ci troviamo oggi in un mondo sempre più dominato dalla diseguaglianza, cioé dall'ingiustizia sociale.

E' successo, è potuto succedere perché i potenti della Terra, coloro che detengono e controllano i centri del potere economico e finanziario e che determinano, direttamente o indirettamente, le politiche degli Stati e Governi del pianeta, hanno deciso di affermare un modello di umanità diverso - nello spirito e nella pratica - da quello solennemente enunciato nella Dichiarazione Universale.

Anziché comportarsi gli uni verso gli altri "in spirito di fratellanza", come sancito dall'Articolo 1, alcuni cittadini del mondo, i più forti, i più ricchi, i più potenti, hanno operato una scelta diversa.

Hanno deciso, mettendo tutti noi cittadini di fronte a un fatto compiuto, che i rapporti tra gli uomini dovessero essere regolati da altri principi, non presenti nella Dichiarazione.

Il Principio Universale, e probabilmente l'unico, mai scritto né esplicitato ma che è oggi a fondamento del nostro mondo, si potrebbe definire così: "Tutti gli esseri umani hanno il diritto di guadagnare danaro, sempre, comunque, dovunque, a qualsiasi costo".

Senza limiti, senza ostacoli, senza porsi domande.

Ogni mezzo é lecito, in ogni campo, perché il guadagnare danaro è diventato insieme il contenuto e il fine della libertà. Verrebbe da dire - e per molti é davvero così - é diventato il fine stesso dell'esistenza umana.

Sappiamo - c'è una spaventosa quantità di dati in proposito - che ci sono gruppi di persone che guadagnano cifre da capogiro sulla guerra.

Ogni volta che c'è una guerra, ma non solo. Basta che si inizi a discutere di una nuova possibile guerra, e ci sono persone il cui conto in banca sale vertiginosamente. Basta pronunciare la parola guerra.

C'è chi vende armi e chi petrolio per la guerra, c'è chi procura il cibo per le truppe e chi i sistemi di comunicazione, e chi si prepara alla "ricostruzione"...

Ci sono tante aziende che si mettono al lavoro. Di solito sono grandi aziende, che hanno un principio assoluto in comune: il proprio profitto.

Moriranno milioni di persone? A loro non importa assolutamente, la preoccupazione è una sola: quanto ci potranno guadagnare.

Quanto? E' la sola domanda che si sono sempre poste le multinazionali, presenti ovunque nei punti strategici del Pianeta. Lavoravano in questo modo prima del 10 dicembre del 1948, quando la Dichiarazione Universale venne firmata a Parigi, e hanno continuato a farlo in seguito.

Il colosso statunitense General Motors, ad esempio, nel 1929 comprò la ditta tedesca di automobili Opel.

Sei anni dopo i gerarchi nazisti, che già si preparavano alla guerra, chiesero alla Opel di progettare un camion per uso militare.

Così nel 1938, l'anno della "capitolazione di Monaco", l'esercito tedesco che sta per sterminare milioni di persone in Europa viene dotato, da una multinazionale USA, dell'Opel "Blitz".

E durante tutta la seconda guerra mondiale - anche dopo l'entrata in guerra degli Stati Uniti - la General Motors, ben presto imitata dal colosso concorrente Ford, continua a produrre veicoli, carri armati e propulsori di aerei per le armate di Hitler!

Sembra fantapolitica ed è cronaca vera.

In virtù del loro essere "multinazionali" le aziende possono anche diversificare il proprio modo di guadagnare: nel 1943, la multinazionale statunitense Opel si divide i compiti: la Opel-USA fornisce i motori per l'aviazione americana, mentre la Opel-Germania fornisce quelli per l'aviazione tedesca. In Europa, il micidiale aereo tedesco da combattimento Messerschmitt 262 era equipaggiato con motori forniti da una azienda statunitense.

E i nostri padri - i padri di noi europei - erano lì sotto, a prendersi le bombe degli uni e degli altri.

Quando l'unico "valore" è il profitto, non ci sono più amici o nemici, ma solo clienti.

Dopo la guerra, la General Motors chiese e ottenne un "risarcimento" dal Governo USA per i danni causati ai propri stabilimenti in Germania dai bombardamenti alleati!

Sfortunatamente per la GM, ma per fortuna dei cittadini statunitensi, gli aerei della Luftwaffe non arrivarono mai a bombardare Detroit. Lo avessero fatto, la GM sarebbe oggi in causa col governo tedesco.

Può il mondo basarsi su questo Principio Universale, può stare in piedi l'impero del dio Danaro?

Dovessimo noi cittadini, tutti noi, all'incirca sei miliardi, applicare davvero quel principio, in meno di un giorno il pianeta diventerebbe un incubo popolato da esseri molto feroci.

Se il Principio Unico é la legittimità del profitto senza regole né vincoli, perché non ammazzare un altro essere umano per un portafoglio o una borsetta, un orologio o una automobile, un appartamento o una eredità? Perché non ammazzare per rubare, se è diventato lecito ammazzare per i diritti umani?

In tv, aspettando le news, vedo la pubblicità di un casa produttrice di alimenti: un gruppo di giovani in riva all'oceano e con voglia di surf. Ma le onde sono troppo alte, forse non è giornata da surf per dilettanti, e allora..."Ma tu non hai fame?" chiede uno dei ragazzi. Lo spot si chiudeva così: niente surf, tutti a tavola.

Un miliardo di persone, il venti per cento dei cittadini del mondo, sono talmente poveri da non avere da mangiare e ci stanno urlando da anni "Abbiamo fame!". E la pubblicità ci chiede se abbiamo fame, noi privilegiati spesso sovrappeso.

Nove milioni di esseri umani muoiono ogni anno, di fame.

Ventiquattromila persone al giorno: di queste, undicimila sono bambini, un bambino ogni 8 secondi.

Muoiono di fame, di malattie curabili, di povertà, di guerra. Reazioni a catena che si auto-sostengono: la povertà non consente di curare banali malattie, che diventano così mortali; la povertà che conduce alla malnutrizione, e a morire di fame. E la guerra, che produce nuove povertà e nuove carestie, toglie possibilità di nutrirsi e di essere curati, quando non uccide.

Fame e povertà, malnutrizione e malattie prevenibili potrebbero sparire dal pianeta in poco tempo.

Se sparissero le guerre, se sparisse la logica di guerra, se i Governi servissero i bisogni dei propri cittadini.

Invece, nel 2002, settecentottantaquattro miliardi di dollari sono finiti in spese militari. Quest'anno saranno molti di più.

I cinque Paesi membri del Consiglio di Sicurezza dell'Onu producono e esportano l'ottantacinque per cento delle armi che circolano nel pianeta.

I Paesi più ricchi e potenti fabbricano sempre più armi per la "sicurezza" dei cittadini, mentre milioni di cittadini muoiono a causa di quelle armi. Fabbricano devastanti ordigni nucleari per "la difesa" dei cittadini, mentre i cittadini soffrono perché quei soldi non sono spesi per difendere la loro salute, il lavoro, l'istruzione, l'ambiente.

I nostri governi hanno speso quei soldi. Stanno governando per noi, o contro di noi e contro i nostri figli?

Nel 1932 Albert Einstein dichiarò "La guerra non la si può umanizzare, la si può solo abolire".

E' pensabile, un mondo senza guerre?

Molti liquidano la questione con un semplice "le guerre ci sono sempre state". Ma questa non è una risposta, è solo una constatazione generica.

Credo che oggi non sia solo possibile, ma urgentemente necessario disegnare un mondo senza guerre, se vogliamo evitare l'autodistruzione.

Dobbiamo capire in fretta quali potrebbero essere le condizioni necessarie per imporre non solo una politica di pace, ma addirittura la pace come politica.

Da molti, molti anni abbiamo sotto gli occhi le conseguenze di rapporti tra gli uomini basati sulla sopraffazione e sullo sfruttamento, e sull'uso della forza e della violenza.

Visti i risultati, visto il terribile carico di morte, fame, malattie e povertà già pagato dall'umanità, visto l'immenso carico di dolore che ci siamo procurati, è così folle, o utopico, cercare una via diversa?

E' così mostruoso pensare a come rendere possibili rapporti umani fondati sulla eguaglianza, sulla giustizia sociale e sulla solidarietà, e rapporti dai quali sia stato escluso, per comune acccordo, l'uso della violenza, del terrorismo, della guerra?

Questo, in fondo, è stato anche il senso, la ragione profonda del lavoro di Emergency in dieci anni di attività.

Dare vita a ospedali, a luoghi dove gli esseri umani che hanno bisogno possano trovare cura perchè è un loro diritto. Dove possano trovare una medicina di alto livello, pubblica e gratuita, perchè la salute è un diritto di tutti.

Ma anche - come dovrebbero essere tutti i "luoghi pubblici" - luoghi di rispetto, dove non si discrimina tra ricchi e poveri, tra bianchi e neri, tra amici e nemici, dove tutti vengono trattati con dignità e solidarietà umana. Luoghi "ospitali", dove la violenza è stata esclusa, bandita nei rapporti umani.

Nell'esperienza di cura delle vittime di guerra - in dieci anni, più di un milione di pazienti sono passati per i gli ospedali di Emergency - abbiamo verificato molte volte che nel costruire insieme piccoli frammenti di diritti umani si abbattono barriere, si favoriscono la comprensione e il dialogo. Non è sempre facile, e non è una linea retta, ma succede.

E' possibile. Anche perchè le vittime hanno la guerra sulla propria pelle, ne portano i segni e le conseguenze, spesso ne capiscono tutta l'assurdità. Perché le vittime, anche quelle delle "guerre umanitarie", hanno tutte le stesse facce, le stesse storie, le stesse miserie, le stesse sofferenze.

Tra i villaggi rasi al suolo alle porte di Kabul e nei quartieri di Baghdad, tra le rovine di Grozny e di Jenin, le vittime sono lì a ricordarci il prezzo che loro - i più poveri ed emarginati, i senza diritti, gli "effetti collaterali" - stanno pagando ancora una volta per la follia della guerra voluta dai ricchi e dai potenti del mondo.

Come scriveva Bertold Brecht

La guerra che verrà
non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell'ultima c'erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente egualmente

The war which is coming, is not the first one. There were other wars before it. When the last one came to an end there were conquerors and conquered. Among the conquered the common people starved. Among the conquerors the common people starved too.