2005

L'Impero e la moltitudine
Un dialogo sul nuovo ordine della globalizzazione (*)

Antonio Negri, Danilo Zolo

1. Un dibattito di eccezionale ampiezza

Danilo Zolo. Ti confesso che ho resistito a lungo alle sollecitazioni, che mi sono venute da più parti, a discutere pubblicamente di Empire, il libro che tu e Hardt avete pubblicato negli Stati Uniti due anni fa e che ha promosso, di qua e di la' dall'Atlantico, un dibattito di eccezionale ampiezza e intensità. Mi tratteneva un senso di impotenza di fronte a un'opera così ampia, complessa e ambiziosa. Tentare una valutazione critica di un'opera di questo genere - voi stessi la definite "ampiamente interdisciplinare" - significa in qualche modo condividere l'ambizione teorica che vi ha motivato nello scriverla. Ho superato le mie iniziali esitazioni perché mi sono convinto che dopo l'11 settembre sarebbe irresponsabile non prendere sul serio un libro come Empire. È un libro che, comunque lo si giudichi, investe una grande quantità di risorse intellettuali nel tentativo di offrire un contributo alla comprensione del mondo in cui viviamo, che denuncia le atrocità e i rischi del presente 'ordine globale' e cerca di indicare la direzione da seguire per un suo superamento. Se non altro per queste ragioni Empire merita, a mio parere, il successo internazionale che sta riscuotendo.

Antonio Negri. Ti ringrazio per la valutazione sostanzialmente positiva che fai del libro e del suo impatto internazionale. Resta il fatto che ormai, a quella patina di "banalità" che il libro aveva dall'inizio (a me sembra quasi un film che descrive l'Impero, piuttosto che un libro), si aggiunge anche il suo invecchiare davanti alla velocità degli eventi. La "grande narrazione" che ha fatto il successo del libro, che ne ha permesso la ricezione dagli studenti dei campus americani attorno a Seattle, e poi un po' dappertutto nel mondo ed ora soprattutto in Germania, - questa grande narrazione era richiesta. Dopo gli anni Ottanta, dopo la sconfitta delle lotte, dopo il trionfo del "pensiero molle" bisognava dare una scossa: Impero l'ha data.

D.Z. Empire è un libro impegnativo non solo per la sua mole e per la sua ampiezza tematica, ma anche perché la sua sintassi filosofica e teorico-politica è molto originale. È una sintassi che trasfigura alcune fondamentali categorie marxiste interpolandole con elementi tratti da una grande varietà di letteratura filosofica occidentale: classica, moderna e contemporanea. In questa trasfigurazione un ruolo di primo piano svolge il post-strutturalismo di autori come Gilles Deleuze, Jacques Derrida e soprattutto Michel Foucault. La mia impressione è che una lettura attenta ed esigente delle pagine di Empire, come il libro sicuramente merita e stimola a fare, porti comunque a risultati interpretativi inevitabilmente controversi. Nonostante il suo taglio spesso asseverativo e prescrittivo, è un libro che rischia di trasmettere più incertezze che sicurezze teoriche.

A.N. Mi sembra che le indicazioni che tu dai, sulle categorie filosofiche che reggono il libro, siano corrette. Quanto poi al fatto che il libro trasmetta più incertezze che sicurezze teoriche, ti confesso che la cosa mi piace. Con Impero Michael Hardt e io non abbiamo voluto in nessun caso arrivare a delle conclusioni: d'altra parte il processo costitutivo dell'Impero è ancora largamente aperto. Quello che ci interessava sottolineare era la necessità di cambiare registro: la filosofia politica della modernità (e, ovviamente, le istituzioni con cui essa interagiva) è finita. La teoria che va da Marsilio a Hobbes e da Althusius a Schmitt è terminata. Impero è una nuova soglia teorica.

D.Z. La filosofia di Marx e quella di Foucault - per dirla con una formula molto sommaria - sono vettori teorici divergenti: il marxismo preconizza una società organica, solidale, egualitaria, disciplinata, mentre Foucault é un critico acuto e radicale del potere disciplinare in nome di una antropologia individualistica e libertaria.

A.N. Noi abbiamo tenuto insieme Foucault e Marx. Meglio, per quanto mi riguarda, posso dire di aver "sciacquato i miei panni" nella Senna, cioè di aver ibridato il mio marxismo operaista con le prospettive del post-strutturalismo francese. Avevo già cominciato a fare questo negli anni di galera (tra il '79 e l''83) lavorando su Spinoza, ottimo terreno di incontro ontologico per questa operazione. Con Hardt a Parigi, poi, abbiamo approfondito l'analisi e ci siamo immersi in quell'"aura" comune che, fin dagli anni '60, per quanto disconosciuta, legava operaismo, post-strutturalismo, ma anche molte tendenze nell'ampio quadro dei subaltern studies ed altri approcci post-coloniali. Questo è stato sicuramente un punto centrale, per me almeno, quando mi sono accorto che l'operaismo italiano era un fenomeno tutt'altro che provinciale. Spivak, pubblicando una collezione di studi subalterni, negli anni Ottanta, ce ne dava diretta testimonianza; Deleuze e Guattari già in Milles Plateaux riconoscevano questa influenza. In questo quadro la lettura che Foucault fa di Marx, estendendo la genealogia dei processi di sfruttamento dalla fabbrica al sociale, viene da noi assunta come fondamentale. Nella nostra interpretazione (diversamente che nella tua) Foucault è autore di un'antropologia certamente libertaria ma non individualistica, costruttore di una biopolitica dentro la quale non più l'individuo ma un soggetto (con quanta singolarità!) veniva plasmandosi. Per quanto ci riguarda, a Parigi, tra gli anni Ottanta e i Novanta, avevamo già interamente costruito la consapevolezza di essere nel postmoderno: in una nuova epoca dunque, ed eravamo convinti (e lo restiamo) che Marx possa essere interamente integrato nelle metodologie analitiche del postmoderno. C'è sempre un punto nel quale la decisione del nuovo e del forte irrompe: quale piacere poterla smettere con le pallide filiazioni del moderno, con i Rawls o gli Habermas... Quale entusiasmo riconoscere, con Machiavelli (e tutti gli altri) che la lotta di classe, mutatis mutandis, comandava il pensiero...

D.Z.Ti devo fare una seconda confessione, prima di discutere con te i temi centrali di Empire. Continua a procurarmi disagio l'idea di misurarmi con un trattato i cui autori si proclamano "comunisti" e che, per di più, dichiarano di aver assunto Il Capitale di Karl Marx come un proprio paradigma espositivo. Personalmente ho il massimo rispetto per quello che il marxismo teorico è stato nel secolo scorso - meno per le esperienze del 'socialismo reale' che ad esso si sono richiamate --, ma sono poco incline, oggi, a dare credito a rivisitazioni o 'rifondazioni' della filosofia marxista, per quanto esse si presentino in forme critiche e innovative. Personalmente ho fatto i conti con il marxismo teorico quasi trent'anni fa - ricordo di averne discusso intensamente anche con te - e presumo di averli fatti con serietà. Ho preso congedo dal marxismo per la mia incapacità di condividere i suoi tre pilastri teorici: la filosofia dialettica della storia con le sue 'leggi scientifiche' dello sviluppo; la teoria del valore-lavoro come base della critica del modo di produzione capitalistico e come premessa delle rivoluzione comunista; la teoria dell'estinzione dello Stato e il connesso rifiuto dello Stato di diritto e della dottrina dei diritti soggettivi. Il tuo comunismo, nonostante la ricchezza delle sue motivazioni, mi sembra tuttora ancorato al codice dell'ortodossia marxista.

A.N. Probabilmente, dalle discussioni di trent'anni fa, molte cose sono cambiate. Comunque, se potessimo ridurre il marxismo a quei tre pilastri teorici di cui tu parli, io non sarei marxista (e credo che non lo sarei stato neppure trent'anni fa). E tuttavia mi sembra che tu, con l'acqua, più o meno sporca, ma che spesso è stata lurida, butti via anche il pupo. Di contro, io voglio recuperare il marxismo, che per me è sinonimo del materialismo moderno, sunto ed espressione di una corrente critica che ha attraversato il moderno, essendone continuamente combattuta: la linea che da Machiavelli porta a Spinoza e a Marx. Per me il recupero del marxismo, ed il suo rinnovamento, ha il senso forte che ha avuto l'apologetica patristica nei primi secoli della storia del cristianesimo: è un "ritorno ai principi" nel senso che Machiavelli dava a questo dispositivo. Per operare in questa direzione si tratta di avanzare su alcuni punti essenziali della teoria marxista: costruire, contro la dialettica della storia, una teoria non teleologica della lotta di classe; oltre la teoria del valore-lavoro, le analisi della valorizzazione attraverso il general intellect, nell'epoca della sussunzione reale (completa) della società nel capitale; e per quanto riguarda la teoria dello Stato, si tratta di cogliere nella critica della sovranità (come punto di coincidenza dell'economico e del politico), il momento centrale di esercizio dello sfruttamento così come della mistificazione e della distruzione dei diritti soggettivi. Marx non ci ha mai dato, per quanto l'avesse proposto, un libro sulle lotte di classe, né, soprattutto, il libro sullo Stato. In effetti il libro sullo Stato, mancante ne Il Capitale, lo si poteva scrivere solo quando lo spazio della sovranità fosse divenuto grande come il mondo e dunque fosse possibile confrontare la moltitudine all'Impero. Lo Stato-nazione, del quale solo aveva potuto parlare Marx, era un groviglio di medioevo e modernità, che lo stesso sviluppo capitalistico intaccava con difficoltà... Un proletariato internazionale ed internazionalista, solamente, poteva invece porsi il problema dello Stato. Molti ritardi del marxismo nella teoria del diritto e dello Stato non sono tanto legati al pensiero di Marx quanto ai limiti dello sviluppo capitalistico: solo oggi, quando il capitale avanza e si struttura sul mercato globale, la teoria rivoluzionaria ha la possibilità di assumere correttamente il problema dello Stato.

2. Impero, non imperialismo

D.Z. La parte di Empire che mi sembra meglio riuscita e che a mio parere pone l'esigenza di una nuova riflessione 'strategica' sulla struttura e le funzioni dei processi di integrazione globale è quella che riguarda la nozione stessa di 'Impero'. Come è noto, tu e Hardt ritenete che il nuovo 'ordine mondiale' imposto dalla globalizzazione abbia portato alla scomparsa del sistema vestfaliano degli Stati sovrani. Non ci sono più Stati nazionali, se non per le loro esangui strutture formali che ancora sopravvivono entro l'ordinamento giuridico e le istituzioni internazionali. Il mondo non è più governato da sistemi politici statali: è governato da un'unica struttura di potere che non presenta alcuna analogia significativa con lo Stato moderno di origine europea. È un sistema politico decentrato e deterritorializzato, che non fa riferimento a tradizioni e valori etnico-nazionali, e la cui sostanza politica e normativa è l'universalismo cosmopolitico. Per queste ragioni voi ritenete che 'Impero' sia la denotazione più appropriata per il nuovo tipo di potere globale...

A.N. C'è da aggiungere che non abbiamo alcuna nostalgia per gli Stati-nazione. Inoltre a noi sembra che questo sviluppo, reale e concettuale, che tu illustri così bene, sia provocato da un motore che è quello delle lotte operaie, delle lotte anticoloniali ed infine delle lotte contro la gestione socialista del capitale, per la libertà, nei paesi a "socialismo reale". L'ultimo terzo del XX secolo è dominato da questi movimenti.

D.Z. Sarebbe dunque sbagliato pensare che l'Impero - o il suo nucleo centrale ed espansivo - sia costituito dagli Stati Uniti d'America e dai loro più stretti alleati occidentali. Né gli Stati Uniti, né alcun altro Stato nazionale, tu e Hardt dichiarate con forza nel vostro libro, "costituiscono attualmente il centro di un progetto imperialista" (p. 15 dell'edizione italiana). Secondo voi l'Impero globale è dunque tutt'altra cosa rispetto all'imperialismo classico e sarebbe un grave errore teorico confonderlo con esso. Interpreto correttamente la vostra posizione?

A.N. Interpretazione corretta. Aggiungo che, in particolare a Porto Alegre, si è avuta la misura di quanto grave possa essere il pericolo che la costruzione del "movimento dei movimenti" punti sugli Stati-nazione. Forme equivoche di nazionalismo e populismo finirebbero in tal caso per essere fatte proprie del pensiero no-global. Antiamericanismo e fiducia nello Stato-nazione vanno quasi sempre d'accordo: sono questi gli ultimi pasticci che ereditiamo dal socialismo terzomondista - a me è sembrato sempre una deviazione tanto grave quanto lo è stata il marxismo sovietico.

D.Z. Questo è un punto molto delicato e che ha sollevato numerose riserve, che io in parte condivido. Nelle vostre pagine l'Impero sembra sfumare in una sorta di 'categoria dello spirito': è, come Dio, presente in ogni luogo, poiché coincide con la nuova dimensione della globalità. Ma, si può obiettare, se tutto è imperiale, niente è imperiale. Come individuare i soggetti sovranazionali portatori degli interessi o delle aspirazioni imperiali per farne oggetto di una lotta globale? Contro chi rivolgere la critica e la resistenza anti-imperialistica, se gli Stati e le loro forze politiche non sono gli obbiettivi da mettere a fuoco? Si tratta di un Impero che non esercita un potere politico-militare? Si esprime soltanto attraverso strumenti di costrizione economica o, al più, ideologica?

A.N. Il processo di costituzione imperiale è in corso. Esso è il limite cui tendono gli strumenti che il capitale globale fa già concretamente funzionare: sono strumenti sovrani, economici, militari, culturali eccetera. Ora, è fuori dubbio che in questa fase l'Impero è fondamentalmente segnato da grande tensione fra un non-luogo istituzionale e la serie di strumenti globali (ma parziali dal punto di vista della sovranità) utilizzati dal capitale collettivo. Tu dici bene che se tutto è imperiale, niente è imperiale. Noi però identifichiamo, sull'esempio di Polibio, alcuni luoghi o forme del governo imperiale: la funzione monarchica che si sono attribuiti il governo degli Stati Uniti, il G8 ed altre istituzioni monetarie e commerciali; il potere aristocratico delle multinazionali che estendono la loro rete sul mercato globale. Il movimento globale della moltitudine (quello che nasce dopo Seattle) ha avuto certo molti dubbi nell'identificare nella continua creazione di miseria ed esclusione, nella risposta violenta e bellica alla protesta, i punti contro i quali rivolgere la critica e la resistenza: essi sono ben reali e consistono nella distorsione dello sviluppo economico, nella distruzione del pianeta terra, nei tentativi di appropriazione sempre più massicci di quel che è "comune" all'umanità, tra terra e etere... Il paradosso del momento attuale (e la sua drammaticità) sta nel fatto che l'Impero potrà formare le sue strutture solo rispondendo alle lotte della moltitudine: ma tutto ciò, alla maniera di Machiavelli, è un processo di scontro fra poteri. Siamo solo all'inizio di una "guerra di trent'anni", non di meno ci ha messo lo Stato moderno per formalizzare la sua nascita...

D.Z. La 'costituzione imperiale', voi sostenete, si distingue da quella statale per le sue funzioni: la sovranità imperiale non ha come obiettivo l'inclusione e l'assimilazione politico-territoriale dei paesi o dei popoli subordinati, com'era tipico dell'imperialismo e del colonialismo statalistico fra ottocento e novecento. Il nuovo comando imperiale si esercita attraverso istituzioni politiche e apparati giuridici il cui obiettivo è essenzialmente la garanzia dell'ordine globale e cioè di una 'pace stabile e universale' che consenta il normale funzionamento dell'economia di mercato. In più luoghi voi fate riferimento a funzioni di 'polizia internazionale' e persino a funzioni giudiziarie svolte dall'Impero. Sono sostanzialmente d'accordo con voi, salvo un'importante riserva: chi, se non gli apparati politico-militari della grandi potenze occidentali - in primis degli Stati Uniti - esercita queste funzioni imperiali?

A.N. In effetti a me non sembra strano che l'Impero si presenti per garantire l'ordine globale attraverso una pace stabile ed universale, utilizzando tutti i mezzi politico-militari che ha a disposizione. La cricca di Bush fa queste dichiarazioni di pace e compie atti di guerra ogni giorno. Non bisogna tuttavia confondere la cricca di Bush, e gli apparati politico-militari che utilizza, con il governo dell'Impero. A me sembra piuttosto che l'attuale ideologia e pratica imperialista del governo Bush si stia rapidamente mettendo in rotta di collisione con le forze capitalistiche che, a livello mondiale, lavorano per l'Impero. La situazione è completamente aperta. Credo che più avanti, nel corso di questa conversazione, torneremo sulla questione della guerra, come forma specifica del controllo imperiale: ora mi basta insistere sul fatto che funzione bellica e funzione di polizia stanno, a livello imperiale, sempre più confondendosi. E tuttavia, salvo specificare più sotto alcuni giudizi e ragionamenti, mi sento qui di insistere nuovamente sul fatto che l'antiamericanismo è comportamento debole e mistificante nell'attuale fase di definizione critica della nuova costituzione mondiale. L'antiamericanismo confonde il popolo americano con lo Stato americano, non si rende conto che gli States sono inseriti nel mercato mondiale quanto lo sono l'Italia e il Sud Africa, che la politica di Bush è fortemente minoritaria all'interno dell'aristocrazie mondiali del capitalismo multinazionale. L'antiamericanismo è uno stato d'animo pericoloso, un'ideologia che mistifica i dati dell'analisi e copre le responsabilità del capitale collettivo. Dovremmo allontanarlo da noi, quanto ormai abbiamo abbandonato l'americanismo dei film di Alberto Sordi.

D.Z. Non è una circostanza marginale, voi sostenete, che l'ordine giuridico imperiale sia impegnato essenzialmente in una funzione giurisdizionale o di arbitrato quasi-giudiziario. Il potere imperiale è addirittura invocato dai suoi sudditi per la sua capacità di risolvere i conflitti da un punto di vista universale, e cioè imparziale e neutrale. Ed è significativo - sostenete acutamente nel vostro libro - che dopo un lungo periodo di eclissi sia rifiorita nell'ultimo decennio la dottrina del bellum justum, e cioè una dottrina medievale, tipicamente universalistica e imperiale. È cosi? Condivido pienamente queste analisi, anche perché riprendono tesi che anch'io ho sostenuto anni fa, in particolare in Cosmopolis. Ma, ripeto, a mio parere esse hanno senso solo se la 'costituzione imperiale' viene concepita come una costituzione politica, e questo significa ancora oggi, in larga parte, una costituzione e una struttura potestativa di tipo 'statale'. Come tale non svolge soltanto funzioni di 'pacificazione coercitiva', ma ricorre anche alle forme classiche della guerra di aggressione. E non ci può essere dubbio alcuno, secondo me, che gli Stati Uniti - e cioè i poteri cognitivi, comunicativi, economici, politici e militari che si concentrano nello spazio geopolitico della superpotenza americana - sono oggi il centro motore di questo progetto strategico globale, lo si chiami 'egemonico', come io preferisco dire, o 'imperiale', come voi preferite, o in altro modo.

A.N. Non sono d'accordo. D'altra parte non riesco proprio a capire come tu (che ci hai insegnato, da Cosmopolis a Chi dice umanità, quanto le categorie politiche e giuridiche del moderno fossero non solo oltraggiate ma definitivamente calpestate) possa proporre una definizione degli attuali processi di governo del mercato mondiale ancora incentrata sulle categorie moderne dell'imperialismo. Qui sta a me porre degli interrogativi: che cosa significa più capacità potestativa dello Stato davanti alla lex mercatoria e cioè a quella sostanziale modificazione del diritto internazionale privato che vede non certo gli Stati-nazione, ma le law-firms, farsi legislatori? (Potrei su questo terreno aggiungere un'altra decina di questioni ma spero che possiamo risparmiarcele). Quanto poi al diritto internazionale pubblico: com'è possibile non impietosirsi dinanzi ai patetici tentativi di rilanciare in questa situazione le Nazioni Unite? Il fatto è che parlare degli Stati Uniti come centro motore di un progetto strategico globale imperialista, comporta contraddizioni di ogni specie, qualora al governo degli Stati Uniti si voglia riservare una capacità esclusiva di comando (com'è implicito nelle teorie moderne della sovranità nazionale e dell'imperialismo).

D.Z. A mio parere il fatto che il potere di comando e l'influenza degli Stati Uniti si irradino nel mondo intero sino a diventare un global power, come proclama il recente Quadrennial Defense Review Report del Dipartimento di Stato, non contraddice il fatto che questo potere sia territorialmente e culturalmente insediato negli Stati Uniti e che possa essere identificato con la superpotenza americana anche sul piano simbolico. L'attentato terroristico dell'11 settembre ha espresso in modo trasparente anche questa identificazione: ha inteso colpire i simboli del potere economico, politico e militare degli Stati Uniti come nuova potenza imperiale. E non può sfuggire che gli Stati Uniti sono anche il centro della rete televisiva, informatica, e spionistica che oggi avvolge il mondo.

A.N. Io non dubito che gli Stati Uniti siano un global power, insisto solamente su un altro concetto: lo stesso potere statunitense è sottomesso (e comunque costretto al dialogo e/o alla contestazione) a strutture economiche e politiche altre da lui. L'attentato terroristico dell'11 settembre è stato, fra l'altro, anche la dimostrazione di una guerra civile aperta tra forze che intendono essere strutturalmente rappresentate nella costituzione imperiale. Coloro che hanno distrutto le Twin Towers sono gli stessi "condottieri" di eserciti mercenari che sono stati assoldati per difendere interessi petroliferi in Medio Oriente. Essi non hanno nulla a che fare con le moltitudini: sono elementi interni alla struttura imperiale nel suo divenire. Non bisogna assolutamente sottovalutare la guerra civile che si sta svolgendo a livello imperiale. A me sembra di poter dire che la leadership americana è profondamente indebolita proprio dalle tendenze imperialiste che essa talora esprime. È evidente che né nel mondo arabo, né in quello europeo, né in quello socialista, per non parlare di quell'"altro continente" che si chiama Cina, esse sono accette. Lo strapotere militare degli Stati Uniti è, come si sa, in gran parte neutralizzato dall'impossibilità di essere usato nel suo potenziale nucleare. E questa è una buona notizia. Dal punto di vista monetario gli Stati Uniti sono sempre più esposti ed indeboliti sui mercati finanziari: e questa è un'altra ottima notizia. Insomma, con tutta probabilità gli Stati Uniti saranno presto costretti a smettere di essere imperialisti e a riconoscersi nell'Impero.

D.Z. Ovviamente, tutti noi sappiamo che le grandi corporations, incluse quelle della new economy, operano secondo strategie che sono in larga parte autonome rispetto al comando politico degli Stati e che questo è vero anche per gli Stati Uniti. Le imprese multinazionali stanno diventando sempre più potenti, perché sono in grado sia di ridurre drasticamente i costi del lavoro, sia di sottrarsi ai vincoli dell'imposizione fiscale degli Stati nazionali. Ma, come è stato persuasivamente argomentato da Paul Hirst e G. Thompson in Globalization in Question, c'è tuttora una sinergia complessa fra le politiche economiche praticate dalle potenze industriali e le strategie economico-finanziarie delle corporations le cui case madri hanno sede nel loro ambito geopolitico. Il presidente degli Stati Uniti viene eletto grazie al sostegno finanziario delle corporations multinazionali - penso a quelle del petrolio, della produzione delle armi, del tabacco - ed esse poi influenzano con buoni argomenti le decisioni dell'amministrazione. Ma è evidente che le grandi imprese sono titolari di funzioni politiche solo molto indirette, che esse non possono prescindere dalla intermediazione del potere politico-amministrativo degli Stati e, soprattutto, di quello militare.

A.N. Che le multinazionali partecipino alle elezioni dei presidenti americani è un argomento a favore dell'Impero. Quanto viene descritto in questa tua ultima questione è per me in gran parte accettabile. Al libro di Hirst e Thompson, aggiungerei quello di Mittelman, per sottolineare quanto sia complessa non solo la sinergia fra attori ma anche la gerarchia fra spazi imperiali. Ciò detto, io credo che l'autonomia delle strategie capitalistiche sia ancora sufficientemente ampia, e comunque largamente indipendente dagli Stati-nazione. Non sono un leninista ma semplicemente un machiavelliano, quando penso ad esempio che, oggi come oggi, l'unica possibilità concreta e vicina di far cadere la cricca Bush la si può trovare sul lato dell'aristocrazia imperiale delle multinazionali. Questo è auspicabile, perché darebbe, al movimento delle moltitudini globali, tempo e spazio per avanzare nel processo di configurazione di un potere democratico nell'Impero.

3. La dialettica imperiale: l'Impero come un 'passo avanti'

D.Z. C'è un secondo aspetto della vostra teoria dell'Impero che mi lascia dubbioso. È un aspetto che ritengo tributario della implicita 'ontologia' (il termine è vostro) che fa da contrappunto metafisico delle vostre analisi: la dialettica della storia, in una accezione caratteristica dell'hegelo-marxismo e del leninismo. Secondo voi l'Impero globale rappresenta un superamento positivo del sistema vestfaliano degli Stati sovrani. Avendo posto fine agli Stati e al loro nazionalismo, l'Impero ha messo fine anche al colonialismo e all'imperialismo classico ed ha aperto una prospettiva cosmopolitica che deve essere accolta con favore. Ogni tentativo di far risorgere lo Stato-nazione in opposizione alla presente costituzione imperiale del mondo esprimerebbe una ideologia "falsa e dannosa". La filosofia no-global ed ogni forma di ambientalismo naturalistico e di localismo vanno dunque rifiutate come posizioni primitive e antidialettiche e cioè, in sostanza, reazionarie. Esprimete scarsa simpatia persino nei confronti del cosiddetto 'popolo di Seattle' e della rete di ONG ad esso collegate.

A.N. Non credo che le accuse che ci sono rivolte siano sostenibili. Come sa chiunque abbia letto il libro (e tu l'hai certamente letto), noi non conosciamo alcuna dialettica ma solo la lotta di classe. È la lotta di classe (dispositivo à la Machiavelli, aperto, inderterminato, a-teleologico, rischioso) che costituisce la base del nostro metodo. Qui non c'è nulla di dialettico, a meno che con questo epiteto non si intenda ogni approccio analitico allo sviluppo storico. La nostra narrazione tratta di un telos concreto, del rischio e della lotta degli uomini contro lo sfruttamento, per rendere la vita gioiosa, per togliere il dolore... Il nostro problema politico dunque è quello di proporre uno spazio adeguato a tutte le lotte che partono dal basso. In questo quadro non trovano posto la nostalgia e la difesa dello Stato-nazione, di quella assoluta barbarie di cui hanno dato prova definitiva Verdun e il bombardamento di Dresda, Hiroshima e (me lo si permetta, anche) Auschwitz. Io non so come si possa ancora considerare lo Stato-nazione qualcosa che sia meno di un'ideologia falsa e dannosa. Di contro, le reti del movimento dei movimenti sono, come tutto quello che liberamente avviene al mondo, poliverse: esse si incrociano e così possono senza difficoltà costruire, come hanno costruito, movimento unitario. Ogni tentativo di impedire questa unificazione ed il conseguente riconoscimento di obiettivi comuni, è reazionario, meglio, esprime operazioni settarie e nemiche. La filosofia no-global ed il movimento di Seattle sono internazionalisti e globali. Quanto alla nostra antipatia per certe ONG (antipatia che i movimenti condividono ampiamente) non è certo da confondersi con le forme del volontariato ed i modi della nuova militanza.

D.Z. I comunisti, voi dite, sono per vocazione universalisti, cosmopoliti, "cattolici": il loro orizzonte è quello dell'umanità intera, della "natura umana generica", come diceva Marx. Nel secolo scorso, ricordate, le masse lavoratrici hanno sempre puntato sull'internazionalizzazione delle relazioni politiche e sociali. Per questa ragione voi sostenete che i poteri 'globali' dell'Impero devono essere controllati, ma non demoliti: la costituzione imperiale va conservata, e finalizzata ad altri obiettivi. Anche se è vero che le tecnologie poliziesche sono il 'nocciolo duro' dell'ordine imperiale, quest'ordine non ha nulla a che vedere, secondo voi, con le pratiche delle dittature e del totalitarismo del secolo scorso. Dal punto di vista della transizione ad una società comunista la costruzione dell'Impero è "un passo avanti": l'Impero, scrivete, "è meglio di ciò che lo ha preceduto" perché "spazza via i crudeli regimi del potere moderno" e "offre enormi possibilità creative e di liberazione" (pp. 56, 208). Non riesco a condividere questo ottimismo dialettico di evidente ascendenza hegeliana e marxista.

A.N. Non direi proprio che questa nostra posizione esprima ottimismo dialettico. D'altra parte è chiaro che sul termine dialettico tu non transigi: tutto quello che non ti va è dialettico. Ti propongo dunque un autore sicuramente non dialettico ma capace di guardare avanti: Spinoza. Qui, nella sua filosofia, l'ottimismo non ha nulla a che fare con Hegel: ha a che fare con la libertà e con la gioia di liberarsi dalla schiavitù... Ma non voglio continuare a scherzare con i santi. Preferisco i fanti. Ora, questi sono la moltitudine, cioè una molteplicità di singolarità, già meticciata, capace di lavoro immateriale e intellettuale, con una potenza enorme di libertà. Questa non è dialettica ma analisi sociologica, fattuale e puntuta, delle trasformazioni del lavoro, della sua organizzazione e della soggettività politica che ne promana. Io non posso pensare che tu preferisca alla mobilità globale e alla flessibilità nel tempo della vita e del lavoro, tradizioni arcaiche, contadine o artigiane incarnate in miti non effettuali. O la miseria dell'operaio massa, legato alla catena. L'allungamento delle prospettive di vita e l'arricchimento intellettuale e morale dei lavoratori a me sembrano cosa buona. È qui che l'Impero si propone come buono in sé. Che poi divenga buono per sé, è ai movimenti di dircelo (e non al Geist). Ma qui posso aggiungere qualcosa d'altro, ed è che i movimenti che nell'Impero, nel divenire di questo, si presentano come antagonistici, cioè non pongono pretese o tematiche omologhe con il potere imperiale. La cosa più interessante che rivela la lettura dei movimenti, oggi, è che, davanti al formarsi del potere imperiale, qui non si oppone un discorso di "presa del potere": si propone piuttosto l'"esodo". Dialettica negativa? Potresti accusarmi di questo, ma io non so chiamare così un colossale fenomeno di distanziamento dal potere politico che corre tra la gente, soprattutto tra i giovani, tra le moltitudini oggi. Questa è una mutazione ancor più profonda di quella che abbiamo segnalato a livello delle categorie politiche fra moderno e postmoderno. Bada bene, grandi sofferenze aspettano questa "città degli uomini" che qui sta iniziando il cammino... Essa è la continuazione (ed insieme la trasfigurazione) di quei movimenti talora democratici, talora socialisti, sempre ribelli, che hanno percorso la modernità.

D.Z. Mi convincono di più le analisi del post-colonialismo - penso in particolare ai Subaltern Studies - che segnalano la linea di continuità fra il colonialismo classico e gli attuali processi di globalizzazione egemonica. Oggi, dopo la parentesi della guerra fredda e l'effimera liberazione dei paesi coloniali dalla diretta soggezione politica alle potenze europee, l'Occidente è nuovamente impegnato in una strategia di controllo, di occupazione militare, di invasione mercantile e di 'civilizzazione' del mondo non occidentale. E proprio contro questa strategia che si scaglia la replica sanguinosa e impotente del global terrorism, che non a caso mira a colpire quasi esclusivamente gli Stati Uniti.

A.N. Mi sembra di non poter che essere d'accordo con te su quanto sostieni a questo proposito. Certo, un filo di continuità fra colonialismo classico e gli attuali processi di globalizzazione imperiale è visibile. Ma io sarei molto attento a non chiamare effimeri la liberazione di paesi coloniali e a pensare che le carte geopolitiche non siano radicalmente modificate. Primo, secondo e terzo mondo non hanno modificato la loro collocazione in maniera superficiale, ma fondamentale: si sono mescolati, e trovi primo mondo in fondo all'Africa come nelle repubbliche del centro dell'Asia, così come trovi terzo mondo nelle metropoli europee o americane. Se guardi tutto ciò da un punto di vista spaziale, la situazione, pur modificata, si presenta staticamente; se però guardi a questi stessi fenomeni ed a queste dislocazioni dal punto di vista della loro intensità, allora potrai percepire (ed è quanto soprattutto narrano i subaltern studies) la potenza trasformativa di questi processi, il fatto che sono mine poste ovunque sugli spazi globali. In questa prospettiva, mentre il global terrorism è parte della "guerra civile" per la leadership imperiale, i movimenti di resistenza e di esodo costituiscono la nuova vera minaccia per l'ordine capitalistico globale.

D.Z. I processi di globalizzazione hanno subito una forte accelerazione alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, dopo il crollo dell'Unione sovietica e la fine del bipolarismo. Da allora i paesi occidentali, sotto la guida degli Stati Uniti, hanno dato vita ad una politica di potenza che è stata percepita dai paesi non occidentali - soprattutto nel mondo islamico e nell'Asia orientale - come una sfida crescente nei confronti della loro integrità territoriale, della loro indipendenza politica e della loro stessa identità collettiva. Le basi militari degli Stati Uniti e i loro centri di spionaggio informatico sono capillarmente diffusi in tutto il pianeta e si addensano attorno ai territori delle sub-potenze regionali. Così si esprimono e si affermano, a mio parere, il nuovo colonialismo e il nuovo imperialismo nell'era della globalizzazione, in continuità lineare con le sue forme classiche, statalistiche e territoriali. L'intera serie degli interventi armati decisi dagli Stati Uniti a partire dalla Guerra del Golfo ha messo in evidenza il divario crescente fra il potenziale bellico (e quindi economico, scientifico, tecnologico, informatico) di cui dispone la superpotenza americana e quello del resto del mondo. Forse mai nella storia dell'umanità la potenza di un singolo paese è apparsa così soverchiante sul piano politico e così invincibile su quello militare. Non riesco a intravedere in questo scenario egemonico alcun elemento di fatto che possa dare fondamento 'oggettivo' ad una prospettiva di emancipazione collettiva che operi dentro l'Impero, che ne lasci cioè intatta la struttura di potere 'cosmopolitico' e non ne contrasti le ambizioni universalistiche.

A.N. È evidente che, una volta assunto il quadro che tu dipingi della situazione, ogni rottura è impossibile. La continuità del vecchio e del nuovo imperialismo, la persistenza del colonialismo, la saldatura che la sovrapotenza degli Stati Uniti determina fra estensione dello sfruttamento e tecnologie militari: bene, qui non c'è nulla da fare. Siamo nel mezzo di una visione neomarcusiana della globalizzazione. È evidente secondo me che questa tua presa di posizione si scontra, in principio, con quella che sta alla base delle analisi di Impero. Sulla base infatti dei presupposti metodologici già annunciati, e cioè sulla base della convinzione che i biopoteri imperiali, per quanto spessi siano, sono sempre contrastati e tratti dentro il terreno del conflitto e dell'antagonismo biopolitico, bene, su quella base metodologica noi non possiamo accettare il quadro neoimperialista che tu dipingi. Il fatto è che ovunque il biopotere, e cioè la capacità del potere di estendersi su tutti gli aspetti della vita, si esercita, esso apre a dinamiche microfisiche di resistenza, e là la proliferazione dei conflitti è spesso impossibile da trattenere. Quando noi guardiamo l'Impero, oltre che dall'alto, anche dal basso, noi possiamo concepirne la fragilità, possiamo pensare di intervenire sui suoi passaggi costitutivi. La precarietà della struttura imperiale ci era stata d'altra parte confermata anche dall'analisi della sua genesi: l'Impero è il prodotto di lotte operaie, anticoloniali e della rivolta contro il totalitarismo staliniano. E per questo che battersi dentro-contro l'Impero è possibile. Permettimi una battutaccia: non ti sembra di essere tu in procinto di darci, con queste immagini di neoimperialismo classico, un esempio di cattiva dialettica totalitaria?

D.Z. È piuttosto contro l'Impero che a mio parere occorrerebbe indirizzare la lotta, contrastandone l'espansionismo globale e l'ideologia cosmopolitica. Non penso nostalgicamente, come fa il repubblicanesimo comunitarista, ad un ritorno agli Stati nazionali ottocenteschi, anche se non sono affatto convinto che gli Stati nazionali siano ormai dei relitti storici. Condivido l'idea di Ulrich Beck, secondo la quale essi si stanno trasformando in Stati 'transnazionali', la cui società civile è attraversata da una quantità di agenzie e istituzioni multinazionali come le grandi imprese economiche, i mercati finanziari, le tecnologie dell'informazione e della comunicazione, l'industria culturale e così via. È chiaro, secondo me, che gli Stati stanno ridefinendo le loro funzioni, concentrandosi soprattutto sulle questioni della sicurezza e dell'ordine pubblico interno, come sostengono Pierre Bourdieu e Loic Wacquant. Secondo Thomas Mathiesen stiamo passando dallo Stato 'panottico' allo Stato 'sinottico', grazie alle immense potenzialità di controllo offerte dalle nuove tecnologie e dalle banche-dati elettroniche che si costituiscono all'insaputa dei cittadini. Ma gli Stati sono molto lontani dall''estinzione'. Alcuni di loro, anzi, si stanno rinforzando.

A.N. Sono in gran parte d'accordo con te sulle cose che dici e apprezzo la letteratura che citi. Credo anch'io che gli Stati-nazione non siano scomparsi: questo mi sembra ovvio. Mi sembra anche evidente che l'articolazione di funzioni di dominio universale e di ordine pubblico interno vengano (pur mantenendosi il loro continuum) specializzate dagli Stati-nazione. Ma pensare che molte funzioni degli Stati-nazione sopravvivano, non significa pensare che gli Stati-nazione persistano nella tendenza o addirittura si rafforzino. Al contrario, anche le associazioni di Stati-nazione, eventualmente attraversate da dispositivi transnazionali (alla Beck), sono, secondo me, da vedersi dentro i processi di gerarchizzazione e di specializzazione dell'Impero. Voglio dire che il tema della garanzia universale dell'ordinamento (globale) è stato posto ormai in termini irreversibili. Il passaggio epocale si è ormai dato. È dentro questo flusso e a fronte di questo problema che vanno caratterizzate le scelte teoriche e politiche. Tu potrai certo, a questo punto, accusarmi di optare per un certo dottrinarismo, piuttosto che di mettere le mani nella realtà dei rapporti internazionali. Se lo faccio, lo faccio per abbreviare la discussione. Potrei in effetti, solo per fare un esempio, andare a vedere quel che succede in America Latina e proprio là, dove maggiore sembra la manomissione diretta degli Usa, cogliere la profonda connessione e le alleanze delle classi dirigenti capitaliste, al di là degli Stati-nazione. Ma di questo abbiamo già detto abbastanza.

D.Z. La mia opinione è piuttosto che occorrerebbe pensare a - e operare per - nuove forme di equilibrio mondiale, in nome di un regionalismo multipolare capace di bilanciare e poi ridurre e sconfiggere l'aggressivo unilateralismo strategico del potere imperiale degli Stati Uniti. E un'Europa affrancata dal soffocante abbraccio atlantico - un'Europa meno occidentale e più mediterranea e 'orientale' - potrebbe svolgere una funzione importante in questo senso. E in questa direzione sta silenziosamente operando nell'Asia del sud-est e del nord-est il blocco cinese-confuciano.

A.N. Nuove forme di organizzazione mondiale, articolate su un regionalismo multipolare, sono auspicabili. D'altra parte, è quello che già sta avvenendo all'interno del mercato mondiale, nel processo che porta alla costruzione della sovranità imperiale. Non riesco a comprendere a cosa questo processo sia preferibile poiché è appunto quello che già sta avvenendo. Semmai il problema sarebbe quello di agire, da uno qualsiasi dei punti dell'Impero, per aprire scenari di destabilizzazione globale. È solo in questo quadro che una trasformazione delle regole del dominio e dello sfruttamento potrebbe diventare possibile. È evidente dunque che io non accetto il nome stesso di "equilibrio", frutto di altre epoche di pensiero (permettimi, tanto disincantate quanto troppo spesso ineffettuali: Musil insegna!). Sia o no organizzato in termini regionali, infatti, non di equilibrio ma di gerarchia, non di multipolarità ma di multifunzionalità, si tratterà infatti sempre. Personalmente penso (e ho esposto questo punto di vista ad un convegno all'Istituto Universitario Europeo di Fiesole: vedi Europa politica. Ragioni di una necessità, a cura di H. Friese, A. Negri, P. Wagner, Manifestolibri, 2002) che, nel quadro imperiale, l'Europa unita potrebbe essere un terreno sul quale esercitare una funzione sovversiva dell'ordinamento globale. Ma questa funzione non può che essere creata ed espandersi dal basso, mobilitando le moltitudini. Io ad esempio, ho fiducia nella forza democratica delle istituzioni popolari americane, molto più, in ogni caso, di quanto non abbia per quelle europee.

D.Z. Aggiungo che un equilibrio multipolare è la condizione perché il diritto internazionale possa svolgere una minima funzione di contenimento delle conseguenze più distruttive della guerra moderna. Perché un sistema normativo internazionale possa esercitare effetti di ritualizzazione e di contenimento dell'uso della forza - di una sua sottomissione a procedure predeterminate e a regole generali - la condizione è che nessun soggetto dell'ordinamento possa, grazie alla sua potenza soverchiante, considerarsi ed essere considerato dalla comunità internazionale legibus solutus. Occorre, in altre parole, che la 'costituzione imperiale' venga abbattuta. Impero e diritto internazionale si negano a vicenda.

A.N. Mi sembra del tutto vero quel che tu dici: Impero e diritto internazionale si negano a vicenda. Ma questa era la constatazione dalla quale eravamo partiti... Questa è una condizione irreversibile. Di qui il mio profondo scetticismo per i "pannicelli caldi" dell'internazionalismo onusiano. C'è una letteratura enorme (che tu hai perfettamente studiato) attorno al rinvigorimento delle Nazioni Unite, ed alla costruzione di una "società civile" mondiale che sappia farsi interlocutrice del sovrano nel nuovo ordinamento globale... Persino la Banca Mondiale si è spesso spesa su questo terreno, a differenza di altre istituzioni globali. E tuttavia il tentativo di riattivare un sistema partecipativo e normativo "internazionale" (in senso vesfaliano) non ha avuto alcun effetto. Anche quando va nel senso di corrispondere ai diritti soggettivi dei cittadini e delle nazioni, dei gruppi e delle associazioni, come per esempio nel caso della costituzione dei grandi tribunali mondiali, il riformismo giuridico ha superato il diritto internazionale classico. È solo su questo nuovo terreno che ci si può battere.

D.Z. Dopo l'11 settembre la situazione di squilibrio internazionale si è aggravata ulteriormente. Si è affermata una strategia egemonica di guerra permanente, senza confini territoriali, senza scadenze temporali, in larga parte segreta, più che mai incontrollabile sulla base del diritto internazionale. Mai come oggi le élites politico-militari occidentali sono apparse consapevoli che per garantire la sicurezza e il benessere dei paesi industrializzati è necessario esercitare una crescente pressione militare sul mondo intero. È ormai certo che la guerra in Afganistan è stata soltanto l'inizio della guerra totale contro the axis of evil: verrà attaccato sicuramente anche l'Iraq, in uno scenario di altissima potenzialità conflittuale. E il popolo palestinese continuerà a subire la spietata persecuzione del colonialismo e dell'imperialismo sionista. A mio parere l'obiettivo strategico degli Stati Uniti va molto al di là della repressione del 'terrorismo globale'. L'obiettivo della superpotenza americana è di consolidare la sua egemonia planetaria, garantendosi una stabile presenza militare nel cuore dell'Asia centrale. Il progetto è di controllare le immense risorse energetiche racchiuse nei territori delle Repubbliche ex-sovietiche dell'area caucasica, caspica e transcaspica e, soprattutto, di completare il duplice accerchiamento della Federazione Russa ad Ovest e della Cina ad Est. Dunque, oggi è di allarmante attualità la prospettiva del rilancio di una strategia neo-coloniale particolarmente aggressiva, giustificata dalla necessità di sconfiggere il terrorismo. Nel frattempo, anche grazie alla globalizzazione dei mercati, l'abisso che separa i paesi ricchi e potenti dai paesi poveri e deboli si allarga ogni giorno di più. Oltre un miliardo di persone vivono in povertà assoluta, mentre un miliardo di persone vivono in condizioni di crescente agiatezza, in un mondo sempre più piccolo e sempre più a loro disposizione. Anche da questo punto di vista non vedo le tracce di una dialettica storica oggettiva che renda sempre più agevole il superamento dell'attuale ordine mondiale.

A.N. Ma chi vede la dialettica!? Io, dentro questo processo (la cui descrizione mi sembra più o meno corretta) vedo solo necessità di resistere ad un capitalismo sempre più parassitario e predone, la cui legittimazione (per se stesso e per gli strumenti statuali ed imperiali con i quali eventualmente si identifica) diventa completamente bellica. Che dai regimi disciplinari (sugli individui) del capitalismo classico si fosse passati ai regimi di controllo (delle popolazioni) del capitalismo maturo, ce lo avevano ampiamente narrato Foucault e Deleuze. Oggi quel tipo di legittimazione integra la guerra. La miseria e l'emarginazione sono dunque non solo mantenute ma ricreate continuamente dalle guerre imperiali. Nuovi confini, territoriali così come razziali, sono determinati dalla guerra imperiale. Il mio unico problema davanti a tutto questo è di comprendere qual è la resistenza - alla guerra, alla miseria, allo sfruttamento - che può esercitarsi. Alla tua geografia del dominio, per quanto corretta essa possa essere, va opposta una topologia della resistenza: il subcomandante Marcos è da questo punto di vista più importante dell'intera revolution in military affairs americana. Quel che mi interessa è Davide davanti Golia, ad ogni Golia imperiale: i militari direbbero "la resistenza dell'asimmetrico". Ed è perciò che il quadro globale della resistenza diviene potente: perché malgrado l'instancabile e continua operazione di recinzione che le armate imperiali producono, si danno sempre nella globalizzazione spazi liberi, fori e pieghe attraverso i quali un esodo di resistenza può darsi.

4. La rivoluzione della moltitudine

D.Z. Ti propongo di concludere la nostra discussione toccando un ultimo tema: è la questione del soggetto o dei soggetti di quella che per te e Hardt dovrebbe essere una rivoluzione dentro l'Impero. Uso il termine 'rivoluzione' in tutta la sua pregnanza antropologica, perché è questa l'accezione che mi sembra implicata dal vostro progetto comunista. Voi pensate, classicamente, ad una trasformazione del mondo non solo politica, ma anche etica e culturale.

A.N. Oltre a pensare la rivoluzione in termini etici e politici, noi la pensiamo anche in termini di profonda modificazione antropologica: di meticciaggio e ibridazione continua di popolazioni, di metamorfosi biopolitica. Il primo terreno di lotta è, da questo punto di vista, il diritto universale a muoversi, a lavorare, ad apprendere sull'intera superficie del globo. La rivoluzione che noi vediamo non è solo dunque dentro l'Impero ma è anche attraverso l'Impero. Non è qualcosa che si batte contro un improbabile Palazzo d'Inverno (ci sono solo gli anti-imperialisti che voglio bombardare la Casa Bianca) ma che si estende contro tutte le strutture centrali e periferiche del potere, per svuotarle e per sottrarre la capacità produttiva al capitale.

D.Z. Il soggetto di questa rivoluzione dentro l'Impero è da voi denominato 'moltitudine'. Uso l'espressione 'denominato' con una intenzione critica: 'moltitudine' è secondo me un concetto sfuggente, il meno felice dell'intero arsenale concettuale di Empire. In nessun luogo del vostro libro ne proponete una definizione analitica - sulla base di categorie politico-sociologiche - che aiuti il lettore a identificare questo soggetto collettivo entro contesti socio-politici determinati, sia pure aperti alla globalizzazione. Al posto dell'analisi in molte pagine del vostro libro (in particolare alle pp. 329-43) ci si imbatte in enfatiche esaltazioni della "potenza della moltitudine" - il suo potere di "essere, amare, trasformare e creare" - e del suo "desiderio" di emancipazione. Temo che qui siate tributari del messianismo marxista e delle sue grandiose semplificazioni politiche. La "moltitudine" mi appare come una evanescente sinopia del proletariato ottocentesco, la classe che Marx aveva elevato a demiurgo della storia. Lo dico con amarezza e senza la minima inflessione ironica.

A.N. Hai ragione nel denunciare la mancanza di una definizione analitica sufficiente del concetto di moltitudine in Impero. Faccio volentieri autocritica, tanto più che su questo termine stiamo, io ed Hardt, alacremente lavorando. Credo tuttavia che il concetto di moltitudine, nel libro, possa essere compreso almeno secondo tre linee prospettiche. La prima è polemica nei confronti delle due definizioni che sono state date delle popolazioni inserite nelle trafile della sovranità in epoca moderna: "popolo" e "massa". A nostro avviso la moltitudine è una molteplicità di singolarità, che non può trovare in nessun senso unità rappresentativa; popolo è invece una unità artificiale che lo Stato moderno esige come base della finzione di legittimazione; massa è, d'altra parte, concetto che la sociologia realistica assume alla base del modo capitalistico di produzione (sia nella figura liberale che in quella socialista di gestione del capitale), in ogni caso un'unità indifferenziata. Per noi invece, gli uomini sono singolarità, una moltitudine di singolarità. Un secondo significato di moltitudine deriva dal fatto che noi la opponiamo a "classe". Dal punto di vista di una sociologia del lavoro rinnovata, il lavoratore si presenta infatti sempre più come portatore di capacità immateriali di produzione. Il lavoratore si riappropria dello strumento/utensile del lavoro. Nel lavoro produttivo immateriale, lo strumento è il cervello (e così ha termine anche la dialettica hegeliana dello strumento). Questa capacità singolare di lavoro costituisce i lavoratori in moltitudine, anziché in classe. Di qui, di conseguenza, un terzo terreno di definizione, che è quello più specificatamente politico. Noi consideriamo la moltitudine una potenza politica sui generis: è rispetto ad essa, cioè rispetto ad una moltitudine di singolarità, che vanno definite le nuove categorie politiche. Noi pensiamo che queste nuove categorie politiche debbano essere identificate attraverso l'analisi del comune piuttosto che attraverso l'ipostasi dell'unità. Ma non è qui luogo per avanzare ancora nell'analisi: lo dico con molta ironia.

D.Z. A mio parere il vostro libro lascia insoluto il problema dei nuovi spazi e dei nuovi soggetti della contestazione globale, dei 'nuovi militanti', per dirla con Marco Revelli. Le vostre indicazioni vanno nel senso di un recupero della lotta politica a livello globale, dopo che l'impegno nelle arene politiche degli Stati nazionali ha perso senso ed efficacia. Ma mi sembra che non abbiate dedicato sufficiente attenzione al tema, sul quale recentemente Massimo Cacciari ha insistito nel suo Duemilauno. Politica e futuro, della 'depoliticizzazione del mondo' per opera dei grandi poteri della tecnologia e dell'economia. Al contrario, ci sono pagine del vostro libro che sembrano animate da un vero e proprio fervore tecnologico e industrialistico - lavoristico, si potrebbe dire - nei confronti della network society, per usare il lessico di Manuel Castells. È come se per voi la rivoluzione tecnologica e informatica sia il vettore provvidenziale di una prossima rivoluzione comunista.

A.N. Noi siamo molto attenti alla rivoluzione informatica. Evidentemente lo siamo perché restiamo marxisti e crediamo che se la legge del valore non funziona più come legge misura dello sviluppo capitalistico, il lavoro tuttavia resta la dignità dell'uomo e la sostanza della sua storia. La rivoluzione tecnologica ed informatica dà la possibilità di nuovi spazi di libertà. Al momento essa determina anche nuove forme di schiavitù. Ma la riappropriazione dello strumento da parte del lavoratore, il concentrarsi della valorizzazione sulla cooperazione dei lavoratori cognitivi, l'estendersi del sapere e l'importanza della scienza nei processi produttivi, tutto questo determina nuove condizioni materiali che devono essere considerate positivamente nella prospettiva della trasformazione. Il problema dell'organizzazione politica deve ora fare i conti con questa moltitudine, esattamente come lo sviluppo del sindacato o del partito socialista aveva fatto i conti con diverse e successive figure del proletariato. La depoliticizzazione del mondo da parte dei grandi poteri non è solo un'operazione negativa, quando è rivolta a togliere di mezzo e/o a smascherare vecchi poteri e forme di rappresentanza che non hanno più alcun riferimento reale. Oggi è il momento di costruire una "nuova parte", ovvero un "nuovo tutto" dei lavoratori. Banalmente si dice una nuova sinistra: il problema è purtroppo molto più profondo e la prospettiva disperata. Ma i tempi stanno diventando brevi.

D.Z. A mio parere, l'adozione del termine 'moltitudine' è da parte vostra anche una professione di radicale anti-individualismo politico. Empire comporta una rimozione pressoché completa della tradizione liberaldemocratica europea. Temo che questo sia il punto che ci divide di più.

A.N. Sono d'accordo che il termine moltitudine (e quello che contiene) rappresenta una posizione di radicale anti-individualismo politico. Impero implica il rifiuto della tradizione dell'individualismo possessivo. Ma io non credo che ciò comporti la rimozione della tradizione liberal-democratica europea, nella misura in cui attraverso il concetto di moltitudine quel che si chiede è, à la Spinoza, una "democrazia assoluta". Il nostro problema, come per Spinoza, non è mettere insieme individui isolati, ma piuttosto quello di costruire in maniera cooperativa forme e strumenti di comunanza e di condurre al riconoscimento (ontologico) del comune. Dall'aria all'acqua fino alla produzione informatizzata e alle reti, ecco qual è il terreno sul quale si stende la libertà: come si organizza il comune?

D.Z. Trovo insoddisfacenti - ma non mi sfugge il coraggio e l'originalità teorica di cui date prova affrontando temi che io considero ardui - anche le proposte del 'nomadismo' e del 'meticciato' come strumenti di una lotta cosmopolitica da condurre entro la crisalide parassitaria dell'Impero. Nomadismo e meticciato - sostenete - sono armi da usare contro l'asservimento a ideologie reazionarie come la nazione, l'etnia, il popolo, la razza. La 'moltitudine' diviene potente grazie alla sua capacità di circolazione, di 'navigazione', di contaminazione. Tendo a pensare che qui ci sia in voi una sottovalutazione del fatto che nomadismo, meticciato e creolizzazione culturale sono effetti dei grandi flussi migratori indotti dalla crescente sperequazione internazionale del potere e della ricchezza. Serge Latouche ha sostenuto che per questi effetti di 'deculturazione', di 'deterritorializzazione' e di 'sradicamento planetario' è lecito parlare di un vero e proprio fallimento del progetto della modernizzazione, di uno scacco del suo universalismo prometeico.

A.N. Sono molto contento che tu senta, con entusiasmo teorico adeguato, l'efficacia delle nostre tesi su nomadismo e meticciato: così credo di interpretare le tue parole. Poi tuttavia il tuo giudizio inclina al pessimismo. Mi sono spesso confrontato con Serge Latouche su questi temi e ti devo dire che, se non accetto la sua posizione, non è perché non pensi che essa abbia molti punti di verità, ma semplicemente perché essa si carica di dimensioni onnivore e catastrofiche. Io non capisco perché si debba irridere come "universalismo prometeico" il fuggire migrando ed il cercare speranza, di tante popolazioni attorno al mondo. Io non credo che i migranti fuggano solamente la miseria, penso che essi cerchino libertà, sapere e ricchezza. Il desiderio è una potenza costruttiva ed è tanto più forte quanto più è impiantato nella povertà: la povertà, infatti, non è semplicemente miseria, ma è possibilità di moltissime cose, che il desiderio indica e il lavoro produce. Il migrante ha la dignità di chi cerca la verità, la produzione, la felicità. Ed è questa la forza che rompe la capacità nemica di isolamento e di sfruttamento e che toglie, insieme, al supposto prometeismo, ogni curvatura eroica e/o teologica al comportamento dei poveri e dei sovversivi. Semmai, il prometeismo dei poveri, dei migranti, è il sale della terra e il mondo è realmente mutato dal nomadismo e dal meticciato.

D.Z. E vorrei chiederti infine - anche se mi rendo conto dell'estrema difficoltà della risposta - quali sono le forme istituzionali e le modalità normative di quello che chiamate "controImpero', e cioè dell'"organizzazione politica alternativa dei flussi e degli scambi globali". È questa organizzazione politica che, asserite, le "forze creative della moltitudine sono in grado di costruire autonomamente" (p. 17). Di che si tratta in concreto? Tutto ciò che sono riuscito ad inferire da un esame attento delle vostre pagine è che dovrà trattarsi comunque di una forma politica imperiale. Questo è secondo me poco soddisfacente sia sul piano teorico che su quello politico. Ma è soprattutto sintomatico delle vostra adesione ad una posizione che ricorda da vicino la teoria marxista dell''estinzione dello Stato'. L'Impero è l'involucro istituzionale entro il quale gli Stati e i loro ordinamenti giuridici si dissolveranno, si 'addormenteranno' (otmiranie), come diceva Lenin. In linea anche qui con l'ortodossia marxista - dalla Questione ebraica in poi - l'intera dottrina dello 'Stato di diritto' e della tutela delle libertà fondamentali viene ignorata nel vostro libro, assieme ai temi del rispetto delle minoranze politiche e dell'autodeterminazione dei popoli. Nelle vostre pagine il potere della 'moltitudine' è pensato come una energia costituente illimitata, globale e permanente: una energia collettiva che esprime "potenza generativa, desiderio e amore". La 'moltitudine' è una sorta di utero storico dal quale uscirà un nuovo 'modo di vita' e una nuova specie: "un homohomo, una umanità al quadrato arricchita dalla intelligenza collettiva e dall'amore della comunità" (p. 193). Non pensi che tutto questo sia troppo carico di profetismo, di generoso wishful thinking, per riuscire a fondare una concreta prospettiva di resistenza e di lotta contro tutto ciò che, a te esattamente come a me, sembra inaccettabile nel mondo globalizzato in cui viviamo?

A.N. Non so bene come rispondere a queste tue ultime domande. Ho come l'impressione che, affaticati, proponiamo al confronto percezioni o idee fisse piuttosto che linee argomentative. Tu hai certo studiato "l'estinzione dello Stato" nei classici marxisti più di quanto lo abbia fatto io, che piuttosto mi occupavo di problemi della transizione. Dirti che tutto questo oggi mi sembra assai ridicolo, credo possa trovare solo la tua approvazione. Ma io credo che anche l'intera dottrina dello 'Stato di diritto' sia assai invecchiata e che sulla sua sostanza di libertà occorre rimettere le mani se non si vuole fare la fine di tanti Don Ferrante che continuano a filosofare nel vuoto del significato. Quanto poi a quel che farà la moltitudine contro l'Impero, io mi affido volentieri a quel che pensano e fanno i militanti dei movimenti globali. Credimi, sono molto più intelligenti e capaci di quanto noi lo fossimo, da piccoli.


*. Da Reset, ottobre 2002.