2011

Antonio Cassese
La saggezza e il realismo di un giurista

Danilo Zolo

Antonio Cassese

Si chiamava Antonio Cassese, ma io lo chiamavo e lo chiamo Nino. Ci eravamo incontrati per caso circa vent'anni fa in una casa di campagna, nelle colline del Chianti. Lui era un giurista di grande fama e di una cultura eccezionale. Io ero ancora alla ricerca della mia strada e della mia identità culturale. Lui stava per diventare presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e di lì a poco sarebbe diventato il primo presidente del Tribunale Penale Internazionale per l'ex-Jugoslavia. E aveva già pubblicato un'infinità di libri in una infinità di lingue diverse.

Diventammo subito amici, ma io lo temevo perché tentavo di imitarlo e non era facile. La sua straordinaria competenza come giurista internazionalista mi intimidiva, anche perché era sempre pronto a correggermi e a richiamarmi all'ordine. Lo faceva scherzosamente e severamente nello stesso tempo. E mi accusava anche di non essere neutrale sul terreno ideologico. Per lui io ero un giurista di estrema sinistra che mancava di oggettività e di rigore nel giudicare le vicende del mondo. Basterebbe scorrere i suoi libri più recenti - penso a Lineamenti di diritto internazionale penale, a Voci contro la barbarie, a Il sogno dei diritti umani, e al recentissimo L'esperienza del male - per trovarvi il segno di un approccio severo e intransigente dei rapporti internazionali e la prova di una saggezza lodevole e invidiabile.

Nonostante tutto questo io ho sempre accusato Nino di essere troppo vicino alle grandi potenze occidentali, in particolare agli Stati Uniti. E mi sono divertito a criticarlo perché a mio parere si era tenuto sempre molto lontano dalla cultura e dalla civiltà araba. E lo accusavo benevolmente di avere sempre respinto i molti inviti che gli venivano dall'America latina, in particolare dal Brasile - anche con la mia complicità -, mentre io esibivo la mia passione per l'America del sud e la mia scarsa simpatia per lo strapotere dell'America del nord.

Nino guardava con realismo e con rigore analitico al fenomeno della guerra mentre io denunciavo lo spargimento del sangue delle persone innocenti come un evento criminale che ogni giurista internazionalista avrebbe dovuto denunciare senza la minima indulgenza. Ricordo il dissenso fra me e lui a proposito della guerra della Nato contro la Serbia: un dissenso che dette luogo ad una discussione pubblica alla quale prese parte anche Norberto Bobbio.

Questi dissensi non ci hanno mai impedito di essere degli amici affettuosi e di trascorrere assieme giornate allegre. Vorrei poter citare le molte cose divertenti e interessanti che abbiamo fatto assieme. Ma mi limiterò a ricordare soltanto la discesa in gommone del fiume Stella, nel Friuli meridionale, nel contesto di un magnifico ambiente naturale che entrambi non abbiamo più dimenticato. E sarebbe divertente ricordare anche le nostre imprese nella laguna di Grado e Marano.

Nelle ultime settimane ci siamo scambiati numerosi messaggi. Io avevo capito che Nino si era dimesso all'improvviso da Presidente del Tribunale Speciale per il Libano per ragioni di salute. E avevo capito che la sua malattia si era aggravata. E avevo anche intuito perché, dopo aver letto qualche pagina di un mio libro recente, mi aveva scritto con un tono inusuale che aveva trovato "bellissima" una mia citazione di Bobbio:

«Qualche volta è accaduto che un granello di sabbia sollevato dal vento abbia fermato una macchina. Anche se ci fosse un miliardesimo di miliardesimo di probabilità che il granello sollevato dal vento vada a finire negli ingranaggi e ne arresti il movimento, la macchina che stiamo costruendo è troppo mostruosa perché non valga la pena di sfidare il destino».

Nino non era mai stato così vicino al pensiero di Bobbio e, se posso dire, all'affetto che io avevo per lui.