2005

Morire per vincere. La strategia del terrorismo suicida

Pietro Montanari

"Dying to Win" - morire per vincere - è il titolo del nuovo libro di Robert Pape, appena pubblicato negli Stati Uniti da Random House (giugno 2005). L'argomento del libro, come chiarisce meglio il suo sottotitolo, è "la logica strategica, sociale e individuale del terrorismo suicida". Robert Pape, docente di scienze politiche all'Università di Chicago ed editorialista per il New York Times, è uno dei massimi esperti nel campo e il suo libro è probabilmente l'analisi più ampia e dettagliata che si possa all'oggi reperire su questa inedita e agghiacciante modalità di "guerra partigiana" (poi chiarirò in che senso e con che riserve utilizzo questa espressione). È importante sottolineare che il libro è stato preceduto da un lungo articolo ("The strategic logic of suicide terrorism") apparso nel 2003 sull'American Political Science Review, articolo della cui importanza, in Italia, si è accorto soltanto un giornalista: Emanuele Giordana, che lo ha recensito per Lettera 22.

Gli eventi degli ultimi due anni non hanno fatto che confermare le argomentazioni di Pape e rendere un loro sviluppo in forma di libro semplicemente indispensabile. La tesi dell'autore è molto chiara: la variabile determinante nella spiegazione degli attacchi suicidi, e del loro incremento esponenziale negli ultimi anni, non è il fondamentalismo religioso, e nemmeno la povertà o il sottosviluppo, ma una risposta organizzata a ciò che viene percepito come uno stato di occupazione militare. Per occupazione militare, è bene sottolinearlo, non si intende soltanto la conquista effettiva di un territorio (obiettivo che nelle guerre contemporanee è sempre più irrilevante), ma la presenza militare e ideologica di una potenza straniera che intende "trasformare" o "rifondare" la società del paese occupato. L'obiettivo fondamentale dei gruppi terroristici è quindi del tutto "secolare e strategico": costringere le democrazie moderne a ritirare le proprie truppe da territori che essi considerano come la propria patria. Insomma: fino a prova contraria, l'unico rapporto certo - empiricamente fondato e concettualmente rigoroso - che possiamo isolare è quello tra l'occupazione militare straniera (nel senso appena visto) e la crescita del "terrorismo suicida" organizzato. Questo, in breve, è il nucleo dell'argomentazione di Pape. Nella sua semplicità, la tesi è a mio avviso dirompente. Quanto all'intervento di democratizzazione in Irak, Pape afferma: "sebbene tale strategia abbia delle buone ragioni, occorre riconoscere che la presenza prolungata e massiccia delle truppe americane nei paesi musulmani aumenterà le probabilità di un prossimo 11/9".

La tesi di Pape è sostenuta da una mole enorme di dati. L'autore ha raccolto un data base unico nel suo genere, che contiene tutti gli attacchi suicidi avvenuti dal 1980 (315 fino al 2003) - vale a dire il fenomeno nel suo complesso, dato che il "terrorismo suicida" era praticamente sconosciuto prima degli anni Ottanta. (1) Dei 315 attacchi, 301 (il 95%) sono il prodotto di 17 campagne terroristiche organizzate e oltre la metà delle azioni è stata condotta da organizzazioni non religiose (ben 76, per esempio, sono attribuibili alle sole Tigri del Tamil). E questo conferma sia il ruolo determinante svolto dall'organizzazione sia la natura politica e secolare della lotta. L'essenza politica del fenomeno è del tutto evidente anche nelle dichiarazioni dei leader dei gruppi terroristici (inclusi quelli religiosi), cui Pape finalmente dà ampio spazio.

L'elemento religioso - ma converrebbe dire ideologico in senso lato - svolge piuttosto una funzione indiretta: per esempio, dice Pape, vi sono maggiori possibilità che il terrorismo suicida si manifesti quando la religione della potenza occupante è diversa da quella del territorio occupato; l'elemento religioso o ideologico, inoltre, è in grado di elevare lo status dei martiri nella comunità e quindi di rafforzare la popolarità di questo genere di risposta. Ma niente più di questo viene concesso a una spiegazione che si richiami all'irrazionalità dei moventi. Al contrario, Pape esalta l'aspetto razionale - la logica - del ricorso a questo genere di attacco da parte delle organizzazioni: da un lato i costi umani che esso richiede sono limitati (diversamente da quelli economici), mentre la distruttività prodotta è almeno 4 o 5 volte superiore a quella dell'azione terroristica "convenzionale"; dall'altro si tratta di una strategia propria degli attori deboli (che non possono competere in alcun modo con le potenze di occupazione), i quali trovano in essa "l'ultima risorsa" efficace per perseguire i propri scopi politici. E infatti i "successi" di questa strategia esistono: in Libano (1983-85), Israele (1994-95) e Sri Lanka (dal 1990) il ricorso all'opzione delle operazioni suicide si è dimostrato un metodo di lotta efficace. I successi di Hezbollah in Libano hanno indotto organizzazioni come Al-Qaeda, il PKK, le Tigri del Tamil, Hamas e altre ancora ad adottare lo stesso metodo. L'efficacia del terrorismo suicida è semplice da intendere: "the attackers cannot be deterred" - cioè non esiste deterrenza possibile contro chi attacca, perché il suicida ha già sacrificato se stesso, non teme né punizione né ritorsione, e la potenza colpita sa che molti altri sono pronti a immolarsi nello stesso modo. In condizioni di totale squilibrio di forza, perciò, una tale risposta può risultare "un'opzione realistica" (così la definì al-Shaqaqi, il segretario generale di Jihad Islamico, nel 1995).

Sarebbe altrettanto interessante poter seguire l'analisi di Pape sulla logica sociale e individuale di questi suicidi, ma farlo ci porterebbe troppo lontano. Ci limiteremo a suggerire due implicazioni della sua analisi - la prima di tipo teorico e la seconda di tipo pratico - che a mio avviso sono fondamentali, pur essendo del tutto assenti nell'opera che stiamo discutendo.

La "teoria generale del moderno terrorismo suicida", come la chiama Pape, non può non essere messa in rapporto con la "teoria della guerra partigiana" di Carl Schmitt. (2) Oltre quarant'anni fa il grande giurista e filosofo tedesco aveva inteso più chiaramente di ogni altro la crisi radicale subita in età contemporanea dalla figura del nemico. Nella guerra contemporanea - che ha sempre più i tratti di una "guerra civile mondiale" - il nemico diventa assoluto e la guerra perde irreversibilmente la forma di un conflitto ordinato e giuridicamente regolato tra Stati sovrani. La figura del partigiano, già emersa in epoca napoleonica, assume quindi un rilievo planetario inaudito dopo la prima guerra mondiale e soprattutto con la guerra fredda e le guerre di liberazione nazionale: non si fronteggiano più Stati secondo un codice di guerra condiviso, ma combattenti irregolari ed eserciti regolari la cui ostilità da un lato supera e attraversa le frontiere nazionali e dall'altro manifesta un'inimicizia che esclude il riconoscimento reciproco e implica la sola logica dell'annientamento. Che nella loro guerra "contro il terrore" gli Stati siano trascinati nella stessa "logica del terrore" è ormai così evidente da risultare persino banale, e comunque è un fatto pienamente riconosciuto da Robert Pape. (3) Ma se la sua analisi del "terrorista suicida" sembra incontrarsi con la figura del partigiano tracciata da Schmitt è per una ragione ancora più importante: il terrorista suicida combatte una guerra per liberare il territorio da una potenza occupante. Proprio in questo aspetto difensivo Schmitt scorgeva la quarta caratteristica essenziale per definire l'azione del partigiano (insieme all'irregolarità, alla maggiore mobilità/flessibilità e all'impegno politico). Che questa lotta per la liberazione e per la difesa del territorio potesse assumere anche l'aspetto aggressivo, offensivo e distruttivo tipico di una "guerra di dottrina" (4) totale e assoluta, Schmitt lo sapeva benissimo, così come era in grado di vederne chiaramente l'impatto degenerativo sulla tenuta della legalità internazionale. E proprio su questo punto la figura del partigiano diventava contraddittoria e luciferina ai suoi stessi occhi. È con lo stesso sgomento di Schmitt che, dopo aver letto il libro di Robert Pape, siamo costretti a chiederci se il terrorismo suicida non sia altro che l'inedita o estrema manifestazione di una guerra di liberazione.

La seconda implicazione, di ordine pratico, riguarda l'occupazione militare intesa come strategia per trasformare la società. L'obiettivo della "trasformazione sociale", implicitamente o esplicitamente ammesso, si rivela decisivo per comprendere nozioni ambigue come quelle di "guerra preventiva" o di "intervento umanitario", e di fatto risulta centrale in gran parte dei programmi di cooperazione nei contesti di guerra e di crisi protratta. (5) Il presupposto di questi interventi di trasformazione, per quanto diverse siano le loro finalità, è quasi sempre lo stesso: che la violenza politica sia il prodotto di una condizione di irrazionalità, collettiva o individuale, di volta in volta da attribuire alla dittatura, al fanatismo, all'ignoranza, alla povertà o all'arretratezza - se non addirittura a un disturbo di ordine psichico che richiede adeguate terapie di recupero. La soluzione va da sé: è possibile estirpare il male (proprio nel senso di malattia) soltanto rimuovendo o correggendo tali condizioni e quindi trasformando, in tutto o in parte, l'assetto sociale dei contesti in cui si interviene. In sostanza lo scandalo suscitato dalla violenza politica è tale da rendere intollerabile l'ipotesi che essa abbia una sua razionalità - strategica, sociale, individuale - ed è tale da esigere una giustificazione immediata che rimuova o neutralizzi tale possibilità trasferendone altrove la vera causa. Questo presupposto, oltre a essersi dimostrato spesso inefficace e terribilmente semplicistico, è tutto tranne che innocuo: produce sovente ulteriore instabilità e nuovi squilibri dove viene applicato; contribuisce a rafforzare quel processo che Danilo Zolo ha definito di "eversione del diritto internazionale", (6) con evidenti ricadute all'interno dei nostri stessi assetti giuridici; e infine, essendo ampiamente responsabile della progressiva confusione tra azione umanitaria e intervento militare, rende sempre più difficile la cooperazione internazionale con i paesi più deboli.

Pape è uno dei pochi autori contemporanei che, enfatizzando la logica piuttosto che l'irrazionalità dei fenomeni violenti, ci invitano a riflettere sull'urgenza di poggiare la nostra azione politica, umanitaria e militare su una conoscenza adeguata dei fatti. E non mi stupirei se oggi, proprio per questo motivo, il suo libro non riuscisse a stimolare il dibattito che merita. Tanto negli Stati Uniti quanto in Europa.


Note

1. Secondo Pape, è possibile individuare solo tre precedenti storici analoghi: gli zeloti e i sicari ebrei del primo secolo d.C.; la setta ismailita degli assassini (XI-XII secolo); i kamikaze giapponesi alla fine della seconda guerra mondiale.

2. Si veda Carl Schmitt, Teoria del partigiano. Integrazione al concetto del Politico, Adelphi, Milano, 2005, pp. 26 sgg. L'opera è del 1962.

3. Dying to win, p. 30: "...il cuore della strategia del terrorismo suicida è lo stesso della logica coercitiva utilizzata dagli Stati quando impiegano forze aeree o sanzioni economiche per punire un avversario".

4. L'espressione è di Martin Wight (1955). Seguendo Hobbes, Wight classificava le guerre in tre grandi categorie: "wars of gain", "wars of fear" e "wars of doctrine". Nel definire queste ultime - come "guerre missionarie e o di crociata, guerre per asserire un principio e difendere una causa", per loro natura indifferenti ai confini nazionali - Wight ricordava il concetto greco di stasis (discordia civile, guerra tra classi). Si veda M. Wight, Power politics, Continuum, New York-London, 2004, pp. 138 sgg.

5. Su questo punto insiste particolarmente Claudio Bazzocchi, sulla scia delle analisi di Mark Duffield. Si vedano C. Bazzocchi, La balcanizzazione dello sviluppo, il Ponte, Bologna, 2003; e M. Duffield, Guerre postmoderne, il Ponte, Bologna, 2004. Proprio come fa Pape per il terrorismo, Duffield pone l'accento sulla razionalità e la progettualità politica delle "nuove guerre" e dei conflitti regionali esplosi ovunque dopo il crollo del socialismo reale.

6. Si veda, per esempio, Una guerra globale monoteistica, 2004.