2007

Le Nazioni Unite e la missione in Libano (*)

Carlo Garbagnati, Danilo Zolo

CG. Sedata l'euforia dei primi giorni, permane tuttavia l'idea che la «missione in Libano» sia una «grande impresa» politica, diplomatica e militare. Questa narcisistica esercitazione della «politica estera» italiana suggerisce e richiede qualche considerazione sulla capacità dell'Onu di essere protagonista nelle situazioni di crisi. La celebrazione della recuperata titolarità delle Nazioni Unite nella soluzione dei conflitti sembra più l'espressione retorica di un'aspirazione che una situazione di fatto.

DZ. Condivido il tuo giudizio per quanto riguarda il carattere narcisistico - di un narcisismo nazionalistico fuori tempo e fuori luogo - della "grande impresa" italiana in Medio oriente, sostanzialmente voluta dal vice-presidente del Consiglio Massimo D'Alema e approvata da un parlamento bipartisan. È la pretesa e l'illusione di fare dell'Italia una "grande potenza" dislocando ovunque nel mondo qualche spezzone delle sue milizie, dai Balcani all'Afghanistan, a Timor Est, all'Iraq, al Libano e, magari, alla Palestina. E' una visione diplomatica sostanzialmente miope, ottocentesca, che non intravede i grandi movimenti che stanno trasformando in radice i rapporti di forza internazionali e le strategia delle grandi potenze. È un'Italia che pensa di poter ricavare vantaggi politici e soprattutto economici da una opportunistica continuità nella sua politica estera rispetto al tradizionale servilismo nei confronti degli Stati Uniti d'America, al quale si aggiunge un europeismo incolore, senza prospettive che non siano, anche qui, quelle prescritte dai signori della NATO. Nel frattempo all'orizzonte si profila la grande sfida che il mondo asiatico, guidato dalla Cina, sta lanciando all'Occidente e che può trascinare con sé grandi potenze regionali come l'Iran, il Sud Africa, il Venezuela, il Brasile, oltre ad una parte dei paesi arabi, all'India e, molto probabilmente, alla Russia. La pretesa egemonica su scala planetaria degli Stati Uniti rischia di portarci rapidamente verso un nuovo conflitto di dimensioni globali e ad a istigare il global terrorism sino a dimensioni imprevedibili. L'allarme più grave viene dal recente documento, U.S. National Space Policy, con il quale l'amministrazione Bush ha formalmente annunciato che ci troviamo in una fase già molto avanzata di militarizzazione dello spazio e che gli Stati Uniti si stanno preparando ad una guerra che non sarà più semplicemente "globale": sarà una guerra cosmica.
E condivido anche la tua valutazione in riferimento al carattere retorico e velleitario delle "celebrazioni" che hanno voluto festeggiare la "recuperata titolarità" da parte delle Nazioni Unite di un potere di intervento nella soluzione dei conflitti. L'intera vicenda della guerra in Libano prova a mio parere esattamente il contrario.

CG. Si dice, con un'insistenza rumorosa che impedisce di riflettere, che questa sì, finalmente, è una decisione dell'ONU con tanti crismi della legalità quanti pochissime in passato, o nessuna. È davvero possibile sostenere questa opinione, al confronto di tutti (tutti!) gli articoli del citatissimo paragrafo 7 dello Statuto ONU? Un capitolo forse più evocato che applicato.

DZ. La risoluzione 1701 è stata solo formalmente una "decisione" delle Nazioni Unite, se con questo si allude ad una qualche volontà minimamente indipendente del Segretariato generale e del Consiglio di Sicurezza dalla volontà egemonica degli Stati Uniti e dei loro più stretti alleati. L'intervento del Consiglio di Sicurezza in Libano è stato non solo gravemente tardivo ma tale da violare il dettato della Carta delle Nazioni Unite. L'intervento è stato tardivo perché, per volontà degli Stati Uniti che dominano il Consiglio di Sicurezza, si è lasciato che per oltre un mese un paese democratico e sovrano, ma debole e inerme venisse devastato dalle armi di distruzione di massa di Israele. I bombardamenti israeliani hanno diffuso morte, terrore, distruzione e miseria nella più assoluta impunità. C'è chi, come Antonio Cassese, ha sostenuto che entrambi i contendenti sono andati oltre le regole del diritto internazionale, rendendosi responsabili di crimini contro l'umanità e di crimini di guerra. In questo modo si sottace che la violentissima replica di Israele ad una modesta azione di guerriglia lungo il confine israelo-libanese non può che essere qualificata sulla base della Carta delle Nazioni Unite come un crimine di aggressione. Lo è anche perché il governo libanese (e quindi lo Stato libanese) non era politicamente e giuridicamente responsabile dell'azione di guerriglia degli Hezbollah, che avevano operato del tutto indipendentemente dalle strutture legali dello Stato e contro la sua volontà politica. Il crimine di aggressione commesso da Israele - un "crimine internazionale supremo", secondo la sentenza del Tribunale di Norimberga - avrebbe richiesto l'immediato intervento militare del Consiglio di Sicurezza in base agli articoli 2 e 39 della Carta delle Nazioni Unite (esattamente come, nel 1991, si era fatto contro l'Iraq di Saddam Hussein)).
Non credo dunque che si possa parlare di un nuovo corso e di una ripresa di prestigio e di affidabilità delle Nazioni Unite. Il peccato originale dell'intervento in Libano è di avere posto sullo stesso piano aggrediti e aggressori, vittime e carnefici. Il paese è stato letteralmente annientato, anche con armi di distruzione di massa assolutamente illegali, mentre i rudimentali razzi sparati dagli Hezbollah come replica contro l'aggressione israeliana hanno provocato danni molto limitati.

CG. Poco o nulla si dice di quali scopi «l'impresa libanese» abbia davanti a sé (davanti, non alle spalle; nel futuro, non nel passato). Pare di notare una stranezza. Il risultato effettivo di questa «missione» (la sospensione di combattimenti, bombardamenti...) è stato ottenuto mentre la «missione» era un'ipotesi, non c'era.
Al comparire di una presenza effettiva, al materializzarsi della «missione», tutto si fa meno comprensibile, si dissolve ogni chiarezza: sulla durata, sugli scopi, su modalità e mezzi... Ha fatto trionfale ingresso tra le locuzioni correnti la categoria delle «regole d'ingaggio».

DZ. La risoluzione 1701del Consiglio di Sicurezza è profondamente ambigua. Non promuove in senso proprio una missione di pace - un intervento di peace-keaping - poiché le truppe che sono state inviate in Libano sono dotate anche di armi pesanti e potranno reagire con tutti i mezzi militari a loro disposizione contro qualsiasi tipo di attacco. E non è neppure una missione militare di peace-enforcing, come lo sono stati i massicci interventi sotto l'egida delle Nazioni Unite nei Balcani e in Afghanistan: questi interventi hanno di fatto coperto le aggressioni della NATO o degli Stati Uniti sotto il mantello di una legittimità internazionale puramente formale. In Libano il potenziamento dell'Unifil è in sostanza un intervento strategico interlocutorio, voluto dagli Stati Uniti e dai loro più stretti alleati, che consentirà agli Stati Uniti e a Israele di dilazionare nel tempo - nella speranza che si attenuino la crisi irachena e quella afghana - la loro strategia di "democratizzazione" del "Medio oriente allargato": una strategia che comporta necessariamente la "normalizzazione" coercitiva dell'Iran e della Siria e, ovviamente, la garanzia dell'assoluta preminenza militare - anzitutto nucleare -, politica ed economica di Israele nell'intera area mediorientale.
Le "regole di ingaggio" sono direttive molto generiche che consentono una ampia discrezionalità agli interpreti e agli esecutori, che sono normalmente i comandanti militari e i loro subordinati diretti. E sono direttive che si prestano ad essere mutate nel tempo. È già capitato in Afghanistan che le "regole di ingaggio" dei militari della NATO siano sostanzialmente cambiate nel corso di pochi anni, sino a trasformare quella che era stata presentata come una "missione di pace" a sostegno del popolo afghano in una vera e propria guerra di aggressione a fianco delle truppe Usa e britanniche della missione Enduring Freedom. Oggi - siamo alla fine dell'ottobre 2006 - la NATO, sotto l'egida formale e ipocrita delle Nazioni Unite (ISAF, è la sigla di questa ipocrisia) fa strage di civili bombardando le regioni del sud dell'Afghanistan, in particolare quella di Kandahar e di Helmand, con l'illusione di sconfiggere con il terrore la resistenza del popolo Pasthun. E i soldati italiani che il governo Prodi - e in prima linea Massimo D'Alema - hanno voluto ostinatamente tenere in Afghanistan sono incaricati di uccidere e di farsi uccidere per una causa falsa e illegittima, che fa a pezzi l'articolo 11 della Costituzione italiana.

CG. Al confine tra Israele e il Libano che cosa sta per accadere? La speranza non deve morire mai, ma non devono morire nemmeno la memoria e l'esperienza. Quante analoghe dimenticate «missioni» sono in atto, o si concludono senza che nessuno lo noti, data la loro irrilevanza? È in allestimento un'ennesima presenza militare destinata a durare «perché ormai in atto», ad essere dimenticata per tutto il tempo che non subirà o provocherà danni clamorosi?

DZ. Come ho accennato, in questo momento non c'è alcuna certezza su quello che potrà essere di fatto il compito delle forze militari inviate a fare da cuscinetto fra Israele e la parte del Libano ancora gestita dal governo di Beirut. Israele non ha ovviamente nulla da temere. Ma una volta presenti nel teatro della guerra le truppe Unifil potranno essere utilizzate anche per tentare di disarmare gli Hezbollah (come oggi si dice di voler fare contro i "terroristi" Taleban in Afghanistan) e allora saremmo alla soglia di un nuovo conflitto, che rischierà di allargarsi anche alla Siria e all'Iran, con conseguenze inimmaginabili.

CG. Al di là di non trascurabili considerazioni di legittimità, la tendenza ad affrontare le situazioni difficili con lo strumento militare incontra obiezioni di natura culturale e morale. «La politica» considera queste obiezioni variabili irrilevanti, sterili trastulli di chi considera «i valori» come indifferenti.

DZ. Le ragioni morali hanno scarsissimo rilievo nei rapporti internazionali. Oggi come ai tempi di Machiavelli prevalgono i rapporti di forza. Lo spargimento del sangue di migliaia di persone innocenti è da ogni punto di vista un banale "effetto collaterale". Il diritto internazionale, di fatto, è una razionalizzazione ex post della volontà delle grandi potenze. E se il diritto è scarsamente efficace, l'etica è addirittura incommensurabile con gli obiettivi politici, economici e militari che legittimano anche agli occhi delle maggioranze democratiche dei paesi occidentali l'uso dei mezzi di distruzione di massa. La logica che guida le amministrazioni delle grandi potenze non ha nulla a che fare con i "valori" cui pure fanno retoricamente riferimento: è una logica spietata il cui emblema sono i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, sono Guantanamo e Abu Ghraib (senza dimenticare l'11 settembre 2001).
A metà del secolo scorso la Carta delle Nazioni Unite aveva definito la guerra come un 'flagello' (scourge) che aveva procurato "indicibili sofferenze all'umanità". Perché le future generazioni potessero essere risparmiate da questo flagello occorreva che la forza delle armi venisse usata solo nell''interesse comune' dei popoli. In questa linea, la Costituzione italiana, che alla Carta si era direttamente ispirata, aveva impegnato lo Stato italiano a "ripudiare" la guerra come strumento di offesa alla libertà dei popoli e come mezzo per la soluzione delle controversie internazionali. Questo miracolo evolutivo non si è verificato ed era poco probabile che si verificasse. Oggi la guerra è pienamente 'normalizzata'. Lo è nei fatti e lo è, ancor più, nella legittimazione che le maggiori potenze occidentali, inclusa l'Italia, le accordano in termini espliciti. L'"industria della morte collettiva" è più che mai fiorente, nonostante il generoso ma inefficace impegno dei movimenti pacifisti. La produzione e il traffico delle armi da guerra, incluse quelle nucleari, è fuori dal controllo della cosiddetta "comunità internazionale". E l'uso delle armi dipende sempre più dalla "decisione di uccidere" - l'espressione è di Gino Strada - che le grandi potenze prendono ad libitum, e sempre più di frequente, secondo le proprie convenienze strategiche. Una sentenza di morte collettiva viene emessa, nella più assoluta impunità, contro (centinaia, migliaia di) persone non responsabili di alcun illecito penale, né di alcuna colpa morale.
Altrettanto vistoso è il processo di diffusione e amplificazione degli strumenti retorici e comunicativi di imbonimento propagandistico della guerra: essa è ormai presentata come lo strumento principe della tutela dei diritti dell'uomo, dell'espansione della democrazia, della promozione dell'economia di mercato, dell'acquisizione delle risorse energetiche necessarie ai paesi industriali. Ritorna trionfale - si pensi al documento elaborato da decine di intellettuali statunitensi guidati da Michael Walzer - l'antica dottrina ebraico-cristiana del bellum justum, per la quale lo spargimento del sangue umano può essere moralmente raccomandato, se non addirittura esaltato perché voluto da Dio. E la guerra arriva ad essere guardata come l'espressione suprema - inarrestabile e invincibile - del progresso scientifico-tecnologico: la guerra è 'intelligente' e 'chirurgica', tecnologicamente sterilizzata e sublimata, nella quale la morte, la mutilazione dei corpi, la devastazione della vita quotidiana, la distruzione delle città e dell'ambiente naturale, il terrore, sono ormai ingredienti scontati di uno spettacolo rituale che non suscita emozioni. "L'uccidere collettivo in nome del potere pubblico - ha scritto Ingrao - è tornato ad essere compito nobile ed ambito: sotto l'aspetto delle retribuzioni, del rango sociale, del riconoscimento pubblico" e, potremmo aggiungere, dell'etica e della religione.
I pacifisti hanno di fronte a sé un compito immenso e arduo, ma proprio per questo prezioso e ammirevole.


*. 4 novembre 2006.